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feedback anno II numero 13 OTTOBRE 2011 http://issuu.com/feedbackmagazine.it fanzine di musica indipendente BJÖRK IN QUESTO NUMERO: Matana Roberts . Four Tet . Zen Circus . Wilco . M83 . REM . Death Grips . Cormac McCarthy . Man Ray . Talk Talk . The Field . Cave

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Ottobre 2011

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feedbackanno II

numero 13

OTTOBRE 2011http://issuu.com/feedbackmagazine.it

fanzine di musica indipendente

BJÖRK IN QUESTO NUMERO: Matana Roberts . Four Tet . Zen Circus . Wilco . M83 . REM . Death Grips . Cormac McCarthy . Man Ray . Talk Talk . The Field . Cave

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ARTISTA DEL MESE BJÖRKslowly unravel

“Noi islandesi siamo più soggetti alla depressione, perché viviamo con poca luce. D’inverno è buio quasi tutto il giorno, d’estate non è molto meglio. Ma abbiamo sviluppato una speciale immunità anti-depressiva, di cui l’arte è una delle espressioni. E siamo anche i più grandi ribelli del pianeta. È per questo che non abbiamo un esercito: non potremmo mai marciare tutti allo stesso ritmo”

Björk Guðmundsdóttir nasce a Reykjavik nel 1965 in una comune hippie. Sviluppa fin da subito una volontà d’acciaio (probabilmente prendendo come esempio da non seguire proprio gli hippie), acquistando una precoce iperattività: a undici anni compone un album di canzoni pop demenziali che vende in Islanda settemila copie. Durante l’adolescenza milita in una serie di gruppi punk (come tutti, del resto), per poi fondare sul finire degli anni ottanta la band pop Sugarcubes, che ottiene un buon successo nel Regno Unito e negli Stati Uniti, diventando così la prima band islandese a raggiungere popolarità internazionale (ben prima quindi dei Sigur Ros). Il gruppo dura poco però, e si scioglie nel 1992. Björk decide così di trasferirsi a Londra, forte dell’esperienza acquistata, per sfondare come cantante. Conosce il produttore Nellee Hooper, che aveva lavorato con i Massive Attack, e produce insieme a lui il suo album di debutto, intitolato appunto Debut (1993). Il disco diventa presto un successo, ottenendo il disco di platino negli Stati Uniti, grazie soprattutto a brani potenti come Human Behaviour e Violently Happy. Nel 1995 è nominata da MTV come migliore artista femminile, ma è solo l’inizio: sempre in quell’anno esce il secondo disco, Post. Raffinato, esuberante e sperimentale, magnificamente tradotto in immagini dal regista francese Gondry, curatore di gran parte dei video, tra cui la Hyperballad (splendida ballata tra synth, battiti techno e archi). Anche Post diventa un successo commerciale e di critica, anch’esso disco d’oro negli States.Di nuovo a distanza di due anni, la stakanovista Björk dà alle stampe un altro gran disco, probabilmente il suo capolavoro: Homogenic esce nel settembre 1997 e segna una svolta decisiva. Dal punto di vista musicale, ormai padrona della sua voce unica, l’album porta a compimento la fusione tra pop e elettronica/techno, grazie sopratutto alla felice scelta dei collaboratori: Mark Bell degli LFO e Howie B, il primo maestro dell’elettronica, il secondo del trip hop. Nascono così tracce musicali indelebili come l’oscura e sensuale sinfonia di Bachelorette, la straordinaria Jòga, perfetto mix tra archi e alta tecnologia, il barocco attento di Unravel o il bad trip techno di Pluto. E poi la sua inconfondibile voce ormai pienamente dotata

di mostruosa versatilità, capace sia di aperture struggenti e romantiche (All is Full of Love), che di esplosioni distorte e graffianti (la già citata Pluto).Dal punto di vista iconografico invece la nostra passa da uno stile giovane ad uno tremendamente più adulto. Björk ama l’arte contemporanea e l’arte contemporanea ama Björk (peraltro suo marito è l’artista visivo Matthew Barney, autore del famoso ed eccentrico ciclo Cremaster, a cui dedichiamo l’ultima pagina di questo numero). I video della nostra non sono semplice accompagnamento alla canzone, ma vere e proprie opere di video arte, sempre capaci di sorprendere o addirittura di spiazzare il pubblico (so a chi state pensando, per paragoni vi rimando alla recensione!). Era dopotutto l’era di MTV, e dei grandi registi di videoclip.Video musicali rimasti nell’immaginario comune come All is Full of Love (di Chris Cunningham, famoso per i video di Aphex Twin), incredibile animazione computerizzata di due robot in intimità, esposta permanentemente come opera d’arte al MOMA di New York. O Jòga, girato dall’impeccabile Michel Gondry, in un mix tra natura islandese e computer grafica, e Alarm Call, diretto dal grande stilista Alexander McQueen. Un’altra grande dimostrazione di maturità ed eccezionale dote artistica arriva stavolta dal cinema, con la pluripremiata prova in Dancer In The Dark del mefistofelico Lars Von Trier (palma d’oro a Cannes per miglior film e migliore attrice protagonista). La cantante firma anche le musiche del film, raccolte in Selmasongs, lontano dai suoi canoni musicali in un riuscito mix tra gioia, dolore, Broadway e dramma. Thom Yorke, fan della chanteuse, presiede in un intenso duetto nella magnifica I’ve Seen It All.Dopo quest’esperienza Björk torna in studio e nasce Vespertine (2001), suo quinto album. Non mi dilungo su quest’opera, rimandandovi al “rovistando

in soffitta” di un mese fa (F#12). Da citare lo stile visivo dei video, come sempre curatissimi: Hidden Place, dei designer parigini M/M, ed i controversi ed elegantissimi Pagan Poetry (di Nick Knight, con abito di Alexander McQueen) e Cocoon (diretto da Eiko Ishioka) - entrambi vietati da MTV America.Nel 2004 è il momento di Medùlla, con un’altra super produzione: oltre ai Matmos e Mark Bell, figurano Mike Patton e Rober Wyatt e svariati e disparati cori (tra cui quello indigeno Inuit). L’album infatti è basato quasi interamente sulla voce umana e le sue infinite declinazioni (beatbox, sample digitali, tecniche indigene di canto e, naturalmente, la voce di Björk). L’anno seguente della colonna sonora di Drawing Restraint 9 (in cui anche recita nei panni dell’ospite/sposa), opera del compagno Matthew Barney.Arriviamo così all’ormai penultimo disco in studio, Volta. A cambiare le carte in tavola è la produzione, affidata stavolta oltre che al fido Mark Bell al produttore hip hop Timbaland, fortemente riconoscibile nel singolo Innocence. Il disco torna così sui lidi colorati ed esuberanti degli anni ‘90, con singoli come Earth Intruders (video di Michel Ocelot), Wanderlust (diretto da Encyclopedia Pictura in 3D stereoscopico) e la politica Declare Independence (di Gondry). Fanno parte dell’album anche due duetti con Antony Hegarty, da cui il singolo The Dull Flame of Desire. Arriviamo così ad inizio anno, precisamente a marzo, mese in cui Bjork svela il suo nuovo progetto: Biophilia, un mix tra musica, natura e tecnologia. L’album, accompagnato da un battage mediatico creato ad hoc (il primo album-app per iphone e ipad), esce il 10 ottobre: ne trovate in questo numero la recensione.“Dicono che è l’ultima canzone. Non ci conoscono, vedi. E’ l’ultima canzone solo se lasciamo che lo sia.”

- mr. potato

DISCOGRAFIA CONSIGLIATA:

Post (One Little Indian, 1995) 7/8Homogenic (One Little Indian, 1997) 10Vespertine (One Little Indian, 2001) 9Medulla (One Little Indian, 2004) 7/8

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DISCO DEL MESE

RECENSIONI

Free Jazz

MATANA ROBERTS Coin Coin Chapter One: Gens de couleur libres[Constellation, 2011]

Electro-Mix

FOUR TET Fabriclive 59[Fabric, 2011]

Ho trovato la donna della mia vita. Ha trentadue anni e un sassofono contralto tra le mani. C’è di più: la sempre attiva Constellation ha appena licenziato il quinto disco della sua carriera. Stiamo parlando di Matana Roberts. O forse di Albert Ayler? A momenti è difficile distinguere i vagiti e le pernacchie dell’una dai vagiti e dalle pernacchie dell’altro. Ciò che fa da netto distinguo fra questo disco e il resto della sbobba free è quel che meno ci si aspetterebbe da un disco di jazz (ma perchè, poi?): il contenuto. Miao, proprio così: se oggidì va per la maggiore l’idea che per fare del jazz si debba inserirvi a forza qualche stucchevole campionamento, la Roberts nuota controcorrente e punta su aspetti forse meno immediatamente individuabili. Forse, già, perchè a ben guardare Coin Coin volume one l’intento lo dichiara fin dal titolo e dal sottotitolo; celebrare/raccontare in dodici volumi la storia di Marie Therese “Coincoin” Metoyer (1742-1816), prima schiava e poi imprenditrice, nera vissuta per i neri e fondatrice della prima chiesa per “gens de couleur libres” (persone libere di colore). Il mezzo scelto per questo fine è la spoken word, alla quale si attinge in modo mai scontato e sempre gustoso. Se ci fermiamo alle premesse, ci potrebbe essere qualcosa di più adorabile?Beh, forse sì; ancora più adorabile è il constatare

come una materia simile regga benissimo se messa in musica, e come trovi anzi proprio nella musica la sua collocazione più consona e commovente. La strumentazione adottata dalla Roberts è ricchissima ma tradizionale; non c’è nulla di processato e la materia sonora suona calda e amichevole. In questo contesto, dunque, lo starnazzare del sax nell’incipit del primo pezzo Rise suona come il barrito di un elefante che scheggia la pace della savana. Pian piano si instaura una pacifica armonia fra gli elementi dell’ensemble, che creano musica con pochi e timidi tocchi per ciascuno: la successiva Pov Piti si apre in un clima sciamanico e disteso. Ci pensa però il balbettare epilettico della stessa Roberts a riscaldare l’atmosfera con una rabbiosa panoramica sulla vita della Metoyer. Gli altri strumenti, caricatisi di tensione, rispondono con un’elettrica esplosione che presto lascia il posto a una funerea melodia degli archi contornata da ronzii chitarristici. È un attimo: subito una veloce frase di piano ci introduce all’interno di Song for Eulalia, in un girotondo da battimani di fiati che cede il passo ad una vertigine di silenzio in cui spiccano atroci staffilate chitarristiche e violinistiche la quale a sua volta sboccherà in una infiorescenza freejazz dal sapore africano che poi.. Come? Periodare un po’ scorretto, dite? Ebbene,

allo stesso modo Coin Coin Volume One è scorretto con chi ascolta: nella sua così naturale esuberanza, nel suo infinito dinamismo, nella sua inventiva leggiadra e mai scontata. Il disco contiene altre cinque canzoni, forse tutte più riuscite di quelle descritte (una su tutte I Am), ma c’è poi bisogno che ve lo dica? L’avete già capito da soli che Matana Roberts è anche la donna della vostra vita.

