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NUR - Rivista di Cultura e Identità di Sardegna - II Serie - n° 0 - Ottobre 2011

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Illustrazione: John Picking - 2001

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… E s’aberint is gennas.Chene cundennastorra a cumenzai su camminu.In sa punta arziada de su destinuti torru a attoppai… po cantai.

NURses tui aintrue no ddu sciria,ses tuifrori de scrariapo dis lieras.Scedas noas bettimìpo comprendi sa nottide dogna dì.

Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

II° Serie - Numero 0Ottobre 2011

Autorizzazione del Tribunale di Cagliari

N. 25/99 del 23-07-1999

Direttore responsabile

Gavino Maieli

CondirettoreM. Antonietta Seu

Redazione

…E s’aprono le porte.Senza remore

riprendi il tuo cammino.Nel punto più alto del destino

è bello rincontrarti… per cantare.

NURsei tu dentro

e non sapevo,sei tu

fiore d’asfodeloper giorni liberi.

Buone nuove portamiper comprendere la notte

di ogni giorno.Enrico FanniGiannella Bellu

Daniele CossedduErica DemuruAndrea Nateri

Veronica MaieliMarta Marceddu

Roberto RattuNawal Razik

Elisabetta SabaMarzia Sanna

Josephine Sassu Maria Sassu

Annamaria Sechi

Direzione e Amministrazione

Via S’arrulloni 2809126 Cagliari

c/o Gavino Maieli

Cell: 339.8847966 – 348.2922202Email: [email protected]

Web: www.nursardegna.it

Edizioni NURJANAPROGETTO GRAFICO

YOUSARDINIA per Edizioni NURJANA

STAMPAMax Grafica di Massimiliano MancaVia Montello 18/a - 09122 - Cagliari

Tiratura: 150 copieChiuso in tipografia il 28/09/2011

Per la pubblicità: YOUSARDINIA - Tel: 349.2265243

Anna Cristina Serra

NUR

Copertina: Gianni Argiolas - 2001

Per augurio alla nuova rivistae per testimonianza d’amore

alla parola “NUR”.che sia parola di radici lontane

capace di far fiorirenuove speranze

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pag. 1pag. 3pag. 5pag. 6pag. 6pag. 7pag. 7pag. 7pag. 8pag. 8pag. 9pag. 10pag. 10pag. 10pag. 11pag. 12pag. 12pag. 13pag. 13pag. 14pag. 15pag. 16pag. 17pag. 17pag. 18pag. 18pag. 19pag. 19pag. 20pag. 21pag. 21pag. 21pag. 22pag. 22pag. 23pag. 23pag. 24pag. 24pag. 24pag. 25pag. 25pag. 26pag. 26pag. 27pag. 27pag. 28pag. 29pag. 29pag. 30pag. 30pag. 31pag. 31pag. 31pag. 32pag. 32

Questo filtro spremuto alle brughieree dal seno dei boschi,dai vertici dei monti e dal respirodegli abissi mariniti correrà le vene in un languoredolce e amaro di malinconiache forse chiamerai mal di Sardegna

Marcello Serra

SOMMARI

O

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Nur - A. Cristina SerraCon quei Padri nel cuore - Gavino MaieliPensamentu de unu becciu piscadori de Sa Marina - Aquilino CannasNur, il primogenito dei sardi - Sergio GinesuLa più antica attestazione della parola “nuraghe” - Giulio PaulisNur - Giovanni LilliuLa Sardegna fra Ottocento e Novecento - Manlio BrigagliaUna parabola discendente - Carlo PillaiSos Alighieris sardos - Larentu IlieschiA is “poetas” campidanesus - Faustinu OnnisSenza peli sulla lingua - Intervista a Leonardo SoleBalente - Nereide RudasAquila - Mario LicheriMusica in piazza - Francesco AlziatorS’Istoria manna de Nur - Francesco MasalaSardegna, terra di canti ed incanti - Giacomo SerreliDue culture musicali a confronto - Angelo FilippiniUn “Inno” di emozioni - Luciano SechiUn Coro nel canto, un Coro nella vita - Paolo PuddinuIl lato oscuro della grande Madre - Claudia ReghenziNajuka - Vincenzo PisanuLo sciamanesimo in Sardegna - Intervista a Dolores TurchiSa pipia ‘e maju - Roberta MuscasA volte serve una mano d’aiuto - M. Giuseppina GregorioLa basilica di Santa Croce - Giancarlo BuffaVerdaderas descripcion de la Isla de Sardeña - M. Cristina CannasY narrame como aman los poetas - Gabriella Orgolesu Ispadas de sole - Franceschino SattaE deo, Maria Carta - Maria Carta Ricordo Maria - Francesco Cossiga Quella voce tra immaginario e realtà… - Salvatore MannuzzuCaro direttore… - Lycia Santos do Castilla L’ultimo canto libero - Andrea ParodiRicordo di Fabrizio De Andrè - Raffaella SabaIn viaggio con Sergio Atzeni - Marco MelisMio padre Gavino Delunas - Vanda Delunas“Sardi fuori Sardegna” tra solidarietà e cultura - Tonino MulasBergamo e la Sardegna: impegno di un’amicizia - Mario Pomesano Bentu de Terra Manna - Francesca UtzeriMarcinelle - Annamaria SechiOnorevole Presidente, Onorevoles Consizeris… - Battista IsoniAttualità di un processo di duemila anni fa - Virgilio LaduDomenico - Giovanni MaieliNote storico-politiche su lingua e cultura in Scozia - Walter PerrieMinoranze linguistiche: il Cimbro - Alessandro NorsaDe “Sa Scomuniga…” - Faustinu OnnisUn saio d’amore e di speranza - Intervista a padre Salvatore MorittuBallo a tre passi - Intervista a Salvatore MereuLa tessitura in Sardegna: Sarule - Natalia CusinuCucina di Sardegna - Giovanni FancelloBarbagia - Vanna FloreAnche questa è Sardegna - Franco LissiaTerra di mandorle amare - Raimondo ManelliLa poesia improvvisata in Sardegna - Liceo Ginnasio “G. Asproni” – NuoroSos sinnos - Liceo Scientifico “A. Segni” – Ozieri

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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Con quei Padri nel cuore

Quando sette anni fa NUR dovette sospende-re le pubblicazioni, per motivi che è sempre la vita a stabilire al di là della volontà degli uomini, rimase fermo un proposito: torna-

re ad esserci, con identica convinzione, con rinnovato im-pegno. Quel proposito si è realizzato: siamo di nuovo qui, come allora, con la stessa passione e con la stessa dignità che hanno segnato anni e anni di intensa partecipazione.

Con questo Numero Zero NUR ritorna a nuova vita, con lo stesso spirito che per diversi anni ci

ha consentito di essere presenti nella vita culturale del-la Sardegna. Molte cose nel frattempo son cambiate, da un punto di vista culturale, economico, sociale. E non sempre in meglio, anzi! Essere di nuovo partecipi rap-presenta quindi quasi un dovere, anche per rispetto dei valori forti e dei forti legami che ci uniscono a tante per-sone che ci son state vicine allora e che ancora hanno la voglia e l’entusiasmo per essere protagonisti insieme.

Molte cose son cambiate, a cominciare dalle tec-nologie moderne che allora non c’erano e che

oggi offrono ben altre possibilità. Cercheremo di utiliz-zarle con intelligenza, potendo peraltro contare su forze giovani ed entusiaste. Un progetto che si basava sul motto “NUR: dal passato il futuro della sardità”, non poteva del resto non ricorrere alla collaborazione di persone giovani che avessero, e non solo anagraficamente, un futuro da-vanti. E’ stato però inatteso e sorprendente l’entusiasmo con cui ragazzi e ragazze, in Sardegna e fuori Sardegna, hanno accettato di mettere a disposizione la loro curiosi-tà, la loro freschezza, la loro voglia di non perdere le radici ma di andare a scoprirle nella loro profondità, misurandosi in una esperienza del tutto nuova, stimolante ma non pri-va di incognite come quella che caratterizza la vita di una rivista culturale. Si è lavorato a lungo per favorire questo incontro di forze nuove e spesso diverse tra loro, per cre-are una miscela positiva e propositiva tra antico e moder-no, tra passato e futuro. Ora si può dire che il gruppo ha iniziato a prendere forma e si sta impadronendo dei nuovi strumenti, contribuendo con idee, con proposte, con al-legria, a costruire una nuova “palestra” di cultura come lo fu S’ISCHIGLIA di Angelo Dettori e di Aquilino Cannas.

Nel preparare questo Numero Zero abbiamo ri-tenuto però che fosse giusto e doveroso, prima

di impegnarci con tutte le nostre energie in questa nuo-

va avventura, dedicare un pensiero ai tanti che ci hanno accompagnato nella prima esperienza di NUR. Molti or-mai devono fare i conti col carico degli anni, molti non ci sono più; molti son stati i nomi importanti, tanti i nomi meno noti ma non per questo meno cari. Da lì l’idea di un numero che riportasse momenti della vecchia espe-rienza, un pezzetto di ognuno per mettere insieme un mosaico, un pensiero unico di quello che NUR è stata e ha significato. Piccoli frammenti, tanti semi, oserem-mo dire, da lanciare in un terreno che ci sembra fertile, e nel quale cercare di far germogliare altre piante che nel tempo possano crescere forti e rigogliose. Un pas-saggio di testimone, quindi, un “ponte” tra l’esperienza vissuta e quella che ci siamo proposti di costruire. Un omaggio, certo, ma anche la promessa di un impegno.

Un pensiero particolare va tuttavia a chi a suo tempo ha seminato e curato i germogli di allora:

Aquilino Cannas, Faustino Onnis e Lorenzo Ilieschi. Riusci-re a ricostruire qui, in poche righe, il loro ruolo, il peso che hanno avuto, singolarmente e insieme, nella storia della cultura sarda, non è cosa semplice. Sicuramente l’espe-rienza di S’ISCHIGLIA è quella che di più ha caratterizzato la loro vita intellettuale. La loro opera però non può esse-re compresa compiutamente se non viene inquadrata nel tempo in cui hanno vissuto. Erano anni particolari, anni di profondi cambiamenti nella realtà economica e sociale della Sardegna. Erano anni di dolorose emigrazioni verso terre sconosciute, verso popoli diversi e non sempre di-sposti all’accoglienza, anni di duri sacrifici e di grandi fa-tiche per venir fuori da una miseria non solo economica senza pari. Ma proprio in quella sofferenza sono germo-gliati i semi di una visione nuova delle cose, una visione non più chiusa nella realtà immobile e immutabile dei nostri villaggi, sempre uguale a se stessa, ma disponibile alla novità, all’apertura. La poesia registrava tutti questi fermenti, e attraverso la poesia e i dibattiti su di essa si cercavano nuove strade, nuove soluzioni che andavano al di là del semplice verso. Durissime al proposito le diatribe tra i sostenitori della poesia in rima e quelli della poesia a versi sciolti, laddove lo scontro non riguardava semplice-mente un modo diverso di scrivere, ma un modo diverso di concepire la realtà, mettendo di fronte chi voleva rima-nere ancorato al passato, alla immobilità del passato, e chi invece, pur salvaguardando la specificità di una storia

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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incancellabile, era disposto a guardare oltre, a misurarsi con possibilità diverse, e sino al momento inesplorate. Era-no anni in cui S’ISCHIGLIA proponeva riflessioni di straordi-naria importanza per la nostra terra, dai temi dell’identità (percepita come qualcosa di poco chiaro, vissuta “d’istin-to”, per cui si capiva che essere sardi doveva pur avere un significato, che però rimaneva da definire nei suoi contor-ni e nella sua complessità), ai temi del campanilismo, volti al superamento di modalità tribali, spesso infantili, che dividevano, e ancora purtroppo dividono, sassaresi e ca-gliaritani, campidanesi e logudoresi, in un intreccio di po-sizioni ridicole e sterili per cui per esempio ancora oggi si discute, ma è un modo di ucciderla, su quale sia la “vera” lingua sarda. E così fino alle sollecitazioni verso una poesia che fosse sempre più capace di “leggere” in profondità l’anima della Sardegna e verso le soluzioni che la narrativa in lingua sarda può offrire. Senza dimenticare le durissime prese di posizione sulle leggi non scritte per le quali solo con la morte di chi consideri nemico puoi soddisfare il tuo odio, sulla base di codici che tanto sangue e tanti lutti hanno scaraventato sui nostri villaggi e che non sono più accettabili in una comunità che solo nella vita può trovare il filo della speranza. Su questi temi si spendevano ore, per cercare di capire, per cercare idee nuove, per trova-re le parole giuste, le più convincenti: bisognava rendersi conto che non era quella la strada da seguire, che non stava in quella cultura dell’odio il futuro della nostra terra.

Anni eroici, si può dire, anni nei quali scrivere in sardo non era considerato propriamente un

merito, anzi spesso era motivo di denigrazione se non di scherno. Eppure è grazie a quel lavoro umile, quasi si-lenzioso però tenace, che oggi esiste la possibilità di non scomparire, la possibilità di avere dei progetti culturali che non trascurino le ricchezze del passato, ma che su quelle ricchezze costruiscano le fondamenta per una cul-tura nuova, moderna, aperta al mondo. Aquilino Cannas, Lorenzo Ilieschi, Faustino Onnis, in questo processo han-no avuto un ruolo determinante, da grandi Padri che per questo scopo si sono spesi con tutta la loro passione e il loro entusiasmo, senza risparmio. Con Mario Licheri, oggi “disterradu in Franza”, al quale va un fortissimo abbraccio, tutti insieme si era, semplicemente, “quelli di S’ISCHIGLIA”.

