ettore bignone epicuro opere - 1920

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Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita.

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  • Il'"

    i!'...' '

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    in 2011 with funding from

    University of Toronto

    http://www.archive.org/details/epicuroopereframOObari

  • FILOSOFI ANTICHI E MEDIEVALIA CURA DI G. GENTILE

    EPICURO

  • EPICUROOPERE, FRAMMENTI, TESTIMONIANZE

    SULLA SUA VITA

    TRADOTTI CON INTRODUZIONE E COMMENTO

    DA

    ETTORE BIGNONE

    BARIGIUS. LATERZA & FIGLI

    TIPOGKAFI-EDITOKI-LIBUAI

    1920

  • /75-J^

    PROPRIET LETTERARIA

    NOVEMBRE MCMXIX - 53768

  • VXORI SVAVISSIMAE

    evi NOMEN EST OMEN

    D. D.

  • AVVERTENZA.

    Il largo e vivo favore ottenuto dal mio Empedocle % mifu incitamento a raccogliere, in un'opera informata al mede-simo spirito, i risultati dei miei studi su Epicuro non maiintermessi da circa vent'anni. Questo volume ne contiene unaparte: la traduzione ed il commento delle opere, dei fram-menti e delle testimonianze sulla vita, con un'Appendice edun'Introduzione critica, ove segnai i tratti pi salienti dellafigura del maestro e della dottrina e discussi le questioni piimportanti riferentisi ai suoi scritti.

    Questa prima parte mi sembr anche pi urgente, perchuna compiuta traduzione dei frammenti e degli scritti di Epi-curo non esiste in alcuna lingua, e parecchi testi anzi nonfuron mai tradotti, neppur separatamente. Del resto non neabbiam neppure un'edizione che corrisponda allo stato pre-sente degli studi. Gli Epicurea dell' Usener (Lipsia, Teubner1887 ^j, sono bens una delle opere pi insigni prodotte daglistudi classici nello scorso secolo, ma chi conosca le condizioniprecedenti dei testi epicurei e le estreme difficolt di lezionee d'interpretazione che essi presentano, non si stupir che

    1 giusto qui ringrazi i critici che ne fecero recensioni, ed in special modol'Accademia delle scienze di Torino che lo premi con il premio Gautieri.

    2 L'edizione del 1887 fu riprodotta pi tardi con mezzi fotomeccanici, e percisenza mutazione alcuna.

    B

  • vili AVVERTENZA

    molto rimanga ancora da fare in quest'ambito ^ E veramentese non vi pagina, in particolar modo nelle operette epicureeconservateci da Diogene Laerzio, ove, in parecchi luoghi,FQsener non abbia determinata la lezione genuina, con am-mirevole acume, in passi profondamente corrotti, credo persieno ben poche le pagine, ove, in qualche luogo, non si debbamodificare il testo da lui adottato, o dimostrando l'esattezzadella lezione manoscritta, a torto abbandonata, o correggen-dola quando non sia sanata ancora.

    Per di pi gli Epicu-ea furon pubblicati nel 1887, man-cano perci di parecchi frammenti e testimonianze venuti pitardi in luce o sfuggiti all'acume ed alla vastissima dottrinadell'autore.

    A queste difficolt ho cercato provvedere, sottoponendoil testo ad una laboriosa nuova recensione, come pure nonminor cura ho posto nel commento, pur dovendolo contenereentro i limiti di spazio concessimi dalla natura di questa col-lezione; perch un compiuto commento dei testi epicureimanca e non meno^ indispensabile d'una traduzione ^. Dei

    1 Con ottimo pensiero perci la Societ Reale di Napoli ha indetto un con-corso con cospicuo premio, per una nuova edizione di tutto quanto possediamod'Epicuro e per uno studio sopra la sua dottrina.

    2 I frammenti, 70, non contenuti negli Epicurea son segnati con asterisco:quanto alla critica del testo, il mio differisce da quello dell' Usener in circa cento-cinquanta passi che sono indicati e discussi nelle note: negli altri luoghi seguiiquello dell' TJsener, o, quando si tratti di frammenti non contenuti negli Epicurea,quello indicato volta per volta. Qualche altro nuovo testo spero di poter dareprossimamente con adeguato commento.

    Si badi che l' Usener rec insieme commisti i frammenti e le testimonianze,pur distinguendoli con diverso carattere tipografico : naturalmente io intendo qualiframmenti solo quelli che rechino parole testuali di Epicuro e non notizie indi-rette sulla dottrina. Nelle mie citazioni dei frammenti indico il numero chehanno nella mia raccolta; in quelle delle epistole, i numeri dei paragrafi segnatiin margine. Con la sigla FHG, designo i Fragmenta Historicorum Graecorum delMLLER (ed. Didot): con Doxogr. i Dossografi greci editi dal Diels (Berlin, Reimer,1879). I frammenti e le testimonianze dei presocratici son citati secondo la terzaedizione del Diels (I9ia), e queste ultime son designate con la sigla consueta A,

    cui segue il numero ivi corrispondente.I segni < > chiudon parole supplite da me o da altri nel testo greco per col-

    mare le lacune, o quelle che vi corrispondono nella traduzione: quelli [] paroleaggiunte da me a chiarimento nel tradurre.

  • AVVERTENZA IX

    lavori d'altri, ove me ne valsi diedi notizia volta per volta;

    ma solo in qualche luogo pi notevole indicai le interpre-tazioni date dagli altri che mi parvero errate.

    Auguro a questo volume, frutto di lunghe e pertinaci ri-cerche, il sincero e caldo consentimento dei lettori che nonmanc a quello su Empedocle: dalla parte mia non rispar-miai fatica per corrispondervi quanto meglio potessi.

    E. B.

  • CORREZIONI

    1 1. 15, dall'alto, leggi: Ai non28 6, dal basso, Chrysippus)35 15, alcuno50 6 e 7, dal basso, togli: assoluto

    51 25, leggi: Yi^verai, e 1. 28, Cic, Nat. deor.57 7 sg., dall'alto, togli i segni < >: (v. n.)(>4 21, dal basso, leggi: correzione, e 1. sg. vr\Qr[y.)g65 22 e 24, dal basso, leggi: gnomologio78 22, dal basso, leggi: possano80 17, Tfig Us.)