8- samgah

Per un amante dell’elettronica le uscite targate Fabric sono sempre da tenere d’occhio, se poi il nome che gli viene accostato è quello di Four Tet il risultato è sicuramente di spessore. Per la 59° edizione del Fabriclive il dj londinese seleziona una compilation di tutto rispetto composta da 27 pezzi dei quali soltanto 2 sono suoi inediti; il resto dei brani spaziano dalla dub più pura fino alla house più ricercata, creando un coeso sitema di ritmi musicali che si susseguono come un unica sequenza. Il grande merito di Kieran è quello di scegliere bene il contorno per poter inserire i suoi brani, talmente bene che già da sola la compilation sarebbe tutt’altro che banale; poi arrivano Pyramid e Locked , i due gioiellini che ribadiscono ancora una volta (se ce ne fosse bisogno) lo straordinario talento del dj nel fondere insieme i mille volti dell’elettronica per ottenere una miscela compatta ed omogenea di puro intrattenimento. Tra i pezzi scelti ce ne sono sia di vecchi che di nuovi, da artisti più o meno famosi; mi permetto di citare Street Halo del maestro Burial e Sieso di Villalobos.

“This mix is not about my DJing. I hope people play it fucking loud and lose their minds in it and remember

or imagine what it’s all about.” Four Tet

7- w

Sinfonica/Avant-Jungle

AMON TOBIN Isam[Ninja Tunes, 2011]

Il brasileiro Amon Tobin stupisce con quest’ultima uscita. Se nei dischi precedenti (come Bricolage e Foley Room) si è fatto della tecnica del cut’n’paste un metodo compositivo, in Isam la volontà è di dare a quest’artificio una sua natura, un suo respiro, un suo mondo. Il disco fa risuonare nostalgiche atmosfere di una poesia dimenticata, lontana e ancestrale. I brani hanno presente al loro interno l’effetto reverse, e i beat sono delle vere e proprie frustate, come se i pezzi arrancassero e volessero scalare una faticosa parete rocciosa per raggiungere la vetta della sonorità. Questo nuovo Schiller oscilla tra brani con campanelle e melodie rapsodiche (Journeyman, Lost & Found, e il gospel Wooden toy), sinfonismi apocalittici (Piece Of Paper) e ritmi da

giungla urbana (Goto 10); tra chitarre e coretti che si buscano sberle di grancassa in piena faccia (Mass & Spring) e carillon che vanno al contrario con, di tanto in tanto, dei droni funesti che urlano e dicono la loro. Ogni pezzo porta con sé una sua storia, un ricordo sublimato che non può essere visto nella sua trasparenza, bensì nella suo opacità e nella sua lontananza. Isam è un’eterna dynamis nel continuo atto di rimanere in potenza. Racchiuse in questo involucro di reverse elettronico e sospiri fumosi, le tracce sono state giudicate, talvolta, di eccessiva impenetrabilità. Ma questo disco, sicuramente di non semplicissimo ascolto, ha in sé la difficoltà del dover parlare ad orecchie che già conoscono quello che ascoltano. Questo è un disco che va verso lidi ignoti.

8/9- gorot

21st Century Schizoid Rap

DEATH GRIPS Ex-Military[Third Worlds, 2011]

Ci risiamo: il poliedrico batterista Zach Hill è tornato, ancora. Autore, nel duo degli Hella, di un suono spigoloso e math, dedito ad un utilizzo della batteria molto particolare basato su tempi dispari, colpi al

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fulmicotone sul rullante e scudisciate stridenti sui piatti. Autore, nel progetto solista a suo nome, di un rock schizzato e fortemente avant. Autore, sempre, di opere di altissimo livello. Questa volta non è solo e non è neanche affiancato dall’altra metà degli Hella. Da chi è accompagnato allora? Da un signore di colore, con barba lunga e abiti larghi, MC Ride, e dal produttore Flatlander. I due, sotto la supervisione di Flatlander, in questo disco donano anima e corpo al rap. Un rap, strettamente connesso alle acrobazie dell’hip-hop, che esce dagli schemi del genere per sfociare in un mare vastissimo di possibilità. La traccia d’apertura Beware è già un manifesto. Si inizia in sordina con una voce che prosegue in loop sulla quale, improvvisamente, si rovescia un beat malatissimo, seguito a ruota dalla spigolosa voce di MC Ride. L’atmosfera del disco è basata su una tensione costante, senza possibilità di prendere fiato. Non esiste gradatio, in barba alle teorie sulla retorica; il meglio non si trova né all’inizio, né nel mezzo, né alla fine. La sensazione è che, nel mercato di oggi e nelle prospettive che ha il rap contemporaneo, questo disco può essere (anzi è) un nuovo ricettario su cui basarsi, una nuova inventio che supera i luoghi comuni e si pone come base per una nuova ricerca. Lavoro coraggioso, in alcuni punti non facile da digerire, ma che comunque garantisce grandi soddisfazioni, specialmente per chi, in questo genere, è da anni che non ne trova, a causa di dischi sopravvalutati che non rispettano le aspettative (esempio del 2011, Tyler The Creator con il suo Goblin).Perciò godiamoci questi schizzi di libertà, di anarchia e di grande stile.Facciamo in modo che il rapporto dialettico tra il magnifico dono che i Death Grips ci fanno e la nostra risposta sia distrutto. Per colpa loro, non sarà facile.

8- matmo

Neoclassica, Ambient

A WINGED VICTORY FOR THE SULLEN S/T[Kranky, 2011]

La creatura di Adam Wiltzie (Stars of the Lid) e di Dustin O’Halloran (Dévics) è eterea e impalpabile. Si distende lenta sulle armonie del piano, si raccoglie nella sua atmosfera serafica e sospesa; muove i primi incerti passi al suono di una viola (We Played Some Open Chords), acquista naturalezza non appena gli accordi prendono il posto delle singole note; le melodie soffuse ne cullano il sonno, il suo respiro si armonizza con le vibrazioni degli archi: mai una nota fuori posto turba la sua quiete. Non c’è spazio per crescendo post o stranezze drone. L’ambient cosmico di Wiltzie e il dream-pop di O’Halloran evaporano tra le trame orchestrali di un disco che è invero un tenue affresco sincretico-sonoro ricco di suggestioni nascoste; scrittura austera e impostazione classicheggiante convivono con la sensibilità minimalista del duo, in un amalgama che sorprende per linearità e semplicità d’ascolto.Titolo e copertina sono fuorvianti: la “vittoria alata” è un baluginio lontano, difficilmente raggiungibile dai due artisti; A Winged Victory for The Sullen si focalizza invece su immagini concrete: la morte (Requiem for the Static King), quella dell’amico Mark Linkous (Sparklehorse), la malinconia più amara (la struggente A Symphony Pathetique) e, di risposta, un sussurrato inno alla vita che ha la voce di un violino estatico in Steep Hills of Vicodin Tears.

Chiude il quadro All Farewells Are Sudden, pennellata di rara bellezza e intensità emotiva. La creatura di Wiltzie e O’Halloran, fragile e ancora palpitante, si dissolve nella bruma mattutina.

7- zorba

Indie-Rock / Festa di paese

ZEN CIRCUS Nati Per Subire[La Tempesta Dischi, 2011]

L’ultima spudorata beffa imbastita dal mercato discografico italiano risponde al nome di Zen Circus, un trio becero e conformista venduto come fosse roba trasgressiva. L’agiografia recita il solito adagio: cantavano in inglese ed erano riveriti in capo al mondo, finché la nostalgia canaglia non li ha riportati tra noi. Beninteso che di tale passato non esiste alcuna testimonianza che non sia in italiano e che oltralpe nessuno se li fila (sì, la collaborazione con un decrepito Brian Ritchie ha portato loro qualche sparuta attenzione, ma trattasi di briciole). D’altra parte se l’ispirazione è tutta anglofona e davvero hai talento perché mai rinunciare a un’esposizione globale e tornare all’ovile? La verità è che gli Zen Circus sono una moscissima cover band di Violent Femmes e Pixies la cui ragione d’essere sta tutta in testi politicizzati e italocentrici, trite ovvietà sputateci addosso con l’aria di chi la sa lunghissima e canta fuori dal coro. Inutile cercare un immaginario al di là del più sciatto pensierino da bar, se il disco per qualcuno funziona è solo perché dalle nostre parti gli slogan vanno sempre di moda. Italia ignorante e razzista (Franco), borghesia ipocrita e la democrazia che non va (che coraggio intitolare una canzone I Qualunquisti...), fino a una irritante quanto ingenua tirata anti-religiosa (L’amorale irride millenni di dibattiti filosofici come fossero solo idiozie). Un armamentario retorico perfetto per i social network, decorato dal più puerile turpiloquio — come se dire le parolacce fosse eversivo, quando da Bossi in giù non è che la lingua del potere. Le immancabili ospitate ingolosiranno gli autorefenziali blog dei nostri giornalisti (la voce tremula di Alessandro Fiori, gli orpelli anti-rock di Gabrielli, un dinosauro chiamato Giorgio Canali e gli imbarazzanti Ministri).Musicalmente inqualificabile e ideologicamente cretino, di dischi più divertenti di questo ne escono decine ogni mese: di musica migliore ce n’è insomma a pacchi, a patto che si rinunci ai pistolotti in lingua natia e si provi a pensare con la propria testa.

