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Redaelli, Enrico, L’incanto del dispositivo.Foucault dalla microfsica alla semioticadel potere

Pisa, ETS, (Segni del pensiero), 2011, pp. 284, euro18, ISBN 978-884672969-9

Recensione diAlessandro Bac-carin – 20 agosto2011

È compito ar-duo disinnescareun’aporia, so-prattutto quando

questa è fruttodel lavoro intel-lettuale di un lo-sofo come MichelFoucault, l’ultimogrande maître apenser del secolo

scorso. Eppure l’intento ordinatorio ed euristicoassunto da Redaelli in questo suo ultimo lavoro,quel metter mano al “guazzabuglio metasico”,così denito dall’autore (p. 81), lasciato in eredità

da Foucault ai suoi numerosi esegeti, continuatori ecommentatori, è senz’altro meritorio e necessario.

Numerose e importanti, infatti, sono le incongruenzeevidenziate dall’autore nel corso della sua analisi,incongruenze e aporie di cui chiede ragione diret-tamente al losofo parigino, interrogandone i testi.E le domande danno luogo ad una sorta di spietato,quanto onesto, interrogatorio. Una indagine semi-dialogica che lo stesso Foucault avrebbe senz’altroapprezzato, lui che era solito lamentare la mancanza

di confronto e di dialogicità con i suoi uditori, neisuoi seguitissimi corsi al College de France.

Da dove parla Foucault? La sua voce proviene da

un fuoricampo, o lei stessa è imbrigliata in un dis-positivo? È possibile una critica, è possibile una“aufklärung” al di fuori di un gioco di potere/sapere?E in caso contrario, quale ecacia può avere il suovalore emancipatorio? In denitiva, il dispositivo,anche se costituito dalla critica, riesce a disincantare,oppure ricade inevitabilmente nell’incanto? Questisono gli interrogativi dal quale l’autore prende lemosse per la sua indagine. L’intera prima partedel libro è dedicata proprio all’articolata formu-lazione di queste domande e delle fondamentali

conseguenze che le eventuali risposte comportanoper la coerenza del sistema foucaultiano. Se infattila critica è un dispositivo, se quindi produce conil suo incanto soggetti, la sua funzione liberatricediventa opaca, se non evanescente o nulla.

Partendo da questa “Urszene” (p. 22), ed esaminatibrevemente i debiti foucaultiani nei confronti dellafenomenologia husserliana, l’autore evidenzia comela prima fase della produzione foucaultiana, quellaconcentrata attorno ai lavori degli anni sessanta ed

alla Archeologia del sapere, contengano spunti diuna viva consapevolezza delle criticità connaturatein una elaborazione teorica priva del soggetto me-tasico. Consapevolezza che sembra invece venirmeno nella produzione successiva, dove appare pre-valente quella che l’autore denisce “un’urgenzapolitica”. È soprattutto il potere ad essere investito dauna sorta di oscillazione denitoria: di volta in voltaeffetto relazionale della soggettivazione, oppure ar-tece del dispositivo e della successiva soggettiva-zione. Questa opacità viene ricondotta dall’autorealla questione irrisolta della natura semiotica del

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Redaelli, Enrico, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfsica alla

semiotica del potere

potere. Se infatti è il dispositivo a formare il senso,grazie all’iterazione oggettivazione-soggettivazione,allora è corretto denirlo come un meccanismosegnico. Ne consegue che eliminare il dispositivo,grazie al lavoro della critica, signica disfarsi diqualsiasi senso. Dicoltà questa che trova rinforzoin quell’ambiguità di fondo che avvolge il rapportopotere-dispositivo in tutte le opere di Foucault. Ildispositivo è osservato di volta in volta come pro-

duttore di soggetti e quindi di poteri, ed allo stessotempo strumento di poteri. Il potere oscilla quindifra l’essere un prodotto degli a priori storici, e unsoggetto metasico che si impone sul dispositivo

Queste incertezze teoriche sono ricondotte dall’au-tore ad una sorta di duplicità prospettica. Il Fou-cault degli anni sessanta osserva al microscopiociò che invece osserva ad occhio nudo negli annisuccessivi. Una “micro e macrosica del potere”(p. 13) applicata rispettivamente al rapporto cri-

tica-potere e potere-soggetto. Uno scarto di scalasimilare a quello che accomuna il lavoro del biologoa quello del sico quantistico. Uno scollamento cheè prodotto da una scelta politica: Foucault, a partiredagli anni settanta, decide di dedicare i propri sforziintellettuali e d’impegno umano su quei dispositiviuniversalizzanti che caratterizzano la modernità, icui effetti, da attento osservatore e commentatoredell’attualità, riscontra nella quotidianità politica. Lasua ricerca sul dispositivo disciplinare e carcerarioe il suo impegno a favore dei diritti dei carcerati, ri-

vendicati nei primi anni settanta da una popolazionecarceraria in aperta rivolta, ne costituiscono forsel’esempio più chiaro. Un’urgenza politica, quindi, maanche una sorta di ritrosia, di fastidio, di timidezzaverso quel groviglio di nodi teorici che, nella suaestrema lucidità intellettuale, il losofo pariginodoveva avvertire, con una ben celata contrarietà.

Denunciati questi irrisolti foucaultiani, l’autore puòdedicarsi, per l’intera seconda parte del libro, a pro-poste e suggestioni teoretiche volte a sciogliere leproblematiche denitorie di potere e critica. Ed è

il dispositivo segnico a costituire il centro di questeriessioni. Avvalendosi dei fondamentali lavori sultema di Mario Liverani, analizza la prassi scrittu-rale quale produttrice di potere già ai suoi esordi,ovvero presso le civiltà del Vicino Oriente antico. Èsu quel repertorio eterogeneo di tavolette d’argillache il dispositivo segnico emette i primi vagiti, capacigià allora di produrre soggettivazione e potere, dienucleare un primo abbozzo di nuda vita attorno ai

soggetti, e di proporre un primo esempio di biopoli-tica. Se infatti la nuda vita è quella sfera del soggettonon inclusa nel codice (la tavoletta denisce soloquanto è dovuto al tempio, non tutto ciò che impe-dirà o ostacolerà il contadino nella restituzione deldebito), si crea uno spazio per uno stato d’eccezioneche include escludendo. Testimoniando il propriodebito alle riessioni di Agamben, l’autore pervienealla denizione di una semiotica del potere. Trove-rebbe cosi soluzione l’aporia foucaultiana: il potereè il prodotto della prassi scritturale, fondata su un

codice, e per questo universalmente replicabile. Nonpiù, quindi, quell’oscillazione fra un potere prodottoda, e allo stesso tempo produttore di, dispositivi, mamero effetto di pratiche, di un dispositivo semioticolegato alla pratica scritturale.

È in virtù di questa soluzione che l’autore può de-nire la critica un dispositivo, ed ipotizzare, quasiprovocatoriamente, un dispositivo Foucault. Ognidisoggettivazione produce, infatti, una ennesimasoggettivazione, e la domanda sul possibile valore

emancipatorio della critica rimane aperta. A sottoli-neare questa impasse della critica, l’autore ipotizza,proprio al termine del libro, il valore fondante, per laformazione della critica e del soggetto logico/critico,delle lingue basate sul sistema vocalico, e in parti-colare del greco antico. È proprio l’emergere dellascrittura vocalica a consentire quell’esplosione dellamentalità logico/critica che caratterizza l’enormelascito della letteratura, losoca e non solo, dellacultura ellenica.

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Redaelli, Enrico, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfsica alla

semiotica del potere

Un testo quindi, questo di Redaelli, denso e acuto,che rilancia quelle oggettive dicoltà, quelle apo-rie si diceva, che ogni lettura attenta di Foucault faemergere. Un lavoro rigoroso, quindi, ed anche co-raggioso, che tuttavia presenta passaggi e soluzionicapaci in alcuni casi di generare entusiasmi, maanche perplessità. In primo luogo, la scelta di faredel potere un prodotto della pratica scritturale. Perla vicenda storica del Vicino Oriente antico, dove

l’autore individua le origini del fenomeno, è semprepossibile ribaltare lo schema proposto: è il surplusdi risorse alimentari, generato dalla sedentarietàagricola, a rendere necessario il codice, la scrittura, equindi le oggettivazioni da questa imposte (schiavitù,ecc.). Su questi temi i lavori di Polanyi o di Clastrescostituiscono solo la parte più vivace di un dibattitoche vanta un’estesissima letteratura.

Per quanto riguarda poi il primato delle linguevocaliche su quelle sillabiche, per l’origine della

critica/logica, è necessario sempre tenere nella do-vuta considerazione il totale naufragio subito dallaletteratura antica di lingua non greca. Considera-zione che ha indotto Martin Bernal, già da tempo,a formulare la sua teoria dell’Atena Nera, ovverodelle origini semitiche e africane di buona partedella cultura ellenica.

Inne, l’immagine di un potere, quale prodotto es-clusivo della pratica scritturale, tende pericolosa-mente ad assimilare il potere ad una incorporeità

fantasmatica. Ed era forse proprio il pericolo di do-ver confrontarsi con un potere fantasma ad averindotto Foucault a sviare il problema del rapportocritica-potere, ad esorcizzarlo con il desiderio diveder svanire i suoi libri, le sue scatole di attrezzi,sempre e solo dopo aver lasciato loro compiere la ne-cessaria opera emancipatoria. Un Foucault, quindi,consapevole del fantasma, e piuttosto che incerto oinfastidito, sicuramente preoccupato. Un elegantee coraggioso samurai, come lo denisce Veyne inun suo splendido e recente ritratto, che ha preferitolasciare ai suoi lettori il compito di trovare risposta

all’aporia della critica: esiste un potere emancipa-torio che non sia potere?

Introduzione – Campo e fuori campo

Capitolo I. Verso una semiotica del potere

Capitolo II. Scrittura, gestione, controllo. Per unagenealogia del potere

Parte I. Scrittura e disciplina

Parte II. Scrittura e biopolitica

Capitolo III. Dispositivo Foucault

Capitolo IV. Scrittura, astrazione, decentramento.Per una genealogia della critica.

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Corriero, Emilio Carlo, Volontà d’amore.L’estremo comando della volontà dipotenza

Torino, Rosenberg & Sellier, 2011, pp. 178, euro 18,ISBN 978-88-7885-104-7

Recensione di Irene Treccani- 24/06/2011

Volontà d’amore. L’estremocomando della volontà dipotenza raccoglie e rielabo-ra i risultati a cui Corrieroera giunto nei suoi libri pre-cedenti: Nietzsche oltre l’abis-so, 2007, e Vertigini della ra-gione, 2008, apparendo come

l’ultimo lavoro di una trilogiadedicata a Nietzsche. Se il primo lavoro, infatti, erala trattazione della ricezione nietzscheana in Italiaa partire dalla discussione dello spazio, dell’abisso,

storicamente aperto dalla morte di Dio, e il secondostudio il tentativo di un accostamento teorico traSchelling e Nietzsche sulla base dei rispettivi nau-fragi della ragione, l’ultimo scritto non può che ap-parire come il naturale proseguimento e la legittima

conclusione di questo percorso. Al centro della suatrattazione sta difatti l’accostamento tra quel coman-do assolutamente libero che è la volontà d’amoredelle Ricerche losoche sull’essenza della libertàumana di Schelling e l’estrema imposizione delWille zur Macht nietzscheano, concepiti entrambiquali possibilità di un nuovo inizio per “la losoanell’assoluta libertà del non-fondamento” (p.12).

Nel primo capitolo, L’Assoluto, però senza Dio,Corriero riprende il tentativo già compiuto da Hei-degger, nel corso tenuto all’Università di Friburgo

nel 1937, di un avvicinamento tra l’Assoluto delleRicerche schellinghiane e “il carattere complessivodell’universo” dell’aforisma 109 della Gaia scienza:

“quella che qui Nietzsche pratica in riferimentoall’universo è una specie di teologia negativa checerca di cogliere l’Assoluto nel modo più puro possi-bile, evitando tutte le determinazioni relative, cioèriferentesi all’uomo. Solo che la determinazionenietzscheana dell’universo è una teologia negativasenza il Dio cristiano” (p. 27).