  • INTRODUZIONE

    I

    Fra tutte le opere di Epicuro conservateci da DiogeneLaerzio, l'Epistola a Meneceo , senza dubbio, letterariamentela migliore. Non mancano, vero, anche nelle Massime ca-pitali e nei frammenti, pensose sentenze espresse con arte acui d lume e vigore l'acuta scelta e disposizione delle parole;ma poich sbozzare in forte rilievo una massima riesce tal-volta anche a scrittori trascurati, pi c'interessa l'amorosacura e la compiacenza d'effetti d'arte che egli dimostra nelcomporre questa lettera. E se ne atteggia una figura d'Epi-curo scrittore diversa dal giudizio che ne diedero gli antichi edaremmo noi pure, se solamente avessimo di lui VEpistola adErodoto. Epicuro, si dice dagli antichi, fa scrittore ineleganteed aspro: lo riprendono d'enfasi un poco grossolana, d'usareespressioni grevi e strane, di sprezzare l'arte dello scriveree non di saper comporre con bel ritmo i periodi. Cicerone -

    che non sembra l'abbia letto molto, reca qualche giudiziocontradittorio ; ora dice che non gli muove accusa perchmanchi di quell'eloquenza che gli grata in un filosofo, manon stima per necessaria, purch riesca perspicuo; ed Epi-curo, osserva egli, di chiarezza non manca; ora invece lo rim-provera di scriver confuso ^ Epicuro stesso non sembra

    1 Cic, De fin., I, 5, 14 sg ; De nat. deor., I, 31, 85; De fin., II, 6, 18; 9, 27 sg.

    El'ICUKO. 1

  • 2 EPICURO

    pretendesse ad altro che a chiarezza e precisione ^ Ai suoidiscepoli ricordava: Ad una sola meta tende lungo e brevediscorso -, ed altrove ammonisce: Ripudisi la fanciullescaricerca di euritmia nello stile, che, invaghita di minuzie,perde di vista le cose serie ^. Della sua lotta contro l'arteretorica son giunti a noi copiosi gli echi nell'opera di Filo-

    demo Sulla retorica. Che Epicuro tuttavia sia scrittore perspi-cuo sempre, non sarebbe giusto affermare. Non solo per diffi-colt di dottrina o per corruzione di testi manoscritti, le operesue sono fra le pi difficili che ci abbia lasciate l'antichit. Ilyo?, il pensiero filosofico, che in Platone era alata parolad'arte, nei filosofi che vennero dopo Aristotele, opera d'ini-ziato e di tecnica spesso astrusa. Platone sa tutto esprimere,

    anche i ragionamenti pi sottili, con l'agevole freschezza dichi parla, e parla egli ai bei giovani della palestra, con boccaattica, e con la melodiosa grazia della lingua greca, ancorprossima alla poesia che l'accende di lume e d'ardore, mentresi atteggia piana e candida nelle nuove eleganze della prosache in Atene riceve la cittadinanza del mondo. Ma gi inAristotele la parola filosofica ha perduta questa divina gio-vent: i fiumi d'oro del suo stile, tanto cari a Cicerone, eglili riserbava ai libri d' indole pi popolare

    ;per i suoi disce-

    poli scriveva compendi di lezioni e manuali disadorni, oveappena a tratti splende qualche luminoso pensiero espressoin scorcio di nitida forza. Egli ha appreso ai filosofi che ver-ranno dopo lui ad avere due stili e due maniere ; una in-condita e rude per gli scritti tecnici o di scuola, l'altra or-nata e composta in armonia per le opere destinate ad unpubblico pi vasto. Ora tra le opere di Epicuro la lettera adErodoto appartiene al primo genere, quella a Meneceo in-vece al secondo. sempre lui che parla, con le sue fiduciesalde, con voce un poco greve e non melodiosa, senz'agii! mo-

    1 V. Vita di Epic, % 13.2 V. Sent. vaU, 26.3 V. la sentenza del gnomologio d Heidelberg, posta da me in calce alle

    Sentenze vaticane {Sent., 82).

  • INTRODUZIONE 3

    venze: v' infatti nel suo carattere e nella dottrina una bor-ghesia di spiriti, conforme del resto all'et ellenistica^, chelo divide per sempre dalla grande arte classica. Ma vi suonauna nota di passione nuova: egli qui non vuole pi solamenteinsegnare, ma persuadere; vuole informare un'anima a vitabella, austera e saggia.

    Le grandi anime epicuree > , diceva Seneca ^, non le fecela dottrina, ma l'assidua compagnia d'Epicuro ; ed in questebrevi pagine rivive veramente la figura di questo vecchio cheparlava della felicit con voce severa e porgeva ai suoi disce-poli un godere sobrio con mano prudente. E v' pure unaricerca d'effetti in lui insolita. Il periodo e la frase appaionospesso studiati amorosamente, e le sentenze sono espresse in

    modo che rimangano ben salde e ferme nel ricordo. Vi sisente l'antica tradizione stilistica greca che procede da Gor-gia ad Isocrate. Il maestro di stile nella prosa greca era statoinfatti Gorgia, e la prosa d'arte greca si pu dire comincicon i Sofisti. Nella vita attica il Sofista tendeva a sostituirel'antico rapsodo: veniva anch'egli per lo piti di lontano, daquel mondo ionico ricco di secolare sapienza, ma non recavapi bei canti di epopea e di eroi ; la sua saggezza fioriva invecein eleganti discorsi cari agli attici, era maestro di virt molte-plice e di accorta prudenza civile. Con l'aedo, figlio d'una ci-vilt ormai dechinante, egli veniva per a gara d'arte; e seaveva rinunziato al fascino del verso numeroso, sapeva com-porre il pensiero in una prosa ritmata ed armonica che piacesseagli EUeni avidi di bellezza. E come ai Greci, nell'et classica,l'artifizio del leggere non fu mai caro, ma sempre amaronoil discorso udito dalla bocca dell'oratore o serbato nella me-moria fedele, la nuova prosa, in aiuto della memoria, sosti-tuiva al ritmo del verso un ritmo suo, ancor numeroso edelegante, ma d'un'altra maniera. Perci la prosa sofistica tutta contesta di suoi ritmi, ricercati pazientemente per an-