Oltre a queste considerazioni, che non esaurisco-no certo il discorso e non completano il quadro

di quanto in quegli anni si è fatto, e per il quale bisognerà avviare un lavoro specifico, restano le riflessioni persona-li. Dire del rimpianto per persone che ti hanno regalato a piene mani la loro esperienza, il loro affetto, la loro pas-sione, è del tutto impossibile. Non si possono descrivere né le emozioni, né gli insegnamenti, né le attenzioni che giorno per giorno, per decenni, questi uomini ti hanno tra-smesso. Se oggi NUR c’è è perché ci sono stati questi Ma-estri, premurosi, dolci, severi, esigenti: Sardi! Sardi nella

loro dignità, Sardi nella loro combattività, Sardi nella loro dolcezza: orgogliosi nel portare avanti le loro idee, gra-nitici nel tener fede ad un impegno, solenni nel trasmet-terti un valore. Straordinari nel consegnarti una bandiera! “E non può provare a dir di no!” esclamavano quando si trattava di affidare compiti delicati ed impegnativi che comportavano una grande responsabilità. Sorridendo, ma con ben poco da ridere: non si poteva dir di no, non per loro, ma per la tua terra, che loro ti hanno aiutato ad amare in profondità e per la quale era giusto mette-re a disposizione quell’amore grande. E non si può dire di no ancora oggi: la grandezza dei padri sta nel riuscire a trasmettere un impegno, una motivazione ai figli. E loro sono stati dei grandi Padri, capaci di trasmettere un pa-trimonio grandissimo di idealità e di onestà intellettuale.

Ci mancano. Certo che ci mancano! E ci man-cheranno tanto, sempre. Ma sappiamo che la

vita è così. Gai est! Ed è da accettare, perché questo è il naturale corso delle cose: il dramma, e loro lo hanno anche vissuto, pesantemente, semmai è quando sono i padri a seppellire i figli. Per questo è giusto continua-re in serenità, con la stessa dignità e lo stesso orgoglio che sono stati capaci di insegnare, è giusto continuare anche per loro perché molto di loro c’è in quello che è possibile fare. NUR quei valori li terrà stretti e cercherà di trasmetterli anche in questa nuova edizione, sapen-do che comunque, in qualunque momento, non si sarà mai soli: quei grandi Padri, nel cuore, ci saranno sempre. Con la loro ironia, con la loro dolcezza. Più vivi che mai.

Gavino MaieliDirettore di NUR

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A unu chemu seus torraus, arrenconausin s’arruga ’e Su Fortinu, arrimaussenz’acconnortu e senz’ ’e faina,chi no c’è prus genti ’e arremu, in sa Marina.E custu e’ suzzeriu apustis de sa gherra,apustis de sa gherra su sciaccu nd’est arruttu,isciaccu mannu po tottu is appendizius:isperdiu Stampasci, mesu sderruttu Casteddu ’e Susu,Biddanoa chi no teni prus ortus e ne giardinus,e nosus!... a nosus su tempu de nd’arregolli is trastuss’hanti lassau! e pigaus si ndi funti is bascius,pigaus a unus a unus, po ci oberri buttegase magazinus (is bascius nostrus sempri allichirius,segaus aintru ’e s’arrocca antiga,friscus de istari e callentis de ierru).Pagus o nisciunus c’est aici atturau.E no est accabau. Infattu, su mercau beccius’hanti furau! su mercau mannu aundi portamusin carinu a bendi friscu su pisci ancora sartiendi...No! Non sa gherra ha fattu custu dannu! No sa gherrasi immoi nisciunus ghetta prus arrezza a mari biu,puita finzas su mari hanti bocciu! E non po sa gherrasa genti s’e’ fuia, si finzas is cresiasimmoi hanti serrau! chi a ci passai de dominigu a mengianumanc’anima bia has’a incontrai,... e su logut’hara parri unu mortoriu, una tristurade mundu isperdiu e frastimmau.Ohi Casteddu Casteddu! Chi dopu millantae millant’annus arrutta ses in malas manus!arrutta in manus arrennegaras,arrutta e sfigurara,... bella chi fiasta!Bella chi fiasta in oru ’e mariintra a montis e intra a istaniscomenti de giunchigliuse de arrecaras cuncordara...Bella chi fiasta! Bella chi fiasta in bell’ariaslimpia e cumpria: asseliara!...E immoi brutta e dirrutta: iscempiara.Ohi Casteddu! Casteddu bella che reina! Ohi!chi no tenis prus genti ’e arremu, in sa Marina.

Pensamentu de unu becciu piscadori de sa Marina

Aquilino Cannas

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Non capita di sovente, nella vita di un ricercatore abituato a ricostruire gli eventi che modificano il paesaggio e a rideterminare le forme antiche di un territorio, di imbattersi in un deposito fossilifero ed in resti fossili che permettono una più attenta ricostruzione degli eventi geologici più recenti.

Studi precedenti avevano permesso di ritrovare almeno due giacimenti nei quali si percepiva la presenza dell’uomo, sebbene essi risalissero a periodi in cui si ritiene che l’uomo come specie ancora non esistesse. Proseguendo questi stu-di abbiamo condotto una campagna di ricerche per ricostruire il territorio della Sardegna come doveva essere all’arrivo del primo uomo, nel Pleistocene medio superiore (500mila – 200mila anni fa).

Durante questa attività ci venne segnalata la presenza di un giacimento fossile all’interno di una piccola ed angusta cavità carsica in territorio di Cheremule, nel Mejlogu settentrionale. Il giacimento si rivelò subito ricchissimo ma quasi banale, caratterizzato dalla nota fauna di quel periodo rappresentata da cervi, specie di volpi , animaletti simili ai conigli ed altri piccoli roditori.

Ciò che invece attirò la nostra attenzione, fu la posizione del giacimento all’interno della grotta; infatti, anziché tro-varsi in prossimità dell’ingresso, le ossa giacevano sparse verso la fine del condotto. Si intensificò in tal modo l’analisi di questo territorio; tale analisi si concretizzò nella scoperta dei resti di quello che possiamo considerare il primogenito dei sardi.

Per esperienza personale ho imparato a non trascurare la toponomastica del luogo; la stessa grotta prende il nome di Nurighe, con un’etimologia che a noi sardi è familiare, e ciò fu determinante nel convincermi a battezzare quest’uomo Nur.

Uno dei dati più importanti emersi dallo studio è l’età della colata di basalto che ha chiuso l’ingresso della casa di Nur. La colata ha un’età assoluta di 300 mila anni; per la prima volta si trovano resti umani in Sardegna così antichi e per la prima volta si può avere una datazione così certa della sua età.

Nur è rimasto sepolto per trecentomila anni a lato della strada statale 131 Carlo Felice, una strada che tutti i sardi hanno percorso almeno una volta nella loro vita, passando senza saperlo vicino a quei resti quasi come in un inconsa-pevole atto di riverenza verso gli antichi avi.

Un’iscrizione monumentale latina del I sec. d.C. incisa sull’architrave del nuraghe “Aidu Entos”, nei pressi dell’an-tica stazione di Molaria, ha restituito recentemente nella determinazione locale in Nurac Sessar la più antica attestazione della parola “nuraghe”. Essa precede di ben mille anni quelle immediatamente successive, quali

nurake de Guthoppor (CSP, 311), nurake de coruos (CSP, 430), nurake d’annauos (CSP, 403), nurake de gollettoriu (CSP, 202), ecc., anch’esse riferentisi a delimitazioni confinarie.

Però si pone un problema interpretativo, che interessa tanto l’epigrafista quanto il linguista: il termine nurac del costrutto locativale in Nurac Sessar è l’abbreviazione grafica della forma piena nurace, intesa come ablativo sing. di un tema in –ax/-acis, oppure è sic et simpliciter la forma protosarda dell’appellativo per “nuraghe” non ancora integrata all’interno del sistema declinazionale latino?

Alcune considerazioni inducono a propendere per questa seconda eventualità e quindi per l’ipotesi che in paleosardo la parola per “nuraghe” fosse nurak.

Nur, il primogenito dei sardi

La piu’ antica attestazione della parola “nuraghe”Giulio Paulis

Sergio GinesuIstituto Scienze Geologico Mineralogiche Università degli Studi di Sassari

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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In questo mondo che cambia an-che noi sardi dobbiamo definirci in un’identità nuova. Una identità

forte, robusta, che viene dalle radici profonde, fondamento del presente, ma che guarda e che progetta per il tempo a venire con uomini nuovi. Una identità abile a confrontarsi con l’Eu-ropa. Ma l’Europa delle tante culture, delle tante nazionalità, delle tante patrie; l’Europa delle regioni e dei popoli. Senza privarci della luce, del senso della civiltà del Mediterraneo.

L’identità in molti sardi è ancora allo stato di emozione, meno di co-scienza, meno di ragionamento che porta a riconoscerci in tutto nella propria terra, a essere cittadini, a ti-tolo pieno, della nazione Sarda. E ciò senza negarci al respiro del mondo. Dunque cuore e cervello, radici e ali.

La nostalgia, che ci porta un balsamo di conforto nel nostro luogo e ci pren-de a scoramento in terra straniera, non basta per l’impresa che ci aspetta nel secolo che viene. Identità, autono-mia è anche capacità e intelligenza di fare. Vuol dire camminare da sé, trac-ciare i propri sentieri. I sardi hanno un codice genetico superbo. Lo pon-gano a frutto in una frontiera nuova.

Giovanni Lilliu

L’età giolittiana è considerata una sorta di “età dell’oro” nella storia del nostro Paese. Anche

in Sardegna essa è stata un periodo di crescita e di modernizzazione: gli eser-cizi industriali raddoppiano, gli occu-pati crescono del 50 per cento, l’im-piego dei cavalli a vapore aumenta.

Lo stesso quindicennio che vide il decollo dell’Italia come potenza in-dustriale fu anche contrassegnato da una serie di elementi negativi, primo fra tutti il radicalizzarsi della “questio-ne meridionale”, cui corrispose l’in-gigantirsi del fenomeno dell’emigra-zione. Anche i più importanti eventi modernizzatori dell’età giolittiana in Sardegna ebbero risvolti di for-te malessere sociale. Nel settembre del 1904 le miniere videro l’eccidio di Buggerru (2 morti e 11 feriti nello scontro tra soldati e minatori in scio-pero), nel maggio 1906 l’aumento ge-neralizzato del costo della vita diede luogo, soprattutto nella Sardegna me-ridionale, ad una serie di vere e pro-prie sommosse che da Cagliari a Quar-tu, a Selargius, a Pirri, ai diversi centri dell’Iglesiente, al Sarrabus, al Gerrei, sino a Bonorva, Cossoine, Terranova si conclusero con oltre 10 morti (a Cagliari, a Gonnesa, Nebida, Villasal-to, Bonorva), diverse decine di feriti, più di cento arresti nella sola Cagliari.

Manlio Brigaglia

Nella seconda metà del XVIII secolo l’opera di svecchia-mento delle strutture politi-

co-economiche della Sardegna con-dotta dal Bogino durante il regno di Carlo Emanuele III si estese, come è noto, anche al campo della cultura.

In questo clima di generale cam-biamento che naturalmente abbrac-ciò diversi altri campi, notevole fu il ruolo esercitato dalle nuove idee pro-venienti d’Oltralpe col conseguente allineamento della nostra cultura con quella europea. E’ la novità di questo nuovo clima congiunta col trauma della sostituzione nella burocrazia e nelle scuole dell’italiano allo spa-gnolo che ha contribuito alla nasci-ta di una coscienza nazionale sarda.

Carlo Pillai

NURLa Sardegna

fra Ottocento e Novecento

Una parabola discendente

L’uso del sardo da parte degli intellettuali dal riformismo sabaudo all’unità d’Italia

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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In Sardigna, dognunu a modu sou,cheret sa limba sarda unificare,e a forza de tantu inciapuzzare

est naschidu unu cumitadu nou.

Sos cumponentes, postos a su prou,su sardu l’ischin pagu mastigare,

ma sa Regione est pronta a isborsaretantu pro issa totu faghet brou.

Como, segundu cussu cumitadu,chi unu libereddu hat postu in giru,

hat inie sas regulas fissadu.

Barbagia, Logudoro e Campidanu,tres limbazos passadu hat in chilirusenza distingher ne paza ne ranu.

Ma non si miran zertu in cuss’ispijusos chi su sardu han sutu in su cabiju.

Cantai, o fradis bonus de coru,su prexu de sa vida sempri bella:in s’abettu de dda biri prus novellain totu Campidanu e Logudoru.

Cantai: su mundu riccu de virtudi,s’umanidadi pren’ ‘e valentia,sa biadesa de s’omi’ in cumpangia,su traballu in bona sorti, e sa saludi.

S’esistenzia, in dogna circustanzia,candu puru est in pena e in dolori,sa bellesa, sa bonesa de s’amoririccu de siendas mannas de amiganzia.

Po chi su cantu siat de veras cantucapassu a s’omi’ de ddu fai intendi’ biu,cantai, cantai cun cuddu spiritu nodiude stima o de arrabiori chen’ ‘e prantu

ma riccu di esperienzias in peleacomente s’abi po biviri in is froris,cantai, e cantai puru is oras, is colorischi pintant sa dì cand’est a nea.

Cantai, o fradis bonus de coru,sa poesia prus bella e sa prus dignachi onorit custa terra de Sardignain totu cantu Campidanu e Logudoru.

Sos Alighieris sardosCorreddada in LA minore

Larentu Ilieschi

A is “poetas” campidanesusFaustinu Onnis

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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Di rara intelligenza, bravo, preparato, ge-neroso, sensibile, rigoroso con se stes-so e con gli altri, amante della giustizia e della precisione, coerente, ma anche po-

lemico, spigoloso, permaloso, eccessivamente diretto e tutt’altro che diplomatico, a volte persino intrattabi-le. Sono soltanto alcune delle definizioni che si danno di Leonardo Sole, uno dei maggiori e più rappresenta-tivi uomini di cultura sardi. L’interessato che ne pensa?

Penso che l’unico modo di trattare decentemente con gli altri consista nell’essere se stessi. Ma que-

sto implica scelte severe che la gente non comprende e, se le comprende, non le accetta. Peccato! Perché se non sei te stesso non puoi dialogare, e quindi crescere, con l’altro.

Il problema della lingua sarda e della sua conser-vazione-valorizzazione. Sulla base dell’esistente, il

suo parere qual è?