Così aveva parlato Heidegger che nel ’37, avevaconcluso da appena un anno le lezioni sull’operadi Schelling sopra citata. Così prosegue Corriero

sottolineando come “gli aspetti legati all’Assolutosottolineati da Schelling” (1. il carattere divenientedell’Essente; 2. la sua indipendenza; 3. la naturacome a-razionalità, caos, o, detto in termini uma-namente più comprensibili, volere; 4. la sua inco-noscibilità e il successivo distinguo tra il sapere delpossibile rivolto alla Realität e la sapienza dell’As-soluto in quanto indeterminato e indeterminabile –distinguo che ritornerà in Nietzsche con la dualità diapollineo e dionisiaco; 5. la distinzione tra l’Assolutodella Wirklichkeit e il relativo della Realität) “sono

certamente presenti anche nel carattere comples-sivo dell’universo delineato da Nietzsche” (p. 25).Essi appartengono cioè a quel Chaos eterno che èil mondo, il quale non è risolvibile in concetti maraggiungibile, semmai, tramite l’estasi dionisiaca;sono i caratteri di una natura pura che è, comedice Nietzsche, ritrovata e redenta perché liberatadagli antropomorsmi, dalle cosiddette ombre diDio. In quella natura che Nietzsche ha descritto,al pari di Schelling, ex negativo, il Dio cristiano èallora – secondo l’autore, come secondo Heidegger

 – assente, come assente è ogni forma di teleologia.

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Corriero, Emilio Carlo, Volontà d’amore. L’estremo comando della volontà di

potenza

Questo il risultato teoretico a cui giunge Corrierodopo aver preso in esame la progettata dissertazionenietzscheana losoco-scientica La teleologia apartire da Kant e Sul concetto di organico a partireda Kant.

E se è un assoluto senza Dio quello che Corriero poneal centro dell’ontologia nietzscheana, è l’identità tranecessità e libertà ciò che egli colloca al centro della

concezione della storia in Nietzsche. Prendendo inesame i due scritti del 1862, Fato e storia e Libertàe volontà, e riportandoli alla lettura della Condottadi vita e dei Saggi di Emerson che Nietzsche avevaeffettuato nello stesso anno, Corriero mostra comel’identità nietzscheana di necessità e libertà nonsia affatto lontana dall’originaria identità schellin-ghiana di natura e spirito o da quella emersonianadi fato e potenza.

Nel secondo capitolo, Tra Platone e Kant, Corriero

passa all’elaborazione dei risultati di una Quellen-forschung che aveva visto, la presenza di Platonee Kant agli albori del losofare tanto di Schellingquanto di Nietzsche. Le assonanze intercorrenti tralosoa schellinghiana e quella nietzscheana, chequi Corriero porta alla luce a partire dal “fruttuosointreccio” delle letture platoniche e kantiane chei due loso avevano compiuto, risultano molte-plici: il confronto con l’organicismo (il mondo qualeGesamtorganismus, zóon noetón) e il teleologismoproposto, in maniera diversa, sia da Kant che dal

Platone del Timeo e del Filebo; la rielaborazione (ecapovolgimento) del dualismo idee-oggetti sensi-bili, noumeno-fenomeno, alla base delle ontologiee gnoseologie platoniche e kantiane; il celato uti-lizzo della più o meno illecita attribuzione plato-nica della priorità ontologica alla materia, assolutaprima posizione della Wirklichkeit; il recupero delKant autore de L’unico argomento possibile per ladimostrazione dell’esistenza di Dio, ed in particolaredella sua concezione dell’esistente quale fondamen-to del reale sia da parte di Schelling sia da parte diun Nietzsche che, come ricorda l’autore, non solo

aveva programmato di leggere, nel 1868, La storiauniversale e teoria del cielo e L’unico argomentopossibile per la dimostrazione dell’esistenza di Dio,ma aveva anche letto altri libri che consentirono luiun avvicinamento a Kant: la Geschichte der Mate-rialismus di Lange, il Grundriss der Geschichte derPhilosophie di Überweg e la Geschichte der neuernPhilosophie di Kuno Fischer.

Il terzo capitolo, Chaos sive natura, costituisce iltentativo di un avvicinamento al pensiero dell’ul-timo Nietzsche, ovvero al pericoloso concetto diWille zur Macht, che viene interpretato quale or-ganizzazione coordinata di forze analizzando al-cune precise letture nietzscheane. Tra queste sonopresi in considerazione non solo i più noti Lange,Boscovich, Emerson, e soprattutto Roux, La lottadelle parti nell’organismo, ma anche i testi citatiin una lista di letture programmate nel 1868 in cuivi era lo Schelling delle Idee per una losoa della

natura e del Sistema dell’Idealismo trascendentale,due opere che, quantunque non abbiano testimo-nianza diretta di una lettura da parte di Nietzsche,sarebbero giunte alla sua considerazione tramitela mediazione del Grundriss di Überweg.

Come mostra il titolo, tra i protagonisti del capitolotrova una posizione centrale Spinoza, che Corrieropresenta quale precursore tanto di Schelling quantodi Nietzsche. Riguardo quest’ultimo, è Nietzschestesso, in una lettera a Overbeck, a dichiarare la

propria vicinanza al losofo olandese, mentre Cor-riero mostra ecacemente un’inuenza dell’amorDei intellectualis sull’amor fati, e soprattutto, comerivela la testimonianza contenuta nel frammentopostumo 11 [197] del 1881: “Chaos sive natura: delladisumanizzazione della natura”, come Nietzscheavrebbe sostituito il Chaos al Deus, vedendo inquest’ultimo una mera antropomorzzazione dellanatura.

Proprio ritornando alla concezione della natura,Corriero riprende il parallelismo tra Schelling e

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Corriero, Emilio Carlo, Volontà d’amore. L’estremo comando della volontà di

potenza

Nietzsche, mettendo in evidenza come le rispet-tive losoe della natura escludano il nalismo,e, di più, tengano insieme gli opposti di necessità elibertà. Certo, la volontà di potenza è lungi dal poteressere banalmente paragonata alla platonica animamundi, alla Weltseele o alla più tarda Liebe schel-linghiana, ma in quanto Lebensprinzip, può essereletta come possibilità dinamica dell’intero processodel divenire, “volontà d’amore che crea in forza

di una pienezza incontenibile e traboccante nellaforma dell’assoluta e gratuita donazione” (p. 131).

Il testo si conclude con il capitolo L’ultimo sigillo el’estremo comando, nel quale l’autore stabilisce unserrato confronto tra la losoa nietzscheana e ilcristianesimo. Non a caso vengono riprese le letteredi Nietzsche del 13 febbraio 1883 al suo editore,Schmeitzner, e quella dell’aprile dello stesso anno aMalwida von Meysenbug nelle quali Nietzsche avevadenito il suo Così parlò Zarathustra rispettivamente

come quinto Vangelo e come libro sacro. Motivo ditali ardite denizioni, secondo Corriero, è il fattoche nel libro “per tutti e per nessuno” Nietzscheavrebbe tentato una riconsiderazione delle struttureassiologiche delle produzioni religiose e, nello spe-cico, un ripensamento del carattere peculiare deiVangeli. Partendo da ciò Corriero affronta una com-parazione tra la dinamica nietzscheana del dono equella della religione cristiana. I due aspetti che piùaccomunano le due concezioni vengono individuatinella gratuità del dono e nella volontà kenotica che

ne è alla base. Di contro, gli aspetti che segnanoprofonde differenze sono la relazione d’amiciziada cui è caratterizzato il donare nietzscheano (ris-petto alla quale viene proposta l’inuenza di Giftsand Presents di Emerson), vale a dire una dona-zione tra amici e non tra Dio e uomo; la necessitàe ineluttabilità sica del donare nietzscheano chefa del dono di Zarathustra un qualcosa di simile alcalore e alla luce irradiate dal sole, ossia un doverenon morale (Sollen) bensì sico-naturale (Müssen),una volontà conforme al tutto, un eterno Mögen; e,inne, l’origine del dono, collocata non nell’alterità

divina bensì nel comune fondo di anima e natura,nel Chaos des Alles. Quest’ultimo aspetto farebbe sìche mentre la dinamica della donazione kenoticacristiana si attui nella storia, quella dell’amore to-tale nietzscheano si compia invece, inattualmente,nell’immediato rapporto con una natura origina-ria e originante ogni storia, nel “Chaos smarrito eobliato in ogni singola storia dell’essere” (p. 164).In questo senso il dono d’amore di Nietzsche, il suo

Übermensch, continua e perfeziona la lieta novella:la compie fuori dal tempo, in un’aspirazione innitaverso l’amore per il tutto.

Da ciò emerge uno dei risultati più interessanti dellavoro di Corriero che, capace di oltrepassare untroppo rigido storicismo e di scavalcare le ovviedifferenze contenutistiche e terminologiche inter-correnti tra le losoe di Schelling e Niezsche, rin-viene nei loro pensieri un comune denominatore:quell’estremo comando d’amore che altro non è se

non il primo e ultimo suggello della possibilità diun semper adveniens ri-danzamento dell’uomocol mondo.

1. L’assoluto, però senza Dio…

La denizione ‘negativa’ di Assoluto

Il carattere complessivo dell’universo di Nietzsche

L’origine dell’intelletto

Fato, storia e libera volontà

La materia e l’‘anima del Mondo’

Excursus. Ingiustizia o assenza di commensura?

Excursus. All’origine il puro volere

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recensioniflosofche.ino

Corriero, Emilio Carlo, Volontà d’amore. L’estremo comando della volontà di

potenza

L’assoluta posizione… del divenire

Ancora sull’antico modello di organismo

Spinoza, che precursore! Dall’amor dei all’amor fati

Fonti schellinghiane per il giovane Nietzsche

Excursus. Lo specchio di Dioniso

4. L’ultimo sigillo e l’estremo comando

L’amore del «quinto vangelo»

Excursus. La ‘nuova’ umanizzazione dell’Über-mensch

Dono d’amore e dono di Weisheit

Bibliograa e abbreviazioni

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recensioniflosofche.ino

Lavazza, Andrea, Sartori, Giuseppe (acura di), Neuroetica. Scienze del cervello,flosofa e libero arbitrio

Bologna, il Mulino, 2011, pp. 253, euro 22, ISBN 978-88-15-14651-9

Recensione di Tiziana Gabriel-li – 28/02/2011

Negli Stati Uniti e nel mondoanglosassone, da un paio di de-cenni, si è andato sviluppandoun importante dibattito inter-nazionale sulle nuove acquisi-zioni delle neuroscienze e sulleloro ricadute sul piano etico,sociale e giuridico. Lo scopo

del volume, curato da AndreaLavazza e Giuseppe Sartori, è quello di fare il puntosullo statuto di una nuova disciplina – la neuroetica – attraverso il contributo dei massimi esperti italianidella materia, che si confrontano nel rispetto delpluralismo delle rispettive posizioni.