3- bobi raspati

World Music/Experimental Rock

ZUN ZUN EGUI Katang[Bella Union, 2011]

Digitando su internet il curioso moniker dietro il quale si nascondono i quattro ragazzi di Bristol vengo a conoscenza dell’esistenza di tale J. A. Zunzunegui, scrittore spagnolo d’inizio secolo, e di Fernando

hanno effettivamente incise poche (vantano alle spalle solo qualche EP in cinque anni di attività). Eppure i nostri avrebbero davvero tutte le carte in regola per spopolare nella scena indie odierna: bravura tecnica non da poco, uno spiccato taglio multirazziale, un po’ di autocompiacimento che non guasta. Più nello specifico, gli Zun Zun Egui propongono un improbabile miscuglio di afro-beat (musica folkloristica nigeriana con influenze punk e jazz e tanti ringraziamenti a Fela Kuti), math rock e progressive, il tutto a fare i conti con una predisposizione absolutely free che rende il risultato ancora più caotico. Se poi aggiungiamo il cantato costantemente sopra le righe e spesso incomprensibile di Kushal Gaya e la batteria di Matthew Jones, che ci dà dentro con entusiasmo felino e matematica precisione, si moltiplicano i riferimenti a Frank Zappa, considerata anche una certa passione da parte dei nostri per gli intermezzi rumoristici. I risultati migliori si osservano quando gli ZZE si muovono a briglia sciolta: Katang, frenetica e nevrotica come i primi XTC, Mr. Brown, scandita da un andamento ora marziale, ora rilassato, Fandango Fresh, singolo frizzante e frammentato, che esalta tutta l’abilità del batterista, vero fulcro delle costanti impennate della band. Quando l’entusiasmo animalesco lascia il posto a un clima più disteso e introspettivo, però, la maniera tende a superare il semplice citazionismo, concretizzandosi in una seconda parte nettamente più fiacca. Poco male: ci siamo divertiti.

6/7- zorba

Alt-Rock

WILCO The Whole Love[Dbpm, 2011]

L’ultima fatica degli Wilco non riesce né a smentire né a dar ragione a tutti quelli che sostenevano che da loro non ci si potesse aspettare più niente. Se è vero che la band di Chicago non aggiunge niente a quanto detto con i dischi precedenti, Jeff Tweedy e soci intraprendono comunque un’interessante opera di ridefinizione della loro musica, non disdegnando di cimentarsi in riuscitissime variazioni sul tema. Art Of Almost, collegandosi con l’opera d’arte in copertina dipinta dall’artista contemporaneo Joanne Greenbaum, è una sorprendente e isolata bufera elettronica. La “vera” apertura si ha con Might I, trionfale ritorno a tutto quello a cui gli Wilco ci hanno abituati e di cui adesso, dopo “solo” dieci anni, non sappiamo più fare a meno. Magnetici, giocosi e immancabilmente upbeat, nella doppia accezione di “in levare” e “ottimisti”, il filone classico procede con Dawned On Me, Born Alone e la scoppiettante Standing O. Non mancano i momenti acustici, come le emblematiche Open Mind e Black Moon, lasciate in sospeso tra una vaga malinconia e la speranza sognante degli archi. Tutto è destinato a spegnersi dolcemente in One Sunday Morning (Song For Jane Smiley’s Boyfriend), profonda e sincera indagine sul tema della paternità. Dodici minuti di pianoforte e chitarra acustica portati avanti con semplicità disarmante ed immutata capacità di commuovere. Forse gli Wilco saranno in grado di dire qualcosa di nuovo in futuro, in ogni caso dovranno impiegare uno sforzo notevole per distaccarsi da un linguaggio musicale e poetico così d’impatto e ben congeniato.

7- comyn

Zunzunegui, ex difensore del Real Madrid. Poche tracce però degli Zun Zun Egui, che di tracce ne

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Epic/Barok Electro Pop

M83 Hurry Up, We’re Dreaming[Mute, 2011]

Esce così anche l’ultima fatica di Anthony Gonzalez, ormai unico possessore del moniker M83: un doppio disco ambizioso sulll’infanzia, tema molto caro al francese.Si inizia subito sparati, nella Intro del primo lato, con grossi synthoni pomposi. Viene introdotta la voce di Anthony, qui alternata con Zola Jesus, mettendo bene in chiaro fin da subito quanto la componente ‘cantata’ sia ormai parte integrante della musica del gruppo. Già il disco precedente Saturdays=Youth era una chiara dimostrazione di come il sound strumentale era virato verso una più rigida forma canzone, concludendosi in un frizzante connubio tra dream pop e shoegaze elettronico. Sicuramente Midnight City, scelta come singolo preview, è una bomba: il caratteristico starnazzo elettronico fa da traino a una potente traccia dopata. Il sax nel finale significa osare senza farsi troppi problemi. In primo disco procede tra alti e bassi: Reunion è un brutto coro da stadio, Wait prova a cavalcare l’onda del folk contemporaneo (Bon Iver su tutti), Raconte-Moi Une Histoire spinge sulla nostalgia della voce infantile, per poi esplodere in un vorticoso valzer. Gli intermezzi (ovvero le tracce di poco più di un minuto), composti nel deserto californiano, svolgono il loro dovere di collante tra le canzoni. Ascoltare Claudia Lewis è imbarazzante. Infatti in alcune tracce il falsetto del nostro Anthony più che arricchire il tappeto sonoro (che, va detto, è quasi sempre di gran qualità), lo deturpa. Il secondo disco inizia con My Tears Are Becoming a Sea, anthem rock opera dei peggiori Queen. A volte sembra di ascoltare una sbiadita versione degli Air (le voci riverberate, sintetiche e sognanti), altre volte gli Arcade Fire (la coralità esasperata). Il pathos strumentale del capolavoro Dead Cities, Red Seas & Lost Ghost è ancora presente a sprazzi, come nella bella Echoes of Mine, ma è troppo poco e troppo tardi.Nonostante il titolo ci inciti a fare in fretta, la lunghezza esagerata del disco ci sfinisce.

5- mr. potato

Alt-Pop

DOGS IN SPIRIT Anna Aaron[Two Gentlemen, 2011]

Se deciderete di cercare in Rete notizie su Cecile Meyer alias Anna Aaron, vi imbatterete in un sito fresco di apertura, con giusto un paio di news e qualche commento. A word by the window, la sua video rubrica mensile, conta appena due episodi. Con alle spalle una finestra di cartone Anna parla impacciata dei suoi collaboratori e dei progetti futuri, visibilmente a disagio davanti alla telecamera. Eppure questa timida ragazza dall’aspetto gentile è la stessa che ci guarda decisa dalla copertina di Dogs in Spirit, mentre le cola sul volto un non meglio precisato liquido scuro. Scorrendo i testi dell’album la sorpresa è ancora maggiore trovandovi un’impressionante carrellata di personaggi biblici: dal profeta Elia in apertura con Elijah’s Chan a Santa Giovanna, nel

brano intitolato appunto Joanne. Al primo ascolto si è letteralmente assaliti da una nuvola di citazioni mitologiche, che sono il mezzo attraverso il quale l’autrice riflette sulle proprie paure in rapporto alla violenza crescente della realtà. La parte musicale, che in tutto questo passa purtroppo in secondo piano, ha indubbiamente bisogno di crescere e di trovare una sua originalità. Anche con l’aiuto di musicisti esperti come Marcello Giuliani alla chitarra e il trombettista Erik Truffaz, la Aaron non riesce ad emergere, collocandosi indefinitamente tra una Kate Bush “più originale” e una Pj Harvey “meno spigolosa”. Spetta al cane di cui si fa cenno nel titolo, in quanto ritenuto nell’antichità fedele guida dell’uomo nell’oltretomba, accompagna l’ascoltatore in singolare viaggio tra le angosce, forse già fin troppo profonde, di una ventenne.

6- comyn

Soft-Techno

THE FIELD Looping State Of Mind[Kompakt, 2011]

Cambio di rotta per Axel Willner, in arte The Field, che dopo un coraggioso secondo disco all’insegna della techno più solida e colorita ritorna in questo terzo capitolo alle origini ambient che lo avevano contraddistinto nel suo lavoro d’esordio del 2007. Ad un primo ascolto potrebbe sembrare che il cambio di rotta sia più un passo all’indietro, un ritorno alla leggerezza e alla tranquillità della dream techno da chillout, ma non è così, c’è molto di più in questo disco. C’è ancora una volta la consapevolezza di un artista improntato sullo studio e le derivazioni del suono, c’è la ricerca di una completezza sonora che a quanto pare non era stata raggiunta con la sfavillante dose di energia e beat ed aveva così bisogno di nuovi percorsi da esplorare; Alex non ha paura di tornare indietro perché sa di poter scegliere strade diverse. Così in 63 minuti si passa dai caldi ritmi dell’elettronica più raffinata a scenari algidi e desolanti dell’ambient più puro, si respira un po’ di punk e molto shoegaze ed una base techno leggera e uniforme che aleggia su tutte le tracce. Il suono dell’artista svedese non è mai stato così completo, raffinato e curato nei minimi dettagli, tutte caratteristiche che me lo rendono estremamente soporifero e che continuano a farmi preferire la versione più casinista e meno ragionata del 2009.

6/7-w

Post-Blues/Industial Noise

BANCALE Frontiera[Ribéss, Fumaio, Palustre, 2011]

Avete mai visto un palco con delle lamiere di metallo e una carriola giusto a fianco della piccola mela-marchio del compianto Steve Jobs? Ecco appunto, i Bancale uniscono graffi di attrezzi da lavoro direttamente con interventi a computer sulla texture sonora, fondamentalmente un blues etereo e nebuloso incalzato da ritmiche

che si potrebbero definire quasi artigianali, protoindustriali. Il risultato è un suono sospeso, che naviga a metà tra lo spazio e il tempo all’interno di un pianeta stagnante e paludoso. I riferimenti vanno inevitabilmente ai contemporanei Bachi da Pietra e Massimo Volume, oltre alla presenza di un ex-componente degli Infarto, Scheisse!, ma la personalità del trio bergamasco va ben oltre il semplice scimmiottamento. In realtà bastano i titoli dei pezzi migliori a parlare per le atmosfere che suscitano: Lago del tempo, velata marcetta che sembra procedere lenta lungo un fiume fangoso, gli sconquassamenti sonori di Megattera e Corpo, con sottofondi da officina, oppure il blues incrostato di Catrame. La curiosità della voce, a metà tra cantilena e sussurro fumoso, emerge subito in Randagio e tocca il picco nella vorticosa Calolzio. Altri due pezzi forti (il primo è anche il primo singolo estratto) sono Frontiera e Cavalli, che accolgono frastuoni di chitarra e batteria più tendenti al noise-ambient. Chiude infine la leggerissima ballata Suonatore cielo, ciliegina sulla torta di un esordio full-lenght davvero degno di nota.