Ho dedicato la mia vita di studioso e di uomo im-pegnato (anche con ruoli importanti a livello na-

zionale e internazionale) allo studio e alla tutela della lin-gua sarda. E’ stato un piacere, ma anche una sofferenza, perché tutte le volte che rientravo da una visita di studio in una delle tante minoranze linguistiche d’Europa, mi ri-trovavo nella solita contraddizione: mentre tutti erano or-gogliosi della loro lingua, qui in Sardegna dovevo di volta in volta dimostrare che esiste una cosa chiamata lingua sarda. Son passati trent’anni, e ancora oggi viviamo tra gli equivoci, i sotterfugi, le furberie e i particolarismi. Una

cosa sola sopravvive e, anzi, tende a dilagare tra i fauto-ri della lingua e della cultura sarda: quella che possiamo chiamare “regressio ad uterum”, l’identità sentita come un rifugio nostalgico in un passato che non è mai esistito. Raramente si sente dire che l’identità vera è ciò che resta di un confronto, anche duro, con l’altro (l’Italia e il mondo).

Come far sì, a suo avviso, che in nome di una lin-gua sarda unica e unificata, non scompaiano o

ne risentano in qualche misura le varianti linguistiche della nostra isola?

Si tratta di un falso problema, al quale sono par-ticolarmente affezionati i sognatori e tutti quel-

li che concepiscono la lingua come un dato, vale a dire come una ciambella di salvataggio cui aggrapparsi con-tro i marosi della vita moderna, e non come un proces-so. Purtroppo si tratta della maggioranza. Basti dire che in una Regione pigramente assorbita in tutt’altre faccen-de, che però ha avuto un colpo d’ala, quello di pensare a uno standard della lingua sarda, c’è stata una vera e propria sollevazione da parte di non pochi intellettua-li sardi, rancorosamente abbarbicati alle radici uterine e non alle autentiche matrici della lingua e della cultu-ra. Una grande occasione perduta. Purtroppo – ma que-sto non giustifica la lotta a testa bassa contro lo stan-dard – ci sono stati, come al solito, non pochi equivoci.

Paolo Sanna

Senza peli sulla linguaLa Sardegna tra passato e presente, tradizione e modernità

Intervista a tutto campo con Leonardo Sole

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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Nato nel segretodell’alturapetrosa, elementare,quasi ostilecavalcaval’idea della bravuradel valore della virtù virile.Nella sfidadella sua culturacombatté,ribellandosi, sul Carso.

Una patria ignota,forse oscuraservìcon la sua vitanon servile.

Soldato,bandito, giustizierefedelealla sua cavalleriavisse/morìsotto la norma ardita

della duraobbligante balentia.Io della mentee dell’avventuraignaro ful’inutile balented’un mondo estintoprima che esistente,futile curvaturadella radente sorteignaro ful’immobile figuradell’effimera morte.

Aquilaseiperché sorvolii minuscoliroditoriche si ritengonoumani.Aquilaerinel deserto

dove abitaDio e l’inferno.Però,se aquila è rapace,aquila non sei,tuche mai attacchil’agnelloe l’indifesocucciolo d’uomo.

Le pennedelle tue alisono fattedi parole leggere, di verbiaffilaticome arresoialussurgesa.

(ad Aquilino Cannas)

Le trombe intessononell’ariagrave della sera estivaimmensi arruffatigomitoli di suono.Come un tuonoscroscianterullano i tamburi

scordatie la babilonica ridda dei metalliche vibranoe scintillano tersiper la sua scorribandamalvagiasopra la folla muta.

BalenteNereide Rudas

AquilaMario Licheri

Musica in piazzaFrancesco Alziator

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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Ite cheret narrere NUR? Est una paraula indoeuro-pea, comente a narrere, sempre in limba indiana, su Mana o su Karma de sa “Sarditudine”.

Duncas, est cosa zusta, propriu in custa rivista chi leat su numene da-e custa pa-

raula de antigoriu, de dare unu bonu saludu a su liberu de Eliseo Spiga, chi est unu contadu subra s’istoria manna de NUR.

Eliseo est unu de sos “babbos mannos” de s’indi-pendentismu culturale sardu: da-e sos tempos de

sa “Rivolta contr’a su colonialismu”, de feltrinellianu am-mentu, a sos tempos de “sas chimbe dies de Pratobello”, cando in su Municipiu de Orgosolo bi fit iscrittu: “Inoke se-mus a Reprubrica”; da-e sos tempos de “Città-Campagna” a sos tempos de “Nazione Sarda” e de sa “Leze de iniziati-va populare pro su bilinguismu perfettu”; da-e sos tempos de sa “Confederazione Sindicale Sarda” a sos tempos de oe, de su “Circulu rivoluzionariu pro sa sarda zenia”.

Su contadu de Eliseo est intituladu “Capezzoli di pietra”, comente a narrere, bortadu in limba sar-

da, “Cabijos de pedra” o “Simingionis de perda” o “Tittas de pedra”. Insomma, metaforicamente, “Sos Nuraghes”. Est un’istoria manna, un’istoria de deris, de oe e de cras, tota s’istoria manna de NUR, s’istoria malefadada de sa zente sarda, da-e sos tempos de sos nuraghes fattos de pedra fumiga a sos tempos de sas chejas fattas de ozu de pedra. Est unu contadu longu-longu, fattu mesu-mesu de “Iscienzia” e de “Utopia”.

Unu inzegneri, de numene Nurghulè, cassintegra-du de una fabbrica de petroliu, benit puntu da-e

una zinzula e si leat sa malaria. In mesu a sos dillirios de sas frebbas malaricas, Nurghulè torrat a su naschidorzu fedale, intro sas intragnas de sa mama sua, NUR.

In sos bisos de sas frebbas, sa Sardigna li paret co-mente l’haiat disizada: chenza barcas fenicias,

chenza mercantes cartaginesos, chenza legionarios roma-nos, chenza giuighes bizantinos, chenza quintas armadas ispagnolas, chenza buginos piemontesos, chenza fabbri-cas milanesas, chenza frebbas malaricas, chenza chininu de istadu.

E, gai, s’inzegneri Nurghulè ponet manu a su frai-gu de milli nuraghes e, in giru a donzi nuraghe,

una ‘idda, fatta de pinnetas. In peruna ‘idda b’haiat Re, ne Pontefice, ne Generale Comandante, ca totu sas cosas

fin in podere de tota sa zente de sa ‘idda e donzi ‘idda ha-iat sos gherreris suos, zigantes corrudos cun battor ojos e battor manos, prontos a sa gherra contr’a sos inimigos chi ‘enian da-e su mare.

A la narrere tota, sos dillirios de sas frebbas malari-cas daian a Nurghulè s’idea chi sos milli nuraghes

de NUR fin pius altos de totu sas piramides de Egittu.

Ma, in su contadu de Eliseo Spiga, b’hat puru una maravizosa istoria de amore. Nurghulè, una die

de ‘eranu, torrende da-e cazza, attoppat una femina etru-sca, bennida da-e su mare impari cun marineris perdula-rios in chirca de ossidiana, sa bomba atomica de antigoriu.

Sa femina etrusca, de numene, si narat Mysal. Est una pobidda zovana, hermosa e galena, cun sos

ojos biaittos, colore de sas violas. Un’ojada sola tra issos duos e una fiamarìda de amore brujat ambos coros.

A manu tenta, bestidos de luna, sos duos amora-dos intran in d’un’’adde fiorida: bona zente, crei-

de a mie, sos continentales han imbentadu medas cosas, ma s’amore tra omine e femina l’hamus imbentadu nois, sos de NUR! Nemos, mezus de Nurghulè, podiat cunten-tare a Mysal.

Franziscu Masala

Post scriptum. Caro Eliseo, ti invidio le tue febbri mala-riche, che ti hanno permesso un folle e meraviglioso stravolgi-mento storico: cioè, trasformare la nostra storia di vinti in storia di vincitori. Ma, caro Eliseo, l’unica, vera, malattia del tuo sin-golare racconto consiste nel fatto che è scritto in lingua italiota. E’ una malattia di tutti i sardi. Ed è una malattia senza rimedio, perché, in nessuna scuola sarda, è stato, mai, introdotto l’inse-gnamento della lingua sarda, “sa limba de NUR”.

S’Istoria manna de NUR

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

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E’ difficile ritrovare in un’area territoriale tan-to limitata un patrimonio musicale così ricco e variegato di espressioni come quello che si ri-

scontra in Sardegna. La musica tradizionale sarda è in assoluto una delle più ricche ed antiche del Mediter-raneo e si manifesta in canti polivocali o monodici e nell’uso di strumenti alcuni dei quali tipici dell’isola.

L’esperienza trentennale del Coro di Usini rappre-senta una delle manifestazioni più appropriate del ricco repertorio della polivocalità sarda, che ha reso popolari brani come “Adios Nugoro amada” del ca-nonico Antonio Giuseppe Solinas; “Nanneddu meu” di Peppino Mereu; “Non potho reposare” di Salva-tore Sini, musicata da Giuseppe Rachele nel 1921.

Sono anche altre però le forme attraverso cui il variega-to patrimonio etnomusicale sardo si esprime. Una delle forme più originali è senz’altro il canto a tenores, un can-to corale affidato a quattro voci esclusivamente maschili e tipico dell’area barbaricina, nel centro della Sardegna.

Ancora molto diffuso è il canto a chitarra, che si svi-luppa nel confronto tra due o tre cantori, accom-pagnati da un chitarrista, che a turno ripetono lo stesso componimento musicale gareggiando con va-rianti melodiche e strutture sempre più complesse.

Di fondamentale importanza è poi il repertorio di canti liturgici e professionali; grazie all’opera delle confraterni-te religiose, sono ancora vivi in centri come Castelsardo, Cuglieri, Santulussurgiu ed Orosei, e testimoniano l’inne-sto dello stile polifonico popolare in moduli musicali di estrazione colta o liturgica, specie gregoriana e bizantina.

Ricchissimo anche il panorama di canti monodici non accompagnati, alcuni estremamente arcaici come l’an-ninnia (ninna nanna), il duru duru (dall’arabo duru che significa girare, filastrocche per far ballare sulle ginocchia i bambini), l’attitidu o attitu (pianto funebre affidato esclu-sivamente alla voce femminile della lamentatrice accom-pagnata da altre donne).

Il confronto tra il canto popolare sardo e il canto popo-lare valdostano, pur evidenziando precise differenze tra queste due culture, mostra tuttavia anche signifi-

cative analogie.Gli aspetti che uniscono le due culture sono rappresen-

tati soprattutto dai luoghi d’esecuzione dei canti, che sono gli stessi della vita, la casa, la campagna, la chiesa, la piaz-za, la cantina, e dal modo con cui il canto è espresso, un modo naturale, l’opposto di quello con cui viene espresso normalmente un brano di musica dotta. Un altro aspetto comune è quello della spontaneità, la quale sembra ge-nerare una sorta di grammatica musicale del genere po-polare; da questa spontaneità sono emersi infatti quegli abbellimenti di cui è ricca la melodia sarda e che ne co-

stituiscono un elemento caratteristico. Senza fioriture la linea melodica sarebbe priva di movimento e di anima.

Pure essendo, quella della Sardegna e quella della Valle d’Aosta, due culture molto diverse, è possibile trovare più di un elemento in comune, soprattutto nel canto popola-re. Questo esalta il valore e l’importanza di questo tipo di canto, poiché riesce a coinvolgere e a legare tra loro cul-ture che hanno modi differenti di sentire e di esprimersi, con un vincolo forte di emozioni come quelle che il Coro Sant’Orso e il Coro di Usini da tempo si scambiano, in un rapporto di fraterna amicizia. E questo grazie all’amore comune per un modo di cantare che da secoli rappresenta la più grande possibilità di incontro tra i popoli.

Sardegna e Valle d’AostaDue culture musicali a confronto

Angelo FilippiniCoro Sant’Orso – Valle d’Aosta

Sardegna, terra di canti ed incanti

Giacomo Serreli

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L’ho scritto d’istinto. Col cuore. E’ venuto fuori da solo, in un attimo, all’improvviso. E poi, senza ren-dermene quasi conto, “mi è scappato di mano”. E se

n’è andato per conto suo per le strade del mondo. Nato come pura musica militare, l’Inno della Brigata “Sassari” ha oltrepassato in brevissimo tempo le mura delle caserme, portato in tutti i nostri villaggi e fuori dalla Sardegna dai militari della Brigata.

Ho scritto le parole e la musica unicamente usando il cu-ore e i sentimenti di figlio di Sardegna, e forse è per ques-to che quest’Inno è tanto amato, forse perché rispecchia l’amore dei sardi per la Brigata “Sassari”, un amore che ha radici antiche ed è tuttora fortissimo perché in quella Brigata i sardi si riconoscono, per la fierezza, per l’orgoglio, per il carattere, per il tributo di dolore e di sangue che ogni paese della Sardegna, anche il più piccolo, ha versato per le sorti dell’Italia.

Le insegne della Brigata “Sassari” sono il simbolo di una storia antica, dal Carso, dal Piave, dalle trincee tormentate e insanguinate della guerra 15-18 sino alle montagne del-la Bosnia e della Croazia nella seconda guerra mondiale. Oggi i tempi sono cambiati, il ruolo dei nostri soldati non è più quello di un tempo, non vengono chiamati più ad operazioni di guerra per affrontare un nemico; oggi ven-gono impiegati in missioni di pace, vengono chiamati a dare un aiuto a popolazioni distrutte da anni di guerra e di devastazione, popolazioni che sanno di poter guardare ai “diavoli” della “Sassari” con occhi di speranza. Non è cam-biato però lo spirito, la fedeltà ad un ideale, una fedeltà che non si paga col denaro: certi valori non possono es-sere vissuti da mercenari, si è fedeli perché si crede, non per una ricompensa. E si crede insieme, insieme si guarda avanti, verso traguardi di pace e di civiltà.