Nel primo capitolo Lavazza ripercorre la genesistorico-concettuale del termine neuroetica per de-nirne il campo d’indagine. La rivoluzione delleneuroscienze ha origini lontane: basti pensare alle

trapanazioni craniche praticate dagli Egizi, che com-portavano modicazioni nei comportamenti e nellapersonalità, ad Aristotele, che individuava nei ven-tricoli cerebrali la sede delle forze vitali, a ScribonioLargo, che raccomandava l’applicazione di torpe-dini per combattere l’emicrania, ad Agostino, chepensava che il cervello fosse diviso in tre ventricolie ad Alberto Magno, che collocava l’intelletto nellazona prefrontale (p. 19). Nel Settecento, poi, furonoper primi i loso (da Leibniz a Julien Offroy de LaMettrie) ad opporre la visione materialistico-mecca-nicistica del rapporto spirito/mente e corpo/cervello

a quella innatistica, di matrice platonico-cartesiana,legata strettamente con l’antropologia cattolica econ l’idea dell’immortalità dell’anima immateriale.Sarà, però, solo con l’Ottocento (da Broca a Wernicke

e Gage), che si arriverà, attraverso lo studio dei de-cit funzionali e delle relative lesioni corticali, ad«un’associazione tra capacità della mente e mecca-nismi del cervello» (p. 21). Conferme in questa dire-zione provengono da studi recenti dell’Universitàdi Harward sulle lesioni della corteccia cerebraleprefrontale, e, in particolare, di quelle aree deputatealla mediazione tra le componenti emotive e quellecognitive, fondamentali per le decisioni morali (p.21). Nel Novecento un notevole passo in avanti è statocompiuto con l’elettroencefalogramma, in grado di

rilevare dall’esterno l’attività elettrica del cervello(1924). Negli ultimi due decenni del secolo scorso,la tomograa a emissioni di positroni (PET, PositronEmission Tomography) e la risonanza magneticafunzionale (fMRI, functional Magnetic ResonanceImaging) hanno permesso una «misurazione, sep-pure ancora indiretta, dell’attivazione di specichearee cerebrali in corrispondenza temporale dell’ese-cuzione di compiti cognitivi» (ibidem, n. 2). SecondoKanwisher, sono ormai state identicate le speci-che funzioni di varie regioni corticali, deputate

ai processi sensoriali e motori di base, alla perce-zione di alto livello di volti, luoghi, corpi, parole, ealla percezione astratta di pensare ai pensieri diun’altra persona. Gli studiosi concordano, inoltre,sulla localizzazione del linguaggio, delle abilità mu-sicali e di alcuni aspetti delle abilità matematiche(p. 22). Restano, tuttavia, molti interrogativi aperti:quali sono i circuiti neuronali che permettono aciascuna area di espletare la propria funzione men-tale? Quali sono i meccanismi ed i vincoli geneticiche consentono lo sviluppo delle regioni corticalie come quest’ultime interagiscono tra loro? Può

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Lavazza, Andrea, Sartori, Giuseppe (a cura di), Neuroetica. Scienze del cervello,

flosofa e libero arbitrio

una regione essere coinvolta nello svolgimento diuna nuova funzione? Siamo, dunque, solo all’iniziodell’«esplorazione del genoma umano e delle suemanifestazioni epigenetiche» (p. 23).

Lavazza ricorda che la prima attestazione del ter-mine «neuroeticista» risale al 1989 e che, succes-sivamente, la riessione ha interessato anche leimplicazioni o conseguenze della neuroetica, cui

sono seguiti pareri e indicazioni dei comitati na-zionali di bioetica e un inquadramento accademicocon una rivista scientica («Neuroethics») nata nel2008 (p. 24). Rispetto alla distinzione proposta dallalosofa e neuroscienziata Adina Roskies tra l’«eticadelle neuroscienze» – che riguarda l’analisi delleapplicazioni delle neuroscienze – e le «neuros-cienze dell’etica» – che vertono sull’indagine me-taetica –, Lavazza chiarisce che «il terreno specicodella neuroetica dovrebbe attenere alla riessionecirca ciò che apprendiamo su noi stessi e il nostro

“funzionamento” grazie principalmente (ma nonesclusivamente) alle neuroscienze. In altre parole,è la naturalizzazione forte dell’indagine sull’essereumano a rendere pertinente una metadisciplina chesi occupi dell’ambito multidisciplinare descritto. Aessere oggetto di studio per il suo carattere nuovo econtroverso, quindi, non sarebbe ciò che possiamofare, ma ciò che sappiamo o che crediamo attendi-bilmente di sapere» (p. 26). L’esempio fornito daLavazza è legato al concetto prescrittivo di «auto-nomia», che potrebbe essere suscettibile di nuove

declinazioni, se si approfondisse la perdita dellacapacità di valutazione nei malati di Alzheimer ese si considerasse il funzionamento del sistema do-paminergico, ovvero la reale base dell’assunzionecompulsiva di droghe (pp. 28-40).

Nel secondo capitolo Michele Di Francesco sostienel’irriducibilità della complessità della vita personalead un mero fondazionalismo neurobiologico. L’af -fermarsi della «neurocultura» (termine usato daGiovanni Frazzetto e Suzanne Anker in un articolopubblicato nel 2009 su «Nature Neuroscience») – che,

secondo Di Francesco, può considerarsi all’originedi una nuova antropologia («Io sono il mio cervello»,p. 43) – ha indotto lo studioso a proporre un modellodi «mente estesa», in cui linguaggio, ambiente e so-cietà sono componenti essenziali per la costruzionedell’Io (pp. 61-64).

Mario De Caro, nel terzo capitolo, ripensa l’anticaquestione del libero arbitrio, mettendo a confronto

due posizioni apparentemente inconciliabili: quel-la, d’ispirazione kantiana, secondo cui pensiero eazione sono «manifestazioni essenziali e irriducibilidella nostra libertà e della nostra razionalità», equella, deterministica, per la quale gli esseri uma-ni sono «un agglomerato di particelle materiali»(pp. 70-71). Sulla base dei discussi esperimenti diBenjamin Libet (nei quali si chiedeva ai soggetti diguardare un grande orologio e di indicare il mo-mento esatto in cui avvertivano l’impulso a ettereil dito, mentre l’elettroencefalogramma misurava

l’attività elettrica del loro cervello), non vi è libertànell’uomo, dal momento che questi «eventi neu-ronali sono i veri determinanti causali tanto delleazioni che compiamo quanto delle (pseudo)delibera-zioni consce cui erroneamente attribuiamo la genesicausale delle nostre azioni» (p. 72). Più avanzati, maugualmente limitati, sono gli studi di Soon, Brass,Heinze e Haynes, che utilizzano la risonanza ma-gnetica funzionale. Uno degli esperimenti è statopubblicato nel 2008 su «Nature Neuroscience», inun articolo dal titolo Unconscious determinants of 

free decisions in the human brain (I determinantiinconsci delle decisioni libere nel cervello umano),nel quale gli autori giungevano alla conclusione che«la sensazione soggettiva della libertà è illusoria,perché dal punto di vista oggettivo la libertà nonesiste» (p. 75). Ecace la replica di De Caro: «i ri-sultati sperimentali da loro apportati sono compa-tibili con tutte le teorie classiche della libertà – siaquelle negative (illusionismo, misterianismo) siaquelle positive (compatibilismo, libertarismo)» (p.80), e «rispetto al problema della libertà, il piano

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Lavazza, Andrea, Sartori, Giuseppe (a cura di), Neuroetica. Scienze del cervello,

flosofa e libero arbitrio

concettuale e quello empirico si intrecciano salda-mente» (p. 83).

Nel quarto capitolo Laura Boella s’interroga sulleimplicazioni etiche delle neuroscienze. Esiste un«cervello morale»? È possibile stabilire una corris-pondenza tra aree cerebrali e concezioni morali? (p.87). Per la losofa le future applicazioni delle scienzedel cervello non riguarderanno soltanto la neuropsi-

cologia, ma anche la vita individuale e sociale: dallapsicologia cognitiva al diritto e all’educazione (p.89). La ricerca delle neuroscienze in ambito moraleha seguito diverse procedure: a) combinando tec-niche di neuroimaging con gli esperimenti morali(dilemmi morali: una metodologia classica dell’eticalosoca); b) studiando l’effetto di lesioni cerebralio di patologie psichiche sulla capacità di giudizioe sulla condotta morale; c) usando come modellosperimentale i giochi economici (gioco dell’ulti-matum, dilemma del prigioniero). Gli esperimenti

hanno poi analizzato l’esperienza morale secondodue direzioni: 1) il giudizio morale intuitivo (moralsense) e il corrispondente ruolo delle emozioni nelragionamento morale; 2) la simpatia/empatia alleorigini della capacità morale (p. 96). Nella ripresadi un tema caro alla losoa inglese tra Seicento eSettecento (Hume, Smith), l’attuale dibattito tendea mettere in luce l’«inadabilità del giudizio mo-rale intuitivo» e, al contrario, «l’importanza dellamodulazione di attività emotiva e cognitiva» (p. 97).Secondo Boella, occorre individuare, nell’ambito

delle «neuroscienze dell’etica», «un ponte tra naturae cultura» proprio nell’empatia, «in una capacitàfortemente radicata nella “natura” umana, ma altempo stesso suscettibile di sviluppo solo se vieneesercitata in un costante scambio con un mondosociale e culturale di relazioni e signicati» (p. 107).

Antonio Da Re e Luca Grion, nel quinto capitolo, sioccupano della ridenizione del concetto di «per-sona» alla luce dello sviluppo delle neuroscienze.Gli autori rilevano come nel dibattito neuroloso-co contemporaneo sia assente il concetto classico

di persona nella sua dimensione ontologico-meta-sica (p. 111), benché nella losoa analitica (sivedano, in particolare, Strawson, Ayer, Wiggins,Part, Baker) «la riessione sull’identità personalerappresenti ancor oggi uno dei più studiati nucleitematici» (112, n. 7). Dopo aver preso in esame laprospettiva riduzionistico-eliminativistica (Farahe Heberlein), secondo cui non soltanto è illusorio«pensare come originaria la distinzione tra cose e

persone», ma soprattutto è illusoria e fallace «l’im-magine tradizionale della coscienza», sulla quale

 – da Locke a Williams – si è costruito il «criteriopsicologico dell’identità personale» (p. 123), Da Ree Grion precisano che «il problema che l’approccionaturalistico pone sul tappeto sta tutto qui: ci sonoragioni per riconoscere all’uomo una speciale di-gnità? Ed, eventualmente, quali indizi abbiamo ditale differenza qualitativa? Autori come Strawsono Haldane – e soprattutto la tradizione che essi in-terrogano – sono persuasi che tali ragioni vi siano

e che la persona sia la parola che meglio esprimel’evidenza di tale differenza qualitativa» (p. 133).

Il sesto capitolo, scritto a sei mani da Sartori, Lavazzae Sammicheli, è dedicato alla disamina del problemadel rapporto tra neuroscienze, diritto e giustizia.Gli autori si sono soffermati su tre ambiti paradig-matici dell’impatto delle neuroscienze sul diritto.In primo luogo, sono state analizzate le tecniche dilie-detection e di memory-detection, che insiemealle più recenti risorse diagnostiche stanno offrendo

preziosi contributi, in particolare, per i malati instato vegetativo. In secondo luogo, in relazione alla«decodica» dell’agire criminale patologico, è statoaffrontato il tema dell’imputabilità quale esempiodi «possibili torsioni o modiche dell’approccioclassico della giustizia penale». Inne, i tre stu-diosi hanno prospettato «una concezione non piùretributiva della giustizia penale», ma «codici cheletteralmente guardino avanti (forward thinking),progettati non al ne di iniggere la giusta pena per icrimini precedenti, piuttosto per incoraggiare buonicomportamenti e proteggere la società» (p. 139).

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Lavazza, Andrea, Sartori, Giuseppe (a cura di), Neuroetica. Scienze del cervello,

flosofa e libero arbitrio

Massimo Marraffa, nel settimo capitolo, si concen-tra sull’analisi del rapporto tra evoluzione, cogni-zione e cultura. Lo studioso muove da una «sintesifra la psicologia computazionale modularistica ela biologia evoluzionistica», che ha gettato le basiper una «prospettiva cognitivo-evoluzionistica sullacultura», in cui «la variazione culturale è spiegabilesolo all’interno di uno spazio di possibilità vincolatoda ontologie intuitive evolute» come, ad esempio,

le «credenze religiose, che pongono vincoli sullerappresentazioni culturali, facilitandone l’acquisi-zione, il ricordo e la trasmissione» (p. 188). Questatesi non è in contrasto con una prospettiva culturalesulla cognizione, a sua volta prodotto dell’evolu-zione, in quanto «la cultura inuenza non solo ilcontenuto delle nostre credenze, ma anche le stra-tegie di elaborazione dell’informazione impiegateper conoscere il mondo» (si pensi, ad esempio, allacontrapposizione tra la strategia olistica orientale equella analitica occidentale) (p. 188). La proposta

teorica di Marraffa è «una visione interattiva e in-tegrativa del rapporto fra il livello neurocognitivodi spiegazione e quello culturale» come «la via dapercorrere per lasciarsi denitivamente alle spallegli anacronismi del culturalismo relativistico» (p.189).

