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01 numero Anno 1 N. 01 / Marzo 2012 - Periodico mensile - Editore e Proprietario: eBookservice srl C.F./P.I. : 07193470965-REA: MI-1942227. Iscr. Tribunale di Milano n. 324 del 10.6.2011. Il bene comune Studio Letterario ALeF docente

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Rivista dedicata alla cultura

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Il benecomune

Studio Letterario ALeF

docente

docenteSommarioIo Come Docente

Mensile d’approfondimento culturale a carattere monografico, sviluppato in collaborazione con lo Studio Letterario ALeFwww.studioletterario.it

Tema del numero:

IL bene coMune

La conoscenza come bene comune | 4di ugo Maria olivieri

I beni culturali come bene comune | 10di Fabio ciaramelli

La follia | 16di Pietro barbetta

Studio Letterario ALeF

EditorialeCari lettori, care lettrici,

Se il tema del numero zero, la Cina, cercava di dare un’identità ad una nuova realtà sociale ed economica emergente, il primo numero di Io come Docente entra di più nello spe-cifico quotidiano e si interroga sul bene comune - ma che cos’è il bene comune? Secondo la definizione cor-rente si intende uno specifico bene che è condiviso da tutti i membri di una comunità, certo è una definizio-ne onnicomprensiva perché va dall’a-ria all’acqua, dal diritto dei cittadini al suolo, col rischio però di azzerare ogni possibile differenza qualitativa. Al riguardo sono stati pubblicati mol-ti saggi , si sono tenute conferenze, l’ultima in ordine di tempo il 9 marzo a Napoli, e quindi sul bene comune tre docenti, un italianista, un giuri-sta e uno psicoterapeuta sviluppa-no il tema, basandosi sulla propria esperienza professionale. Se il primo affronta il problema della conoscen-za in un’epoca storica in cui “l’idea di un progresso indefinito della tec-nica viene sempre più percepita non più come una promessa ma come una minaccia alla sopravvivenza del pianeta”, ponendo molti interroga-tivi sullo sviluppo ecosostenibile, il secondo docente affronta il tema dei beni culturali in un Paese che vanta il più importante patrimonio artisti-co dell’umanità ma spesso per mio-pia politica e incuria amministrativa tesori archeologici sono a rischio, è il caso dei frequenti crolli a Pompei,

ma di certo l’intervento più suggesti-vo è il terzo, quello di Pietro Barbet-ta che tratta la follia. Forse la follia non è tanto un bene comune, nel sen-so classico del termine, però ora che ha assunto una dimensione sociale, è molto stretto il rapporto tra gruppo sociale e disturbo mentale, allora ha ragione l’Autore ad affermare che “la follia sia un bene comune”. Questa tesi provocatoria lo porta ad inter-rogarsi su scrittori rinchiusi in ma-nicomio come Sade e Maupassant, e poi su psichiatri che non esitavano a sottoporre i malati a pratiche mani-comiali invasive come la lobotomia; insomma l’intervento è utile per sdo-ganare la follia, farla uscire da una realtà altra da noi e inserirla appun-to nel bene comune, che riguarda, come dicevamo in apertura, i membri di comunità. Tutto questo presuppo-ne il superamento dell’alterità sano/malato e quindi modificare le proprie categorie mentali. Pensiamo quindi che in questo ultimo contributo, caro lettore, sia il senso della rivista, gettare un sasso nel mare dell’oggettività, far emer-gere il non detto riguardo a temi che sempre più spesso investono la no-stra vita personale.

Buona Lettura!Alessandro Bruciamonti

¶La conoscenzacome bene comune

Viviamo nel progresso, viviamo, cioè, dentro l’idea che il nostro tempo sia solo una parte di una linea continua destinata ad allun-garsi indefinitivamente e che lascia dietro di sé la luminosa scia di una progressiva crescita della tecnica.