Devo riconoscere di essere un uomo particolar-mente fortunato. Nella vita ho avuto esperienze eccitanti e momenti di grande pace interiore. Ho

girato il mondo, goduto a piene mani delle sue folgoranti bellezze. Ho frequentato persone di ogni classe sociale, sentito parlare lingue di ogni parte del globo. Mi sono trovato in mezzo al turbinio di una tromba d’aria nel de-serto afgano; ho visto il sole scomparire dietro le ciclop-iche mura di Angkor in Cambogia. Sono stato folgorato dalle tonalità del più vicino mare di Stintino e ammaliato dalla sabbia abbacinante del mare di Alghero. Ho visto i colori dell’India, sono stato travolto dai suoi indimen-ticabili odori e dal formicolare della gente nel mercato di Hyderabad. Mi sono tuffato nell’Oceano Indiano e nell’Oceano Pacifico, ho riposato sotto altissimi banani festanti di scimmie. Ho assaporato per anni il verde delle Alpi giapponesi e rinvigorito il corpo nelle salutari

e abbondanti acque termali del Giappone. Sono stato a contemplare le cime di Lavaredo. Ho calpestato il lastri-cato della piazza Tien An Men di Pechino. Ho assistito alla strabiliante trasformazione della città di Shanghai. Ho visto fiorire sulla sabbia la ricca città di Dubai…

Mai nulla però mi ha preso quanto il piacere che provo ogni volta nell’osservare il senso di amicizia che lega tra loro i componenti il Coro di Usini. Mi colpiscono sem-pre per il senso di attenzione che li lega gli uni agli altri. Nonostante le diverse età e i diversi ruoli, sanno ascol-tarsi con rispetto: nessuno vuole primeggiare, nessuno impone il suo punto di vista, nessuno urla, nessuno offende. Sanno ascoltare e ascoltarsi. Non so se siano trenta o trentacinque, so però che dimostrano di essere una cosa sola: un Coro. Un Coro nel canto, un Coro nella vita.

Un Coro nel canto, un Coro nella vita

Prof. Paolo Puddinudocente di Storia e istituzioni dell’Asia -Università di Sassari

Un “Inno” di emozioni

Ten. Col. Luciano Sechi

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Esistono luoghi, sulla splendida isola, dove il tempo ha fermato la sua corsa, dove le pietre, posate da mani primitive, rimangono immote e immutabili, per permettere all’uomo di oggi

di vivere, per un attimo, la medesima esperienza. Si trat-ta dei pozzi sacri nuragici, scavati nella profondità della terra, costruiti in modo tale che, in certe notti di plenilu-nio, nei solstizi d’estate, la luna poteva affacciarsi proprio sopra l’imboccatura e abbracciare così l’acqua, che nei pozzi si trovava, trasmettendovi un po’ della sua potenza e mistero.

La visione dei pozzi sacri nuragici, attraverso i sim-boli del cerchio, del buco di serratura che ricorda

la vulva femminile, dell’acqua raccolta nella parte più pro-fonda, non può che evocare l’idea della Grande Madre, ossia di quell’Essere Supremo dalle illimitate capacità cre-ative che detiene il mistero della nascita e lo trasmette agli altri esseri umani, alla terra, alle piante, agli animali.

Tutti proveniamo da un corpo di donna, tutti gli es-seri umani conservano la memoria di quello stato

edenico, fusionale, in cui si è uniti, indifferenziati e total-mente dipendenti l’uno dall’altra. E poi… lo strappo, quel trauma indicibile e indimenticabile, ma unico e necessario affinché il figlio possa essere messo di fronte alla necessi-tà del suo “divenire soggetto” al mondo.

La nostra vita si origina dunque da una separazione, così come la fine, che ci separa dalla vita per ripor-

tarci al regno della Madre. Dal punto di vista simbolico, questi due momenti non possono che dare un’indicazio-ne su un possibile modo nuovo di relazionarsi. Separarsi dall’oggetto fusionale significa “venire al mondo”, ritorna-re alla simbiosi significa morire.

L’angoscia della separazione continua a riprodurre in noi il desiderio della ricongiunzione con l’ogget-

to originario che ha soddisfatto i primi bisogni, ed in par-ticolare il bisogno di essere amati; così il bambino cerca l’oggetto nella madre, l’amante cerca l’oggetto nell’amata, l’emigrante cerca l’oggetto nella propria terra. Ma questa disperata ricerca ci riporta continuamente alla schiavitù della dipendenza dal bisogno che l’altro può soddisfare, la nostra felicità viene totalmente demandata all’altro, impedendo di diventare, ciascuno di noi, “matrice” della propria vita.

Eppure il destino dell’uomo è quello di uscire dal-la dipendenza per ritrovare se stesso, così come

il figlio, per crescere, deve staccarsi dalla madre. Ma per fare questo deve sperimentare ogni volta il dolore della separazione, senza per questo temere la distruzione del rapporto, perché solo distanziandosi da ciò che costituisce un unico amalgama il soggetto può “vedersi” ed amare l’altro come identico. Il divenire è possibile, dunque, solo attraverso la relazione con l’Altro e, via via che si rinnova-no gli incontri con il mondo, l’individuo, se solo ne diventa consapevole, può arricchirsi di quella diversità che ugual-mente gli appartiene, perché della stessa natura sono fatti gli esseri umani e la stessa sostanza psichica li ha plasma-ti, in ogni paese, in ogni luogo della terra.

Ma quale amore può esserci nel volere l’altro per sé, simile a sé, con gli stessi progetti o gli stessi

sentimenti? Quale amore può esserci nelle madri che in-segnano, con lucida freddezza, l’odio e la vendetta? Questi sentimenti implicano un continuo investimento, una co-stante attrazione verso quell’oggetto, impedendo l’aprirsi di un orizzonte nuovo. L’odio e la vendetta non possono che richiamare uguali risposte, in una catena senza fine. Ad ogni figlio, che voglia diventare adulto, spetta il compi-to di spezzare questa catena. Ad ogni madre che ama dav-vero il figlio, spetta il compito di scioglierlo dall’abbraccio divorante, perché amare significa volere che l’Altro sia.

Certo l’Archetipo della Grande Madre, come tutti gli archetipi, essendo una funzione preformata

della psiche, comprende e trascende la madre personale ed include tutti i simboli che ad essa fanno riferimento, compreso la Madre Terra, quella terra tanto amata, dai sardi come da tutti coloro che hanno abbandonato il luo-go natio, che li tiene indissolubilmente legati ad essa attra-verso il sentimento della nostalgia. La nostalgia rimanda, inevitabilmente, al desiderio del ritorno al luogo origina-rio e primario, alle tenebre calde e accoglienti dell’utero materno, dove regna la quiete ma non si è ancora vivi. La Vita ha bisogno di essere “animata” e “pensata”, se non c’è corpo non c’è vita, ma se non c’è il pensiero che riflette la vita, essa non ha altrettanto significato.

Claudia Reghenzi

Il lato oscurodella Grande Madre

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Fiat torrau a innì a iscusi, anca fiat scoppiada sa mina chi nci haiat sprondiu in artu totu a follas a follas sa carri martoriada de is tres giovunus.

Su sordau italianu fiat torrendi a s’accampa-mentu, is duas piccioccas amharas andaiant

a bendi’ crobis prenas de mercanzia chi portaiant a conca. Si fiant incontraus propriu asub’’e sa mina, in sa bia chi de Gondar andaiat a Azozò. Sa scena bida de pagu distanzia dd’haiat totu assustrau.

Lambrighendi a ogus prenus, conc’a terra, non si fut acatau di essi’ in cumpangia assungutendi. Arziendi

sa conca, dd’haiat bida apartada, a una pariga ‘e metrus de distanzia: prangendi ddu castiada. Is ogus unfraus de lagrimas pariant chi ddi pregontessint su poita. Fut stetiu avvertiu de diffidai de totus, feminas e ominis nieddus, mannus e piccioccheddus, ma custa fut a trassa de crabit-tu feriu, e ddu castiada ancora senz’’e bogai fueddu. Fut abarrada aici e totu po finzas candu issu s’indi fiat arziau e si fiat avviau a s’accampamentu po donai sa sceda.

Sa notti, is tres fileras de tendas postas in pamentu de terra, a or’a oru de su laghixeddu sacru de sa cittadi

santa di Axun, fiant abarradas mudas. Nisciunus haiat fat-tu cantus de montagna a cuncordu ni canzonis di amori a sa sarda. Marchigianus, sicilianus e trentinus, citiant. Is abruzzesus pariat chi intendessint su dolori de is sardus po su cumpangiu andau.

No podendi dormiri, si fut incamminau me in s’argini bascia de su laghixeddu. Sa sentinella dd’hiat arre-

gordau de fai attenzioni, e issu si fiat firmau giustu accanta de is matas prus mannas. Fumendi, circaiat de cumprendi’ su poita fessit in cussu logu bellu i aresti anca nci fiat sceti genti morta de famini e ominis nieddus chi moriant a ogus

sprappaddaus. Sa sigaretta fut a s’urtima tirada candu hiat intendiu su stragazzu accanta i avvertiu sa puba chi lestra fiat fuendisì.

De scattu, si fut tirau de costau a sa mata, proteggendi su corpus e sighendi sa puba cun s’oghiada. Luegus,

coment’’e unu guettu fut scappau a curri’ avatt’’e s’umbra intra comas e cambus, finzas a candu custa nci fiat arruta a terra imburchinendi a corpu in sa currera. S’inci ddi fut ghettau asuba stringendiddi su corpus, e dd’haiat puntau su pugnali in su zugu. Fut abarrau spantau candu si fut acatau di essi’ cassau una femina. “Naiuka!” dd’hiat nau issa, castiendiddu cun ogus de crabittu feriu, “Naiuka! Buana!” haiat torrau a nai.

Si fiant torraus a agatai in su propriu logu, a de notti, candu is aterus cumpangius fiant asutt’’e is tendas.

Issu dd’haiat pensada, e in coru suu aspettaiat de dda tor-rai a biri. Fut stetiu senz’’e nai unu fueddu. Naiuka siddi fut accostada a fiancu mentris issu, sezziu, fumaiat narba arridada imboddicada cun papereddu ‘e seda. In fundu in fundu, fiant duus piccioccheddus chi in coru teniant su propriu dolori, uguali timoria, e in is ogus portanta su pro-priu limpiori.

In is nottis chi s’incontranta tremiant de timoria e de disigiu, perdius aintru ‘e unu bisu chi ndi scorrocaiat

tot’is barrieras de s’odiu. S’amori haiat conquistau is duus giovunus in is sensus e aintru de s’anima insoru.

Non nd’hiat fueddau cun nisciunus, fiant passaus quattru mesis e nemus hiat scipiu nudda de cust’a-

mori segretu, biviu e passau cun Naiuka me is logus prus impensaus, in oras furadas a cua e consumadas cun fervo-ri e sentidu. Naiuka, arta comenti sa luna, frisca comenti su mengianu prenu ‘e luxi…

Naiuka cun su corpus de carrubaNaiuka chi donat a manus prenasNaiuka po oras de gosu serenasfuradas a custu logu di amarollaNaiuka chi si tremit che una follacandu imprassada s’aberit a s’amoriNaiuka chi scabiddat che unu froria sa luxi de mengianu arrosinauNaiuka…su santu chi t’hat criaucantu ti stimu e cantu ses bella tui…

Vincenzo Pisanu

NaiukaLiberamenti ispirau a “Good night sotto la Croce del Sud” de Gavino Oggiana

omaggiu a s’autori

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Le parole sciamanesimo e sciamano richiama-no alla mente culture lontane e misteriose. Si-gnora Turchi, cosa vuol dire sciamanesimo? E perché “Sciamanesimo in Sardegna”?

Lo sciamanesimo potrebbe essere definito una forma di religiosità primitiva. Si basa sulla capa-

cità che hanno alcuni individui di entrare in rapporto col mondo dei defunti mediante una trance e di ottenere dagli spiriti aiuti e informazioni da utilizzare a beneficio della comunità in cui operano.Bisogna però dire che nel mondo occidentale il termine sciamanesimo è stato spesso stra-volto e si tende a considerare lo sciamano una specie di stregone. Giustamente lei osserva: “Perché sciamanesimo in Sardegna?”. La nostra cultura dovrebbe essere al di fuo-ri di certe concezioni. Eppure tante manifestazioni a carat-tere magico e tanta medicina popolare praticata da noi fino a mezzo secolo fa rimandano in modo chiaro a forme di sciamanesimo che nella nostra isola si sono protratte per millenni. Non venivano però definite col termine di sciamanesimo, ma con altre parole. Ad esempio, il sinodo di Ales e Terralba del 1696 denuncia molto chiaramente pratiche sciamaniche messe in atto da alcuni individui e riferisce il termine con cui il popolo le indicava: andare in calazonis.

Quali gli elementi caratteristici dello sciamane-simo?

Innanzi tutto la capacità di guarigione attribuita agli sciamani, poi la divinazione, ossia la conoscen-

za del futuro; due facoltà che venivano frequentemente esercitate dalle persone che praticavano lo sciamanesimo in Sardegna. Nel nostro ambiente si trattava in prevalen-za di donne molto esperte nella conoscenza delle piante medicinali, comprese quelle allucinogene. Queste donne dovevano aver acquisito una grande pratica nel dosaggio delle erbe, tanto da riuscire a procurarsi una trance o delle allucinazioni tali da avere la sensazione di “volare”, quasi l’anima potesse staccarsi dal corpo per raggiungere altri mondi e incontrare gli spiriti cui chiedere aiuto a beneficio delle persone che a loro si rivolgevano.

Un’altra delle caratteristiche che uno sciamano doveva possedere era il dominio del fuoco. Esi-

stono in Sardegna varie leggende legate al potere del fuo-co. Di queste leggende non è più chiaro il significato. Se però si conoscono gli studi fatti da Mircea Eliade sullo scia-manesimo nelle varie parti del mondo e su come un tempo gli sciamani riuscivano a dominare il fuoco, allora appare chiaro il significato di tali leggende. Si capisce allora che la prova del fuoco era uno dei mezzi attraverso il quale lo sciamano poteva dimostrare la sua potenza, naturalmen-te con l’aiuto degli spiriti.

Torrare a su connotu è importante per conoscere su chi no est connotu, dentro e fuori di noi. Che

significato e che importanza può avere questo sforzo, culturale e non solo, per il futuro, psicologico e sociale, della Sardegna e dei sardi?