L’ottavo ed ultimo capitolo ospita una riessionedi Rino Rumiati e Lorella Lotto sui contributi dellapsicologia cognitiva e delle neuroscienze cognitivenell’approfondimento delle conoscenze sui processi

decisionali che riguardano valutazioni e azioni mo-rali. Se per un verso, com’è stato documentato da DeMartino et al., le decisioni prese in condizioni conit-tuali coinvolgono sia la componente emozionale siaquella cognitiva, per altro verso nelle decisioni cheimplicano giudizi etici, in cui vengono soppesati icosti e i beneci di determinate azioni, entrano ingioco principalmente le componenti emozionali,come emerge dagli esperimenti di Greene et. al.(p. 217). La scienza sta portando alla luce quelledistorsioni inconsapevoli negli schemi di risposta,che determinano un comportamento spesso inade-guato. Grazie agli studi di Zuckerman e Kuhlman,oggi sappiamo, ad esempio, che i soggetti dotati di un

prolo genetico che connota una personalità amantedel rischio e alla ricerca di sensazioni forti (sensa-tion seeker) hanno una maggiore propensione percomportamenti pericolosi e asociali (pp. 215-216).

Il senso del volume – che ha il merito d’iscriversi apieno titolo nel vivace dibattito sulla neuroetica – varicercato non solo nell’alto prolo multidisciplinaredell’indagine, ma anche in un’interrogazione aperta

intorno a questioni fondamentali per la nostra vita:«quello che non possiamo fare – scrivono infattiLavazza e Sartori – è trascurare le acquisizioni dellescienze del cervello o – al contrario – farci contagiareda una neuromania allo stato attuale ancora ingius-ticata. Una riessione equilibrata, che si giovi ditutte le risorse conoscitive a nostra disposizione,sembra la via privilegiata. Via che qui si tenta dipercorrere» (p. 15).

Introduzione, di Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori

I. Che cosa è la neuroetica, di Andrea Lavazza

II. L’Io tra neuroni e mente estesa, di Michele DiFrancesco

III. Libero arbitrio e neuroscienze, di Mario De Caro

IV. La morale e la natura, di Laura Boella

V. La persona alla prova delle neuroscienze, di An-

tonio Da Re e Luca Grion

VI. Cervello, diritto e giustizia, di Giuseppe Sartori,Andrea Lavazza e Luca Sammicheli

VII. Evoluzione, cognizione e cultura, di MassimoMarraffa

VIII. Decisioni e decisioni morali, tra razionalità edemozioni, di Rino Rumiati e Lorella Lotto

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Magni, Luca, Una introduzione allarifessione sul Tempo. Assoluto o A-ΧΧóΧΧΧ

München, GRIN Verlag, 2011, pp. 71, euro 27,90,ISBN 978-3-640-95816-0

Recensione di Pietro Camarda – 09/10/2011

Il testo di Luca Magni, ten-tando di prendere postonell’esclusivo catalogo delletrattazioni sul tempo, purpresentandosi sotto una vesteridotta e maneggevole, si ri-vela di una densità che rispec-chia l’imponente tematica e le

molteplici teorie a proposito,inoltre si propone di fornire un contributo criticoalle diverse prospettive interpretative sulla ries-sione del tempo: confrontarsi con il problema deltempo signica mettere in discussione l’intera im-postazione della metasica occidentale e quindisottoporla a critica.

Il testo di Magni, pur essendo esplicitamente un’in-troduzione ad un lavoro successivo più lungo e pos-sente sul tema, ha il merito di iniziare ad una nuova

ed originale riessione critica sul tempo. Infatti, lariessione prende necessariamente le mosse da unalinea di continuità con l’intera riessione losoca,nel suo sviluppo storico, e si concentra sull’idea/concetto di tempo dando vita a una storia critica deltempo che si svolge in tre momenti: riessione sultempo sotto un prolo storico-critico; ricognizionedegli intercessori che hanno permesso l’originalelettura dell’autore; introduzione al problema deltempo.

Si tratta di “enucleare quella che è la Ur-Frage dellamia riessione, quel Fondo-Fondante, o der Grunddes Abgrunds, quella Domanda-Fondamentale chel’ha generata” (p. 2), questo è l’intento dell’Autore,

come dice nella nota introduttiva.

Nel testo si nota sin da subito la dicoltà di afferraree affermare un tale concetto che già nel momentodella sua presentazione sfugge alla parola stessa,imponendo un linguaggio oltre il senso comune erichiedendo una riessione supplementare. Eccoperché la storia della losoa che ha visto moltiinterventi sul problema del tempo e che, seppurdeclinato in vario modo, secondo differenti forme edenominazioni, sembra essere il problema della lo-

soa: promotore dell’autentico atto del domandare,dimensione autentica del Pensare (da intendersicome inclusione nella dimensione-temporale). E sela dimensione del Pensare coincidesse con quelladel Tempo, sino a svelarne la struttura autentica:a-temporale? Ma per analizzare questo bisognapassare per le posizioni espresse nella storia dellalosoa, anche se si è sempre presa in considera-zione la Natura del tempo, sempre in relazione adaltro da sé e mai per sé.

Ci sarebbero, a detta di Magni, due loni di ries-sione sul tempo nella storia della losoa: un’in-terpretazione sica o naturale e una psicologica.Entrambi queste linee di riessione sul problema deltempo sembrano venirsi a legare a quella sull’Essere:l’Autore ci ricorda come Heidegger si chiedeva “incosa una certa determinazione del tempo ha impli-citamente governato la determinazione del sensodell’essere nella storia della losoa?”.

La storia della losoa del problema del temposembra iniziare da Anassimandro che introduce il

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Magni, Luca, Una introduzione alla rifessione sul Tempo. Assoluto o A-ΧΧóΧΧΧ

concetto di άπειρον ovvero di innito come principioprimo, fondatore di tutto, gettando così le basi perla distinzione dicotomica tra kronos e aidios (tempodivoratore e tempo eterno). Dopo c’è Eraclito cheintroduce un’altra struttura ideale del tempo, quelladel “tempo ciclico”. A partire da queste due posi-zioni già l’autore inizia a modellare la sua propostache sarà di un Tempo Ultra-Temporale (A-Χρóνος),slegato da connotazioni e denizioni troppo strette

per tale fenomeno.

Poi è la volta di Parmenide che, a partire dalla dico-tomica distinzione tra Essere (immobile ed eterno)e Non-Essere (soggetto al divenire), sviluppa unateoria del tempo (uno, eterno, lineare, ingenerato,immortale, indivisibile) subordinata a quella dell’es-sere (che farà prendere le mosse alle critiche diHeidegger e Derrida), no ad arrivare a Melisso diSamo che dimostra come l’innità spaziale e quellatemporale si implicano a vicenda. “Il legame tra

Essere e Tempo è una insolubile unione che si èprotratta lungo tutto lo sviluppo della Filosoa” (p.12) e che con Platone si concentra, da un lato, nellacomunanza tra le Idee e le cose che vi partecipano,instaurando una differenza ontologica tra le Ideee il sensibile; dall’altro nella denizione di tempoche si ritrova nel Timeo come “immagine mobiledell’eterno”. È così he questo problema sembrapresentarsi all’origine stessa dello sviluppo dellariessione losoca, e con Aristotele viene affron-tato in entrambi i modi suddetti: nella Fisica in modo

naturale (nella celebre denizione di tempo come“numero del movimento secondo il prima e il poi”),nella Metasica in modo psicologico (come “primomotore immobile”).

Con Agostino si ha un tempo che è “in animo pro-prio”, interiore, tutto psicologico, mentre in pienoMedioevo, con Tommaso, si ha una suddivisionein tre livelli: eternità (come non-tempo del divino);divenire storico (a partire dalla creazione); tempo(come transitorietà).

Nell’età moderna, con Cartesio si ha un “Io penso”che risulterebbe essere il nome dell’attività del “tem-poreggiare”, inteso come tempo preso al pensieronell’atto del dubitare. Newton e Galilei pensano adun tempo Assoluto, al contrario di Hume per il qualeil tempo è causalità. Per Kant il tempo è una forma apriori della conoscenza sensibile e cioè condizionedella possibilità della nostra conoscenza sensibile,mentre per Hegel “la coscienza viene a posizionarsi

nel Tempo, è un qualche cosa di temporale, ma nonsi identica con il Tempo, che pertanto, non risultaessere una soggettivzzazione di questo, ma anzi, essoviene a costituire quella che è la concezione dellaStoria, che è una struttura sovra-soggettiva” (p. 23).

Nietzsche, poi, pensa ad un tempo che diviene nelsuo in-esaurirsi Eterno-Ritorno, in una ciclicità il-limitata. Con Bergson il tempo viene diviso in duelivelli: uno soggettivo e l’altro oggettivo, rispettiva-mente: coscienziale e fenomenico. Con Husserl e

la fenomenologia in generale, il tempo diviene ilcampo di lotte della relazione tra soggetto e mondoche quindi fa del tempo una modalità intrinsecadel modo di presentarsi delle cose, no a renderenecessaria una retrocessione verso la ricerca di unTempo-Originario (Ur-Zeit) che legherebbe di nuovoil problema del tempo a quello dell’essere (problemache affronterà Heidegger) e farebbe della forma delpresente lo sfondo genetico di tale tempo originario(questione affrontata da Derrida).

S’impone a questo punto un atteggiamento criticonei confronti della passata, nonché “volgare” (comedice Derrida), concezione del tempo, tentando diesporre ciò che di esso è stato dimenticato e i frain-tendimenti cui ha dato luogo nello sviluppo dell’in-tera storia della losoa.

L’Autore a questo punto, nel secondo capitolo, pren-dendo in considerazione le riessioni di Heidegger eDerrida, compie una svolta signicativa per presen-tare quella che è la sua teoria sul tempo: per quantoriguarda la riessione di Heidegger, le questioni

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Magni, Luca, Una introduzione alla rifessione sul Tempo. Assoluto o A-ΧΧóΧΧΧ

sarebbero legate alla concezione della tempora-lità nella storia della losoa ed alla confusionetra essere ed ente derivante da questa. L’orizzontecritico diviene la “cronicità dell’essere”, inteso comeorizzonte ontologico dell’interpretazione dell’esseredeterminato a partire dal senso del tempo. Il pro-blema esposto diventa relativo alla dimensione deltempo, al ne di recuperare l’autenticità dell’essere,in un progetto critico dell’intera storia della meta-

sica.

Magni comincia a prendere posizione a partiredalla possibilità aperta dalle questioni sollevate daltesto heideggeriano (erronea formulazione delladimensione temporale, interpretazione sbagliata deltempo e conseguente progetto di decostruzione). Perl’Autore la concezione lineare del tempo non esiste,ma piuttosto, nella differenza tra una temporalitàdell’ente (Zeitlichkeit) e una temporalità dell’essere(Temporalität), si evince una considerazione del

tempo non più nella sua relazione ad altro, impo-nendosi così una elaborazione del concetto stesso ditempo nella sua singolarità, come Tempo-Assoluto.

La questione a questo punto si sposta e diventa: cosafarebbe di un tempo il suo tempo? Ovvero, c’è untempo del tempo? O ancora, c’è un al di sopra delladimensione temporale che la governa anche se diquesta sembra essercene solo una (nostra) rappre-sentazione? Siamo alle prese con due dimensioni:quella dello Im-Perituro e quella del Mutevole. Il

pensiero si costituisce come tramite tra queste due ecome il dubitare (di Cartesio) prende tempo in esse.Del resto il pensiero, nella sua declinazione dubi-tante, è il limite oltre il quale Cartesio non riuscivaa pensare differenza; così l’Autore, vede il pensierocome la forma autenticamente-abissale tra le leggidel mutamento e la dimensione imperitura.