Viviamo con il progresso, viviamo, cioè, con la convinzione che ogni stadio successivo al nostro tempo sia un passo avanti rispetto a quanto è accaduto prima e viviamo soprattutto con la convinzione che tutto ciò abbia un senso.

Tutto ciò è molto bello, ma non molto vero nel senso che questo progresso della tecnica non ci impedisce di sentire come problema-tica e precaria la nostra vita, non ci impedisce di percepire che la no-stra storia quotidiana è priva di senso ed esposta alla minaccia della recessione economica e della saturazione delle risorse ambientali. E ancora, l’idea di un progresso indefinito della tecnica viene sempre più percepita non più come una promessa ma come una minaccia alla sopravvivenza del pianeta.

Ugo Maria Olivieri

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“il fattore umano contro le pure logiche di profitto”

¶Come spiegare questa con-

traddizione, come interpretare questo iato tra quelle che po-tremmo chiamare delle “illusio-ni necessarie” rispetto all’idea di tecnologia e il nostro vissu-to quotidiano? Partiamo da una constatazione semplice che concerne il nostro utilizzo quo-

tidiano della tecnica. È sempre più evidente che noi usiamo la tecnica ma nella maggior parte dei casi non conosciamo i prin-cipi in base ai quali le macchine che usiamo funzionano. Siamo cioè utilizzatori passivi, la tec-nica ci domina e noi non la do-miniamo. Al fondo di tutto ciò vi è l’affermarsi di un modello di scienza sempre più costruito sull’idea che il fine ultimo del-la tecnica sia quello di favorire la produzione in funzione del

consumo. Questo modello di società del consumo è stato ul-teriormente reso “astratto” dal-la crescente sostituzione della produzione reale di merci con un meccanismo di produzione sociale astratta basato sul pre-dominio dell’economia finanzia-ria su quella reale. Un pensiero

scientista sempre più astrat-to e scollegato dallo sviluppo umano ha prodotto una società globalizzata che riduce tutti i comportamenti umani alla lo-gica dell’economia e ai soli di-ritti dell’individuo proprietario. Si è quindi prodotto un singo-lare rovesciamento di quelle che dovrebbero essere le rego-le di funzionamento di una so-cietà centrata sulla conoscen-za. Una società che dovrebbe essere aperta all’innovazione

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Ugo Maria Olivieri

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condivisa e partecipata, al libe-ro e produttivo scambio d’infor-mazioni e di ricerca tra pari e quindi favorevole alla mobilità sociale, si ritrova -investita dal-la crisi economica e indottrina-ta da un pensiero unico econo-micista - sempre più a tradire i suoi presupposti e a funzionare su logiche gerarchiche. Oggi la società della globalizzazione, lungi dall’essere una società aperta, è dominata da pratiche di appropriazione privata de-gli strumenti della conoscenza, un’appropriazione che va dalla crescente privatizzazione del settore dell’educazione, all’ac-centramento dell’accesso dei dati in Internet nelle mani di pochi grandi portali di ricerca, all’indirizzo della ricerca sem-pre più verso la ricerca appli-cata a scapito della ricerca di base.

In anni non lontani il premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom nel suo saggio La cono-scenza come bene comune ha paragonato la destrutturazio-ne del settore dei beni pubbli-ci della società globalizzata alle dinamiche manifestatesi nella società settecentesca, quando le recinzioni delle terre e dei

pascoli comuni avevano sottrat-to alle comunità locali l’accesso ai beni essenziali per la soprav-vivenza. Il concetto di “beni co-muni” che la Ostrom mette in campo riguarda quindi alcuni beni materiali, quali l’ambiente, l’acqua, il mare, ed immateriali, la salute, l’educazione, la cono-scenza scientifica e digitale che nel loro uso debbono rimanere accessibili ai soggetti sociali e debbono essere governati se-condo dei modelli di gestione estranei al profitto e alla pro-prietà esclusiva proprio perché si tratta di beni essenziali alla vita associata. Il concetto di commons tende, quindi, a supe-rare la distinzione moderna tra proprietà pubblica e proprietà privata e soprattutto a centra-re l’attenzione sull’ interpreta-zione di un comportamento an-tropologico, dato come naturale e incontrovertibile, e, invece, relativo e storico. Ossia che i soggetti sociali siano incapaci di comportamenti relazionali positivi e collaborativi mentre nell’accesso ai beni prevarreb-be sempre la logica del profitto individuale intensivo ed esclu-dente. Per la Ostrom, invece, è possibile verificare delle prati-