    1 Vedi su questi spiriti della filosofia epicurea il mio studio in Atene e Rome,a. XI, col. 309 sgg.

    2 Sen., Ep., 6, 6.

  • 4 EPICURO

    titesi accorte, volute assonanze, equilibrio studiato di membrie di frasi rispondeiitisi, che formino quasi nuovi versi logici,che l'orecchio coglie compiaciuto e la memoria serba fedele.E dell'arte di Gorgia non neppure ignara la prosa di Tu-cidide. Quanto ad Epicuro, egli aveva passata la prima gio-vinezza nel mondo ionico in cui rimanevano le ultime tra-dizioni del periodo dei Sofisti; Nausifane, che se non gli fumaestro certo ebbe scuola e fama quando Epicuro era ancorgiovane, aveva cara la retorica dei Sofisti, ed Epicuro, combat-tendolo non pare si sia sempre dimenticato dell'arte del mae-stro celebrato ai tempi della sua giovent. L'Epistola a Meneceo perci curata con singolare compiacenza di stile. Non dirado il periodo scandito con sapienza d'antitesi ed artifiziodi contrapposti, parole affini o consonanti sono accostate adarte ; il maestro che proclama di bandire con libera voce glioracoli della natura ^ ferma cos nel ricordo i suoi dogmi inparole salde e in sentenze profondamente incise, ove permanela sicurezza d'una persuasione che i secoli non hanno ancoraestinta.

    Il motto caro ad un altro filosofo: aliis laetus slbi sa-piens, non potrebbe applicarsi ad Epicuro. Ricorre nei suoiframmenti qualche eco di gaiezza rumorosa, ma vi suonamale; la vita epicurea non conosce l'agile gioia spensierata, lapiovxQovog fi8ovri che fiorisce l'istante, cara ad Aristippo. E nonsenza ragione a Seneca la filosofia di Epicuro pareva sobriaed astinente, ed, a riguardarla da vicino, non scompagnatada tristezza ^. Di un epicureo d'altra natura, del Montaigne,pot dirsi che per le opere sue la gioia di viver sulla terras' fatta pi agile e pi vivida. Epicuro invece insegna aisuoi una gioia pi meditata, profonda e sopratutto pi rico-noscente al nostro passato. Non il giovane, scrive egli, de-vesi stimar felice ed invidiabile, ma il vecchio che visse unavita bella; perch il giovane, al culmine del suo fiore, vo-lubile ludibrio della fortuna: il vecchio invece alla vecchiezza

    1 V. Sent. vaU, 29.2 SBN., Ad Gali, de vita beata, XII, 4: XIII, 1.

  • INTRODUZIONE 5

    come a securo porto approd, e quei beni che prima ansiosoe dubitosamente ha sperati, ora tiene a s avvinti in saldoriconoscente ricordo ^ Lo spirito dell'et ellenistica benvivo in questa sentenza! Orbene, quando Epicuro parla dellasua dottrina nella lettera a Meneceo, la sua voce giunge anoi veramente come da un porto precluso alle tempeste dellapassione, e non v' neppure la superba gioia di Lucrezioche dalla terra contempla i procellosi flutti da cui l'ha di-feso la sapienza del maestro; v' invece una sicurezza austerae pacata, in cui suona un accento profondo di simpatia umana.Appena l'attraversa qualche moto di ironia fuggevole, tutta pervasa da una eloquenza grave e solenne. Cicerone faresporre dal personaggio del suo dialogo la morale epicureacon ampio eloquio romano, pi scoperto, numeroso ed un pocoforense; ma non sapr pii ritrovare quell'intima passionequasi accorata, quell'accento d'ambiziosa e ferma certezza, cheha Epicuro, d'essere un rivelatore di nuovi valori morali, ed'aver per primo insegnato alla vita la gratitudine reverenteper la felicit concessa dalla Natura. In queste pagine dunquepossiamo veramente coglier nel vivo un'eco di quella vita epi-curea che attrasse spiriti cos disformi in diverse et animepoetiche ed ardenti, come Lucrezio; accorti e squisiti godi-tori in tempi fortunosi, come Attico ; fieri assertori di libertcivile, come Cassio; ingenui borghesi, come quel Diogene diEnoanda che, nel fine dell'et classica, fece incidere, con osten-tata compiacenza, gli scritti del maestro accanto ai proprinella pubblica piazza di un borgo provinciale. E son paginequeste che serbano ancora dello spirito greco le nobili pro-porzioni delle forme e la chiarezza dell'ordine: sono percifra le meno difficili di quante restano di Epicuro.

    V. Sent. vai., 17,

  • EPICURO

    li

    Con l'Epistola a Meneceo, le Massime capitali (nvQiai 8|ai)costituiscono la fonte migliore da noi posseduta sulla moraleepicurea, e son tanto pi preziose quanto pii grande ilnumero delle opere perdute di Epicuro su questo argomento.Epicuro infatti non appartiene a quella schiera di filosofi, cosinumerosi nell'antichit, che poco o nulla scrissero, o scel-sero, come Platone, la form'a pi prossima al conversare, ildialogo, detto perci da un antico ^ il figlio della filosofia,parendo loro che il ^tyog, pur nella sua significazione intimacome nell'origine della parola, non si rivelasse nella sua fe-

    condit perenne se non nella meditazione personale o nelladiscussione viva, e che si isterilisse nelle forme dogmatiche diun trattato. E neppure egli am l'indagine irrequieta che sem-pre rinnova le sue costruzioni di pensiero, suscitando se nonl'eresia, almeno la libera ricerca nei discepoli. Egli che avevaaffermato dovere il saggio dogmatizzare e non avvolgersinel dubbio^, volle lasciar del suo pensiero un monumentocompiuto, ben disegnato nelle sue opere capitali, a tutti acces-sibile per brevi riassunti, per ammonizioni e per concisi pre-cetti nelle opere minori. Per i neofiti aveva preparato larghi ecompiuti compendi del sistema ^ ; agli iniziati porgeva accortopi concisi sommari delle dottrine principali'*; agli uni edagli altri raccomandava di apprendere a memoria i precettipi salienti ^

    ;gli amici e i lontani ammoniva con lettere, ini-

    ziando cos quel compito di direttore spirituale delle coscienze

    1 Lue, Bis accus., 28.2 V. Vita di Epic, 121.3 V. il Grande compendio (\ieydk'f\ nixonf)) citato spesso negli scolii dtl'Epi-

    stola ad Erodoto.* Tale appunto l'Epistola ad Erodoto, come avverte Epicuro stesso in prin-

    cipio. V. mie n. ad l.6 V. Ep. ad Er., 36, 45, 83; cfr. Ep. a Pitocle, 85; Vita di Epic, 12; Cic,

    De fin., II, 7, 20; Acad., II, 38.