Come Heidegger, Magni, distingue tra due differentidimensioni metasiche che presentano differentilegislature temporali e in più pensa sia possibilesuperare l’errore storico della confusione tra es-

sere ed ente proprio relegandoli alla temporalitàloro appropriata. L’essere, dal momento che leIdee appartengono alla dimensione dell’Eterno, èquell’Idea che fa da tramite, da relazione-assoluta,tra le manifestazioni del mondo e le loro Idee ge-neranti. Quindi Mondo e Idee appartengono ad unstruttura temporale che prevede un continuo uire:ma, allora, che cos’è questo Tempo? Quale è il fondodi tale dinamica dell’origine? Siamo in una meta-

sica che ha saputo trattare la temporalità solo comepresente, privilegiandone questa forma: privilegioche viene a cadere quando si mostra la sua conti-nua iterazione attraverso la traccia (Derrida), noa dover pensare ad un continuum antecedente traeterno e tempo deciduo che sopprime la dicotomiatra eterno e tempo.

All’origine del Tempo ci starebbe una sorta di duratacomprensiva sia della dimensione eterna sia di quel-la temporale, mantenendo i due piani già abbozzati

da Platone. Il usso temporale si presenterebbe sottoforma di un struttura “spettrale” che fonderebbe lacostituzione, secondo principi e categorie mutevoli,del Tempo-Assoluto. Quest’ultimo non sarebbe untempo senza tempo, ma un tempo che comprendein sé (almeno) due forme: quella del mutare e quelladel restare, come sue categorie.

S’innestano così processi di metamorfosi temporaleall’interno di un usso continuo tra le due dimen-sioni, scatenando così lo spettro del tempo, cioè la

sua dimensione operativa. Ma, che ne è del tempo?Lo si ritrova al di là di se stesso, come uno stranocaso d’identità che prende corpo solo fuori da sé, inun oltre se stesso che lo governa. “Il Tempo sembraessere l’unico A-Χρóνος, ovvero l’unica struttura me-tasica che sia al di fuori del Tempo stesso e, proprioper differenza e precisazione da quello che è semprestato considerato l’Eterno, esso non Per-Mane inun Di-Venire Temporale perché In-Mutevole, maproprio perché esso genera quel Divenire e non èpossibile applicare alcuna di queste caratteristicheproprio perché vengono ad essere relegate al Fluire-

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Magni, Luca, Una introduzione alla rifessione sul Tempo. Assoluto o A-ΧΧóΧΧΧ

Temporale e a quelle che sono le sue sotto-stantiDimensioni Metasiche” (p. 40).

Ma come può essere al di là di sé stesso ed esserepresente nelle sue manifestazioni dimensionalisia nel Mondo che nelle Idee? Si presenta come unstruttura non orientabile oltre se stessa ma presentecome manifestazione spettrale dello A-Χρóνος di cuiil Tempo-Assoluto è un’idea e/o concetto. La struttura

del Tempo-Assoluto è costituita da tre Strati gerar-chizzati: lo A-Χρóνος, il Tempo-Eterno il Tempo-Deciduo, che nelle loro relazioni logico-temporaline esplicano la Struttura Fondamentale. Inne, periniziare una nuova riessione sul tempo, è necessa-rio individuare i cortocircuiti della tradizione chehanno dato vita alle aporie e alle incomprensionisul tema, quindi, in virtù di “una de-costruzionedi tutte le passate concezioni” (p. 58), giungere allasua denizione come Struttura (non come Concettoe/o Idea, che si vengono a costituire in seguito al

Tempo), ovvero come fondamento costituente di unadis-posizione. Il Tempo, segno di una divisione, diuna distanza tale per cui non ci sarebbe altrimenti,richiede la soluzione dell’elusione di una domandasul problema che esso stesso genera, pretendendol’iterabilità come possibilità, producendo memoriasenza alcuna successione spazio-temporale, in uncontinuo rilancio differenziale che eccede la pre-senza nella ripetizione seriale dell’evento pluridi-mensionale (senza sistema).

Il testo si articola tra gli snodi concettuali che modu-lano la riessione sul tempo e ha lo scopo specicodi formulare una teoria (introduttiva) su di esso.Magni punta, attraverso un’introduzione alla ries-sione sul Tempo-Assoluto, ad enucleare le domandestrutturali della riessione sulla Natura del Tempo,per una esplicazione delle fonti di tali questioni.

Il problema del Tempo nella Storia della Filosoa

Il problema dell’Autentico Tempo

Questioni per una nuova riessione sul Tempo

Bibliograa di riferimento

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Bucci, Francesco, Umberto Galimberti e lamistifcazione intellettuale

Roma, Coniglio (Bassi fondali), 2011, pp. 285, euro14,50, ISBN 9788860632968

Recensione di Francesco Mar-tinello – 31/10/2011

Il volume si presenta comeun’approfondita analisi di duelibri di Umberto Galimberti(La casa di psiche e L’ospiteinquietante), che dimostracome siano stati ottenuti per lopiù accostando tra loro branidi testo provenienti da opere

precedenti dello stesso autore,eventualmente con alcune leggere modiche. L’in-dagine è strutturata così: per ciascun tema trattatoda Galimberti, Bucci affronta il testo in primo luogocon una lettura che denisce «ingenua», che cercasemplicemente di comprenderne il signicato.

Essa si rivela n troppo ingenua, perché a volte sem-bra non riconoscere certe espressioni idiomatichedella losoa. Per esempio: quando parla di «tec-nica», Galimberti probabilmente non sta pensando

all’insieme di saperi che consente di costruire elet-trodomestici, bensì a un’idea proposta da M. Heideg-ger e ripresa da E. Severino (a cui Galimberti devemolto). Dopo la lettura ingenua Bucci propone unalettura «informata», che mostra – a volte mediantechiare tabelle – come i passaggi del libro sotto esamesiano praticamente identici a porzioni di precedentitesti dello stesso Galimberti. Tutto ciò senza che essivengano mai indicati come citazioni, cioè come sesi trattasse di idee originali. Le due letture sonocomplementari, nel senso che la lettura ingenuaindividua i numerosi problemi logici e semantici

presenti nei discorsi di Galimberti, mentre la letturainformata cerca una spiegazione per simili dicoltà,individuandola nell’accostamento pressoché arbi-trario di brani «riciclati», che provengono da contesti

di discorso spesso estranei da quello del quale illibro sta trattando. Di conseguenza accade che allostesso pensatore vengano attribuite concezioni di-verse e incompatibili, oppure che la medesima tesivenga associata ad autori differenti, le cui dottrinesono prive di connessioni. I due libri già ricordatisono considerati da Bucci come i più emblematicicasi di un metodo di composizione che Galimbertiporta avanti con sempre maggior costanza da unatrentina di anni (l’introduzione riporta nel dettagliole «percentuali di riuso» che si possono individuare

all’interno di tutte le sue opere). Di particolare inte-resse a questo proposito è la prima delle appendici,che presenta, anche con l’aiuto di diagrammi, glispostamenti delle varie porzioni di testo da un’operadi Galimberti a un’altra.

Pregi dell’opera. Si tratta di un testo molto istruttivo,per gli interrogativi che fa sorgere sul funzionamen-to dell’editoria, dell’università, e dell’establishmentculturale italiani (cfr. su questo ultimo punto sopra-tutto l’appendice D). Simili argomenti, tuttavia, sono

tematiche giornalistiche piuttosto che losoche.Per questi aspetti il valore del libro è indiscutibile, eanzi si deve apprezzare l’autore per aver presentatole sue scoperte tutto sommato con ironia, piuttostoche con lo sdegno che spesso vediamo accompa-gnare i documenti di denuncia. Ai ni della presenterivista, però, si devono a mio avviso considerareesclusivamente i pregi losoci del volume. Questimi sembra siano riconducibili alla riessione, che lalettura di questo libro può suggerire, su quali sianoi criteri di valutazione per uno scritto di losoa.Bucci muove sostanzialmente tre tipi di critiche alle

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Marco Storni

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Bucci, Francesco, Umberto Galimberti e la mistifcazione intellettuale

opere di Galimberti: (a) contengono ragionamentiinsensati; (b) non svolgono il tema presentato neltitolo e/o nell’introduzione; (c) sono composti quasiinteramente estrapolando brani di altre opere emettendoli assieme in un ordine dicilmente com-prensibile. Per quanto riguarda i primi due punti cisi potrebbe per esempio chiedere se, applicandolicon rigore a diversi testi «classici» della disciplina,non si nisca per essere costretti a riutarne troppi.

Diverse volte, infatti, pare che i loso si servano diaffermazioni paradossali per i loro scopi, e numerosilibri sono giudicati ottimi lavori losoci pur senzaavere un preciso lo conduttore. La critica menodiscutibile sembra senz’altro la terza. Immaginiamoche si scopra che per esempio la Fenomenologiadello Spirito fu composta riciclando materiali pre-cedenti e copiando da altri autori senza menzionarli(alcuni quotidiani nazionali hanno messo in luceanche questo aspetto degli scritti di Galimberti).Probabilmente il prestigio di tale opera presso gli ad-

detti ai lavori diminuirebbe sensibilmente. Il puntoè che coerenza, compattezza, e originalità sono trecondizioni ormai universalmente accettate per de-cidere della bontà di una «produzione scientica».Sono diventate, senza dubbio per motivi ben validi,«le regole del gioco», per così dire. Come tali, ormaisi dà per scontato che vadano applicate a tutti i tipidi prodotto intellettuale. Eppure, la losoa ha unastoria ben più antica di quei criteri, e sopratuttotra i suoi compiti tradizionali c’è proprio quello diripensare i presupposti più indubitabili.

Difetti dell’opera. Prima della esauriente docu-mentazione del «riciclo» galimbertiano dei propritesti, si trova nel volume una inopportuna e pocoapprofondita accusa nei confronti di una correntelosoca, il post-modernismo, specialmente nei suoirappresentanti italiani. L’autore ritiene che «I trattisalienti del pensiero di Umberto Galimberti sonoinfatti riconducibili [...] alle tesi di fondo condivise[...] da tutti quei pensatori che [...] si denisconopost-moderni […], possiamo cogliere il nucleo cen-trale del pensiero post-moderno (o “debole”) nel

riuto della razionalità “illuministica” e nella sua(presunta) pretesa di fornire spiegazioni totalizzanti;nella critica della scienza e della tecnica, prodotti ditale razionalità, considerate pericolose espressionidi volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; nellanegazione dell’oggettività e dell’universalità dellaconoscenza (in primis quella scientica), e anzidell’oggettività in generale; nel conseguente rela-tivismo, sia in campo conoscitivo (non esistono fatti,

ma solo interpretazioni), sia in campo assiologico(non esistono valori assoluti [...])» (pp. 24-25). Talecorrente losoca, poi, «ha in comune con la reli-gione [...] l’insondabilità dell’oggetto, l’astrusità deicontenuti e l’arbitrarietà del linguaggio [...]» (p. 27),ed è facile accorgersi che «carenza di rigore logico (edi senso) caratterizza in realtà [...] buona parte deidiscorsi degli ocianti del post-modernismo» (ibi-dem). Pertanto, «nel fornirci le prove documentalidella vacuità di molta parte del suo dire (e ridire),Umberto Galimberti [...] contribuisce a demisti-

care anche quel “pensiero debole” di cui egli è, inItalia, uno dei più noti esponenti» (ibidem). È unacritica inopportuna perché rischia di far passarel’intero volume, il cui valore sta nella dettagliataricostruzione delle nascoste fonti galimbertiane, peruna provocazione «ideologica», come se fosse statoscritto con l’intento «lo-illuminista» di screditarei pensatori «irrazionalisti». Si tratta inoltre di unapolemica superciale, prima di tutto perché attaccaun’intera corrente losoca per mezzo di un argo-mento ad hominem (che le critiche a Galimberti

valgano per ogni rappresentante del pensiero deboleè tutto da dimostrare), e in secondo luogo perchénon è condotta in maniera adeguata: è encomia-bile il lettore che segnala agli altri lettori un caso diimpostura, ma a giudicare se il post-modernismosia autentica losoa o misticazione intellettualedovrebbero essere gli addetti ai lavori, con gli stru-menti della loro disciplina.

Prefazione di Luca Mastrantonio

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Bucci, Francesco, Umberto Galimberti e la mistifcazione intellettuale

LA CASA DI PSICHE – Dalla psicoanalisi alla praticalosoca

Parte prima – Perché Dalla psicoanalisi alla praticalosoca?