L’uomo aL centrodeLLa conoscenza

¶ Ugo Maria Olivieri

che di buon uso dei commons, dei beni comuni, da parte delle comunità, persi-no di quei beni connotati da una scarsità naturale, come l’acqua e l’ambiente, so-prattutto se si è in grado di disciplinare con una legislazione adeguata tale ac-cesso. Da noi, in Italia, questo tema dei beni comuni è stato ripreso sotto il pro-filo giuridico dalla commissione Rodotà sui Beni pubblici, insediata nel 2008. La novità delle conclusioni prodotte dalla Commissione Rodotà è appunto il tenta-tivo di fornire una definizione giuridica a tale categoria dei beni comuni che ri-fugge dalla dicotomia moderna tra pro-prietà privata e beni pubblici per ipotiz-zare una terza categoria centrata sulla tutela dell’uso pubblico e partecipato di

questi beni e su un modello di gestione basato sulla democrazia partecipativa. Non è un caso che alcuni dei membri della Commissione sono stati, poi, tra gli estensori della memoria per i refe-rendum sulla tutela della gestione pub-blica dell’acqua e che il concetto di beni comuni ha conosciuto una sua fortuna politica a partire dal movimento refe-rendario sull’acqua e sulla sospensione del nucleare.

Rimane ora da capire e da mettere in pratica un’estensione di tale concetto dai beni materiali, caratterizzati da un regime di scarsità, a beni immateriali, quali la conoscenza, che in ogni uso si accrescono e si moltiplicano invece di consumarsi. Un buon terreno di prova è la difesa del carattere di bene pubblico dell’istruzione universitaria. Sottoposta da alcuni anni ad un vero e proprio at-

tacco mediatico in nome di un’efficacia e di una produttività di tipo privatistico, l’università ha visto diminuire, in ter-mini percentuali e in termini assoluti, l’investimento di risorse pubbliche, con-centratesi tra l’altro sui settori scienti-fici e sui settori scientifici più legati ai processi di produzione materiale e im-materiale di merce. Questo processo è evidente anche negli usi linguistici e nelle denominazioni che percorrono i vari testi legislativi di riforma dell’istitu-zione. Se oggi si parla in termini di cre-diti e di debiti per misurare il sapere dei discenti, in termini di consiglio d’ammi-nistrazione e di valutazione d’efficienza per misurare i criteri di organizzazione del sistema formativo, e in termini di

produttività e di standard di qualità per misurare la ricerca scientifica ciò avrà pure qualche significato.

È evidente che una delle conseguenze di tale modello tecnocratico e privati-stico della conoscenza è la distanza che ormai si è determinata, anche in termini d’investimenti economici, tra la cultura scientifica e quella umanistica, una scis-sione che sempre più viene teorizzata come irreversibile ma che sempre meno appare come auspicabile anche dai set-tori scientifici più accorti della nostra cultura. La partita è aperta tra un’idea di università come “bene comune”, ca-pace di una formazione educativa com-plessiva del cittadino e non dell’utente, e una concezione dell’università come una variabile dipendente dal mercato e dalla produzione di merce-lavoro intel-lettuale.