Torrare a su connotu ha importanza non per la pura curiosità di conoscere il passato, ma per acquisire

una maggiore consapevolezza del presente. Questa con-sapevolezza crea delle certezze che portano a fare scelte equilibrate, ad affrontare il futuro con più responsabilità. Se si conosce il passato è più facile un confronto proficuo con gli altri popoli. Salvando le cose positive de su connotu siamo avvantaggiati nelle scelte future e nel cammino da percorrere e ci è più facile salvaguardare la nostra iden-tità.

Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Lo sciamanesimo in SardegnaLa vita e la morte in Sardegna attraverso miti, riti e credenze

Intervista a Dolores Turchi

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

La figura antropomorfa femminile continua a co-municare all’uomo il suo arcaico linguaggio sacra-le. Non dobbiamo sorprenderci se tale retaggio lo

si trovi proprio nella società infantile, società che è stata ritenuta da alcuni studiosi come fra le più conservative, e in una dimensione ludica, dimensione depositaria di pa-recchi culti del passato.

Si tratta di un gioco calendariale, praticato dalle nostre nonne nella loro infanzia il primo maggio, denomina-to sa pipia ‘e maju, la “bambola o bambina di maggio”. Tale bambola, protagonista principale del rituale ludico, veniva costruita dalle stesse bambine con i fior d’oro (il Chrisantemum coronarium, denominato in lingua locale su caraganzu), fiori che in primavera vestono di giallo i no-stri campi. I fiori venivano modellati fino ad ottenere una sorta di fantoccio che veniva poi interamente ricoperto da piccole vesti smesse ottenute in prestito dalle mamme: un abitino, dei guanti e una cuffia, sa caretta.

La bambola era così pronta per il rituale. Le bambine

si disponevano a percorrere questuanti le vie del paese. Una bambina, in testa al corteo, portava sa pipia ‘e maju in posizione eretta. Bussando ad ogni casa, le bambine si presentavano con la seguente formula: “Si podit a sa pi-pia ‘e maju?”, “E’ permesso entrare alla bambina di mag-gio?”. Gli adulti accondiscendevano con piacere a quella richiesta: offrivano pane, formaggio, carciofi, meringhe o biscotti. All’offerta seguiva da parte degli adulti un augu-rio di un’annata piovosa e fertile: “Assumancu essit propiu fillas mias! Ghettaincedda beni a s’arriu!”, “Oh, piovesse, figlie mie! Gettatela al fiume con cura!”.

Questa raccomandazione riguardava la fase finale del ri-tuale. Le bambine, infatti, ultimata la questua si recavano al torrente e lì, trasformandosi in vere e proprie prefiche, recitando il proprio dolore per il destino della loro bambi-na, la gettavano nelle acque. Il “sacrificio” doveva servire ad assicurare la continuità del ciclo naturale, il ridestarsi della nuova vita in primavera.

A Isili, centro del Sarcidano di circa 2100 abitanti, durante la ristrutturazione di una vecchia casa del centro storico è stata rinvenuta una statua

lignea con la mano sinistra mobile. Quella casa era nota come “sa ‘omu ‘e Santu Raimundu”, citata così perché i primi proprietari, i Bonu, una famiglia di imprenditori edili di Ortueri, trasferendosi a Isili per un importante lavoro, l’avevano portata con loro; il capostipite, Raimondo, era infatti molto devoto al santo di cui portava il nome.

Il San Raimondo in causa è certamente San Raimondo Nonnato, santo spagnolo del 1200 chiamato così perché estratto in extremis dal corpo della madre, morta durante il parto. Per tale ragione era invocato, durante il travaglio, dalle partorienti e dalle levatrici, di cui è anche il patrono.

La cosa che maggiormente incuriosisce in questa statua

di Isili, è il braccio mobile, che non appare come un arto spezzato accidentalmente, ma bensì conformato a inca-stro affinché potesse essere staccato e poi rimontato sen-za compromettere l’integrità estetica del Santo.

La statua veniva portata nelle case delle partorienti, specie se primigravide o se avevano già perso dei bambini, e lì ne veniva invocato l’aiuto e la protezione. Dopo l’en-nesimo “miracolo” il parroco di allora chiese al proprieta-rio di portare la statua in chiesa, dove sarebbe stata espo-sta al culto e avrebbe potuto avere più onori. Raimondo Bonu rifiutò decisamente dicendo: “Il Santo torna a casa sua”. Da allora a scopo di protezione veniva concessa la sola mano, che veniva posta sul “pancione” della gravida o sotto il cuscino.

A volte serve una mano d’aiuto...M. Giuseppina Gregorio

SA PIPIA ‘E MAJUUn viaggo nel passato al confine tra rito e gioco

Roberta Muscas

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Progettata negli anni sessanta del Cinquecento, su disegni del teatino Giandomenico da Verdina (l’attribuzione sembrerebbe però mancare del

supporto documentale), discepolo dell’architetto gesuita ferrarese Giovanni Tristano, la chiesa di Santa Croce sor-ge a Cagliari sopra un’antica sinagoga ebraica, che noti-zie frammentarie fanno preesistere al 1216. La sua fon-dazione, anteriore al corpo del collegio e delle aule del seminario, ultimate tra il 1725 e il 1773 (sede attuale del dipartimento di Architettura della Facoltà d’Ingegneria, in via Corte d’Appello, già via dei Giudei), può essere meglio compresa se si analizzano più in generale le idee scaturite nel corso del Concilio Ecumenico di Trento. I dettami con-ciliari, ratificati da Pio IV nel gennaio del 1564, ricalcando certa concezione medievale esclusivistica, consentivano l’affermazione della sola fede cattolica, considerata l’unica apportatrice di verità. Un punto di vista, questo, comune

in tutte le religioni monoteiste.Con il nuovo modello ideologico e della pratica pasto-

rale, la Santa Sede intendeva ristabilire il primato del pro-prio magistero in ogni ambito, favorire in Sardegna la dif-fusione della Compagnia di Gesù, dotata di risorse umane ragguardevoli e di alto livello formativo. Verosimilmente, intorno alla metà del Cinquecento, dopo l’espulsione degli ebrei (1492), seguita all’editto di Ferdinando il Cattolico, l’antico tempio doveva fungere da centro di formazione scolastica della capitale del Regno di Sardegna. Nel 1564, per volontà dell’arcivescovo Antonio Parraguez di Castil-lejo e del viceré don Alvaro De Madrigal, venne donato alla Compagnia di Gesù dall’amministrazione civica.

Consacrato al culto cristiano, al pari di tutte le ex sinago-ghe, l’edificio fu intitolato alla Santa Croce, da cui prende nome il bastione sottostante, detto pure di San Giovanni, che guarda ad ovest verso il rione di Stampace.

L’esterno della parete di fondo della cappella pisa-na del SS. Sacramento (seconda metà del XIII sec.), aperta nel transetto sinistro della cattedrale di Ca-

gliari, è inglobato in un ambiente che comunica con l’e-piscopio. Sull’intonaco vi è dipinta una carta geografica della Sardegna o, per meglio dire, ciò che rimane della carta geografica e cioè una parziale visione dei territori centro-meridionali. L’Isola ha una disposizione orizzonta-le, è ruotata di 90° gradi, con l’est in alto. Due stemmi la sovrastano, posti nel campo di due archetti pensili sopra la bifora. Al di sotto degli emblemi corre un cartiglio con l’iscrizione: VERDADERA DESCRIPCION DE LA ISLA DE SAR-DEÑA. Purtroppo il cattivo stato di conservazione e una

non buona documentazione fotografica ne impediscono una chiara lettura.

Nessun testo che riguarda i fatti artistici legati alla Santa Maria di Castello cita questa pittura murale, è un’Isola che non c’è. Solo Antioco Piseddu ne parla in un articolo sul villaggio scomparso di Segolay. Data la carta alla seconda metà del 1600 e riporta i nomi dei villaggi ancora leggibili: Segolay, San Basilio, Donigala, Donori, Senorbì, che si “in-dovina tra le scrostature”.

Il primo stemma è quasi illeggibile, contornato da volute fogliacee, forse inquartato e sormontato da corona, con al II i pali d’Aragona. Il secondo è quello dei quattro mori, incluso entro volute fogliacee e coronato.

Verdadera descripcion de la Isla de SardeñaLa carta geografica della Sardegna dipinta nel duomo di Cagliari

M. Cristina Cannas

La basilica di Santa CroceGiancarlo Buffa

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Y narrame como aman los poetas.

Imprentana sas umbras caminende,paraulas de amore semenendesutt’a unu chelu chi nues e nies incunzat.

Y narrame como aman los poetas.

Cando drommin notte manna in sos balcones,isettana ch’intrinene sos sonniose de issos sas chizas meda istraccasda-e niunu mai si lassana furare.

Y narrame como lloran los poetas.

Cando su sole in basciu est naschidorzucussu lenu ciu ciu ‘e sos puzonese-i su cascu ispampinadu ‘e donzi criu,accunortat ebbia e a su ninna ninnalos conduet in coa a sa mama issoro.

Y narrame como aman los poetas.

In sos pichidos angrones de s’anima allattaos da-e s’odiu,corruschian ammentos de focucupindetraschias de malissia.

Sun frizzas de benenuchi mi brusian s’ispiritu.

Su tempusm’hat puntu su coro allinnau,e, chene chischiu,nadro in corbarjos d’anneu.

Cherjo bincheregherrande chin ispadas de sole.

Sos granos de su corono iffroscanin rubos de malissia.

Cando sa luche ‘e s’animas’isparghet in agheras durches de chelutando sa terra est cussorja ‘e meravillas.

Y narrame como aman los poetas

Gabriella Orgolesu

Ispadas de soleFranceschino Satta

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Eo… Penso chi custa est sa cosa pius importan-te: forsis deo in custu momentu non so’ deo, so’ torrada ainsegus cun su tempus cando ve-ramente…

Grazie, grazie a voi oggi sono qui. Son passati tan-ti anni, tanti, tante fatiche per essere qui oggi.

Tante paure per non sbagliare e, sapete, è molto diffici-le lasciare la propria vita comunitaria, lasciare un mondo che ci appartiene, inserirsi in un mondo che non è nostro e dove devi stare sempre attento a non sbagliare. Io rin-grazio voi per i vostri gesti di dolcezza: mai Siligo, il mio paese, mi ha fatto una sgarberia, mai! Mai sezis bistados malos cun megus: sempre unu sorrisu, sempre una pe-raula ‘ona. Non como! Como in effettis mi podides puru giudigare, como los supporto sos giudigos, supporto totu, oramai so’ abituada a totu. Ma cando haia bisonzu de ‘ois, m’hazis sempre aggiuadu. M’hazis nadu: Maria Carta oe cantat boghes de riu, cuddu cantu chi forsis m’aggiuaiat, comente a tantas che a mie. Non fia deo solu chi haia bi-sonzu de andare a tribagliare, de andare a samunare, fin tantos che a mie chi haian bisonzu. Solu chi custu bisonzu non mi bastaiat, non cherio restare a pês a modde, cherio essire, comente ‘ois puru cherizis bessire, cherio andare a connoschere ite fit su mundu daboi ‘e Siligo, a s’ater’ala ‘e Siligo ite b’haiat e a totu cherio narrere: faghidelu ‘ois puru, non nos bastat de istare mudos, de nos frimmare unu momentu, non nos devimus frimmare, devimus esi-stere, devimus fagher ischire a sos ateros chi esistimus, chi vivimus e devimus vivere. Non bos birgonzedas de istare male: faghidelu ischire, ca solamente fattendelu ischire chi istamus male sos ateros s’abizan chi vivimus!

Grazie a bois! Deo so’ inoghe, deo ando a rappre-sentare sa Sardigna e bos naro: no est fazile. Et

est meda pius fazile, non a sos silighesos, ma a sos sar-dos a narrer: eh, est fazile pro Maria Carta a cantare! No, no est bistadu fazile! Eo podia ‘alanzare totu su chi cheria cun sa ‘oghe ch’hapo, invece hapo seberadu su mundu chi hapo sempre amadu: Siligo, sa Sardigna, sos bezzos de Si-ligo chi m’han imparadu a cantare.

Cando hapo incominzadu a Siligo, chi tiu Gellon in prima fila, cando hapo annunziadu chi cantaia su

“mi e la”, m’hat nadu: “Eh, fiza mì, inoghe ruet s’ainu!”, podides immaginare cun cale orgogliu hapo finidu sa can-tone. E poi l’hapo ‘idu ch’hat abbasciadu sa conca e l’hapo

‘idu chi fit pianghende. Propriu in cussu momentu, da-e sas lagrimas de tiu Gellon, hapo ischidu chi podia cantare fora de sa Sardigna.

Iscusade… Est istada una crisi de piantu, ma… bos cherzo troppu ‘ene, bos cherzo troppu ‘ene! Hapo

lassadu calesisiat cosa, e calesisiat cosa haia hapidu las-sadu finzas essendeche fora. Proite ‘ois ischides chi ora-mai so’ tribagliende meda fora, e ischides puru chi in cu-sta ‘idda manna ch’est s’Italia, pro vivere bisonzat andare puru fora. Non solu sos emigrados chi faghen sos minado-res, ma finzas chie andat cun d’unu discorso culturale oe devet andare fora pro vivere.

Eo non lu fatto però solu pro vivere; lu fatto pro fagher ischire chi in Sardigna esistin non solu sas

cosas feas chi s’intenden, sas cosas negativas, ma esistit unu mundu chi appartenit a totu sos sardos e appartenit a totu su mundu.

Maria Carta

Intervento di Maria Carta a Siligo in occasione del Premio “Siligo” di poesia sarda del 1982, quando le venne assegnato il premio ”Mesumundu”.

E deo, Maria Carta…

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Ricordo MariaQuella voce tra

immaginario e realtà…A colloquio con lo scrittore

Salvatore Mannuzzu

Caro direttore…

Ricordo Maria. E’ un ricordo fresco della mia giovinezza, legato struggentemente alla

vita serena vissuta per lunghi periodi nella ridente Siligo, “madre” insieme a Chiaramonti della mia “sardità”. Di Maria ricordo la bellezza solare, la grazia sinuosa e la simpatia aggressi-va! Eravamo così giovani, anzi giova-nissimi entrambi! Ma il lascito di un antico classismo feudale ci impedì, mi impedivano, ancorché io non fos-si “Don”, ma solo “signoricu”, di fre-quentarci, ma non certo impedivano a me di guardarla e di ammirarla, e di perdermi anche nei suoi occhi pro-fondi e nella musica della sua voce.