  • INTRODUZIONE 7

    che ebbe poi tanta fortuna neir impero romano \ ed a cuiSeneca rivolse tutta la sottigliezza del suo ingegno scaltritonella conoscenza degli uomini e della complessa animaumana. Ai suoi discepoli infatti Epicuro voleva esser presentesempre con la parola e col ricordo: Dobbiamo prediligere,diceva, una bell'anima e sempre porcela dinanzi, per viverecome se ci contemplasse, e fare ogni cosa come se ne fossespettatrice , ed altrove: Opera sempre come se ti guardasseEpicuro 2. Da ci il bisogno di diffondere il suo pensiero, fa-cendone un sicuro porto agli spiriti inquieti, precludendo idubbi e gli errori, stringendo le menti con una fitta rete diteorie e ammonimenti, che rispondessero ad ogni intima do-manda degli animi dubbiosi. quindi naturale che egli avessepensato di porgere ai suoi fedeli un manuale, ove i principalipunti del suo sistema fossero raccolti ed ordinati in brevi edefficaci massime, affinch fosse per loro quasi un consiglierepresente sempre, e riecheggiasse la parola del maestro. Anzi,pi di un manuale di tal natura compose, perch, oltre leMassime capitali^ almeno due delle opere di Epicuro, annove-rate dal suo biografo, ebbero forma aforistica^; ma il verolibro d'oro degli epicurei, furono veramente le Massime capi-tali, di cui ora ci conviene discorrere.

    Questa raccolta ottenne mirabile fama per tutta Tanti-chit. Diogene Laerzio la colloca a coronamento dell'operasua: perch, scrive egli con candido ardore, il termine possaessere l'inizio della felicit *; Filodemo la cita come unodei testi capitali ^; i discepoli di Epicuro s'erano adoperati a

    1 V. Martha, Les moralisies sous l'empire romain, Paris, 1900^, 1 sgj;.; G. Bois-giKii, La rdligion romaine d'Auguste aux Antonins, IP, 1900, p. 25 sg. Per, tantoil Martha quanto il Boissier, dimenticano di mettere in luce la precedenza diEpicuro in quest'arte di direttore delle coscienze, di cui fu il primo maestro nelmondo classico.

    2 V. fr. 54-55.

    3 Vedi nell'elenco delle opere di Epicuro (in Vita di Epicuro, 2S) Bei sensiinterni: massime a Tiinocrale; Delle malattie: massime a Mitre. Sull'ultimotitolo (jt. vocov) V. mia n. ad toc.

    * Vita di Epic, 138.6 PniLOD., De ira, col. XLIII, 18 sg-, Wilke.

  • 8 EPICURO

    mantenerne puro da corruzioni il testo ^;

    gli avversari adogni tratto vi si riferiscono; Luciano, che amava la filosofiariposata del maestro degli orti, lo dice il pi bello dei li-bri > ^. N manc a questo volumetto la ventura singolare diessere arso sulla pubblica piazza da quello spirito bizzarrod'impostore e taumaturgo che fu Alessandro di Abonotico,il quale ne gett in mare le ceneri per disperdere e soffo-care cos la libera voce deirantico ilosofo ^.

    Ne questa fu l'ultima ventura toccata al manuale dellasaggezza epicurea: perch nell'et moderna fu messa in dub-bio, se non l'autenticit delle singole massime, almeno quelladella raccolta in s come opera di Epicuro, considerandola in-vece come un estratto da varie opere di lui, fatto senz'ordinee discernimento da qualche discepolo posteriore.

    Ad un epicureo fervente questo dubbio sarebbe sembratocerto doloroso, ed a malincuore si sarebbe indotto a credereche quel volume, su cui meditava i detti di Epicuro e te-neva seco come un manuale di direzione intima, non fosseopera sapiente ed armonica del maestro, ma confusa compi-lazione di un ignoto. Ed infatti Plutarco opponeva come ilcolmo dell'assurdit, contro il concetto epicureo delle forma-zioni naturali, l'impressione di sdegno che avrebbe provatoun epicureo, se gli fosse stato detto che quelle Massime capi-tali, che erano quasi la sua bibbia, non erano state scritte daEpicuro per i suoi discepoli, ma che il libro si era compostoda s senza disegno prestabilito, per semplice aggregazionedi parti ^. Tuttavia questa opinione, posta innanzi dal Gas-sendi e rimasta lungo tempo quasi obliata fra le pagine delpoderoso in folio del filosofo francese ^, venne ripresa e svoltaampiamente dall'Usener, il dotto e diligentissimo raccoglitore

    1 V. infra, p. 26, n. .2 Lue, Alexandr., e. 47: t xd-liOTov, wg otO'd'a, xcov [3i(3A,icov >al KecpaXaicoScg

    jieQixov TTJg xvQq ooq^Cag x by\x,axa.3 V. Lue, l. cit.4 Plut., Be Pythiae orac, 11, p 399 E: jtel ti >(oXvei el:Tetv rsgov, q ovk

    yQa-^s xq nvQiaq-ixv 'EjtiKoyQoq, (5 Bi^d^s, 5|ag, XX' n xvx't\q koI avxo\ix(o''

    oijxio jtQg XXr\Xa xcv yQa\i[i,x(oy oviinsavxcov 7isxsXa'&r\ x pipiov.5 V. Gassendi, Animadv. in D. L. de vita et philos. Epic, Leid., 1642, p. 1(^93.