7/8- fp

Krautrock

CAVE Neverendless[Drag City, 2011]

Chissà cosa penserebbe dei chicaghesi Cave il nostro amico Simon Reynolds (F#12), autore di una delle più lucide riflessioni riguardo alla nostalgia in musica. Dopo un periodo stoner sotto il marchio Warhammer 48k, i Cave sono da qualche anno approdati a una riscrittura apocrifa ma senza dubbio appassionata e ossequiosa dei canoni del krautrock (per i giovincelli, leggasi rock progressivo-psichedelico tedesco dei primi anni ‘70). Con gli album Hunt Like Devil (ancora molto rumoroso), Psychic Summer (con sentori angelicati di Oneida) e soprattutto l’EP Pure Moods, maggiormente equilibrato perchè conciso e compatto, si fa sempre più pervasivo l’innamoramento per il caro vecchio motorik (uno spedito battito in 4/4 percorso fino a dare le vertigini, marchio di fabbrica dei NEU! con radici nei Velvet Underground di White Light/White Heat e ramificazioni nel rock and roll nervoso dei Ramones) così come per gli intarsi melliflui e ipnotici di quei dischi là (più Harmonia che Faust, più Ash Ra Tempel che Can). In Neverendless (un omaggio alla crucca e seminale Fur Immer?) il quintetto riduce l’apporto della voce, ripulisce ulteriormente i timbri, affila la produzione e raddensa chilate di minimalismo, tra Reich e Riley ovviamente. L’apertura W U J è la prima incalzante progressione in salsa motorik, condita da fuzz chitarristici e svolazzi di synth. La seguente This Is The Best sono quattordici minuti di ripetizioni e iridescenze. La finale O J, altro motorik a ruota di collo, riavvolge ad libitum un paio di riff rotondi di organo. Non rivoluzionario ma nemmeno calligrafico, nonostante i pochi elementi messi in gioco il disco è un riuscito esercizio di equilibrio, particolarmente adatto ad ascolti reiterati e a lunghi viaggi in bicicletta (noi di Feedback tolleriamo i retrofili di buon gusto ma odiamo le automobili).

7- bobi raspati

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feedback - OTTOBRE 2011 feedback - OTTOBRE 2011 feedback - OTTOBRE 2011 feedback - OTTOBRE 2011Blues/Funk/Industrial

THE CYBORGS The Cyborgs[INRI, 2011]

Due maschere inquietanti da robot-saldatori e un’aperta passione per il codice binario: i Cyborgs (numero 0: chitarra e voce, e numero 1: basso in synth e batteria contemporaneamente, tastiere) sono la seconda uscita della giovane etichetta INRI di Torino. Una mistura di blues secco e basilare, unito a suoni raschiati e vagamente industriali (vedi voce distorta e chitarra spalancata), compongono dei ritmi ballerini e molto semplici. Il suono del duo futuristico non si discosta infatti troppo dal passato ancestrale: quello che ne esce è blues appunto, né più né meno, ma perlomeno è divertente e supportato da un ottimo groove. Irresistibile è per l’appunto l’iniziale Cyborgs Boogie, e perfetti giri di blues classico sono 20th floor e 2110, ipotetico futuro apocalittico che si riscopre però nell’essenza del primordiale. L’aitante Human face (di cui è contenuto un ottimo remix minimale nelle bonus track) e il singolo d’anteprima Dancy riportano quasi ad atmosfere anni Cinquanta, mentre i pezzi centrali del disco assumono tinte più fosche e lugubri. Prossimi ad un breve tour nell’Europa Centrale, i Cyborgs potrebbero seguire il percorso di molti artisti che aspirano a lasciare il nostro paese o che proprio altrove hanno iniziato (come il batterista dei belgi Hulk, non più in attività ma anch’essi schietti ed efficaci nei loro semplici giri r’n’r). In ogni caso, lo faranno di sicuro a passo di boogie e nascosti dietro due copricapi allarmanti, pronti ad annunciare la razza umana del futuro per recuperare quel che resta del passato.

6/7- fp

PitchforkHype

GIRLS Father, Son, Holy Ghost[True Panther, 2011]

biondi e unti, e insieme a Chet “JR” White (il bassista moro) qualche tempo fa era riuscito a sfornare uno degli album più freschi e sinceri degli ultimi anni. In ogni caso, adesso dimenticatevi di tutto quello che aveva significato per voi nostalgici hippies Album: Owens, a giudicare dal titolo, ha smesso di gironzolare scalzo e deve aver trovato alloggio presso la canonica di una chiesa. Scherzi a parte, quello che stupisce all’ascolto di questo Father, Son, Holy Ghost è un oggettivo cambio di corso: dalle movenze hipsterfigliodinessuno degli inizi si è passati ad un suono epico e glorioso, dalla spiazzante spontaneità di Lust For Life all’altrettanto spiazzante artificiosità della succitata Vomit. Non che si debba fare di tutta l’erba un fascio (si salvano l’episodio contrito e vespertino di My Ma, e la beatlesiana Love Like A River, forse contaminata un po’ da fronzoli GigInTheSky), ma davvero i pezzi che lungo la tracklist skippiamo volentieri sono parecchi. Tra i più deplorevoli: Just A Song (uno

Alla voce Girls-Vomit su Youtube si trovano un sacco di video imbarazzanti. Uno di questi è il primo estratto dal nuovo dei Girls, la band: ve li ricordate? Christopher Owens è il cantante dai capelli

dei peggiori della stagione), Forgiveness e Jamie Marie (non lenti o slow-core, come qualcuno li definirebbe, ma desolanti), Die (una cavalcata hard rock che lascia perplessi), Saying I Love You (diabetica già dal titolo). Dobbiamo essere sinceri, Chris. Un po’ ci deludi.

4/5- visjo

Pop/Glo-fi

NEON INDIAN Era Extraña[Static Tongues, 2011]

aderito con totale obbedienza e fedeltà, perciò non mi dilungherò in sterili presentazioni. Sarebbe altrettanto inutile, e certo rincarerebbe la dose di nostalgia (è proprio il caso di dirlo), ricordare a voialtri quanto Psychic Chasm di Neon Indian aveva saputo far sognare il ragazzino nato nell’85 che era in tutti voi. Quindi, senza troppi giri di parole, in maniera rapida e -spero- più indolore possibile, ve lo dico già da ora: player out! stavolta il guru del Game Boy ha fallito. Strutturato come fosse l’inviluppo di una forma d’onda (vale a dire scandito dai momenti dell’attacco (Heart: Attack), decadimento (Heart: Decay) e rilascio (Heart: Realese), ma a voi tecnici che lo dico a fare…), Era Extraña vede al massimo in questo la sua unica nota di originalità. Tutto si fa molto più controllato: il suono perde in schiettezza e viene “ingabbiato” negli standard della canzone pop, allo sperimentalismo 8bit si sostituiscono scialbi riff di synth che incattiviscono il mood incerto dei pezzi e che mandano tutto in distorsione (sistema nervoso compreso). E pensare che l’iniziale Polish Girl farebbe presagire a uno svolgimento quantomeno piacevole, insistente con la sua cadenza flemmatica da bagnasciuga, o che la ballabile (ma tutt’altro che indimenticabile) Ex Girlfriend avrebbe un che di intrigante, con quelle aperture improvvise per voce e farfisa. Ma la titletrack, con tutto il suo manierismo romantico marca Washed Out, è uno dei tanti pezzi che davvero vi farà ricredere sul vostro eroe, il quale, non penso sopravviverà al prossimo livello.

4/5- visjo

Cari amanti della retromania e glo-fiers mancati, oggi vi parlo di come non si fa un cd. Avrete sicuramente presente Alan Palomo, vostro capofila e autore del manifesto cui, già da un paio d’anni, avete

Kraut/Nu-Disco

WALLS Coracle[Kompakt, 2011]

l’ottimo disco omonimo del 2010, esce Coracle, sempre per Kompakt. I Walls sono riusciti a creare un loro suono, nettamente riconoscibile, fatto di atmosfere eteree che fanno l’occhiolino all’ambient più sentimentale, condito da battiti techno/house

Alessio Natalizia non è mai sazio. Dopo le pietre miliari fatte insieme ai Disco Drive, le atmosfere globali di Banjo Or Freakout, ci regala un nuovo disco con i sui Walls, in coppia con Sam Willis. Dopo

di matrice kraftwerkiana con riferimenti più o meno velati alle vocine di Caribou e ai suoni degli Animal Collective. Il disco parte con uno dei pezzi migliori, Into Our Midst, che ci scaraventa nel loro mondo, base che lo rende ballabile, vocalizzi dansnithiani e un’elettronica teutonica suonata a Detroit. Segue Heat Haze che nei suoi quattro minuti meditativi ci prepara ad atterrare in lande sperdute dove i Popol Vuh si mettono a scrivere musica da dancefloor/trip. A chiudere la prima parte Il Tedesco che continua sulla linea dei pezzi precedenti, riportando a galla le ritmiche di apertura. La seconda parte del disco cambia coordinate, ai ritmi della prima rispondono tastiere e chitarre elaboratissime che creano un bellissimo intreccio ambient. La grandezza dei Walls è l’originalità, consiste nel non marciare sulle mode contemporanee. Così questi pezzi nascono con lo sguardo rivolto al passato, alla sacralità del Popol Vuh, ai viaggi dei corrieri cosmici tedeschi (Vacant). C’è la voglia di oltrepassare i limiti dell’elettronica, come in Raw Umber Twilight dove si crea una fusione tra i Mogwai e i Krafwerk. A chiudere il viaggio la bellissima Drunken Galleon, finale romantico à-là Wolfgang Voigt, che, con i sui vocalizzi estatici ci riporta con la mente alle più belle parentesi della storia della musica, quelle dei Sigur Ros. È la più bella conclusione possibile per un viaggio intimo, vero e di rara intensità. “Beauty is truth, truth beauty “

8 - matmo

Breakbeat/Hip-Hop/Glitch

MODESELEKTOR Monkeytown[Monkeytown, 2011]

Il più grande pregio della musica elettronica è sicuramente quello di avere infinite possibilità di sviluppo; i Modeselektor sono uno di quei gruppi che attraverso la sperimentazione ha creato un suono unico. Il duo berlinese che negli ultimi anni aveva preferito collaborazioni, remix e compilation fa tremare le casse di molti impianti con un nuovo lavoro che sicuramente finirà tra i migliori dell'anno. Difficile etichettarlo, difficile ascoltarlo, semplice capire che si tratta di un ora di pura energia. Ogni traccia esplora i più vasti sentieri dell'elettronica, dalla techno alla dub, dalla house alla acid, dal glitch più rumoristico alla breakbeat più pura, tutto sembra trovare la giusta dimensione perchè niente è banale o casuale, niente suona mai noioso o già sentito. Belli anche i pezzi di Hip-Hop puro che trovano perfettamente spazio fra le basi rumoristiche e le cannonate di bassi; tutto è gestito con perfezione, con tranquillità, sembra quasi di ascoltare tanti album diversi con altrettante canzoni che ritornano inesorabilmente tutte nello stesso disco. L'ascolto è impegnativo perchè è sempre imprevedibile e per ogni canzone che finisce ti viene spontaneo domandarti quale territorio musicale abbiano saccheggiato i Modeselektor per creare quella successiva. Monkeytown è una bomba, un viaggio senza destinazione che può portarti ovunque, un disco spiazzante e potente, avevamo bisogno di un disco così.