Francesco Cossiga

Ognuno ha le sue musiche, scritte nei cerchi della vita. E in quelli più interni della mia

ci sono le voci e i canti che ho sentito cominciando a vivere, mille anni fa, nel Meilogu. Non credo d’avere mai conosciuto di persona Maria Carta. O forse sì: erano gli anni della guerra, poco più che bambino viaggiavo da Thiesi, dove viveva la mia famiglia, a Sassari, dove studiavo. Viaggiavo sulle disastrose corriere d’allora. Che chia-mavamo tout court “Scìe” (S’Iscìa).

A Siligo la “Scìa” faceva due fermate: alla prima talvolta salivano due bam-bine scalze (cominciava l’autunno), cui l’autista regalava il gusto di tra-versare in quel modo un po’ di paese, fino alla seconda fermata. Chissà per-ché a un certo punto, molti anni dopo, m’era venuto da pensare che quella bambina scalza fosse Maria Carta.

Non so se fossero ancora gli anni ’50, o iniziassero già i ’60, quando ho sentito la prima volta la voce di Maria Carta. Ma quella che così mi giunge-va era davvero una voce nostra: una voce uscita – miracolosamente uscita – dal vecchio cuore della Sardegna.

Quella voce evocava un mondo in-tero, quasi fosse rimasto incolume: la solitudine d’un invisibile pastore, nella campagna pervasa di sole e di silenzio, con scarsi alberi tutti piega-ti verso maestrale; e l’allungarsi del-le ombre, lilla adesso, sulle stoppie divenute d’un giallo cinerino, verso il tramonto; e il procedere della notte senza luna, con qualche rintocco di campanacci, l’accendersi d’un fuoco, là ai piedi di quelle rocce che quasi non si vedono più. Il sentore di fumo…

Paolo Sanna

Caro Direttore,

ho in mano NUR, numero speciale per Maria Carta. Lo guardo, lo sfo-glio, poi, finalmente, lo leggo, una pagina dopo l’altra senza fermarmi.

Lo aspettavo da tanto ed ora che finalmente ce l’ho fra le mani, sono presa da viva emozione. Ogni rela-tore ci regala un ricordo, uno stralcio della vita di Maria; tra un articolo e l’altro, il suo volto sapientemente po-sto in molte sequenze, come in filigra-na o dissolvenza, ci regala un ricordo come di sogno. Le pagine mai pesan-ti, graficamente bene impaginate, aiutano e invitano alla lettura. Più di trenta firme che parlano, gover-nano alta l’emozione e le vibrazioni.

Grazie per averci regalato un nu-mero così prezioso. Il primo scrit-to, per la storia di una leggenda…

Lycia Santos do Castilla

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Quel giorno di febbraio del 1993 mi imbarcavo da Genova per raggiungere Cagliari. Si trattava di un viaggio davvero speciale: volavo verso un

incontro segreto con una donna che era stata, da ragazzo, un punto di riferimento per il mio futuro “lavoro”. Quella donna era Maria Carta.

Mentre viaggiavo tra le nuvole, pensavo all’emozione provata quando mi aveva detto che desiderava incontrar-mi e che avrebbe voluto cantare con me. Fu allora che le promisi di cantare un brano pensando a lei come alla ma-dre di tutti i Sardi, la madre che ti ninna e che ti invita a te-nere gli occhi aperti, a guardare verso il mondo, ad avere dei valori in un mondo povero di valori.

Ci demmo così appuntamento a Poggio dei Pini, vicino Capoterra, dove si trovava lo studio che aveva visto na-scere e realizzare gli ultimi due album dei Tazenda. Fu un incontro segreto. Sembrava l’incontro di due complici.

Arrivò in macchina vestita di nero, con in testa un tur-bante per nascondere gli effetti terribili della chemiote-

rapia. Parlammo. Mi confidò le sue paure. Non avevamo molto tempo, bisognava registrare quello che poi, secon-do il mio immaginario, sarebbe diventato “l’ultimo canto libero”.

Finita la prima parte, la invitai a rientrare in sala e a cantare in modo libero. Iniziò così a cantare senza l’ob-bligo di un canto definito; cantava libera, come quando andava a lavare i panni al fiume, un canto spontaneo che ci restituiva una Maria stupenda nella sua sofferenza, una Maria dolcissima e austera che non voleva arrendersi no-nostante il male.

Venne l’ora di lasciarci. Ci abbracciammo. “Io ho sentito questo cantare insieme come un passaggio di consegne: sono vecchia, ora tocca a te” mi disse, “Però ti faccio una promessa: quando ti sposerai ti canterò l’Ave Maria”.

Maria, la mia Madre mediterranea, mantenne la pro-messa. Anche se purtroppo, il giorno delle nozze, quell’A-ve Maria l’ho potuta sentire soltanto io.

L’undici gennaio 1999 moriva Fabrizio De Andrè. A quattro anni dalla sua scomparsa si sente la man-canza della sua discreta presenza, il suo musicare

il mare e le montagne della nostra Isola; ma la sua voce resta scolpita sul granito di Gallura.

Fabrizio De André e la Sardegna: un amore incondizio-nato per una terra aspra e selvaggia e per una cultura ar-caica e affascinante. È una scelta ideologica che lo avvici-na all’ideale tolstoiano della natura. Fabrizio abbraccia in pieno quello che è il vero ideale anarchico di amore nei confronti di tutte le creature dell’universo, perché il vivere nella natura è il modo più semplice e insieme più profon-do di realizzarsi, di essere autentico, di essere felice.

Un rapporto che si salda col tempo, soprattutto dopo i quattro lunghi mesi di soggiorno all’Hotel Supramonte.

La Sardegna si è macchiata di un grave delitto: aver pri-vato un individuo della propria libertà. Al momento della liberazione il cantautore riscatta l’immagine negativa che l’isola ha dato di sé. Fabrizio non scappa, non fugge. Ri-volge parole di comprensione ai suoi rapitori. Secondo il principio del pensiero libertario: “conoscere per capire, capire per amare”.

Nascono delle riflessioni, dei paragoni con una cultura altra del tutto simile alla sarda, quella degli indiani d’A-merica. Come una catarsi liberatoria ecco che l’esperienza si fa poesia, musica, canto. Un tributo per la nostra isola che è un vero e proprio atto d’amore: Fabrizio ne canta la natura, la cultura e la tradizione. Ne canta anche la lingua. E così i due destini si incrociano e la Sardegna si lega indis-solubilmente a Fabrizio De André.

“Sardi” di Sardegna

Ricordo di Fabrizio De AndréRaffaella Saba

L’ultimo canto liberoAndrea Parodi

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“Arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: lo attra-verso?”

Così Ruggero Gunale in “Il quinto passo è l’addio” può essere assunto come icona di tanti sardi che di fronte all’immensità del mare hanno formulato lo stesso inter-rogativo. Mare, grande culla che, come grembo materno, protegge, isola dalle brutture e dai pericoli ma che impe-disce di conoscere, di sperimentare, di porsi in discussio-ne. Elemento che induce a non nascere, a non voler uscire e abbandonare le proprie certezze; affrontarlo è una te-rapia salutare, significa trovare il coraggio di puntare su se stessi.

Sergio Atzeni, come il suo Ruggero Gunale aveva scelto di affrontarlo, di varcare lo spazio, di tracciare la linea tra l’isola e l’incognito. Ciò che lo sostiene è la forza culturale di una maggiore conoscenza di se stesso attraverso l’in-contro con altre genti, con altre culture, con altre lingue. Una sorta di Ulisse moderno. Aveva intuito che quella massa infinita d’acqua poteva rappresentare non solo un ostacolo ma anche uno dei possibili percorsi sulla strada della crescita. Ed infatti scambio, incontro, mescolanze, imbastardimento fanno parte della sua “impronta”, con-vinto che solo da ciò può avvenire un miglioramento, solo questo può mettere in moto un meccanismo che permet-

ta di superare steccati, tabù, tradizioni dogmatiche. Alternative: accontentarsi di vedere il proprio mondo da

un solo punto di osservazione, convinti che sia il migliore, o conoscere altri mondi per poi riguardare al proprio con un bagaglio conoscitivo, di esperienze e di letture che sia-no di stimolo ad una stagione più proficua?

Più ostica la seconda, perché comporta soffrire, ap-prendere, sperimentare. Soprattutto comporta vincere la diffidenza innata in noi sardi verso s’istrangiu, spesso in-cludendo in questo termine anche chi, sardo, torna dopo anni “di continente” e viene guardato con fastidio e mal-celata insofferenza.

Viaggiare significa forza, coraggio, spirito indipendente e aperto, significa accettare di mettere in discussione le proprie convinzioni, accettare che alcune di esse si riveli-no errate, significa in qualche modo divenire più reali per-ché ci costringe, abbandonando il noto per il non-noto, a prendere coscienza del nostro essere, a relazionarci con lui in prima istanza e con gli altri, i non-noti, in rapida suc-cessione. Non possiamo barare: “l’altro” ci osserva e i no-stri passi dalla circolarità ripetitiva del “tondo” debbono deviare per nuovi tracciati.

E’ per me sempre bellissimo, dolce e struggente, poter scrivere di mio padre: è come averlo ancora vicino. Mi viene ancora oggi difficile rassegnarmi

alla sua morte così innaturale, così disumana, per questo spesso rivado col pensiero agli anni della mia fanciullezza per ritrovare ricordi di una figura leggendaria nella storia del canto sardo. Una figura che vive ancora nella memoria della gente di Sardegna.

Ho sentito mio padre per la prima volta cantare in pub-blico al “Politeama Margherita” di Cagliari. Indossava il co-stume nuorese. Il teatro era gremito: vi era un’atmosfera di esaltazione indescrivibile. Il silenzio si faceva assoluto

appena le prime note della chitarra annunciavano un’altra canzone. Dalle prime file della platea una madre tese il suo bimbetto verso di lui. Egli lo tenne fra le braccia ed iniziò a cantare la sua Ninna nanna logudorese; alla fine lo rese alla mamma addormentato. La folla lo acclamò a lungo in piedi. Poi le luci si attenuarono ed egli rimase in penombra, il chitarrista gli porse la chitarra; accompa-gnandosi, in quella fioca luce che nascondeva una forte emozione, cantò due delle sue più belle canzoni: Disispe-rada de Logudoro e Agonia.

Mio padre Gavino DelunasVanda Delunas

In viaggio con Sergio AtzeniMarco Melis

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Il 2003, per la FASI, è iniziato con una manifestazione davanti all’Al-fa Romeo insieme a Pinuccio Scio-

la e alle sue sculture. E’ stata l’occa-sione per un messaggio di solidarietà agli operai in cassa integrazione. In questa manifestazione si racchiude simbolicamente lo spirito dell’attività della FASI, la Federazione delle Asso-ciazioni Sarde in Italia: cultura e soli-darietà, promozione della Sardegna e funzione di servizio per la comunità.

I circoli associati in Italia e nel mondo sono una rete preziosa, una risorsa formata da “sardi

fuori Sardegna”, un’occasione di pro-mozione e di scambio a favore della nostra Isola. Il nostro impegno e le nostre battaglie infatti hanno un va-lore per tutti i sardi, non solo per gli emigrati. Quando ci battiamo per un nuovo statuto dell’autonomia sar-da, e chiediamo che dentro ci sia un concetto di nazionalità allargata, che comprenda cioè i sardi fuori Sarde-gna, chiediamo di rimediare a una carenza storica di una terra matrigna che ci ha reso figliastri. Poniamo an-che un problema identitario forte per la nostra terra: avere più ampia consapevolezza di sé, della propria identità. Perché è anche grazie a que-sta identità che noi fuori Sardegna continuiamo ad esistere come sardi.

Tonino MulasPresidente FASI

Associazioni come il Circolo dei sardi di Bergamo, men-tre assolvono all’importan-

te funzione di tener viva la memoria delle radici, nonché di valorizzare le potenzialità di quelle radici, posso-no rivestire un ruolo fondamentale nell’intensificare rapporti di reciproca conoscenza e di amicizia tra perso-ne provenienti da ambienti culturali “lontani”, come avviene per i sardi trapiantati qui e coloro che costitu-iscono, con la loro cultura ed i loro valori, la comunità di accoglienza.

Questo incontro/confronto sembra essere un passag-gio obbligato. Ed è qualco-

sa di più di un desiderio: è un impe-gno che dovrebbe vedere coinvolti tutti, sardi che vivono in Sardegna e sardi del mondo, per garantire alla nostra terra uno sviluppo da trop-po tempo atteso, nel quale gli emi-grati si sentano, giustamente e con orgoglio, partecipi e protagonisti.

Mario PomesanoPresidente del Circolo dei Sardi di Bergamo

“Bentu de Terra Manna”… Si in-titola così l’antologia di poesie scrit-te da autrici sarde presentata sa-bato 20 marzo presso i locali della Freie Universität di Berlino. “Una serata sardo-europea”: così é sta-to definito il contesto in cui la ma-nifestazione letteraria é avvenuta.

Poesia quale massima espres-sione dei sentimenti e di continuitá con la tradizio-

ne, perché la poesia di oggi affonda le proprie radici nelle storie canta-te e raccontate dalle donne di ieri. Lingua sarda, poi, come quella piú consona a raccontare la sfera del-le emozioni, soprattutto quando si tratta di curare le ferite dell’anima. E donne, come custodi della memo-ria storica e dello sguardo critico.

Francesca Utzeri

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

“Sardi fuori Sardegna”tra solidarietà e cultura

I programmi della FASI

Bergamo e la Sardegna:impegno di un’amicizia

Bentu de Terra MannaA Berlino, la poesia sarda è donna

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Rivista di Cultura e Identità di Sardegna

Ci sono pagine di storia che più di altre segnano la memoria, per il dolore che provocano, per lo sgomento che susci-tano anche al solo pensarci. La storia degli emigrati è drammaticamente ricca di queste pagine, è dolorosamente ricca di questi sgomenti.