3. Il tema non viene svolto

4. La pratica losoca non c’è

5. La spiegazione dei misteri

Parte seconda – Da Freud ad Aristotele

6.2 Una strana assenza: dov’è Nietzsche?

6.3 Che cos’è la teoria lacaniana?

6.4 Un’altra strana assenza: dov’è Freud?

7.2 Cos’è la psicologia analitica di Jung?

7.3 Jung e Freud nell’età della tecnica

8. Il simbolo e il suo linguaggio

8.1 Trasgredire la scienza e pro-vocare il simbolo

8.3 Oroscopo e psicologia

9. Dalla psicologia scientica alla psicologia artistica

9.1 la psicologia come scienza umana

9.2 La psicologia come scienza rigorosa

9.3 La psicologia come arte

9.5 Jaspers e la psicoanalisi

10.1 La psicologia in Dilthey e in Jaspers

10.2 La losoa di Jaspers

11. Pratica losoca o losoa pratica?

11.1 Il dolore e la meraviglia

11.2 Cristianesimo, grecità e tragicità dell’esistenza

11.3 Cristianesimo, grecità e tecnica

11.5 La colpa della Germania nazista

11.6 La phrònesis aristotelica nell’età della tecnica

L’OSPITE INQUIETANTE – Il nichilismo e i giovani

2. La causa del disagio giovanile: il nichilismo

3. La vera causa del disagio giovanile: il futuro-mi-naccia

4. La causa di fondo del disagio giovanile: il disin-

teresse della scuola e/o deigenitori

5. I giovani d’oggi? Tutti psicopatici

6. I giovani d’oggi? Mancano di forza d’animo

7. I giovani d’oggi? Tutti spudorati

8. I drogati? Tutti nichilisti

10. Nichilismo e brigate rosse

11. Nichilismo e indifferenti degli anni Novanta

12. Nichilismo e occupazione delle case

14. Perché Il nichilismo e i giovani?

15. Gli improbabili rimedi al disagio giovanile

APPENDICE A – Gli inquieti percorsi delle parole:dimensioni e caratteristiche del riuso galimbertiano

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Bucci, Francesco, Umberto Galimberti e la mistifcazione intellettuale

2. Gli articoli e le risposte

APPENDICE B – Riuso e abuso delle parole: un o-rilegio

APPENDICE C – E le parole continuano a vagare:l’ultimo libro di Galimberti

APPENDICE D – Scalfari e Galimberti: un paradosso

emblematico

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Putnam, Hilary, (a cura di Massimo

Dell’Utri), Filosofa ebraica, una guidadi vita. Rosenzweig, Buber, Levinas,Wittgenstein

Roma, Carocci, 2011, pp. 142, euro 15, ISBN 978-88-430- 5363-6

Recensione di Cecilia Ricci –12/10/2011

La presente opera di Putnamcostituisce una interessante in-troduzione al pensiero di «treloso ebraici e 1/4» (114) –l’Autore inserisce la guradell’ebreo «atipico» Wittgens-tein accanto a quella di Ro-senzweig, Buber e Levinas – e

nasce da un corso sulla losoaebraica tenuto da Putnam nel 1997 ad Harvard chediede vita nel 1999 a due conferenze su La losoaebraica come modo di vita, la cui rielaborazionerappresenta il primo e il quarto capitolo del presentevolume.

La ricerca di Putnam, da sempre indirizzata verso

l’epistemologia scientica e la losoa della scienza,cominciò ad aprirsi in direzione della losoa ebrai-ca nel 1975, anno in cui il glio maggiore comunicòal padre il desiderio di celebrare il bar mitzvah. Ciòspinse Putnam a partecipare assiduamente alle li-turgie ebraiche e a riconsiderare la preghiera comeun’ «attività capace di trasformare le persone» (13).Come ricorda Putnam nell’Introduzione, il nuovointeresse per la religione si aancava allo studiodella losoa della scienza senza che le due com-ponenti venissero conciliate. Il corso sulla losoaebraica, tenuto nel 1997, rappresentò per Putnam

la possibilità di riconciliare la vena religiosa con lagenerale visione scientico-materialista del mondo.

I primi due capitoli del volume illustrano i tratti

principali del pensiero di Rosenzweig e ne mettonoin risalto la prossimità con quello di Wittgenstein.Per entrambi la losoa non è pura riessione spe-culativa né ricerca metasica dell’essenza delle cosema pratica di vita che trasforma l’interiorità. Am-bedue, muovendo dalla denuncia dell’assurdità diogni spiegazione metasica che indaghi l’essenzadelle cose reali, propongono «un ritorno all’uso or-dinario delle nostre parole» (28) così come è dettatodal nostro senso comune. Per Rosenzweig la lo-soa, interrogandosi esclusivamente sull’essenza,

avrebbe estrapolato gli elementi costitutivi del reale – uomo, Dio, mondo – dal usso della vita, eludendocosì il problema della morte e neutralizzando leesigenze del quotidiano. L’autore de La Stella dellaredenzione si fa così promotore di un «nuovo pen-siero che parla» (39), cioè che presta attenzione albisogno dell’altro e porge l’orecchio solo agli inter-rogativi brucianti che nascono dall’esperienza. Dalmomento che parlare presuppone l’esistenza di uninterlocutore e delle sue urgenze, allora il nuovopensiero ha bisogno di tempo anché nel dialogo

emergano consapevolmente le domande e matu-rino le possibili risposte. «Nello scontro attivo coni problemi losoci o teologici vissuti di un altroessere umano, scontro che egli chiama pensieroche parla, un parlante non sa in anticipo quelloche dirà – o anzi, se dirà qualcosa» (41). Putnamillustra nel secondo capitolo le tappe speculativedel pensiero rosenzweighiano contenute in La Stelladella redenzione. La nuova «losoa esperiente»è un pensiero che narra attraverso le tre categorie

 – creazione, rivelazione e redenzione – l’accaderedelle relazioni tra uomo, Dio e mondo. La creazione è

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Putnam, Hilary, (a cura di Massimo Dell’Utri), Filosofa ebraica, una guida di vita.

Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein

la narrazione del rapporto che investe Dio e mondo,oscura profezia rinchiusa nel passato muto e lon-tano e che attende di essere risvegliata e inveratadall’eterno presente della rivelazione. L’accadererivelativo assume i connotati di un vivo dialogo traamante (Dio) e l’amata (uomo). Nella rivelazionel’essere creato è colpito dalla forza dell’amore diDio che gli giunge sotto forma di comandamento. Ilcomando divino desta l’uomo dal torpore e dall’or-

goglio caparbio che lo connavano nella chiusuradel proprio sé e sollecita la sua risposta responsabileche consiste nel ricambiare l’amore. Scoprendo diessere amato l’uomo impara ad amare non solo Dioma anche il prossimo. L’esperienza dell’amore diDio è la condizione di possibilità dell’imitatio dei el’inizio della redenzione come relazione tra uomoe mondo. La redenzione nale non può essere re-legata in un futuro lontano e irraggiungibile madeve essere continuamente anticipata anché ilcompimento entri di diritto in un tempo eterno.

L’attesa paziente del Regno si deve accompagnaread una forzatura della sua venuta allo scopo che ilRegno possa eternamente venire. Putnam sottoli-nea perfettamente tale unità di presente e futuronell’attesa della redenzione. L’uomo «sperimentala redenzione simultaneamente come «presente»,come «qualcosa che potrebbe accadere nel prossimoistante», e come qualcosa che accadrà nel futurolontano» (58). Allo stesso tempo però non coglie ladimensione «esclusivamente» presente dell’acca-dere rivelativo. Per Putnam «Rosenzweig ritiene che

la rivelazione sia avvenuta nel passato» (50); ma inrealtà per l’autore de La stella della redenzione laportata miracolosa della rivelazione risiede nellasua capacità di rinnovarsi sempre ad ogni istante enell’offrirsi all’uomo come novità eternamente pre-sente. Nella continua richiesta di amore reciprocoda parte delle due anime e nel ricorso al dialogoamoroso del Cantico dei cantici, Rosenzweig esprimeil «per sempre» della rivelazione.

Nel terzo capitolo dedicato a Martin Buber, Putnamutilizza la formula «perfezionismo morale» – presa

in prestito da Stanley Cavell – per denire il pensierodi Rosenzweig, Buber e Levinas. Ciascuno di loro è«perfezionista perché descrive un nostro obbligoin modi che appaiono intollerabilmente esigenti;ma è anche un losofo realista perché comprendeche è solo mantenendo bene in vista un’esigenza«intollerabile» che si può ambire al proprio «sé nonrealizzato ma realizzabile»» (67). Se in Rosenzweigi tre elementi tessono un sistema di relazioni che

desta l’io dal mutismo del premondo offrendoglila possibilità di pronunciare il suo «Eccomi» e inLevinas il volto oltraggiato dell’Altro esige una un’as-sunzione di responsabilità nei suoi confronti, così «lafamosa relazione «io-tu» di Buber è una relazioneche esige da noi, e senza la quale nessun sistema diregole morali e nessuna istituzione possono avereun valore ideale» (67).

Nel delineare i punti cruciali del pensiero dialogicodi Buber, Putnam si propone di smascherare i ma-

lintesi più comuni. Il primo errore nell’interpre-tazione del suo pensiero consiste nel consideraresempre valida e giusta la relazione io-tu, attribuendoun carattere «demoniaco» alla relazione io-esso.In realtà la validità della relazione io-tu «dipendedall’adeguatezza dello scopo» (70) che consiste nella«trasformazione del «mondo dell’esso»» (71). Grazieall’originaria relazione io-tu con Dio da cui discen-dono tutte le altre relazioni io-tu con le persone,è possibile operare una trasformazione della vitaindividuale e sociale. «Ogni vera comunità e ogni

genuino momento di trasformazione hanno bisognodi una relazione condivisa con il Tu supremo. Tuttele soluzioni puramente «materialiste» ai problemidel mondo, che valorizzino il socialismo, oppure ilcapitalismo, non possono che fallire senza un mo-mento di relazione di questo genere» (74). Il secondoerrore per Putnam consiste nel rintracciare l’origi-nalità della riessione buberiana unicamente nellafenomenologia delle relazioni personali e non nellasua «teologia». L’interesse del pensiero dialogicorisiede invece, per Putnam, nell’incapacità di qual-siasi speculazione metasica e di qualsiasi teoria

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Putnam, Hilary, (a cura di Massimo Dell’Utri), Filosofa ebraica, una guida di vita.

Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein

della conoscenza che voglia inglobare e denire ilmistero di Dio. «Ciò che si può fare è parlare a Dioo piuttosto intraprendere una relazione «io-tu» conDio, una relazione in cui tutte le relazioni parziali«io-tu» sono abbracciate e realizzate senza esserecancellate» (73).