  • INTRODUZIONE 9

    degli scritti di Epicuro ^ Dopo TUsener, la sentenza parvedefinitiva, e fu ripetuta comunemente, bench il Giussanil'avesse messa in dubbio in una nota dei suoi studi su Lu-crezio ^. Perci, alcuni anni or sono, mi accinsi a dimostrarneTerrore, in uno scritto, che, come accade di quelli pubblicatiin atti di accademici, rimase ignoto a molti, onde ancora ilgiudizio deirUsener s'usa ripetere ampiamente ^. Ed a rias-

    1 Epicurea, p. xr.iv sg'g'.2 Studi lucreziani, p. xxxi.3 V. il mio studio Sulla discussa autenticit della raccolta delle KVQiai b^ai

    di Epicuro in Rendiconti del R. Istit. Lombardo di se. e lettere, serie II, 1908, p. 792sg-g. Il Nestle, recensendo questo mio studio in Wochenschrift fr hlnssiche Philol.,1908, col. 230 sgg

    ,dopo aver riassunti i miei argomenti, conchiudeva dichiarando

    che se io non avevo arrecato una prova assoluta dcirautenticit delle y.vQiax 6|at,avevo per considerevolmente indebolito le argomentazioni dell' Usener intese aprovarne la non autenticit. Se non che una speciale prova della autenticit diesse non si pu pretendere, n ero io tenuto a darla: essa risulta infatti datutta la tradizione antica che su ci concorde Chi del resto ha mai domandatoo recato alcuna prova dell'autenticit d^.lV Epistola od Erodoto o di quella a Mftie-cen, non bastandogli l'essere esse citate col nome di Epicuro, come appunto, e benpi spesso, sono citate col suo nome le y.vQiai 6|ai, che per di pi sono ancheposte nel catalogo dei libri di Epicuro da Diogene Laerzio? Mi pare stia dunqueagli avversari recare la prova della non autenticit. E su questo punto le argo-mentazioni dell'Usener, credo, reggeranno anche meno ora, se mi riescila, comespero, di dimostrare che anche l'unico argomento dell'Usener che non avevodirettamente dimostrato falso, cio la questione del disordine, cade esso pure,perch le Massime capitali, a studiarle bene, appariscono ordinate secondo undisegno prestabilito, in ogni loro parte. Del resto prove di non lieve valore perconfermare che Epicuro stesso scrisse appositamente le massime per questa rac-colta, e non furono tolte tutte da altre opere di lui, gi recai nel mio scritto citatosopra. Ed anzitutto che Diodoro, il quale nacque meno di duecento anni dopoEpicuro, non solo le cita coin di Epicuro, ma bada di precisare che il loro titolovenne da Epicuro stesso (Diod., 1. XXV, fr. 1 Dindorf), e Filodemo, illustre epi-cureo e dottissimo, allude a coloro che scrissero contro le Massime capitali, indi-cando chiaramente che si egli come gli altri consideravano questa come un'operaparticolare di Epicuro e non come un centone degli scritti del maestro. Si notiancora che mentre gi gli antichi posero in dubbio l'autenticit di altre opere diEpicuro, nessuno mai pose la raccolta frale opere spurie. Per di pi le massime chela compongono sono citate frequentemente, ma nessuna riferita come apparte-nente ad altra opera, mentre proprio tutto dovevano ricorrere negli altri scrittidi Epicuro. Una prova indiretta si potrebbe anche desumere da un framniento diFilodemo (pap. 1005, col. Vili) in cui (I. 18) il Crnert (Kol. u. Men., p. ii4) recente-mente, in parte lesse in parte integr: ^Xe|ev (Zenone) 6 xal [ex xcv jiivelYQan-(ivcov [xuqIcov o'Icv vta^ Infiliti Zenone, uno dei caposcuola dell'orto epicureo,non avrebbe intrapreso a purgare da qualche interpolazione questa raccolta, seessa non fosse che un centone senza autorit alcuna. Ma per vero su questo testonon ci si pu fondare in nessun modo, perch che vi si pftrli delle xuQiai 6^at semplice congettura.

  • 10 EPICURO

    sumere ora le argomentazioni gi da me svolte allora, ag-giungendovi nuove ricerche, non mi muove tanto l'aspettogenerale della questione (che potrebbe anche parere di valoresecondario) quanto i suoi rapporti con la dottrina epicurea;perch le ragioni proposte dairUsener derivano spesso danon retta interpretazione di parecchie fra queste massime(onde alcune parvero doppioni di altre) o dei reciproci rap-porti delle teorie epicuree.

    Gli argomenti su cui TUsener fonda il suo giudizio sonquesti: anzitutto non sarebbero trattati in questa raccoltaalcuni punti fondamentali della dottrina epicurea, laddove visi svolgerebbero teorie affatto secondarie; per di pi vi ap-parirebbero sentenze che sono inutili duplicati di altre : nellaraccolta poi dominerebbe il maggior disordine; finalmentealcune sentenze sarebbero tolte da lettere, serbando il carat-tere dello stile epistolare.

    L' ultimo argomento veramente di lievissimo valore.Che in qualche massima si rivolga la parola al lettore in se-conda persona ^ non vuol punto dire che esse sieno tolte daun'epistola. Numerosissimi aforismi hanno tal forma, e nonfurono scritti per aver luogo in una lettera. Ed ogni tradut-tore, antico o moderno, che abbia a tradurre detti d'Epicuro,si serve di tal forma, quando pii gli convenga, anche quandonel testo non l'abbiano. Pi singolare potrebbe apparire in-vece che in questi aforismi non si tocchi della fisica. Ma os-servai gi che, essendo questo un criterio prestabilito del rac-coglitore, non si pu negare se se lo sia proposto Epicuropiuttosto che un discepolo. E del resto un libro di massimevuole vi si tratti di materia che, pure svolta in aforismi, ri-sulti per s perspicua, laddove le dottrine fisiche hanno bisognodi minute dimostrazioni che in una sentenza non possonoaver luogo. Epicuro perci in questo libro presuppone cono-sciuta la sua dottrina fisica, ne raccomanda lo studio, manon ne enuncia i singoli punti, perch non crede in succinti

    ^ V. p. es. Mass. cap., XXV. Per una pi minuta confutazione di alcune diqueste argomentazioni dell' Usener, v. lo studio citato.