Marcinelle, s’otto de austu de su 1956, tragicamente intrat in s’istoria de sas disgrascias mannas de sas minie-ras de carvone: custu fattu est pro sempre in sa memoria de sa zente de inoghe.

Barantachimb’annos sun passados da-e sa die cando, a fundu de 835 metros, verso sas otto de manzanu unu carrello ch’est bessidu fora da-e sa cascia de s’ascensore trunchende unu cavu elettricu e tubos de ozu chi si sun allutos. E da-e cussu hat leadu fogu sa miniera. Sun restados impresonados 274 minadores.

Dughentossessantaduos mortos. Chentutrintatres fin italianos in sa forza ‘e sa vida. Medas fin appena arrividos, ha-ian unu matessi sonniu. Oe sas minieras de carvone no esistin pius. Inue tando fit totu piuere de carvone, b’est oe unu mantu ‘irde.

Onorevole Presidente, Onorevoles Consizeris,

so’ ‘ennidu a Cagliari in su 1974 cun s’isperan-zia de partecipare a sa battaglia de sos sardos pro s’auto-nomia. Autonomia chi est diventada oramai una finzione e chi diamus cherrere cambiare.

Eo so’ iscandulizzadu e preoccupadu pro su ch’est suz-zedende, ca si omines validos chi han su compitu e su dovere de guidare sa sorte de cust’Isula in d’unu mundu tempestadu, si omines acculturados e attentos, reduces da-e milli battaglias, si mustran dispostos a passare s’oce-anu subra una zattera de ciarras ligadas cun filos de giun-gu, cheret propriu narrere chi sa classe politica, chi haiat devidu rappresentare custa “Nazione”, hat zertamente perdidu su sensu de su reale e de su possibile, e podimus pensare chi da-e custu fattu nos devimus ispettare disgra-scias e isventuras.

Semus propriu arrividos a sa sucuttadura! E chie pagat tanta lizzeresa e tantu iscunsideru? E chie pagat pro una Giunta imbelle, debile, chenza autoridade e solamente astiosa? E chie si podet illudere chi da-e un’attrezzu privu de cabu e de coa potan torrare benefizios a sa Sardigna?

Sos omines de sinnu e de bona volontade chi sun in-trados in custa Giunta, e non nde mancat, deven, pro s’interessu de sa Sardigna, haer coraggiu politigu, zivile e umanu pro furriare da-e custa avventura iscunsiderada, e deven tentare de riunire ateros omines assinnados e vo-lenterosos, dispostos a incominzare, cun perizia e pruden-zia, a leare sa via tortuosa e diffizile chi giughet ue naschet sa redenzione de sa Nazione Sarda.

Sa Nazione Sarda hat bisonzu de su cuidadu de tota sa zente sarda, e hat prinzipalmente bisonzu de sos suos elettos. Sos chi como cheren fuire subra a caddos de fe-rula, iscan chi sos traighimentos b’est chie los realizzat fuende a sas retrovias, torrende a domo disertore, e b’est chie los realizzat currende a dainanti, a sas linias inimigas, dendesi presoneri.

Ma non podimus essere presoneris de illusiones: sos sardos ispettan chi torremus totu in prima linea, onzunu cun sa parte sua, pro sa fortuna de sa Sardigna e de onzi fizu de custa terra nostra.

(Dal primo intervento in lingua sarda al Consiglio Regionale della Sardegna.)

Onorevole Presidente, Onorevoles Consizeris…

Battista Isoni

MarcinelleAnna Maria Sechi

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Vale forse la pena di fare alcune considerazioni in margine ad un processo celebrato nell’antica Roma oltre duemila anni fa. Parte lesa eravamo

noi Sardi. Il processo si celebra nel 54 a.C. L’imputato è Marco

Emilio Scauro, ex governatore della Sardegna; l’accusa è di violenza privata, abuso di potere, peculato e concussio-ne. Ad accusarlo di questi reati sono i Sardi, i cui interessi sono tutelati da un giovane e valente avvocato del foro ro-mano, Publio Valerio Triario; l’imputato ha affidato la sua difesa ad un collegio di sei avvocati, e fra questi Marco Tullio Cicerone. È grazie all’arringa di Cicerone, nota come “Oratio pro Marco Aemilio Scauro”, che noi possiamo se-guire il processo.

A noi interessa soprattutto il ruolo dei centoventi testi-moni, venuti dalla Sardegna per accusare Scauro. Questi nostri lontani antenati dovevano essere degli sprovveduti, visto che nessuno di loro è invitato a parlare e affidano la loro deposizione ad un documento scritto. Le accuse nei confronti di Scauro erano suffragate unicamente da questi

centoventi testimoni.Cicerone, nella sua arringa difensiva, trova più opportu-

no affrontarli in blocco. Ed è qui appunto che viene trac-ciato l’identikit dei Sardi e chiarito in quale considerazione fossero tenuti. Citiamo testualmente: “La razza più ingan-natrice, come ci attestano tutti i documenti dell’antichità e tutte le opere storiche,è quella dei Fenici. I Punici, loro discendenti, non si sono mostrati, se pensiamo alle molte ribellioni di Cartagine, alle numerose violazioni e rotture di patti, figli degeneri. I Sardi, che discendono dai Punici gra-zie ad un incrocio di sangue africano, non sono stati con-dotti in Sardegna come normali coloni ed ivi stanziati, ma come il rifiuto di coloni di cui ci si sbarazzi” /cap: XIX, 42).

Questa foto di gruppo rivela in quale considerazione fossimo tenuti. Cicerone suggella il suo apprezzamento con alcune definizioni rimaste celebri: “Sardi pellites la-trunculi mastrucati”.

Il nobile Scauro, accusato da questi centoventi “peddiz-zoni”, non poteva che essere assolto.

Molte rappresentazioni teatrali prendono spun-to dalla letteratura. “Domenico” (Domenico, Edizioni Sole, Cagliari 2001), opera prima di

Claudio Susmel, nato a Reggio Calabria nel 1950 ma da oltre quarant’anni in Sardegna, è un raro caso in cui è la letteratura ad essere permeata e arricchita dall’esperien-za teatrale.

Domenico è un sognatore, un visionario. Siamo nel 1300, la storia si sviluppa tra la Sardegna e la Corsica, in quello che potrebbe essere definito “l’Arcipelago Occiden-tale”. Domenico imparerà a confrontarsi, ad entrare in re-lazione col mondo esterno e ad aprirsi ad esso, attraverso una serie di piccole avventure che, tra una lacrima e un sorriso, costringono il lettore a riflettere. Ed è proprio a

questo che il cantastorie-Susmel vuole arrivare: riflettere sul corso della vita, sui sogni e sugli amori che col passare del tempo si allontanano sempre più. L’errore più grave è chiudersi in sé stessi. Bisogna guardarsi intorno, aprirsi al mondo per conoscere e apprezzare la bellezza di altre culture e far conoscere la nostra agli altri al fine di non ricadere in quel “nuragismo accidioso”, come lo definisce l’autore, che da troppo tempo, e ancora oggi, si ritrova in Sardegna e che fa leva sull’egocentrismo e sulla tendenza all’isolamento dei sardi.

DOMENICO un eroe-trovatello alla ricerca di un’identità

Giovanni Maieli

Attualità di unprocesso di duemila anni fa

Virgilio Ladu

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Nel corso dei secoli sette lingue sono state usate nelle diverse parti della Scozia, sebbene soltanto tre di queste costituiscano la moderna tradizione

letteraria. Le lingue che sono state parlate o scritte in Sco-zia sono: il Pitti, il Vecchio Gallese, il Gaelico, il Latino, il Norn, lo Scozzese e l’Inglese. Di queste, soltanto il Gaelico, lo Scozzese e l’Inglese sono ancora parlati. Ciò che è par-ticolarmente interessante, riguardo alla evoluzione della lingua e alle tradizioni letterarie in Scozia, è il fatto che tale evoluzione rispecchia le lotte di potere dei differenti gruppi culturali che ciascuna lingua rappresenta.

La lingua più antica ancora parlata è il Gaelico, che insie-me allo Scozzese, all’Irlandese e al Bretone appartiene al gruppo Gaelico-Britannico delle lingue Europee. Il Gaeli-co oggi è da considerarsi di fatto la lingua madre soltanto per poche centinaia di persone; tuttavia, diverse migliaia

l’hanno imparato in qualche misura, molto spesso come possibilità di stabilire un anello di congiunzione con un’i-dentità culturale scozzese. Molto spesso la cultura della lingua è infatti associata a simpatie nazionaliste.

Gli Scozzesi sono un popolo Celtico che migrò gradual-mente dall’Irlanda verso la Scozia dal terzo secolo in avanti. Come per altri popoli Celtici la loro fu essenzialmente una cultura di guerra che si basava sulla suddivisione in piccoli gruppi o tribù, conosciute in Scozia come clans. Dall’850 a.C. questi Celti si stabilirono come gruppo dominante in Scozia, imponendo la loro lingua e la loro cultura alla po-polazione preesistente, i Pitti. Attraverso matrimoni misti con la dinastia Pitti, ma anche attraverso atti di conquista, Kenneth MacAlpin divenne il primo re di un territorio che comprendeva la maggior parte dell’attuale Scozia.

Nel panorama delle minoranze linguistiche italiane, il cimbro (Taücias Gareïda) occupa uno degli ultimi posti per il numero di persone che ancora oggi lo parlano. Gli ulti-mi a parlare questo antico dialetto sono pochi abitanti di qualche contrada isolata nelle Prealpi venete e trentine; non si possono neppure definire “comunità”, per il basso numero di persone che la compongono, ma sono comun-que la viva testimonianza di una lingua parlata da genera-zioni e tuttora esistente in un territorio diverso da quello d’origine.

In Italia fenomeni come questo non sono rari, basti pen-sare alla lingua slovena parlata dalla comunità slovena di Trieste e della Valle del Natisone, il tedesco, parlato dalla comunità tedesca di Bolzano e della sua provincia, l’albanese, parlato in 41 comuni distribuiti in sette regioni (Abruzzo, Molise, Calabria, Basilicata, Campania, Sicilia e Puglia), il patois (franco-provenzale), parlato in valle d’A-osta, il friulano (con la sua variante più importante: il cer-niel, carnico), il ladino, parlato in 3 regioni (Veneto, Friu-

li, Alto Adige e in particolare nelle province di Bolzano, Belluno e Trento), il sardo, con le sue varianti, il catalano, parlato ad Alghero, il greco parlato nel salentino, il croato parlato nel Molise ed il genovese del XVI secolo parlato nell’isola di Carloforte.

Al giorno d’oggi il cimbro è parlato solamente a Giazza, nei 13 comuni veronesi, in alcuni centri dei 7 comuni vi-centini, intorno a Roana e a Luserna. La lingua è parlata dalle persone più anziane. Nei secoli passati, per la mag-giore autonomia politica e la posizione geografica, vicina a vie di comunicazione, la lingua dei 7 comuni assunse un’importanza decisiva, tanto che in questa variante si trovano testi molto importanti per lo studio di stadi anti-chi della lingua cimbra.

Minoranze linguistiche:il Cimbro

Alessandro Norsa

Note storico-politiche sulingua e cultura in Scozia

Walter Perriepoeta scozzese

(traduzione di Claudia Reghenzi)

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De “Sa Scomuniga…”

Fiat usanza de sa genti de is biddas in is meri-ceddus de s’istadi de is tempus passaus, su fai boddeus po si pigai sa friscura contendu con-tus o cantendu po ‘nci passai s’ora spassien-

dusì.

Is contus, poita fiant indirizzaus a is giovuneddas po chi non bessessinti foras de s’educazioni de su

costumau de sa comunidadi, fiant di Orcus, de Cogas e Cogus, Duendus e Duennas; di Erois e Santus chi appa-ressiant in is momentus de perigulu, spantosamenti, po salvai s’anima de chini podiat essiri po arruiri in tentazioni de perdiri sa castidadi.

Is contus fiant de allirghia po su spassiu de totus, ma teniant su scopu di educai is ascurtadoris a is bonus

fai, a is cumportamentus di onestadi in sa vida, aintru de is imparus de is beridadis de sa Fidi Cristiana. Intre is Con-tus e is Cantus de boddeu, duus fiant is poemas de narra-zioni chi attiranta s’attenzioni de is ascurtadoris chi non s’arrosciant e chi fiant sempiri aggradessius: Sa scomuni-ga de Predi Antiogu arrettori de Masuddas, po su spassiu maliziosu de is fueddus grais e de is frastimus in rima po stracciai s’arrisu, e Sa coja de Pitanu, po sa bellesa de is dialugus e is canzonis.

Custus duus poemas, (poita sunt veramenti poe-mas popularis), beniant resaus o cantaus; candu

fiant resaus, su chi contada assumiat s’aspettu e is fai de s’attori de commedia ponendu totu s’attenzioni, in is in-ginnus e in is ingestus, po elevai su narri’ e su fai a vera rappresentazioni teatrali; candu fiant cantaus beniant cantaus a sa moda de sa currentina, e non fiat raru su po-diri intendiri beccius, sezzius in is perdas de is bias, can-tendu cun cussu traggiu is proprias cosas po su recreu de issu etotu, chi lompiu a sa beccesa non teniat aturu po si spreviai.

Fiant però espressioni de una civilidadi chi si nc’est andada spinta de sa modernidadi chi appettigat

totu; fiant e abbarrant però comente monumentus de su mundu de sa messarizia e pastorìu chi su mundu sbuidu e maccu di hoi est torrendu a circai po si spiegai is medas imperòs chi boccint is cosas bellas chi sempiri hant nu-driau is sentidus prus bellus de s’omini e dd’hant accum-pangiau po lompiri a is umiadroxus disigiaus.

Hoi, chi no est prus tempus de boddeus a sa bona e sa genti pretendit chi s’espressioni siat puru bi-

stida di Arti, Sa scomuniga de predi Antiogu arrettori de Masuddas benit rappresentada comente opera teatrali cun apparau scenicu appropriau, curau po poni’ in risaltu totus is suttilesas chi cuntenit in is pinnicas de su dialugu e chi Ottaviu Congiu cun talentu e Maestria interpretativa ponit in giusta luxi po essiri elevada a perla de su Teatru Sardu.