7/8- w

"Happy metal, hard rap, country-ambient, Russian crunk. We don’t like it if people tag us as being a certain style or school or scene or whatever. We don’t really care about all that."

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feedback - OTTOBRE 2011 feedback - OTTOBRE 2011

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ROVISTANDO IN SOFFITTAAlternative Rock

REM Murmur[IRS, 1983]

Slo-core

TALK TALK Laughing Stock[Polygram, 1991]

la carriera dopo 31 anni e quale modo migliore per ricordarli se non parlare del loro primo disco che per tanti è anche il loro capolavoro? Murmur è una rivoluzione silenziosa, una scossa a basso voltaggio che nella sua estrema semplicità riesce a creare una nuova corrente sonora attraversando di fatto tutte le mode musicali dell’epoca e tracciando un solco profondo fra la musica mainstream e quella alternativa. Il grande merito dei R.E.M non è soltanto quello di aver coniato questo suono ma anche quello di averlo protetto dalle grinfie del mercato: i produttori volevano inserire assoli di chitarra e sottofondi di synth in molti dei pezzi registrati perchè il disco sembrava un po’ troppo silenzioso, ma i rifiuti di Stipe e compagni alla fine ebbero la meglio. Le 12 tracce apparivano come normalissime ballate, ma erano al tempo quanto di più alternativo si potesse fare; rappresentavano la nuova ondata che assimilava le passate lezioni di punk e new wave nel basso e nella batteria, che proponeva una chitarra squillante ed energica ma mai prepotente, mentre le parole superflue di Stipe, che oscuravano il significato di molte canzoni per fungere da strumento musicale di accompagnamento più che di racconto di una storia, donavano un fascino misterioso ad ogni composizione. Si trovavano accenni di psichedelia, di country e perfino di antichi balli folk che i R.E.M avevano saputo recuperare e rimodellare a loro piacimento. Murmur non aveva niente di tradizionale ed il simbolo più evidente di questa rivoluzione era la tranquillità che aleggiava su tutto il disco, l’effetto senza tempo di un suono nuovo che non aveva precedenti e che nascondeva dietro alla semplicità un grande lavoro di revisione e la capacità straordinaria di dosaggio di tutti gli strumenti. Nonostante le vendite del 33 giri non andassero alla grande (200.000 copie vendute sulle 500.000 previste) la rivista Rolling Stone lo inserì al primo posto fra i dischi dell’anno, riconoscendogli il merito di aver lanciato la musica alternativa nel mercato americano; la pietra angolare dell’ alt-rock è anche uno dei migliori lavori dei R.E.M che, spensierati, giovani e squattrinati, avevano forgiato quasi senza accorgersene una nuova concezione di fare musica che avrebbe influenzato le future generazioni.

- w

Il 21 Settembre 2011 si sono sciolti i R.E.M.; una delle band fondamentali per lo sviluppo del rock alternativo e della cultura underground ha deciso di chiudere

Disco del 1991, successivo a Spirit of Eden (1988), porta a compimento lo scardinamento del pop-rock-folk grazie ad una formazione di turnisti d’occasione guidati da Mark Hollis, il leader della band. Il disco parla chiaro: sei tracce, non di più. L’apertura in medias res del disco dettata dal fruscio di un amplificatore valvolare che dopo trenta secondi viene seguito da una calma e docile pennata di chitarra.L’esordio di Myrrhman, con la voce di Hollis acuta, stiracchiata e rotonda ci culla con trasporto in un’esperienza lirica senza pari dove la chitarra e la voce si evolvono in lunghi e spalmati tappeti di archi e fiati che rimangono distanti, senza per questo essere di secondo piano. Il secondo pezzo Ascesion Day si svela fin dal titolo: una continua e dis-ordinata ascensione estatica che alterna frasi sommesse di Jazz a schitarrate, fracassi di batteria e organo tra il fraseggio del folk e l’indole psichedelica. Il tutto si “risolverà” nel sesto minuto del pezzo (cioè l’ultimo) dove un turbinio di suoni risucchierà l’apice nel silenzio. Ora cambia la situazione con After The Flood tra poveri accordi di organetti e fischi di ottoni in seconda linea che cullano l’etere nella notte. La linea vocale (richiama alla lontana quella possibile di un Peter Gabriel) accompagnata da sprazzi di evanescenza di sax e tromba, con l’alternanza di vere e proprie scariche di fischi di distorsione di una chitarra che si lamenta mentre si ritorce su se stessa. E Taphead è il deserto, la solitudine di un arpeggio e di una voce che si incontrano nell’aprirsi della luminosità del coro di trombe dorate, di musica che si fa spazio tra antichi relitti di ricordi. New Grass è la rinascita di un improbabile ritmo swing con chitarra pizzicata à la Knopfler che continua la sua leggiadria nell’incedere immutato di ride, rullante e violini. Runeii è già la morte, il tempio diroccato, il riverbero della vita, il ritmo del carro funebre, l’avanzare della rovina: un canto ieratico va a braccetto con il dondolarsi delle corde della chitarra; che sia un epitaffio, o una condanna, quell’ultimo verso dettato da Hollis sottovoce: «Slow to bleed fair son»…?

- gorot

Rap/Hip Hop/Djing

GANG STARR Step Into The Arena[Chrysalis Records, 1991]

La recente morte dopo lunga malattia di Keith Elam aka GURU ha lasciato molti fan sgomenti. Non tanto per la morte precoce, o non solo, quanto per la lettera di addio che il rapper ha lasciato, con quell’ombra gettata sugli anni passati con uno dei più geniali produttori e disc jockey viventi, Christopher Edward Martin aka DJ Premier. Vogliamo accodarci al silenzio col quale l’ex-compagno di viaggio ha risposto alla singolare sfida lanciata post-mortem, ricordando la sintonia straordinaria che i due hanno saputo mostrare in altri tempi. Step In The Arena è il momento più alto dell’esperienza targata Gang Starr aka GURU+DJ Premier. Un paio d’anni dopo l’esordio di un primo album, ancora legato a un sound anni ottanta (No more Mr. Nice Guy), il bostoniano GURU parla alla nuova generazione della Brooklyn anni novanta con parole ben scandite, un flow meditato e un lessico ricercato, tra cultura da borghesia e strada (“Expanding the depth of your brainpower/Ours is a better gift, not to be bragging nor lolligagging”), mentre DJ Premier aka Primo brilla nella sua prima maturità artistica, quella che ancora gode dei vent’anni - witty, fast and furious - ma che già contiene gli ingredienti di una vita professionale passata ai vertici dell’underground. Campionamenti di James Brown, Fred Wesley, Ohio Players, The Meters, Curtis Mayfield, Kool & The Gang tradiscono le radici dell’hardcore hip hop marca Gang Starr. Sopra tutto la firma inconfondibile dell’album è lo scratch di DJ Premier, nuova incarnazione della tradizione che fu di Grandmaster Flash poi trasmessa al turntablism dei vari X-ecutioners. Allo snodo tra architettura delle origini, quando le quattro discipline HH erano una cosa sola, e deriva del protagonismo anni 2000, il lavoro di Primo in questo album è semplicemente geniale e giusto contraltare al tono serio di GURU. Ascoltate organo+fiati di Love Sick, le linee di basso di Just to get a rep e di The meaning of a name, il piano+scracth di As I read my S-A e ancora il trillo di telefono infinito di What you want This time? per capire cosa si può fare con un campionatore e un Pioneer 1200. Sinergia messa su con poche note in loop sotto una voce posata e combattiva. Morto anche GURU (r.i.p.), pochi oggi tengono alta la bandiera dell’HH. Eppure consoliamoci: tracce di polvere ancora sopra le Adidas, Primo still lives on, senza tradire lo spirito di Step into the Arena.

- ghostwriter

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DEEP INSIDE

“I can hear you singing in the corners of my brain”The 13th Floor Elevators

BAD NEWSIl 7 febbraio 2011 la rivista medica Archives of General Psychiatry ha pubblicato uno studio basato su un campione di 22519 pazienti, arrivando alla conclusione che l’uso di cannabis gioca un ruolo causale nell’insorgenza di psicosi, prima tra tutte la schizofrenia. Ovvero, tra più di mille che partono per il viaggio, un piccolo numero di essi, diciamo tre tanto per fare un numero, non fa ritorno, come Roky Erickson, Skip Spence e Syd Barrett, tanto per farne anche i nomi. Oggi siamo autorizzati a pensare che per essi la cannabis possa esser stata, fra tante, la sostanza prima a erodere l’argine che separava l’esperienza psichedelica della fama dal disordine mentale della caduta. Brutta storia.

GOOD TRIPIl rock psichedelico prese forma nel ‘65-’66 in US, tra i postumi del rock and roll e i riverberi blues-rock portati dalle truppe della “British invasion”. Austin, Texas, 1965: dall’incontro del profeta lisergico Tommy Hall con Roger Kynard “Roky” Erickson, voce inimitabile e storica congiunzione tra James Brown e Janis Joplin, nasce un progetto musicale incardinato sull’uso di droga durante prove, registrazioni e concerti. Dalle doti anche musicali di Erickson e dal sostegno programmatico di Hall nascono due capolavori, The psychedelic sound of the 13th Floor Elevators del 1966 — primo titolo a fregiarsi dell’ambito aggettivo — e Easter everywhere nel 1967, anno d’oro del rock e dell’amore. Il brano passato alla storia è You’re gonna miss me, scritto da Erickson nel 1965, ma una ancor più solida presenza del sound di The 13th Floor Elevators si ha in Slip inside this house, lungo intarsio musicale di voce, ritmica sostenuta, chitarra solista (Stacy Sutherland) e immancabile jug elettrico. San Francisco, California, 1967: Alexander “Skip” Spence è il più noto tra i fondatori dei Moby Grape. Canadese, chitarra e voce dei primissimi Quicksilver Messenger Service, poi nei Jefferson Airplane prima che arrivasse Grace Slick, Skip Spence entra a far parte di un gruppo di cinque compositori. Voce che apre lo storico primo album, vi contribuisce il brano più acido Omaha, intitolato allo spirito di fratellanza della “Summer of love”. Amore e gioia sul volto con cui Skip si presenta al pubblico, pieno d’energia. Londra, UK, 1967: primo album anche per i Pink Floyd di Roger Keith “Syd” Barrett, gruppo di quattro completamente

in pochi giorni e modo eroico i brani composti in carcere. Sovraincisioni di basso, batteria e chitarra solista fecero da simulacro al tempo di fama e donne, ma la voce cavernosa tradiva una nuova condizione. Se per Erickson e Barrett non si trattò di un miglioramento delle prestazioni — piuttosto di un cambiamento di registro — per Skip Spence l’album uscito nel 1968 da quella fatica fu un miracolo di composizione e un arrangiamento malato. Dal titolo brevissimo e significativo, Oar conteneva trame musicali e vocali mai sperimentate, accanto a modelli espansi di forme tradizionali, il tutto sconvolto dalla sofferenza. La desolazione dei testi era immensa (“Tears fall like rain/Oh, oh, Diana/I am in pain”), come il destino che lo attendeva da lì alla sua morte, quello di molti schizofrenici: abbandonata la cura di sé, avvolto nella schiavitù all’alcol ed eroina, Skip Spence è morto nel 1998. Non molto diversa la solitudine di Barrett, seppur accudito dalla madre, finita nel 2006.