  • INTRODUZIONE 11

    aforismi possano apparire perspicui : per la fisica del restoaveva scritto speciali compendi ^

    A torto poi rUsener crede che Epicuro in queste sentenzetocchi argomenti morali che nella dottrina epicurea avesserovalore affatto secondario. Tale sarebbe ci che si dice nellesentenze XXXII e XXXVII sgg. Ma nelle note alla primadi queste sentenze ho mostrato come Epicuro combatta iviuna dottrina che aveva gran favore presso altre scuole filo-sofiche dell'antichit, onde ad Epicuro tornava utile dimo-strarla errata. Del resto lo stesso epicureo Ermarco, l'im-mediato successore di Epicuro, ritorna con compiacenza suquesto medesimo tema. Quanto alle sentenze XXXVII sg.(ove si stabilisce che essendo le leggi fatte per l'utilit so-cievole, esse avranno valore razionale ed obbligatorio solose a questa utilit corrispondono o fin quando vi corrispon-dono) rUsener obietta che, dissuadendo Epicuro il sapientedall'occuparsi della vita politica, doveva considerare questiprecetti come di utilit affatto secondaria. Per gi osservaiche Epicuro non impone sempre al saggio di astenersi dallavita pubblica ^, e del resto, quand'anche dovesse di politicanon occuparsi, doveva avere un concetto ben chiaro della va-lidit razionale delle leggi, e dei loro limiti, perch egli, sepure non fosse chiamato ad applicare leggi o sancirne, do-veva esservi sottoposto. Forse che a Socrate, l'ideale figuradel saggio greco, quando nel Critone ragiona nel carceresulla opportunit di sottrarsi alla legge od obbedirvi nelleultime conseguenze, non importava direttamente determinarefino a qual limite fosse, secondo ragione, imperioso il loro co-mando? ^ Ed appunto il recente papiro antifonteo, che iostudiai altrove, dimostra con quanto ardore fosse discussain Grecia, la tesi, cara a Platone, della validit suprema della

    1 Particolarmente il Grande compendio e VKpislola ad Erodoto.2 V. mia 11. a Mass. cap., VII.8 Infatti alcune delle riserve che fa F.picnro nel suo libro Casi dubbi, circa

    il conte}i:no del sag'nio in rapporto alle lejrgi, dovevano con o^ni probabilit fon-darsi sulla dottrina esposta in questa massihia (v. fr. 2 e mia n. ivi).

  • 12 EPICURO

    le^ge intesa come Tanima intelligente e la sacra tradizionedella citt ^

    Pi importanti invece, per i rapporti con la dottrina diEpicuro, sono i due ultimi argomenti dell'Usener, Tuno suipresanti doppioni, l'altro sopra il disordine della raccoltastessa. Di questi due argomenti conviene trattare insieme,perch ambedue dipendono dall'interpretazione delle singolemassime, e su di essi mi fermer di pi, perch credo dipoter aggiungere molto a quello che gi dissi nello studiosopra citato.

    Che le prime quattro massime siano a posto e nell'or-dine dovuto, riconosce anche l'Usener; infatti esse riassumonoi principii fondamentali della morale pratica di Epicuro, com-ponenti il quadrifarmaco (t) xetQacpdQfxaxog), ossia i quattrorimedi a cui sempre dobbiamo ricorrere come conforto e si-curt per vivere felici. Dice in proposito un testo epicureo,conservatoci dai papiri ercolanesi ~: Sempre ti sia sussidioil quadrlfarrnaco: che la divinit non deve recarti timore[= Mass. cap.^ I]; che non paurosa la morte [= Massimacap., II]; che agevole a procurarsi il bene [= Massimacap., Ili]; e facile a sopportarsi il male [=Mass. cap., IV] .Queste quattro massime son dunque la costellazione luminosaa cui l'epicureo dovr fissar sempre lo sguardo nella sua vita,come indica il maestro stesso, quando ritrae la figura ideale

    1 V. il mio studio su Antifonte sofista in Nuova rivista storica, 1917, fase. III.2 Papiro ercol., 1005, col. 4 (secondo le ultime letture del Crnert in Rhein.

    3Ius., 56, p. 617 e in Kolotes und Mcnedemus, Lipsia, 1906, p. 190 s. v. Epikur):>tal jravTaxfji staQsrefAsvov fi xsTQaqpdQixax.oi; q)oPov "d-sg, vxJJtojtTov O-dvaxog,xal Tya^v |xv ev>ixy\xov, x 8 68lvv ^-/tHaQTQifiTov. Anche lo scrittore epi-cureo pubblicato dal Comparetti in Museo italiano di antichit classica, 1834, voi. I,p. 67 sgg., dopo avere in simil modo esposto queste quattro dottrine (v. col. XV,cfr. UsENKR, p. 68 sgg.), osserva che per la loro importanza capitale sono postea. capo delle KVQiai 5|aL di Epicuro. [Il testo citato sopra credo ci porga il mododi integrare in maniera probabile la colonna 1 del jieqI |xa[via5] di Filodemo, pub-blicato da D. Bassi in Rivista di Filologia, 1917, p. 460, ove supplisco cosi le 1. 5sg. : 5L xf[q evsK'x,aQ\xeQ'i]aea)q y'-'v^t^C"-] JtQxeiQOv [xg iisyiaxaq ]Xy'Y]bvaq vjibq-[jSaiveiv (cfr. Epic, Epist. a Menec, 129). Cos pure nella colonna 2* 1. 5 sg.supplisco: xv] cpi3ov ex xfjq (tteqI xv [xlvuvov 6La]X,i^i|)ta5 fiQxi^oOaL: per la parolaSta^THJiag, particolare a Filodemo, v. i luoghi citati in Philod., Voli. Rheth., II,p. 305 e nel rifacimento del Crnert del lessico del Passow, sub v.]

  • INTRODUZIONE 13

    del sag-gio neVEpistola a Meneceo: Chi credi tu prevalga acolui che ha reverente opinione degli di, ed impavido sem-pre di morte, e sa quale il fine secondo natura, conoscendocome il limite del bene ha facile compimento ed agevole ab-bondanza, ed il limite dei mali ha breve tempo o doglia? * .