Medas s’hanti a domandai si siat giusta o no s’acciunta de unu prolugu scenicu a unu poe-

ma teatrali famosissimu comente Sa scomuniga de Predi Antiogu…E medas hant a fai diversas considerazionis te-nendu contu e de is medas esigenzias chi tenit s’autori de s’opera po comunicai su messaggiu chi bolit fai lompiri a destinazioni e de is esigenzias chi tenit s’attori chi s’opera dda interpretat in manera chi custu messaggiu lompat in su modu prus bellu a su sentidu de su spettadori po chi esprimat su plausu.

Aici comenti dda conosceus, s’opera est unu sfo-gu de lingua repentinu cundìu de frastimus e

maledizionis, po finiri in d’un’anatema chi generat spreu chena de una motivazioni apparenti. Su spettadori, dun-cas, imbistiu de custa affrusada, abbarrat disorientau e si domandat ita podit hai provocau custu livori velenosu chi accuzzat sa lingua de Predi Antiogu po ndi fai de issa una lanza chi ferrit e offendit chena de peruna piedadi. Su prologu acciuntu scoviat s’antefattu a sa precedenza de su cali sunti depias is arrexonis chi cuncurrint a spiegai su chi succedit a pustis e aici su spettadori s’agatat sa rexo-ni spianada po unu mellus cumprendoniu de is fattus chi depint essiri ancora contaus po giustificazioni de su sfogu prenu di arrabiori e de velenu aici coment’est.

Faustinu Onnis

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Incominciamo dal titolo: perché Ballo a tre passi?

Il film si doveva chiamare “E tutti risero”. Siccome era anche la traduzione italiana di un film di Bogdanovich, per non incorrere in problemi giudiziari la produzione ha chiesto di trovare un altro titolo. Siccome il capitolo della suora è sottotitolato “Ballo a tre passi”, a significare l’an-damento danzante della vita, ecco il titolo.

Ci parli della genesi estetica a incominciare dalla scelta della Sardegna.

Volevo fare un film in Sardegna (dopo Miguel e Prima della fucilazione). La cosa più naturale. Non si doveva pre-

scindere dalla Sardegna. Per leggere il film è importante la chiave sarda, ma è limitativo vederci solamente una rappresentazione locale. E’ sulla Sardegna ma volevo dire qualcos’altro. E’ un film sulla vita.

Il film ha sollevato polemiche. Cito tra le critiche: pes-simo servizio alla Sardegna, stereotipi e luoghi comuni, interessi commerciali nelle scene di sesso fatte per com-piacere lo spettatore…

Quando si fa un film ci si deve togliere dalla testa che debba piacere a tutti. Il dissenso giova al film. Però devo dire che non c’è stata furbizia. Mi ferisce chi pensa che io abbia avuto furbizie. Io amo le persone che racconto.

Padre Morittu, parliamo anzitutto delle sue origini…

Sono nato a Bonorva il 29 settembre del 1946, ultimo di una famiglia di pastori.

Da bambino e da adolescente com’era, che cosa sogna-va di fare?

Involontariamente ho dato subito guai alla mia mam-ma, perché mi ha concepito in età avanzata ed è stata una gravidanza difficile: i medici avevano dipinto scenari fo-schi circa la sanità del nascituro. Mamma reagiva a colpi di rosario e di novene presso i santuari più celebri.

La mia fanciullezza è stata caratterizzata dal fatto che la mia casa a Bonorva dista 50 metri dal Convento france-scano: il tempo che non trascorrevo a casa o a scuola era totalmente vissuto nella chiesa e presso i frati.

Quando e perché ha deciso di farsi frate francescano?

Riguardando a ritroso la mia vita, quando Dio si scosta e mi lascia sbirciare dal suo cannocchiale, azzardo a dire che sono nato frate. Certamente ha svolto un ruolo mol-to importante l’educazione cristiana ricevuta in famiglia, la simpatia e la confidenza con i frati. Ma c’è soprattutto il mistero di Dio che chiama chi, come e quando vuole e dispone le vicende umane facendo intravedere i segni del suo progetto.

Il suo incontro con il mondo e i problemi della tossico-dipendenza: come è stato, come lo ricorda?

Misterioso e provvidenziale anche questo: prima di in-contrare il drogato ho incontrato il Padre Dario Pili, re-sponsabile dei frati di Sardegna che, appena giunsi in Sar-degna nel 1978, mi propose una provocazione del Padre Eligio Gelmini, pioniere dell’impegno con i drogati: rea-lizzare in Sardegna, in un nostro convento, una Comunità per aiutare i drogati sardi.

Ballo a tre passiIntervista al regista Salvatore Mereu

Un saio d’amore e di speranzaIntervista a padre Salvatore Morittu

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Attività visionaria, da un nulla, un filo, ti costruisce uno spazio, la tessitura è occupazione antica di millenni. Forse. Forse, perché dati certi non ne

abbiamo. Certo è invece il suo genere: è quello femmini-le, creatore di mondi. Non per nulla la tessitura venne da tempi remotissimi demandata alla protezione di divinità femminili.

Tessere non significa soltanto predestinare (sul piano antropologico) e riunire insieme realtà diverse (sul piano cosmologico), ma anche creare, esprimere la propria so-stanza, come fa il ragno, che produce la tela da se stesso. In Sardegna circolano voci che le Janas traggano la loro tela dalle viscere della terra e che tessano nel silenzio cavo dei loro antri, le domus de Janas. A Sarule però più di una nonna racconta che nella profondità più remota del monte di Gonare, su cui poggia un venerato santuario, la Vergine tesserebbe, con il suo telaio d’oro, tramonti dolci come il miele ed arcobaleni trasparenti come l’acqua lim-pida.

Ma fermiamoci qui, ai piedi del monte, nel paesino barbaricino che, uno dei pochi in Sardegna, tramanda la tecnica della tessitura con telaio verticale: Sarule. Uno dei tappeti più antichi che si ritrovano a Sarule data forse al 1500. E’ opera affascinante per chi la guarda, perché l’e-quilibrio cromatico e geometrico delle sue forme appaga l’occhio, ed anche per chi ne ascolti la sua storia. Si dice infatti che a tessere questa burra sia stato un uomo: un pastore. Si chiamava ziu Gantine o forse ziu Bachis, e si racconta che una notte rientrò dalla campagna in preda a non si sa quale stato di agitazione, come se fosse posse-duto dai demoni. Non salutò le sorelle che lo aspettavano alla soglia, non mangiò, né si tolse i gambali per riposare; si diresse risoluto verso il telaio, si sedette e si mise a tes-sere. Nessuno glielo aveva mai insegnato, ma lui tesseva e continuò a farlo per tutta la notte e per tante notti. Di giorno richiamava il gregge con lo zufolo di canna, di notte tesseva, mentre le sorelle lo osservavano a bocca aperta facendosi il segno della croce.

Quando si parla di cucina sarda, si pensa solo a porcheddu arrustu, a culingionis, o culunzones, a malloreddus, o ciccioneddos, a seadas, o se-

badas, e a poco altro. Noto anche che esperti e studiosi a livello internazionale, riferendosi alla cucina sarda, la definiscano “arcigna e sconosciuta”. In realtà la storia culi-naria della Sardegna non segue l’evoluzione delle altre cu-cine regionali, che hanno motivazioni storiche diverse, ma fonda le sue radici in tempi remoti ed a volte preistorici. I vari popoli conquistatori dell’isola hanno lasciato tangibili tracce sulla alimentazione autoctona, ma non hanno scal-fito i principi originari della nostra cucina, che a distanza di secoli persistono nel quotidiano. Il merito è delle don-ne, madri, mogli e figlie di contadini e pastori, che l’hanno praticata e tramandata nei secoli.

I piatti della sconosciuta cucina sarda non sono rintrac-ciabili nelle creazioni dei nuovi cuochi, che cercano di cre-are piatti ispirati a concetti culinari “moderni” nati nelle mense di Parigi o di New York, ma si possono trovare nei piatti di una umile donna di casa che per il suo bisogno quotidiano fa riferimento a modelli culturali che risalgo-no ad antiche origini. Nei menù dei ristoranti sardi difficil-mente troviamo in offerta piatti come ambulau, suppa de farre, faada, piadigu, pillas, pisci a collettu, succu de faa, su ministru, suppa de trigu cottu, su misciu, su ministru; eppure questi sono piatti della tradizione che in molte case sarde si consumano quotidianamente e la loro origi-ne è lontana e “povera”, come diceva il satirico Marziale nel I secolo d.C.

Cucina di SardegnaAnnotazioni e ricette tra storia e tradizione

Giovanni Fancello

La tessitura inSardegna: Sarule

Natalia Cusinu

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Non è questa l’ultima notte di vendettaaltri fucili attendono in agguatosulle fronde più verdie la terra antica non è mai saziadi sangue e amare lacrime.Barbagia e granito,ginepri contorti dal sole e dal geloè la mia terra indomita,la terra di donne dal seno velato di scuroe le mani di pietracome la pelle degli uominisotto manti d’orbacee velli di fiera domate dall’aratro.

I canti antichi parlavano di messi, di marine,di belle donne scalze sull’aiaprofumate di mirto, di lentisco,corteggiate dai venti di maestrale.

Oggi è ai mitra la parola, l’urlo,l’agghiacciante urlo soffocato di agonia

nelle balze di buio.

Nella tanca sopra il montegiace l’uccisocon in bocca un morso di terraper fermare il dolore,la vita.

Isola mia, modesta improntadi piede contadino,chiudi gli orecchi alle lodidei ricchi adulatoriche baciano le tue rivescoprendo i denti d’oro.

Spopolata sei,anche assetata e incoltaterra di mandorle amare,

di pascoli contesidi pecore migranti…

Richiama i figlioli emigrati:che insieme ti calzino un sandalo nuovoper le novissime stradedel mondo, che impetuosamente muta.

BarbagiaVanna Flore

Anche questa è SardegnaFranco Lissia

Terra di mandorle amareRaimondo Manelli

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La poesia improvvisata è un patrimonio tipico delle società contadine. Testimoniata fin dall’antichità classica in alcune aree mediterranee, si è conser-

vata nei secoli. In un’ipotetica storia delle gare poetiche in Sardegna, c’è una data precisa che segna il confine tra le testimonianze approssimative e quelle certe: il 15 set-tembre 1896. Quel giorno a Ozieri, per la Madonna del Rimedio, si tenne la prima disputa, per così dire, pubblica e solenne, in versi improvvisati, sul palco di una piazza. La data del 15 settembre 1896 rappresenta una linea di demarcazione fra la poesia improvvisata, che potremmo chiamare “d’ovile”, e quella più propriamente professio-nale. Iniziarono da allora quell’arricchimento di contenuti e quell’evoluzione tecnica che avrebbero portato la poesia orale sarda alla complessità che ancora oggi le è propria.

Tra il 1925 ed il 1930 le gare poetiche iniziarono ad es-sere in un particolarissimo occhio di ciclone: l’ostilità del

clero. La rottura definitiva avvenne nel giugno del 1932. L’insolita durezza della Chiesa sarda si spiega facilmente: con un decreto regio dell’anno precedente, il governo fa-scista aveva emanato il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Il titolo terzo del trattato ufficiale prescriveva a chiarissime lettere il divieto di “spettacoli e trattenimenti che possano dar luogo a turbamenti dell’ordine pubblico o siano contrari alla morale o al buon costume”.

Le gare poetiche pubbliche tacquero dal 1932 al 1937: cinque anni di silenzio totale. Nel 1937 giunse una sorta di condono, a due condizioni: per potersi esibire in pubblico, gli improvvisatori dovevano essere iscritti al Comitato pro-vinciale Arti Popolari di Sassari e non dovevano affrontare argomenti che toccassero la religione e la politica.

Tutti i cantadores si assoggettarono alle limitazioni. Ad eccezione di Raimondo Piras.

Su sardu, l’ischimus totu, est sempre istada limba de cantu e de poesia, limba de contos e limba de foghile. E infattis nos paret contu de foghile, custu

dipintu de Mialinu Pira, una pintura delicada, ma prezisa a sa veridade, comente la podimus bidere onzi die.

Le due patrie di Michelangelo Pira hanno contribuito a darci il cantore più completo della nostra Isola, un’Isola che cambia ogni giorno. Un cambiamento, però, per ri-manere sempre uguale a sé stessa e sempre attuale, allo stesso tempo. E’ questo il segreto della nostra terra, ogni più piccolo cambiamento è teso a ripristinare sempre un ordine antico, una ricetta vincente: un quadro ben riuscito che cambia le tinte, ma non il disegno.

La nostra patria è il prodotto di tante culture, quindi, dice Michelangelo Pira, che differenza può fare una cultu-

ra che si aggiunge a quelle già presenti? L’unica differenza può essere, semmai, una cultura che tenta di schiaccia-re le altre; ecco perché il nostro è un popolo orgoglioso. Eppure, nel nostro orgoglio, è nascosta l’ospitalità più grande, la generosità dei nostri sorrisi, la felicità dell’avere sempre nuovi orizzonti.

La vita è meravigliosa, e Mialinu fa vivere i suoi perso-naggi come in un teatro, perfetto e imperfetto, triste e un po’ buffone, nostalgico ma felice, una scena che tutti, prima o poi, dovremo calcare, lasciando dietro di noi qual-cosa: le tracce. Le tracce: Sos Sinnos. Mialinu ci ha detto dove cercare l’inchiostro giusto per quei segni: è un posto al centro del petto, che porta impresse le immagini dei no-stri cari, dei nostri amori, della nostra terra: la Sardegna.

Già, bravi: quel posto è il cuore! Come facevate a saper-lo?

SOS SINNOSmeravizosu ammentu e nostalgica poesia

Classe IV B, Liceo Scientifico “A. Segni” di Ozieri Anno scolastico 2000-2001

La poesia improvvisata in SardegnaNote storiche su una tradizione ancora viva

Classe 1ª B Liceo Ginnasio “G. Asproni” NuoroAnno scolastico 2002-2003

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Illustrazione: Raffaele Pischedda - 2001

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