Nel quarto capitolo Putnam illustra le categorie -losoche centrali del pensiero di Levinas alla luce

della famosa affermazione per cui l’etica è la -losoa prima e quindi priva di alcun fondamentoontologico. «Il pericolo di fondare l’etica sull’ideache noi siamo «tutti fondamentalmente uguali» è diaprire una porta all’Olocausto: basta solo pensareche alcune persone non sono davvero uguali perdistruggere la forza di una simile costruzione» (78).Ciò in parte è vero perché il riuto dell’ontologia ècomprensibile in termini ebraici come negazionedella «presenza» dell’essere e di una sua rintrac-ciabilità nell’ordine fenomenico ma allo stesso

tempo deve essere letto in relazione all’orrore eallo sgomento provocati dalla Shoah. La tradizionelosoca occidentale, esaltando l’ontologia comelosoa prima, ha posto l’origine del senso nellasovrana affermazione dell’essere, nendo per neu-tralizzare il singolo e sancire così il trionfo della pre-varicazione sull’altro uomo. L’orrore di una storiaingiusta, tradimento del progetto che Dio aveva inserbo per l’uomo, avrebbe condotto non solo allapolverizzazione del senso che spalanca all’abissodel il y a, ma anche all’allontanamento di Dio rifu-

giatosi in un «altrimenti che essere» non fenome-nico. Putnam si concentra maggiormente sul rap-porto che in Levinas si stabilisce tra l’asimmetriaradicale della relazione con l’altro, l’impossibilitàdi una tematizzazione di Dio e la vocazione uni-versale a rispondere responsabilmente del bisognoaltrui, ovvero la «categoria morale» di elezione allaresponsabilità dell’Altro. Putnam non condivide laradicalità dell’asimmetria della relazione etica equindi di un’assunzione di responsabilità no ailimiti del martirio e legge questo tratto esasperatocome frutto di un’«etica unilaterale» (104). In realtà

però senza l’incondizionatezza dell’obbligo etico –limitata in parte dall’irrompere del «terzo» e dal fattoche anche il soggetto è il prossimo per l’altro – nonsi potrebbe dare vera testimonianza di Dio, cioèdella sua innita eccedenza nel volto offeso dell’altroche sfugge ad ogni presa concettuale. Il volto non èper Levinas né riesso né immagine di un Dio cheè assente, ma nel suo dileguarsi lascia una traccianon assimilabile all’idea di residuo fenomenico. È

interessante notare come Putnam contrapponga in-vece «la non fenomenicità del volto» alla possibilevalenza teofanica della traccia. «Proprio come nonvediamo mai Dio, ma al più tracce della presenzadi Dio nel mondo, così non vediamo mai il voltodell’altro ma solo la sua traccia» (89). Se la tracciaè la signicazione di un «Dio che viene all’idea»solo nell’approssimarsi ad altri, allora Dio deveaver percorso in qualche modo le vie del mondo,lasciando poi alle sue spalle un vuoto ben visibileperché inscritto nell’orizzonte nito della presenza

delle cose. La disponibilità totale ad accogliere edaiutare l’altro – ci ricorda Putnam – può nascere soloda un incontro che genera scompiglio e «sgretola lemie categorie» (111) nella consapevolezza che «ciòche viola le mie categorie può solo venir appresodi sfuggita, in modo mistico – come la traccia delvolto dell’altro, come «gloria» dell’Innito» (111).

Il libro di Putnam è un’ utile presentazione dellecategorie speculative di alcuni grandi loso ebreidel nostro tempo e si propone sin dall’inizio di es-

sere una guida introduttiva per il pubblico comunedi «non addetti ai lavori» che si accinge allo stu-dio complesso e affascinante del pensiero ebraico.Putnam ha il merito di smascherare gli errori dicomprensione più diffusi legati all’interpretazionedelle opere dei tre loso e l’umiltà di illuminareil senso di alcuni concetti oscuri senza pretenderedi esaurire la portata e la ricchezza losoca delloro pensiero.

Introduzione (autobiograca)

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Putnam, Hilary, (a cura di Massimo Dell’Utri), Filosofa ebraica, una guida di vita.

Rosenzweig, Buber, Levinas, Wittgenstein

1. Rosenzweig e Wittgenstein

2. Rosenzweig sulla rivelazione e relazione d’amore

3. Che cosa Io e tu dice davvero

4. Levinas su quel che esige da noi

L’impertinenza della teoria, di Massimo Dell’Utri e

Pierfrancesco Fiorato

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D’Agostini, Franca, Introduzione alla verità

Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 359, euro 16,50,ISBN 9788833922188

Recensione di Antonio Cimino –10/8/2011

A Franca D’Agostini la culturalosoca italiana degli ultimiquindici anni deve magistraliricostruzioni storiograche e sis-tematiche della losoa contem-poranea. Mi preme ricordare inparticolare l’ormai classico Ana-litici e continentali. Guida alla

losoa degli ultimi trent’anni(1997), che ha rappresentato un fondamentalecontributo al dibattito relativo alla pluricitata econtroversa scissione fra losoa continentale elosoa analitica e che ha inaugurato una lungaserie di studi e volumi dell’Autrice, dedicati ai piùimportanti snodi teorici della discussione losocacontemporanea.

Mi limito a menzionare, per il nesso diretto con il vo-lume qui in discussione, Logica del nichilismo. Dia-

lettica, differenza, ricorsività (2000) e Disavventuredella verità (2002). Nel solco di questo coerente per-corso di attenta e profonda analisi rientra anche ilvolume Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomentinel dibattito pubblico, dato alle stampe dall’Autrice,sempre presso Bollati Boringhieri, nel 2010.

Ad una considerazione complessiva di queste e dellealtre opere, si può senz’altro affermare che il lavorolosoco di Franca D’Agostini è caratterizzato daun approccio che risalta, per originalità e ampiorespiro, rispetto al generale panorama della cultura

losoca accademica in Italia, mediamente segnatoda un persistente storiograsmo, da un’eccessivatendenza alla specializzazione e frammentazionenonché da forme più o meno consolidate delle molte-

plici scolastiche continentali e analitiche. In generalesono tre i pregi che riscontro nei lavori dell’Autricee che sono largamente visibili anche nel volume quiin esame: uno stile estremamente chiaro e brillante,che sa coniugare precisione delle singole analisi consolide sintesi sui problemi di volta in volta trattati;uno sguardo di insieme che sa abbracciare le di-verse tendenze, anche quelle più lontane fra loro,del dibattito contemporaneo; forte consapevolezzateoretica della posta in gioco che le singole proble-matiche comportano. Il volume Introduzione alla

verità rispecchia in modo esemplare ciascuno diquesti caratteri della scrittura losoca dell’Autrice.

Mi preme sottolineare in particolare la felicissimascelta operata nel calibrare l’impianto di fondo delvolume. L’articolazione poggia su un’introduzionegenerale, che funge da premessa e mette a fuococon estrema chiarezza il complesso dei temi trat-tati, e da quattro parti principali, ciascuna dellequali è conclusa con una ricapitolazione che ri-percorre in modo sintetico, ma pregnante, i punti

analizzati. In questo modo il lettore, anche quellomeno esperto, può orientarsi con facilità nella ttatrama delle numerose problematiche relative allaverità elaborate dalla tradizione. Tale perspicuitàdell’articolazione e la notevole lucidità dello stile,che alterna momenti di intelligente presentazionedei problemi e delle teorie a parti più teoretiche eanalitiche, fanno sì che il volume si presenti anchecome utilissimo strumento didattico, da consigliaresia a studenti interessati al tema sia a un lettore me-dio colto. Tuttavia, nonostante l’Autrice concepiscail suo contributo come «un chiarimento preliminare

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D’Agostini, Franca, Introduzione alla verità

e generale sul concetto di verità» (p. 9), non si puòaffatto dire che la portata del volume si esaurisca inun mero intento divulgativo o illustrativo. In effettila magistrale chiarezza con cui si sviscerano i singoliproblemi va di pari passo con un’attenta discussionedei punti più ardui del dibattito contemporaneo sullaverità, innanzi tutto sulle diverse sfaccettature checaratterizzano questa nozione capitale e alle qualisono dedicate le singole parti.

Lo scopo della prima parte del volume è fornireuna presentazione generale dei molteplici signi-cati della nozione di verità. L’Autrice offre un’in-telligente mappatura e ricostruzione delle diverseteorie che sono state proposte, a cominciare inparticolare da quelle tradizionalmente più diffusee note, vale a dire: il corrispondentismo, il coeren-tismo e il pragmatismo. La snella ricostruzione delleteorie si accompagna ad una puntuale analisi deipunti controversi che ciascuna di esse comporta,

ma altrettanta attenzione è dedicata alle cosiddetteteorie non robuste, con particolare spazio concessoallo schema di Tarski, al deazionismo e alle teo -rie concernenti i fattori di verità (truthmakers).Da sottolineare con forza è che la prima parte siconclude con una sezione più teoricamente im-pegnata, che si concentra sulla teoria della veritàprivilegiata dall’Autrice, detta «realismo aletico», laquale nella sostanza consiste in una lettura realisticadello schema di Tarski. Nello spiegare il primato delrealismo aletico l’Autrice adduce buone ragioni a

favore di tale teoria, evidenziandone in particolarela funzione esplicativa e quella metateorica. Infatti,il realismo aletico è congruente, in modo più imme-diato e semplice (cfr. p. 113), con l’uso losoco eprelosoco del predicato «vero», e inoltre «ognialtra teoria della verità per essere accettata deveessere giudicata “vera” proprio in questo sensorealistico» (p. 113).

La seconda parte prende in considerazione la lo-gica della nozione di verità, vale a dire come questaentra in gioco nella sfera del linguaggio e del pen-

siero. Oltre all’irrinunciabile presentazione delleleggi classiche della verità, l’Autrice dà ampio spa-zio anche alle logiche non classiche, fornendo unasintetica ma ecace ricostruzione delle logicheparacomplete, delle logiche paraconsistenti, dellalogica fuzzy e della logica della probabilità. Graziealla chiara esposizione dell’Autrice anche il lettoremeno esperto può farsi un’idea sucientementeprecisa di come la nozione di verità sfugga a rappre-

sentazioni dicotomiche e rigide e richieda strumentilogici notevolmente diversicati.

La terza parte si rivolge a quella che l’Autrice chiamaepistemologia della nozione di verità, riferendosicon ciò alla sua portata più strettamente gnoseolo-gica. In questa parte trova spazio non solo l’analisidei problemi più classici propri della teoria della co-noscenza, ma soprattutto un confronto molto intelli-gente e mirato, mai segnato da posizioni preconcette,con le diverse forme di scetticismo, nichilismo e

relativismo che hanno dominato buona parte delloscenario losoco del secolo scorso e che continuanoad aorare ogni volta che si affrontano problemifondazionali. In questo complesso di problemi eautori, piuttosto complicato ed eterogeneo, l’Autricesi muove con solidità di argomenti e profonda conos-cenza delle fonti, mettendo in luce i limiti intrinsecidi molte impostazioni antimetasiche. Vale la penasottolineare come l’analisi sviluppata dall’Autricenon si limiti a prendere in considerazione la valenzastrettamente tecnica delle spinose questioni solle-

vate da scetticismo, nichilismo e relativismo, ma nesappia toccare anche gli aspetti più generalmenteculturali (cfr. ad esempio pp. 207 ss.).

Il volume si conclude con la quarta parte dedicataalla pratica della verità, vale a dire al modo in cuiil concetto di verità viene usato e/o distorto nelcontesto della sfera pubblica e in ambiti non lo-soci. È una prospettiva molto interessante, soprat-tutto per quanti, non specialisti di cose losoche,vogliano orientarsi sui concreti riessi quotidiani epolitici dei problemi concernenti il vero. È un modo

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D’Agostini, Franca, Introduzione alla verità

pregevole di concludere questo eccellente volume,che in una certa misura documenta anche il vivaceimpegno più generalmente intellettuale e culturaledell’Autrice, il quale di recente, come ho già segna-lato, ha dato ottimi frutti in particolare con il libroVerità avvelenata, che rappresenta l’esito più di-rettamente connesso con la parte nale del libroqui recensito.

Parte prima: Il signicato di «vero»

Parte seconda: La logica di «vero»

Parte terza: L’epistemologia di «vero»

Parte quarta: L’uso di «vero»

Riferimenti bibliograci

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Casati, Roberto, Prima lezione di flosofa

Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 203, euro 12, ISBN978-88-420-9549-1

Recensione di Giacomo Bor-bone

Con la sua ultima fatica intito-lata Prima lezione di losoa,Roberto Casati, direttore di ri-cerca del CNRS all’Institut Ni-cod a Parigi, affronta un temaparticolarmente impegnativo.

Ovvero, che cos’è la losoa e,pertanto, cos’è un losofo (laddove per losofo egliintende losofo o losofa).

Il compito non è facile, anzi, sembra quasi che difronte alla domanda che cos’è la losoa, ci si sentacome S. Agostino di fronte alla domanda che cosaè il tempo: “Quando nessuno me lo chiede, lo so;

ma se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo,non lo so”.