La distinzione tra beni materiaLi e immateriaLi

9╡

Ugo Maria olivieri docente di Letteratura Italiana alla Fa-coltà di Lettere dell’Università di Napoli, ha curato testi di Roger Caillois, della rivista francese “Change”, di La Boétie e Pirandello. Tra le sue pubblicazioni: Le Immagini della critica, a cura di, (Bol-lati), L’idillio interrotto (FrancoAngeli), Lo specchio e il manufatto (FrancoAngeli), Un canone per il terzo millennio, a cura di, (Bruno Mondadori). Collabora con L’Indice dei Libri e con Il Manifesto.

i beni cuLturaLicome bene comune

Una quindicina di anni fa, grazie all’interessamento di Maria We-ber, Tra le proposte della Commissione Rodotà sui beni pubblici, che nel 2008 ha presentato un progetto di legge delega sui beni comuni, una di quelle più urgenti e disattese concerne a mio av-viso i “beni culturali”. Con questo termine ci si riferisce anzitutto all’ingente patrimonio artistico e archeologico, che in Italia risulta disseminato in tutto il territorio nazionale con una concentrazione che non ha eguali nel resto del mondo.

Due notizie di questi giorni danno un’idea precisa dell’incuria con cui la società italiana tratta il proprio patrimonio archeologico (ma non diversa, purtroppo, è la sorte di quello artistico e ambien-tale). Mi riferisco all’ennesimo crollo scoperto negli scavi di Pompei (è il diciannovesimo in otto anni, e questa volta riguarda la Casa della Venere in Conchiglia) e ai ricorrenti saccheggi della necropoli etrusca di Cerveteri, finalizzati a evitare la tutela Unesco in una delle aree archeologiche più importanti al mondo. In episodi del genere Pier Aldo Rovatti nel suo ultimo libro Noi, i barbari vede giustamente l’esempio eloquente della condizione barbarica in cui versiamo; la “sottocultura dominante” che le corrisponde induce a considerare i cosiddetti beni culturali solo come merci e valori di scambio.

10“la cultura elevata a bene

comune e al riparo dalla mercificazione”

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i beni cuLturaLicome bene comune

Fabio Ciaramelli

E perciò, con sconcertante miopia, se non si riesce a farli lucrare, li si abbandona al loro destino.

Per opporsi a questa deriva, la commissione Rodotà propone di far rientrare i beni culturali nel loro insieme all’interno della cate-goria dei beni comuni. Sembrerebbe solo un problema di cataloga-zione e definizione, ma è invece un’importante conquista storica e giuridica. Alla categoria di beni comuni, da tener distinti tanto dai beni privati quanto dai beni pubblici, appartengono tutta una serie di beni necessariamente condivisi, quali i fiumi, i laghi, l’acqua, i parchi naturali, le foreste; ma anche i beni ambientali e paesaggisti-ci e infine i beni culturali strettamente intesi. Ovviamente gran par-

╡te di questi beni sono anche risorse economiche, poiché rendono possibili attività redditizie e quindi produco-no benessere materiale. Ma innanzitutto i beni comuni rappresentano significati e valori sociali, che in alcuni casi costituscono un pre-supposto della produzione di reddito, ma in altri casi si limitano ad esprimere la coesione sociale e la visio-ne del mondo di una certa epoca storica. Non essen-do innanzitutto risorse, ma beni valorizzati dalla collet-tività, vanno salvaguarda-ti e tramandati per il loro intrinseco valore e non per il profitto monetario o eco-nomico che se ne può rica-vare.

In quanto si distinguo-no tanto dai beni privati quanto dai beni pubblici, i beni comuni possono avere come proprietari in alcuni casi dei privati cittadini, in altri casi delle istituzioni pubbliche (il demanio dello Stato o altri enti). In nessun caso, quindi, il loro statuto di beni comuni dipende dal carattere pubblico o privato del loro proprietario. Dipende invece essenzialmente dal loro uso. Ciò che caratterizza i beni comuni, allora, è il fatto che questi beni siano necessariamente condivisi, perché, come scrive la commissio-ne Rodotà, essi “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico,

“la cultura come valore fondamentale per l’individuo”

Fabio Ciaramelli

13anche a beneficio delle generazioni future. […] In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva”.