GOOD NEWSFine della “Summer of love”? No, questa è una storia sull’amicizia, una storia sull’eternità dell’amore. E’ noto il tributo pagato dai Pink Floyd all’inventore del loro sound — noto fino ai limiti dello stucchevole. All’altro lato dell’agiografia, i superstiti dei Moby Grape (unico gruppo con un secondo schizofrenico in organico, il bassista Bob Mosley) si adoperarono per anni e in ogni modo per recuperare Skip Spence a sé stesso e al mondo. Ancor più grande è stato il debito di gratitudine mostrato dai discepoli musicali. L’album-tributo a Skip Spence con le 13 cover di Oar (More oar), registrato nell’anno della sua morte, splende per le interpretazioni tra gli altri di Tom Waits e Alejandro Escovedo. L’ultimo di una serie di tributi è An introduction to Syd Barrett (2010), con bei remix di David Gilmour e il Bob Dylan Blues dedicato al primo profeta della cannabis, beffardamente apostrofato dall’eterno giocoliere di Cambridge. L’epilogo è dedicato all’unico superstite della nostra storia e allo sguardo per sempre ingenuo di chi ha visto tutto ciò che di vero e di falso c’è da vedere e ancora vive per cantarlo. Grazie all’attenzione del fratello Sumner, Roky Erickson è tornato a cantare e a curare una riedizione dei suoi lavori, circondato da amici, passando nel 2008 per un omaggio dei Mogwai (Devil rides, Batcat EP), fino al toccante album del 2010 splendidamente suonato e arrangiato dai conterranei Okkervil River.Il titolo? E’ la buona notizia su cui abbiamo insistito: True love cast all evil out.

- ghostwriter

VIAGGIOAI QUATTRO ANGOLI DEL CERVELLO

sbilanciato verso il compositore di Cambridge, allora sotto la pesante influenza di droghe e musica californiana. The piper at the gates of dawn svetta da solo nella psichedelia britannica, marchiato da fredde visioni di gatti, gnomi e spaventapasseri circondati da tappeti d’organo, scampanellii, fruscii, note di piano, ticchettii. Bel viaggio, più lucidamente visionario rispetto alle contemporanee produzioni d’oltreoceano.

BAD TRIPA ben giudicare, quella che appariva come un’espansa visione del mondo esterno non era causata dal dischiudersi di realtà invisibili ai più, piuttosto da una connessione sconnessa tra irrealizzate facoltà del cervello. La mente non stava guardando verso l’esterno, ma verso se stessa, beffandosi di sogni di gloria e vette dello spirito. Roky Erickson mostrò i primi sintomi della schizofrenia all’HemisFair di San Antonio, nell’estate del ‘68. Fu internato l’anno dopo nell’Austin State Hospital e, in seguito ai tentativi di fuga, nel manicomio criminale, consegnato alla pratica dell’elettroshock. Il punto di rottura per Skip Spence fu un bad trip a New York dove i Moby Grape si trovavano per incidere, e l’aggressione di un amico con un ascia, in preda a deliri da Anticristo. Per Syd Barrett i ripetuti episodi di assenza nel corso dei concerti e durante le incisioni—in ogni caso la rottura avviene nel pieno dell’attività musicale e della creatività, in mezzo a compagni irriconosciuti. Le allucinazioni degli schizofrenici non hanno niente a che vedere con quelle dell’esperienza psichedelica. Le voci sono quelle di altre realtà plausibili, ma non desiderate. Imprevedibili, non cessano col passare del tempo. Il volto degli amici dell’unica realtà condivisa non è più complice. I tre continuarono a comporre nel pieno dell’esperienza schizofrenica: chitarra acustica e voce come agli inizi. Il materiale inciso da Roky Erickson tra il 1971 e il 1985, la voce incrinata dai lunghi dialoghi interiori con presenze aliene, è contenuto nell’album Never Say Goodbye. Quello di Syd Barrett in The Madcap laughs registrato con l’aiuto di David Gilmour e Soft Machine, e in Barrett, praticamente senza arrangiamenti, solo col proprio cervello («I tattooed my brain all the way»). Si racconta che Barrett abbia un giorno camminato da Londra fino a Cambridge, ma anche nella storia di Skip Spence c’è un viaggio folle, in pigiama e motocicletta, dal penitenziario “The Tombs” di Manhattan fino a Nashville, dove incise

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I Cani è stato il fenomeno elettro-pop dell’anno, culminato con un terzo posto al Premio Tenco 2011 come migliore opera prima. Per la critica è stato probabilmente il seguace de Le luci della centrale elettrica, colui che ne ha raccolto l’eredità e la capacità di esprimere i sentimenti della nuova gioventù italiana e romana in particolare. Nuovamente, il caso vuole che insieme al franante tracollo culturale della nostra società sia calato anche il livello di profondità poetica del suo interprete. Superficiale è infatti la prima parola che viene in mente per definire Il sorprendente album d’esordio dei cani. Superficiale negli arrangiamenti, per la maggior parte di un inconsistente indie-pop smunto e dilatato, superficiale per la lunga sfilza di stereotipi sciorinati con reclamata noncuranza nei testi. E qui sta il punto: I Cani è un circuito chiuso. Strizza l’occhio a giovani indie-hipster, parlando solo di loro ma riducendoli a stereotipi di ragazzini modaioli, svogliati e poco intelligenti, proprio il contrario dell’”alternativa”

L’interrogativo che sta alla base del principio compositivo di Arnold Schönberg (nato nel 1874 a Vienna – morto nel 1951 a Los Angeles), e che mai si è esplicitato se non rimanendo tra le righe delle sue composizioni “scritte” e non udite, è trovare quella mezza via che sta tra la libertà e il rigore. Se con la musica “tradizionale”, che dipendeva dalla tonalità, si trova la legislazione della nota tonale, da cui tutta la composizione doveva dipendere, nella dodecafonia si scova l’opportunità di fare della piramide delle note una tavola rotonda. Ogni nota non possedeva più un grado, ma equivaleva a tutte le altre. L’accordo era in funzione della sua propria risonanza (dissonanza?), e non in funzione del fine compositivo generale. L’accordo non rispondeva più alle esigenze di un’armonia dipendente dalla riuscita della melodia, ma aveva la sua armonia in sé, al suo interno. Ogni accordo, ogni nota, aveva una sua valenza indipendente, una sua musicalità interna. La faccenda sull’autonomia della nota sembra essersi risolta, tranne per il fatto che per poter adempiere tale compito è necessario riformulare da capo l’intera concezione della grammatica musicale. La struttura tonale dovrà essere sostituita con un’ altra struttura: quella dodecafonica che, per quanto rivoluzionaria sia, è sempre una struttura. Generalmente il termine “dodecafonia” è infatti sostituito con “musica seriale” (quella che sarà poi cara a Boulez). Questa è un’interpretazione errata, poiché la musica dodecafonica non nasce con esigenze seriali (la musica seriale è quella al cui interno non può mai essere ripetuta la stessa nota, ma ogni spazio della struttura deve essere occupato

da un valore ogni volta diverso della serie, matematicamente calcolato e formalizzato), ma di liberazione dalla tonalità Assoluta. Le opere del periodo espressionista (quelle composte dal 1910 come Erwartung o Die glückliche Hand corrispondenti rispettivamente all’ Op. 17 e all’ Op. 18) sicuramente vogliono rispondere a questa finalità. La personalità di Schönberg, austera e severa, conservava quella Sehnsucht dell’uomo religioso, del compositore come sacerdote dell’arte. L’opera incompiuta Moses und Aron (per via del terzo atto “non musicato” ma comunque scritto) fa emergere l’impossibilità del dire. Il messaggio divino dato a Mosè, sostituito dall’immagine del vitello d’oro di Aronne, non poteva essere pronunziato, ma solo ascoltato; e questo ascolto non può essere un ascolto immediato, bensì un ascolto dell’ascolto. Il messaggio arriva nella sua mediazione già spurio e mai satollo della purezza della Parola. La nuova musica per poter rispondere alla possibilità della purezza del messaggio musicale non poteva che concludersi con l’impossibilità della sua realizzazione. Adorno fa di questa impossibilità una necessità storica: ogni opera d’arte deve rispondere al contesto in cui si sviluppa, ai mezzi tecnici della società circostante. Ad una vecchia grammatica musicale, quindi, non si può che rispondere con una nuova grammatica. Ma non ritengo sia così semplice nel caso di Schönberg: l’artista si è voluto elevare dalla parola all’ascolto, lasciando che i suoi Mosè e Aronne non trovassero la loro mediazione, ma rimanessero in contraddizione. Questa è stata la conclusione del compositore: voler dare, senza potere, conclusione all’opera inconcludentesi.