Su cosa sia la losoa non esiste (e forse mai cisarà) un consenso universale, ma Casati prova adarne una denizione per certi versi originale edallo stesso tempo chiara: il nostro autore denisce lalosoa in termini di negoziazione concettuale ed illosofo, di conseguenza, un negoziatore concettuale(cfr. p. 3). Casati, per spiegare con più semplicitàquesta sua impostazione concettuale, non ricorread un episodio di storia della losoa, così come cisi aspetterebbe, bensì ad un episodio giudiziario.Nel 1926 lo scultore romeno Constantin Brancusi

sbarca a New York per esporre la sua opera Oiseaudans l’espace (Uccello nello spazio), ma alla dogana,nonostante le precisazioni di Brancusi, la sua operad’arte venne classicata dal doganiere come utensile

da cucina e pertanto soggetta alla tassa doganale(non prevista, invece, per le opere d’arte). Brancusifece causa agli Stati Uniti, convincendo il giudicea classicare la sua scultura come opera d’arte.Questo esempio viene da Casati ritenuto un casoparadigmatico di negoziazione concettuale. Ma sela losoa è un negoziato allora, secondo l’autore,essa è anche un’arte (cfr. p. 61), visto e consideratoche esistono diverse tecniche losoche o “modidell’operare losoco” (ibidem).

Dalle semplici denizioni che Casati fornisce aproposito della losoa e del losofo, discendonoalcune conseguenze affrontate lungo i vari capitolidel suo volumetto.

Se il losofo è un negoziatore concettuale, ciò signi-ca che la losoa opera ad un livello meta-teorico, enon teorico, visto e considerato che “sono losochele domande cui non trovi risposta nella disciplinache le formula” (p. 33). In matematica, ad esempio,possiamo conoscere la somma 179+46 tramite un

semplice calcolo, ma, scrive l’Autore, “non ci sonocalcoli che ci dicono che cosa sia un numero” (ibi-dem).

Pertanto, quali sono quindi le domande di tipo -losoco? Esse sono domande “cui la disciplina nonsaprebbe rispondere con i propri mezzi, e sono do-mande alle quali si risponde con gli stessi mezzi concui si risponde a domande losoche riguardo adaltre discipline” (p. 32).

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Marco Storni

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recensioniflosofche.ino

Casati, Roberto, Prima lezione di flosofa

A tal proposito, Casati fornisce un esempio moltosemplice: “Così come non puoi decidere che cos’èun pianeta andando a esplorare lo spazio, ma puoimetterti a cercare pianeti quando hai deciso chetipo di cosa è un pianeta, così non puoi decidereche cos’è la criminalità semplicemente contandouna parte della popolazione o il numero di mani-festazioni di un certo fenomeno, ma puoi capireche cosa contare quando hai deciso che cosa conta

come un criminale o come atto criminale” (p. 107).

La costruzione di teorie, stando a quanto ci diceCasati, è resa possibile soltanto dalle meta-teorie,mentre le teorie “permettono la formulazione didomande fattuali” (p. 167); in questo senso “le teo-rie losoche sono piccole – proprio perché sonometateorie” (ibidem).

Dalla denizione di negoziatore concettuale e dalladistinzione tra losoa e non-losoa in termini di

metateorie e teorie, scaturisce un’altra conseguenza,e cioè la non-esistenza di problemi di natura univer-sale all’interno della losoa. Scrive infatti Casatiche “dal fatto che in ogni contesto storico si possanoindividuare questioni tipicamente losoche, nonsegue che le questioni siano sempre le stesse” (p.154). Ciò lo porta a ridurre la losoa ad un ruoloancillare, poiché essa, afferma l’Autore, “è sempredi fronte al dato” (p. 171), ma “la vita è comunquesempre di fronte al dato. Tuttavia questo non toglieche la losoa possa volare oltre, andare lontano

 – non subire il dato. È anzi vitale che la losoacerchi di guardare lontano; è facendo questo chearricchisce lo spazio del negoziato” (pp. 171-172).

Un tal modo di vedere sembrerebbe sminuire lanobiltà della losoa, visto e considerato che la suafunzione, nell’ottica di Casati, può tutt’al più risul-tare utile come lo è lo jogging per la prevenzionedi malattie cardiovascolari. Ma Casati si difendeda quest’eventuale accusa con le seguenti parole:“Difendere una concezione ancillare, non pura dellalosoa non signica sminuire il lavoro losoco. La

losoa, la riessione concettuale, è linfa vitale perle scienze, l’arte, la vita. Mi oppongo pertanto a unacerta timidezza e ritrosia del losofo. Non intendodire che il losofo debba a tutti i costi occupare lascena pubblica e tanto meno mediatica; ma pensoche possa e debba intervenire in quanto losofo inmolti contesti proprio perché, come spero di avermostrato, il suo lavoro è utile” (p. 172).

A tal proposito l’autore, esortandoci giustamente anon soffermarci alla supercie delle cose, affermache “questo libro è una difesa dell’intellettualismo,della necessità di andare a fondo nelle cose anchepiù semplici, perché anche le cose più semplici sonola punta di un iceberg di smisurata grandezza ecomplessità, e a voler negoziare soltanto con la parteemersa si rischia di non andare lontano” (ibidem).

Pur non condividendo la denizione di losoa intermini di negoziazione concettuale (poiché non mi

pare che la losoa pieghi le sue esigenze veritativealla pratica della negoziazione e in ogni caso, se cosìfosse, questa non sarebbe losoa), tuttavia il librodi Casati, caratterizzato da uno stile di scrittura de-cisamente brillante, offre comunque ottimi spuntiper ripensare il ruolo della losoa nella società.

Il losofo è un negoziatore concettuale

La rinuncia necessaria e il dovere dell’immagina-zione

Come si costruisce un esperimento mentale?

A comporre le tensioni tra visioni del mondo

Esiste una conoscenza losoca?

Come si insegna la losoa?

A che cosa serve la storia della losoa?

La losoa dei loso

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recensioniflosofche.ino

Casati, Roberto, Prima lezione di flosofa

Annotazioni, letture e visioni

Indice dei nomi e degli argomenti

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Più neorealisti del re? (note a margine deldibattito sul New Realism)

 

di Francesca R. Rec-

chia Luciani

Nel corso dell’es-tate che è appenatrascorsa abbiamoassistito al ritorno diuna prospettiva lo-soca, anzi – per me-glio dire – abbiamo

presenziato all’ingresso in pompa magna sulla scenaculturale nazionale di una “losoa di ritorno”: ilNew Realism (cui l’anglicismo non attribuisce per

incanto, come forse auspicano i suoi fan entusiasti,maggiore dignità teoretica). Per quanto nobile e al-tisonante possa apparire un programma che, nelleintenzioni dell’autore dell’agostano Manifesto delNew Realism («La Repubblica», 8 agosto 2011), illosofo Maurizio Ferraris, dovrebbe restituirci ilmondo “vero”, credo che la pur miracolosa triade“Ontologia, Critica, Illuminismo” che dovrebbegarantirci tale prodigioso effetto risulti alquantousurata dal tempo per poter mantenere una cosìmirabolante promessa.

La ripresa del realismo losoco come panacea deifunesti malanni causati dal “pensiero debole” e dalclima decadente della post-modernità (artatamentefatti coincidere per poter fare piazza pulita di en-trambi con un vistoso risparmio di mezzi) non af -fronta però, e neppure sora, le contraddizioni cheda Nietzsche in poi, ma soprattutto all’interno dellalosoa della scienza post-neoempirista, hannominato alla radice la prospettiva di un realismopuro e semplice. Vale a dire, le debolezze di unaprospettiva meramente e a-problematicamente

realistica, il suo appellarsi ad una verità indiscussae indiscutibile che intreccia, come ha ampiamentedimostrato Foucault, un legame indissolubile con ilpotere che di volta in volta l’assume e la conferma,

non vengono in alcun modo fronteggiate dal NewRealism, ma semplicemente rimosse. Non a caso,Ferraris piuttosto che prendere teoreticamente dipetto le aporie del realismo losoco (che lo hannocondotto ad essere superato nel Novecento da pros-pettive ermeneutiche e decostruttivistiche), da unlato si limita a proclamare la necessità di riabilitare“i fatti” e la ricerca della verità, dall’altro, per cosìdire, la butta sul politico («Left-Avvenimenti», 16settembre 2011).

Infatti, sin da subito il losofo s’ingegna programma-ticamente a tenere separato il suo “nuovo” realismodal “conservatorismo politico” di cui veniva tacciatoil vecchio, anzi fa di più, sostiene che è stato propriol’“avvento dei populismi mediatici” ad aver “fornitol’esempio di un addio alla realtà per niente eman-cipativo”. Il che equivale a sostenere che proprioperché non è giunto il mondo nuovo che le lo-soe politiche novecentesche avevano promessodenunciando le trappole, anche gnoseologiche ediscorsive, che ci tende il potere spacciandoci la

propria verità come l’unica possibile (Foucault eArent docent), tanto vale tenercela quella verità eprovare a sostenerla con un bel programma loso-co che poggi saldamente sulla roccia del “caratteresaliente del reale” e sulla sua “inemendabilità”.

Ora, il fatto che questo dibattito un po’ stantio abbiainammato i cuori sia a destra che a sinistra, rendeancora più sospetta la debole proposta losoca e,soprattutto, illumina l’intrinseca inconsistenza deldibattito culturale che il nostro paese riesce a per-mettersi in questo momento storico così dramma-

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Più neorealisti del re? (note a margine del dibattito sul New Realism)

tico. Giuliano Ferrara («Il Foglio», 22 agosto 2011)ha buon gioco nel denunciare il profondo livello dispaesamento degli intellettuali di sinistra, vedendolicostretti a ripiegare sulla tesi della Verità, da sempreappannaggio degli assolutismi di ogni natura, so-prattutto religiosi, ma di questo i tanti entusiastinew-realisti post-rivoluzionari non sembrano ren-dersi affatto conto, a giudicare dal giubilo che haaccolto sui loro giornali l’annuncio della ne della

post-modernità con l’accompagnamento di questaconfortevole, rassicurante e assai realistica minestrariscaldata.

Hilary Putnam, rigorosissimo epistemologo che dasempre si muove nel solco di un solido realismo lo-soco, ha di recente ricostruito («Il Sole 24 ore», 16ottobre 2011) il proprio personale percorso teoreticoall’interno di questo ambito di riessione sostenen-do di avere attraversato negli ultimi cinquant’annialmeno tutte le seguenti versioni di questa prospet-

tiva: dal “realismo scientico” positivistico a quello“minimale”, per poi attraversare quello “metasico”,in seguito abbracciare quello “interno”, dopo ade-rire a quello “del senso comune”, ma sempre conla solida convinzione che il “realismo scientico”sia l’unica concezione rigorosa in ambito epistemo-logico. Nel farlo, egli affronta alcuni dei nodi piùproblematici connessi a questa tesi losoca, maal contempo mostra come neppure del realismo c’èuna sola versione veritativa denitiva e assoluta.D’altra parte, la teoria della verità come corrispon-

denza alla realtà, la non coincidenza tra cose e fatti,il complesso rapporto tra “mondo” e linguaggio, lamolteplicità/relatività dei punti di vista, il conittodelle interpretazioni, il legame tra conoscenza epotere, che rappresentano alcune delle questioniteoriche più spinose che hanno in passato inciatol’approccio realista, hanno anche da sempre attra-versato la gnoseologia occidentale, conoscendo inepoche diverse risposte alternative alle antinomieche sollevano. In questo senso, il realismo stesso èrelativo poiché appronta, volta a volta, soluzionidifferenti alle problematiche che lo investono.

Sottrarsi alla confusione tra tesi losoco-epistemo-logica e visione politico-emancipativa, che vengonoparimenti evocate nella riedizione del realismo inversione “New”, è allora un dovere epistemologico,se non si vuole dare adito al sospetto che si tratti solodi una trovata da (l’espressione è di Wittgenstein)“giornalisti della losoa”. Oppure ad un altro dub-bio: che, come, nella migliore tradizione dell’accade-mia italiana, si stia solo assistendo pubblicamente

ad un parricidio simbolico (com’è noto, Ferraris èallievo proprio di quel Vattimo che sembra all’ori-gine di tutte le patologie “deboliste” post-moderneche vengono imputate agli anti-realisti), il che, agiudicare da quel che Ferraris pensa della psicoa-nalisi (“[…] si è industriata a ridurre tutte le colpe asensi di colpa non facendo un buon servigio all’uma-nità”), appare – soprattutto per chi ha a cuore le sortidel dibattito cultural-losoco italiano – molto, mamolto più preoccupante.

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