Con queste parole, la proposta della commissio-ne Rodotà registra e traduce in linguaggio giuri-dico una presa di coscienza socialmente diffusa,

condivisionepatrimoni dell’umanità, patrimoni del singolo

condivisione

secondo la quale poter usufruire di certi beni è ormai considerato un diritto fondamentale degli individui, un elemento necessario allo sviluppo della personalità cia-scuno. Ragion per cui – implicazione essenziale – occor-re imperativamente garantirne il beneficio anche alle generazioni future, con tutto quel che ne consegue in termini di tutela dei beni comuni.

Oltre alla condivisione e alla salvaguardia delle ri-sorse naturali, rientra a pieno titolo tra i beni comuni la dimensione dei beni culturali, cioè di quei “beni comuni virtuali e artificiali” che, come ha scritto Carlo Dono-lo, “l’intelligenza umana ha progressivamente creato, in termini di conoscenza, saper fare, istituzioni, norme, visioni”. A ciò s’aggiunga la dimensione della tecnolo-gia, cioè l’insieme dei dispositivi attraverso cui si ren-de possibile e produttivo l’interscambio uomo-natura. In questa accezione allargata i beni comuni culturali, oltre a rendere funzionale ed efficace il rapporto degli esseri umani con i beni comuni naturali, conferiscono a questo stesso rapporto senso e valore, rendendolo espressivo di significati culturali condivisi.

Rispetto ai beni comuni naturali, quali ad esem-pio aria e acqua, i beni comuni culturali sono vissuti con minore consapevolezza della loro importanza. Tut-to al più li si vede come un supplemento o un’aggiunta, magari fornita d’una sua spettacolarità che in alcuni casi potrebbe rivelarsi anche redditizia. Ma tutelare i beni culturali in quanto beni comuni, cioè beni necessa-riamente condivisi, non significa farne oggetto d’inve-stimento economico solo in vista d’un possibile ricavo. Significa invece vedervi un fattore essenziale di promo-zione umana. La tutela dei beni culturali come beni co-muni sarà anche nell’immediato un’attività improdutti-va, ma è una forma indispensabile per la salvaguardia e la promozione di quel che fa umana la vita: la civiltà.

patrimoni dell’umanità, patrimoni del singolo

Fabio Ciaramelli

Fabio CiaraMelli

Fabio Ciaramelli è professore ordinario di Filosofia del diritto presso il Dipartimento Seminario Giuridico dell’Università di Catania. Traduttore italiano di Casto-riadis, La Boétie e Levinas, è membro del comitato di redazione della Revue philosophique de Louvain ed edi-torialista del Corriere del mezzogiorno. Il suo volume più recente è L’immaginario giuridico della democra-zia (Giappichelli, Torino 2009).

http://www.lex.unict.it/didattica/scheda_docente.asp?id_do-cente=83

¶La foLLia

saLuteun bene comune

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L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che la salute è un bene comune. Io penso che la follia sia un bene comune. Qualcuno po-trebbe sostenere che chi pensa ciò sia folle a sua volta. Non lo escludo, non credo che la follia appartenga solo a chi ha abitato la partizione manicomiale. Come operatore del-la salute mentale mi sento più vi-cino alla follia che alla psichiatria dominante di questi tempi. Una psichiatria fatta di diagnosi raf-fazzonate e semplificate, lontana mille miglia dal velleitario procla-ma dell’OMS, che viene sistemati-camente calpestato dalle pratiche sanitarie.