    Su queste sentenze non vi pu essere adunque dubbio circal'opportunit di esse e sul loro ordine: per le rimanenti invecerUsener crede sia palese un assoluto disordine, e che vi siscorgano numerosi doppioni ^. E veramente a riordinarle sierano ingegnati, qua e l, gli editori, senza riuscire a buonfine; ed io stesso, nel mio scritto citato sopra, pur combat-tendo le altre argomentazioni deirUsener, ammettevo che unqualche disordine si ritrovasse in questa raccolta, cercando dimostrare in qual modo potesse essersi prodotto nelle diverseedizioni di essa. Per, quanto pi studiai Targomento e gliscritti epicurei, m'accorsi che l'apparente disordine non avevaaltra causa che l'inesatta interpretazione di parecchie fraqueste massime, laddove, se bene si determinasse il senso diognuna ed i rapporti piti intimi e riposti con le varie dottrineepicuree, il disegno dell'opera intera si veniva componendoperspicuo. N ci deve stupire che i singoli nessi e l'interodisegno non risaltino a prima vista. Se tutte queste sentenzeformassero una catena strettamente connessa di proposizionilogiche, congiunte da reciproci rapporti, n mai dovessimosupplire alcun termine intermedio, non avremmo pii unaraccolta di aforismi ma un vero trattato. Ogni aforisma in-vece in verit un frammento, e chi ne compone unlibro ricerca quell'intima poesia che dei frammenti pro-pria, e che rivive nella curiosit quasi simpatica del let-tore, che d'ogni massima indaga le suggestioni riposte, col-laborando cos con l'autore nel ricomporne il pensiero inunit. Epicuro volle appunto offrire ai suoi fedeli una collana

    1 V. Epist. a Menno., % 133; cfr. anche Mass. cap., X.2 Sarebbero doppioni, secondo l'Usener, (p. xlvi) le seguenti sentenze: III-

    XVIII; XI-XII-XIII; XV XXI ; XIX-XX; XXVI XXX; XXVIl XXVIII; XXXI-XXXIII; XXXVII XXXVIII.

  • 14 EPICURO

    di pensieri, ben meditati e connessi in un unico disegno, cheegli aveva fermo innanzi alla mente, e che essi dovevanoritessere per mezzo della conoscenza della sua filosofia. Leg-gerli e comprenderli finemente esigeva dunque una speciedi iniziazione; e questa non era piccola parte del fascino ondeil libretto aureo si circondava nell'antichit. Valga del restol'esempio: si cerchi di ricomporre il primo gruppo di sen-tenze, di cui conosciamo il disegno dalla formula a noi notadel quadrifarmaco. Perle prime due massime non v' diffi-colt; esse dicono appunto quanto in quella formula espresso;ma se si procede all'esame della terza, la cosa non pi cosagevole ^ La terza massima suona infatti cos: L'estremolimite, in grandezza, dei piaceri, la detrazione d'ogni do-lore. E dovunque piacere e finch perdura, non v' doloredell'animo o del corpo o d'entrambi. Ebbene questa sen-tenza, secondo la formula del quadrifarmaco, va connessacon le due prime e fu posta a capo di tutte le altre, perchattesta che il bene facile ad acquistarsi. Per in essa di talefacilit non si fa parola, pu tuttavia essere dedotta da unpi intimo esame di questa massima, quando si osservi che,consistendo il sommo piacere nell'assenza del dolore, esso ci offerto facile e largo dalla Natura, che poco desidera a sod-disfarsi, mentre intensa pena vogliono quelle gioie che l'im-maginazione avida insegue sempre. Scrive infatti Epicuro: Grida la carne: non soff'rir fame, non soffrir sete, non soffrirfreddo; questo chi possiede e peri avere, anche con Giovepu contendere in felicit ^

    . Interpretata cos la massima III,anche il rapporto con quella che segue diviene chiaro. Epi-curo ha in tal modo offerto ogni suo pensiero ai discepoli comeuna piccola gemma di saggezza, che deve esser posta nellasua vera luce, perch ne scaturiscano quei bagliori che neilluminino le significazioni riposte. La formula epicurea del

    1 Ed infatti al Giussani, a cui tale formula era sfuggita, sembrava che solole due prime massime fossero a posto ed il disordine incominciasse gi dallaterza.

    2 V. Sent. Vat., 33: cfr. Mass. cap., XVIII, XXI.

  • INTRODUZIONE 15

    quadrifarmaco ci dunque preziosa, perch oltre suggerirci inqual modo dobbiamo interpretare le prime quattro sentenze,ci indica anche qual procedimento ideale dovremo seguire perricollegare fra loro e comprendere in modo adeguato le altre.Se procederemo per tal via, seguendone i suggerimenti, cirenderemo conto del disegno di questa raccolta, e cadr cosogni ragione di ritenerla spuria: perdi pi credo ci riescirdi chiarire diversi particolari della dottrina di Epicuro.

    Espresso ingegnosamente il quadrifarmaco^ Epicuro nelV aforisma riassume T ideale della vita felice non solo per-ch sgombra da paure {Mass., I-II), ricca di beni naturali{Mass., Ili) e forte contro i dolori {Mass., IV), ma perchgiusta, saggia e bella; e tale vita, dice egli, non pu risul-tare se non dalla prudenza ^ E singolare come non si sia vistoquanto degnamente questa massima coroni la serie dei quat-tro principii capitali. Ed in verit agli epicurei doveva essersupremamente cara; infatti Cassio, cui Cicerone mordevaper la sua fede epicurea, gli rispondeva con nobile fierezza:Quelli che tu chiami 'gli amici del piacere', sono amicidel giusto e del bello ^. Quando poi si corregga adegua-tamente, come abbiam fatto, la lezione corrotta dei codici,ed esattamente s'interpetri l'ultima parte di questa sentenza,si scorge come essa inizii una nuova serie di aforismi (VI-XXI)sulle norme che la prudenza prescrive alla vita umana.

    Primo ufficio della prudenza offrire al saggio l'ata-rassia e difenderlo dai mali che possono incoglierci dagliuomini: perci, nella massima VI, si stabilisce che unbene secondo natura tutto quello che pu assicurarci tale si-curt ^. Ma poich il fondamento che natura pone, spesso male interpretato, e molti credono di procurarsi questa

    1 Quale debba essere la lezione ed il valore di questa massima V, v. in mian. ad loc.

    ' V. Cic, Ad. fam., XV, 19, 2 sg. Ipse... Kpicurus... dicit cjt oxiv ^5cog uveuToO Jta^ig y.al SLxaCcog ^fjv (ef'r. Mass. cap., V)... et ii qui a vobis cpiXi'iSovoi vocan-tur, sunt q5iX,}ca^oi et cpi^oLxaioi,.