ARNOLD SCHÖNBERG croce e delizia della composizione

ABBANDONATELI IN STRADAil caso de I Cani

che vorrebbero essere. Ma come può l’autore cantare solo la pochezza dei suoi oggetti – perché parlare di qualcosa per stereotipi equivale a sminuirla - eppure sguazzarci ampiamente (vedi: lanciare il sasso e nascondere la mano)? Il messaggio finisce per non avere orizzonti più ampi. Quello de I Cani non è un giudizio neutro, è un bieco meccanismo di colpa circolare, sottaciuta perché opporsi ad essa sarebbe come ribellarsi contro se stessi, ed ecco che dall’esterno sembra geniale, mentre invece fa parte dello stesso scadimento culturale che critica. Ma ve li immaginate i C.C.C.P. che invece di “Non studio non lavoro non guardo la tivù / Non vado al cinema non faccio sport” citano l’equivalente dei social networks per ben quattro volte nei primi quattro testi di un disco? Insomma, ma non c’è proprio altro di cui parlare?! Farsi beffe di un linguaggio giovanile esasperato facendolo proprio non significa interpretare i parlanti; è soltanto un modo per ammettere gli “errori” del proprio tempo e

scapparne fuori, non voler chiamarsi in causa solo perché si è riusciti per primi a trasferirli in canzoni. Non è un caso, per l’ennesima volta, che I Cani voglia restare estraneo ed anonimo (ma com’è che ultimamente gli artisti si nascono sempre più dietro a nomignoli e travestimenti?), esattamente come anonimi sono i personaggi di cui racconta: maschere de-umanizzate al ritmo di sottofondi banali.

- fp

L’opera è sempre incompiuta, poiché è l’inizio di un nuovo cammino: questa è l’ebraicità di Schönberg (impossibilità dell’ascolto diretto, divieto dell’immagine, il rigore della legge – creatrice, quindi divina o compositiva che sia – con cui ogni singola parte rimane autonoma rispetto ad un’altra). La gabbia in cui lui si è trovato è stata costruita con i pilastri del nuovo regno: il problema è che qualunque regno non rechi con sé una via d’uscita per Altro rimane comunque una prigione.

- gorot

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VIAGGI EXTRASONORI<<C’è qualcosa nel mangiare gli animali che tende a polarizzare: non li mangi mai o non metti mai seriamente in discussione il fatto di mangiarli; diventi un attivista o disprezzi gli attivisti. Queste posizioni opposte – e la relativa riluttanza a prendere una posizione – suggeriscono entrambe che mangiare gli animali conta. Se e come li mangiamo incide su qualcosa di profondo. La carne è collegata alla storia di chi siamo e di chi vogliamo essere, dal libro della Genesi all’ultima legge dell’agricoltura; solleva rilevanti questioni filosofiche ed è un’industria da più di centoquaranta miliardi di dollari all’anno, che occupa quasi un terzo delle terre emerse del pianeta, condiziona gli ecosistemi marini e potrebbe determinare anche il clima futuro sulla Terra. Eppure sembra che riusciamo a pensare solo agli argomenti limite, agli estremi logici più che alle realtà pratiche.>>

Jonathan Safran Foer – Se niente importa

Man Ray, a dispetto di quella che è probabilmente l’opinione comune, fu più pittore che fotografo. In realtà questa affermazione non dovrebbe indispettire in alcun modo né cogliere di sorpresa chiunque si sia trovato almeno una volta faccia a faccia con questa sua celeberrima affermazione: «Di sicuro, ci sarà sempre chi guarderà solo la tecnica e si chiederà “come”, mentre altri di natura più curiosa si chiederanno “perché”». Il “perché” di Man Ray, infatti, ha davvero poco a che fare con il concetto di fotografia comunemente inteso, a partire proprio dall’importanza del tutto marginale di quel “come”. Lontana dall’essere un venerato mezzo tecnologico al servizio di una riproduzione fedele della realtà, la macchina fotografica per Man Ray non era altro che un pennello ausiliario, da sostituire a quello propriamente detto nel momento in cui ci fosse bisogno di rappresentare qualcosa che la tela non poteva contenere. Senza caricarlo di particolari velleità artistiche, il mezzo fotografico fu quindi per Man Ray un accessorio, tanto indispensabile quanto non particolarmente stimato. Egli riteneva che un certo disprezzo per i mezzi necessari a dar forma ad un’Idea fosse necessario per sublimarla,

MAN RAY

I DILEMMIDEGLI ONNIVORI

Qui a fianco c’è la risposta (o almeno, una parte di risposta) a quella che sarà stata la domanda di tanti vedendo nelle vetrine delle librerie, ormai un anno fa, l’ultimo libro di Jonathan Safran Foer, scrittore e saggista americano. Perchè un creativo per natura come lui, già acclamato autore di due romanzi, si sarebbe imbarcato nella realizzazione di una supponente apologia del vegetarianesimo? La risposta, come già detto, sta là sopra, e più precisamente nel verbo conta. Foer scrive (non certo di getto: la raccolta dei dati necessari alla stesura dell’opera è costata ben tre anni) Se niente importa perchè sente che mangiare carne – o non mangiarla – conta. Quello da cui è mosso è un vero e proprio imperativo morale, e forse anche qualcosa di più. La molla che fa scattare tutto è infatti la nascita del figlio: per l’autore questo comporta un ripensamento generale dei suoi schemi etici, di pensiero, di vita. Dalla sua ferrea volontà di educatore nasce l’impulso di sapere <<perchè mangiamo gli animali>>, come recita il sottotitolo. Incomincia allora una serie interminabile di letture, visite, ispezioni, raid e interviste: Foer si immerge completamente nella realtà degli allevamenti intensivi (e non solo), che, come non manca di rimarcare più volte, forniscono circa il 99% della produzione di carne negli USA. Se niente importa (che nella madrepatria è edito con il titolo di Eating Animals) è composto nella maggior parte dai risultati di questi studi: solo raramente e a conclusione di un argomento si permette divagazioni etiche sul tema, o si abbandona a

aneddoti familiari. Tutto, comunque, deve essere funzionale a far percepire l’importanza del tema: per questo Eating Animals è soprattutto nudi dati (particolarmente scioccanti quelli sulla pesca a strascico), testimonianze anonime, esperienze sul campo (una fra tutte l’incursione notturna in un allevamento compiuta tra terrore e disgusto in compagnia di un anonimo animalista). Niente paura, però: siamo ben lungi dall’aver davanti un freddo e noioso rapporto di fine anno di un’azienda agricola. Stilisticamente, dalla prima all’ultima pagina, il saggio ha tutte le caratteristiche che hanno portato il nome di Foer al grande pubblico: leggero, ironico (nonostante il tema trattato) e dolceamaro, senza mai un passo falso nella retorica o nel melodrammatico, si offre alla lettura di chiunque sia interessato al tema anche solo superficialmente. Riuscire a far appassionare al “dilemma dell’onnivoro” non è cosa facile: come dice lo stesso Foer, trattare quest’argomento vuol dire <<smascherare aspetti sensibilissimi e ampiamente inesplorati della nostra accezione di umanità>>. Se niente importa lo fa in modo duro, ma “senza perdere la tenerezza”: sconvolge con la disarmante crudezza dei dati ma subito addolcisce la pillola ritornando a un punto di vista prettamente umano. Proprio illustrando come il “dilemma” di cui sopra si rifletta in quasi ogni ambito della vita, Foer riesce a renderci consapevoli e appassionati protagonisti delle proprie scelte quotidiane. Almeno finchè il libro non finisce. O no?

- samgah

DOVE IL PENNELLO NON ARRIVA

Ray risponde però ad un paradosso inevitabile: egli fu più profondamente fotografo di tanti altri pittorialisti del tempo, proprio in forza di questo suo non esserlo. Infatti fu proprio questo suo sottostimare quel mezzo, questo sua indifferenza un po’ snob nei confronti del concetto stesso di tecnica fotografica che lo condusse più in profondità di tanti altri e, ironia della sorte, ad essere poi osannato quale inventore di alcune tecniche rivoluzionarie (anche se suo malgrado, verrebbe quasi da dire). Man Ray (alias Emmanuel Radnitzky, successivamente mutato nel più eloquente “Uomo Raggio”, anche se sul vero nome non ci sono certezze) nasce artisticamente pittore, e pittore rimarrà per tutta la vita: «Uno dei principali capi d’imputazione che più tardi dovevano scagliare contro di me i difensori della fotografia pura, era proprio che confondevo la fotografia con la pittura. Più che giusto, rispondevo, visto che

sono un pittore» sentenziò l’artista. Solo nei limiti che lo vedano dipingere stringendo tra le dita un metaforico pennello intriso di luce, Man Ray può effettivamente considerarsi un grande fotografo. Tutto il resto, tutto quel contorno di teorie estetiche e idee stilistiche maturato nel corso di meno di due secoli, molto probabilmente non è affar suo. Citiamo «Fotografo ciò che non posso dipingere»: la spinta a questa occupazione, come si nota, non è positiva, ma prende le mosse da una negazione, da un’insufficienza da colmare. La macchina fotografica diviene protagonista solo quando il pennello si dimostra insufficiente. Perché i sogni, le fantastiche e libere immagini dell’inconscio, non hanno corpo. La pastosità del colore, la levigatezza di un marmo sarebbero risultati inadeguati. Bisognava imbarcarsi in nuove sfide, percorrere strade non ancora battute.

- zuma

renderla più pura. Tanto che più volte lo si sentirà sentenziare: «La fotografia non è arte». L’opera di Man

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“Allora professore che cosa devo fare con te?”. Questa è l’incipit della tragedia, questa è la domanda che un nero corpulento seduto su una sedia intorno ad un tavolo pone ad un bianco di mezza età. La scena si svolge in una stanza di un caseggiato popolare, in un quartiere nero di New York. Su quel tavolo da quattro soldi ci sono un paio di occhiali, un giornale ed una Bibbia. Qua comincia Sunset Limited, storia in un singolo atto per due protagonisti di Cormac McCarthy, dove alla voglia di morte del bianco si contrappone la cieca ma ragionata fede in Dio del suo interlocutore. Di mattina presto, il bianco ha cercato di buttarsi sotto un treno, il “Sunset Limited” appunto. Il nero l’ha salvato, l’ha portato a casa sua e trascorre la giornata a convincerlo dell’assurdità di quel gesto. Questo nero, ex carcerato e omicida redento, indaga sulle origini della volontà autodistruttiva che del bianco professore nichilista; tenta di fornirgli buoni motivi per tornare a credere nella vita. Senza successo. Entrambi sono due pendolari, entrambi sono stati vicini alla morte, auto-procurata quella del bianco, per dissanguamento durante il soggiorno in carcere per il nero. Ed è stata proprio quella morte percepita che ha aperto le porte della Fede al corpulento protagonista. Nella prima parte, le azioni del Nero sono sempre un riferimento, più o meno velato, ai gesti liturgici, preparare la mensa lavandosi le mani, spezzare il pane e metterlo a tavola: pane che definisce soul food. Ciò che dice, in questa prima parte, sono dei loci communes, “Il Natale non è più quello di una volta”, “Non si può essere felici se si soffre”, “Non sono abbastanza virtuoso (perchè Gesù mi parli)”. Nella seconda parte invece si assiste ad un cambiamento nelle parole del Nero. Parole che, dopo il pranzo, dopo il soul food, diventano più profonde, rapide verso il nodo della questione. Il Nero cerca di raccontare al Bianco la sua redenzione, in tutti i particolari, di renderlo partecipe del suo cambiamento in modo che lui possa fare altrettanto: “La luce è tutta intorno a te, sennonché tu non vedi nient’altro che ombra. E l’ombra è la tua. Sei tu che la fai.”. Ma il Bianco non si fa traviare dal suo desiderio di morte, e allora il Nero prova a sfoderare il colpo vincente, la speranza di una vita nuova. Ma questo tentativo si rivela il colpo mortale al suo castello dimostrativo che, costruito con gran fatica, cade con un debole soffio di vento. Si assiste ad un capovolgimento di fronte, un contropiede istantaneo del Bianco, irreversibile. Anche il Bianco sta cercando la luce nella sua vita ma, a differenza del Nero,