Chi non ricorda scrittori come Erasmo o Robert Burton che, pri-ma della grande partizione mani-comiale, hanno elogiato la follia, la melanconia. Burton (1577-1640) pubblicò L’anatomia della malin-conia nel 1521 firmandosi Demo-critus junior. Non era medico, era pastore, aveva studiato a Oxford ed era noto per la sua profonda co-noscenza dei classici. La sua opera prende spunto dall’incontro tra il medico Ippocrate e il filosofo De-mocrito, affetto da malinconia. Si tratta di uno dei pochi casi in cui il medico si mette nella posizione di imparare dal paziente. Ippocrate

apprende dal paziente e dal filoso-fo. La filosofia, vera dottrina della mente umana, viene per la prima volta riconosciuta come superiore in sapienza e competenza alla me-dicina. Ciò non accadrà quasi più fino a Freud, ove divenne noto che gli psicoanalisti laici (da Melanie Klein a Cesare Musatti) avranno qualcosa d’importante da dire in psicoanalisi.

Democrito spiega a Ippocrate che la vera follia è quella del mer-cato, nel V Secolo prima dell’era cristiana già si era ben compresa la scultura di Cattelan davanti alla Borsa di Milano. Dopo Ippocrate, ma ben prima di Burton, la lista è assai lunga: Aristotele, Galeno, i filosofi arabi, i monaci della tar-da antichità cristiana, Agostino, la cultura medievale fino a Petrarca hanno scritto a proposito dell’ec-cesso d’intelletto nel malinconico, Satur-nous.

Chi non sa di letterati e artisti rinchiusi durante l’epoca manico-miale: Sade, Maupassant, Nerval, Campana. Le donne, numerosissi-me: Camille Claudel, Lucia Joyce, Janet Frame, Alda Merini. Colo-ro che, dentro la follia, diventano scrittori/artisti: Schreber, Wolfson, Zinelli, Merati. Le forme in questo caso sono due, quella dello scrit-

Pietro Barbetta

tore/artista rinchiuso per la mole-stia delle sue opere, oppure perché alterna alla scrittura/arte una vita dissennata, quella del folle che co-mincia a scrivere o a dipingere per trovare una via d’uscita alla follia.

Ci sono casi particolari, come quello di Flaubert o Dostoevskij. La monumentale biografia sartriana di Flaubert, in cui l’idiozia dell’au-tore è descritta come una sorta di autismo che si trasforma e produce la grande opera letteraria. Dove si costruiscono il personaggio isteri-co di Emma Bovary o le allucina-zioni di sant’Antonio. La capacità polifonica di Dostoevskij, descritta dal suo più grande studioso Michail Bachtin, che forse aveva condiviso la stessa sorte, Dostoevskij sotto lo spionaggio zarista, Bachtin, il suo studioso, sotto quello stalinista.

Pratiche oppressive se ne sono perpetrate e se ne perpetrano an-che fuori dai manicomi. Si pensi soltanto all’agghiacciante camion-cino sanitario (la lobotomobile) guidato da Walter Freeman per le circa tremila lobotomie a domici-lio, persino a casa Kennedy, o gli interventi intrusivi e rieducativi subiti da Marilyn Monroe, per re-stare alle sofferenze dei Kennedy. E oggi, proprio mentre scrivo, si pensi a quante persone sono legate ai lettini degli ospedali psichiatrici giudiziari e di molti servizi non giu-diziari in Italia.

Poi c’è chi, come a Trieste e alla clinica La Borde, il manicomio l’ha aperto, ridando vitalità alla follia,

Franco Basaglia, Jean Oury, Felix Guattari, Ronlad Laing. Oppure chi ha esaltato la schizofrenia come possibilità dell’esistenza (Deleuze e Guattari), chi ha irritato il letto-re usando il linguaggio della follia (Joyce), ecc. Un elenco che non ter-mina, una classe indefinita di ope-re dei folli, sui folli, ispirate dalla follia, che elogiano la follia, che evocano i linguaggi della follia.

Moosbrugger, personaggio folle dell’Uomo senza qualità, fa scrive-re a Musil: “Se l’umanità potesse fare un sogno collettivo, sognereb-be Moosbrugger”, contadino paz-zo, serial killer, compagno d’arme di Jack lo squartatore, il chirurgo che obbediva agli ordini della Re-gina Vittoria. Cose terribili. Eppu-re la follia si sostiene tra il vuoto della demenza, il Lennie di Uomini e topi, e il pieno della malinconia, il Democrito di Ippocrate. Nel bel mezzo di queste eccedenze si collo-ca l’isteria, una follia del corpo, un male che sta sempre altrove. Mai dove lo cerchi, sempre da un’altra parte, come il libro della biblioteca di casa.