UN CORPO A CORPO

il saggio e lo stolto”. Il Bianco ha gli occhi in fronte e vede, con questo concetto di Ragione vagamente leopardiano, il Nero è immerso nelle tenebre, il suo credere stolto a lungo andare lo renderà sterile. Ugualmente moriranno il Bianco e il Nero, il saggio ha cercato nel mondo ed ha trovato stoltezza, il Nero ha cercato la sapienza ma alla fine ha trovato la stoltezza. Nel Qohèlet però la conclusione, pur partendo dalle solite premesse è diversa; è lucida l’osservazione della realtà come quella del Bianco, ma a differenza sua tiene aperto un passaggio segreto, una rivelazione per la salvezza. Nel Qohelet si sopravvive alla conoscenza perchè si riesce a dare un nome all’inquietudine che ci portiamo dentro, si è certi dell’esistenza di Dio, l’alternativa è la morte senza scampo, la fine del mondo per come è costruito. Il Bianco però non è arrivato a questa conclusione, alla conoscenza. È stato vinto. Gli eroi di McCarthy vivono per (tentare di) riportare alla luce gli affreschi ormai perduti del mondo felice. Il Reale è una Ferita e McCarthy ne cerca i confini, insegue la lezione che gli dovrebbe dare l’opportunità di ricucirli, di riunirli nel conforto di qualche cicatrice, con dei punti che forse non reggeranno, ma che potranno comunque tamponare il sangue che continuamente ne esce. Già riuscire solo a pensare questo gesto è un viaggio. Riuscire a narrarlo, questo è quello che riesce a McCarthy.

- matteom

arrivi la morte. La morte vera. […] Nessuna comunità. Mi si scalda il cuore soltanto all’idea. Silenzio. Buio. Solitudine. Pace”. Il professore non può essere convinto, ciò che lui cerca è il non essere, è l’atarassia più totale, la fuga dalla vomitevole realtà. Il professore se ne va, in tutti i sensi, con un’arringa atroce. Il nero si rivolge al suo Dio. Che non risponde. Non ha risposte.Questo finale, in minima parte “aperto”, sembra far pesare la bilancia più a favore della disperazione del Bianco che del tentativo di conversione del Nero; il ricordo, si parva licet, va al finale della parabola del figliol prodigo. Anche in questo finale la speranza resta, ma tutti i dettagli della parabola sembrano indicare che il fratello, rientrato da una giornata di lavoro, sia destinato a rimanere fuori dalla porta. Questo paragone potrà sembrare forse troppo azzardato, ma sta a giustificarlo tutti i riferimenti biblici disseminati nel testo che indicano un forte senso di appartenenza dell’autore ai canoni cristiani.Nel libro di Qohélet invece, uno dei libri didattici sapienziali del canone ebraico che si trova nell’Antico Testamento, il verbum può essere accostato al testo di cui stiamo parlando. Si tratta infatti di due discese. Anche il Qohélet parte da considerazioni circa la vanità delle cose, del mondo circostante e degli oggetti che ci circondano “Vanità delle Vanità, tutto è vanità” oppure poco dopo, “Un immenso vuoto, [...] tutto è vuoto”. L’Ecclesiaste fissa le sue considerazioni al tramonto della vita, nulla conterà dopo poco, l’hevel, la realtà fluida e inconsistente, il vapore, il fumo, questo è la vita umana, questa è la vanità. L’autore del Qoèhelet è un professore del mondo, ha messo in gioco il suo lev (cuore in ebraico) per indagare il senso della storia, ma tutto è hevel u-re’ut rauch, “vanità ed inutile affanno”. Proprio come il nostro Bianco, anche lui professore, che dice “L’evoluzione potrà condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità.”. Continua nell’Ecclesiaste “Il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Ma so anche che un’unica sorte è riservata a tutti e due. […] Allo stesso modo m u o i o n o

CON DIOè sicuro di trovarla nell’oscurità più totale, nell’oblio, un posto dove non ci sia l’Essere, ma solo il Nulla; “Io anelo all’oscurità. Io prego che

Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini

possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine.”

(Qo 3, 10-11)

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Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Lorenzo Maffucci, Federico Pozzoni, Stefano Dominici, Bobi Raspati. Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori.Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nell’Ottobre 2011. Per informazioni, critiche e consigli: [email protected] Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedbackmagazine.it.

“I wanted to put my body in my work. (…) The experiences that I had which have been more profound were on the football field. So (…) I started to create situations that put some sort of resistance against my body. Your body require resistance in order to grow.” Queste sono le parole che Matthew Barney pronuncia per la presentazione del suo progetto dei Drawing Restraint. Si potrebbero definire come film? Come performances? Come action paintings? Forse sono l’insieme di tutti questi genere d’arte. Un progetto tanto ambizioso quanto criptico che si appoggia ad una pluralità di linguaggi e ad una simbologia sterminata e piuttosto arcana. I Drawing restraint indagano il rapporto che il nostro corpo ha di fronte ad ogni genere di resistenza ed ostacolo. Proprio grazie a questi impedimenti, infatti, il nostro corpo si sviluppa, cresce e cambia. Questo tema, mai abbastanza affrontato nell’arte, porterà il nostro artista ad un altro progetto egualmente complesso come quello del ciclo dei Cremaster (il termine designa il muscolo cremastere), ciclo di cinque film prodotti dal 1994 al 2002 nel seguente ordine: 4-1-5-2-

3. L’intero ciclo è inerente al rapportarsi del sesso maschile e di quello femminile: dalla gestazione del parto, passando per l’omicidio, il trionfo maschile con la sua nascita, per arrivare fino al rapporto amore/morte. Quello che Matthew Barney vuole esaminare nei suoi lavori è il rapporto degli opposti che oltrepassano l’ostacolo che li divide. L’inizio di ogni sua opera, generalmente, non sta nel momento dell’oltrepassamento di un ostacolo che già vi è, ma nel porlo, costruirlo da capo con le proprie mani, con i propri strumenti che sono già ostacoli. Senza questi il corpo rimarrebbe “morto” e non “vivo” (viene in mente la distinzione tra Körpe e Leib). Non è un caso che nel 1985 il nostro giovane “non-ancora-artista” si iscriva alla facoltà di medicina di Yale, e gareggi nella squadra di football dell’università: proprio questa esperienza lo formerà artisticamente. I suoi trascorsi universitari portano già al loro interno i temi accennati sopra che verranno poi sviluppati grazie alle sue opere: la chirurgia, lo sport, il gesto atletico saranno il filo rosso dei Cremaster e dei Drawing restraint. Con uno stampo cinematografico

che si colloca tra Kubrick e Lynch, Barney porta la carne, gli organi e i tessuti in una dimensione che trascende quella dell’analisi da laboratorio. Anzi, proprio grazie alla medicina e alla vivisezione otteniamo quel trampolino di lancio che porta verso il formarsi di sequenze artistiche: la sterile sala operatoria può essere riletta come un palco che lascia spazio ai suoni dei ferri, alla loro danza, al colore degli organi lacerati. Non esistono corpi che già in sé non portino una narrazione che permetterà loro di prolungarsi verso altri luoghi e creare nuove situazioni. L’artista non può che narrarsi, poiché spesso impossibilitato a farlo: è lui stesso che costituisce il proprio ostacolo e per questo lo ricrea, si ricrea. Jean Cocteau lo diceva già da molto tempo a se stesso, a quel pittore che, nel voler ritrarre un fiore, continuava a disegnare il proprio ritratto: “Piantala! Smettila di sforzarti! Un artista non potrà fare altro che ritrarre se stesso!”.

- gorot

MATTHEW BARNEYl’atleta dell’arte

VIPER THEATRE (Firenze)21 oct. - Anna Calvi27 oct. - Lacuna Coil28 oct. - F. De Gregori30 oct. - Elisa4 nov. - I Cani18 nov. - Aucan26 nov. - Bud Spencer Blues Explosion3 dic. - Bugo

CLUB TO CLUB FESTIVAL (Torino)3 nov. Apparat & Band / Jackmaster 4 nov. Kode9 / Martyn / Theo Parrish / Ben Klock5 nov. Modeselektor / Alva Noto / Jeff Mills / Caribou / Zomby / Pantha du Prince / Pearson Sound

RYUICHI SAKAMOTO TRIO TOUR10 nov. Teatro Verdi, Firenze

EMA 13 nov. Locomotiv Club, Bologna FLEET FOXES19 nov. Estragon, Bologna

APPARAT & BAND5 nov. Link, Bologna

MODESELEKTOR17 dic. Link, Bologna

THE HORRORS24 nov. Estrgon, Bologna

DEUS7 dic. Estragon, Bologna

RICARDO VILLALOBOS 12 HOURS31 oct. Cocoricò, Riccione

MOVEMENT MUSIC FEST (Torino)31 oct. Underworld / Laurent Garnier / Carl Craig / Derrick May

EXPLOSIONS IN THE SKY9 nov. Live Club, Trezzo sull’Adda

A TOYS ORCHESTRA11 nov. TPO, Bologna

BATTLES / WALLS / AUCAN5 dic. Live Club, Trezzo sull’Adda

VERDENA9 dic. Saschall, Firenze

RICHARD YOUNGS / DAMON & NAOMI16 dic. Sala Vanni, Firenze

LA TEMPESTA AL RIVOLTA, Marghera (VE)Le Luci della c.e. / Tre allegri / Massimo Volume / Zen Circus / A Classic Education