Oggi assistiamo a una regressio-ne dell’umanità. Si tratta del nuo-vo tentativo di nascondere la fol-lia. Dopo un ventennio di follia che ha liberato i pazzi, ritorna la follia come vergogna, come improdutti-vità, come dis-funzione. La prima mossa è l’invenzione degli antide-pressivi contemporanei. Di nuovo il lemma ultimo ritrovato si presenta come formula positivista, progres-

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Pietro Barbetta

sista. La questione non consiste nel farmaco in sé, che può anche gio-vare. Quanta gente in più lo riceve? Quando uscirono questi prodotti si parlò della pillola della felicità, vent’anni dopo le prime ricerche sull’in-duzione al suicidio degli SSRI.

Voci sostengono che l’acronimo, prima di essere SSRI, fosse SUI. SSRI sta per Selective Serotonine Reuptake Inhibitors (inibitori selet-tivi della ricaptazione della serotonina). La prima versione era Seroto-nine Uptake Inhibitors (inibitori della captazione della serotonina). Il meccanismo consiste nel rallentare i tempi di permanenza del neuro-trasmettitore serotonina tra il suo rilascio da parte di un neurone e la sua captazione da parte dell’altro. Tuttavia SUI non andava bene per il marketing, è l’inizio di SUIcide. La Nemesi vent’anni dopo.

condivisionela follia come questione sociale

E’ uscito di recente un documen-tario di Fabrizio Zanotti, L’orizzon-te del mare. Parla di folli, ospedali giudiziari, manicomi tra Otto e No-vecento, e di una certa psichiatria oggi (contenzioni al lettino, sommi-nistrazioni farmacologiche in assen-za di una diagnosi chiara, senza il consenso, porte chiuse, trattamenti sanitari coatti a migliaia). Si tratta di un viaggio di Maurizio Salvetti, sociologo, e Massimo, ex internato in manicomio criminale. Massimo si unisce a Maurizio, alla ricerca di modi e abitudini di cura del disagio e della sofferenza.

Così com’è in scena al Piccolo di Milano il monologo di Giulia Lazza-rini , le memorie di un’infermiera di Trieste tra prima e dopo Basaglia. Si racconta una strana idea, che piano piano si fa strada nei pensie-ri dell’infermiera. L’idea che il folle

sia un cittadino, come gli altri. Che non possa essere privato delle li-bertà in assenza di crimine, come recita la Costituzione. Il folle non è un criminale e la follia è patrimonio dell’umanità.

Che la follia sia una questione so-ciale e di relazione è evidente fin dalle prime dichiarazioni riguardo alla sua insorgenza. Il paziente del medico ha dei sintomi propri, il fol-le no. Non accompagnerò mai un amico o un parente dall’internista dichiarando che mi fa male la sua pancia. Mentre il delirio è sempre qualcosa che riguarda l’altro che lo considera tale. Io ho il diritto di raccontare i miei deliri all’analista, purché si manifestino nella forma del sogno. Ho il diritto di chiede-re di pubblicare un delirio, purché trovi un editore o un gallerista con-senziente. Fuori da ciò, lo sfondo di queste possibilità, si chiama follia.

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una sentinella dell’essere che non è vergogna,né disfunzione.

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Pietro Barbetta

╡Pietro barbettainsegna Teorie psicodinamiche presso l’università di Bergamo, è didatta di psicoterapia presso il Centro Mi-lanese di Terapia della Famiglia, collabora con il Centro Isadora Duncan e coordina il seminario permanente Ba-teson, Deleuze, Foucault www.bidieffe.net

i casi celebri della nostra cultura

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