    ^ Fra tali beni appunto anche la giustizia (v. Mass., XXXI e mio commentoivi) di cui si parla nella massima V, si vede dun(iue come la V e la VI sianoanche per questo rispetto strettamente connesse.

  • 16 EPICURO

    sicurt acquistando potenza ed onori, Epicuro nella mas-sima VII, pone in guardia il saggio contro i pericoli che de-rivano da questo desiderio che, nel suo inizio, si proponeuno scopo utile, senza per raggiungerlo. Vien naturaledunque si dichiari quale criterio si debba seguire nella sceltadei beni, ed esso si determina nella sentenza Vili; ove siespone che ogni piacere per s un bene S ma pu esserecausa di conseguenze dannose. Ed il criterio di scelta si pre-cisa meglio nella massima IX (anch'essa male interpretatafin ora) ^ che acutamente esamina le diverse categorie dipiaceri e la loro varia potenza fecondatrice di nuovi beni,onde alcuni prevalgono su altri. Epicuro pu cos dimostrare,nella sentenza X, che le gioie dei gaudenti mancano di quellapi intima e vera fecondit, gravida d'avvenire, che pro-pria d'altri piaceri, ed in particolare di quelli spirituali ed in-tellettivi. Obietto di questi ultimi la scienza, per, osservaEpicuro neiraforisma XI, la scienza non ha valore per s,ma solo per le sue conseguenze; per s infatti non vale cheil piacere supremo, la serenit del saggio. La scienza dunquenon fine ma strumento. Per essa necessaria {Mass., XII);ove non conoscenza razionale errore, turbamento, pas-sione inquieta: essa sola ci concede di godere piaceri illibati.Si vede dunque come le massime XI-XII non sono doppioni(come crede TUsener, ed io pure ero un tempo disposto adammettere), ma. la seconda la dimostrazione della prima ^.Per di pili ambedue costituiscono con la IX e la X un soloordine di proposizioni logiche, conchiuse in un medesimo ra-gionamento, onde l'ultima (XII) ci porge una pi precisa dimo-strazione di quello che s'era premesso nella X, cio che i pia-ceri dei dissoluti non hanno quel carattere di intima sicurezzae quella pura liquldaque voluptas che Lucrezio esalta "*.

    1 E per ci considerati in s, e non nelle conseguenze loro, sarebbero beni ipiaceri della gloria e della potenza, di cui si parla nella massima precedente.

    2 V. il mio studio Sopra un frammento del comico Damosseno in Rendicontidel R. Ist. Lomb. di se. e lett., 1917, p, 286, 294 sgg.

    ^ Lo stesso rapporto intercede nelle massime XIX-XX, XXVII-XXVIII, v. soprap. 17 n.; 22 sg.

    4 V. n. a Mass., X. *

    i

  • INTRODUZIONR 17

    E neppure la XIII una ripetizione delle precedenti,ma, come mostrai gi nel mio studio citato sopra, servecome formula di passaggio alla massima che segue ^: vi sideterminano infatti i due aspetti sotto cui pu considerarsila sicurezza umana: cio la sicurezza esterna, di cui si parlgi nella sentenza VI, e l'intima sicurt, che opera dellascienza. Ambedue per si assommano nella vita del saggio,ed insieme si afforzano, perch, dice l'aforisma XIV, della si-curezza esterna principale sussidio la vita ombratile ed ap-partata dal volgo, vita che in s possiede prodiga abbondanzadi beni superiori a quelli che la fortuna tiene in suo arbi-trio. E veramente, soggiunge Epicuro {Mass., XV) vera ric-chezza quella che posa confidente in un suo termine sicuro,e tale la ricchezza della natura, paga al non soffrire: ognialtra ricchezza catena infinita di desideri e di immagina-zioni sfrenate. E sulla felicit del saggio, che serba in s in-tima fonte perenne di felicit, raramente incombe la fortuna(Mass., XVI), perch nel concetto della sapienza greca, il saggio l'artefice supremo, a cui i casi della vita servono come lamateria bruta : egli dunque anche da materia vile ed infidasapr sbozzare l'opera d'arte austera ed armonica della pro-pria vita serena. Serena poi sar la sua vita, se giusta(Mass., XVII), onde trover nella sua coscienza la fierezzadi resistere agli assalti della fortuna, ma ancora maggiormentese non temer la morte che pi di ogni altro evento inarbitrio del caso. Ora che la morte non sia un male in s,Epicuro ha gi premesso nella massima II; potrebbe pareretuttavia che essa sia un male, come termine a quella eternaserie di gioie che il pregio degli di. Ma che tale giudiziosia erroneo, dimostra Epicuro nelle sentenze XIX-XX -, ac-

    1 Si noti che non questo il solo caso in cui Epicuro inserisce una sentenzadi argomento ailine ad un'altra, per trarne una conclusione ulteriore; simile infatti il rapporto fra la XIX e la XX; cos pure la XXII propone un arf^onienfoche sar svolto poi in quelle che seguono (XXIII-XXIV), quindi al concetto dellaprima (XXII) si ritorna nella XXV come conclusione e avviamento ad una nuovaserie di precetti. Cfr. anche neWEpistola ad Erodalo i rapporti fra il 63 e il

  • 18 EPICURO

    certandoci che il tempo infinito e il finito hanno egualecopia di bene. Per per questa dimostrazione gli neces-sario determinare (nella sentenza XVIII) pi precisamenteche non abbia fatto nella III, quale sia il limite del sommobene, ed in quale rapporto esso si trovi con i piaceri piraffinati cari alla nostra immaginazione avida. Egli per-tanto dopo la massima XVII pone la XVIII, congiungendolain questa medesima serie che tratta, come abbiam mostrato,dell'attitudine del saggio verso la fortuna K E poich Epicuro,con sottile analisi psicologica, aveva notato che ogni nostrodesiderio di onori e di fama deriva, per recondita origine,dal timore della morte, onde gli uomini vedono nella vitaoscura e spregiata quasi un annullamento del proprio es-sere ^, egli dalla massima XX, in cui prov che il saggionon scorge alcun male nella morte, deduce, nella XXI, chechi persuaso di questo, e sa quanto poco basti alla tran-quillit dello spirito, non soggetto neppure alla brama diricchezze e di onori. Solo l'uomo volgare, infatti, vede inquesti piaceri quasi un compenso alla brevit della vita, enon s'accorge che mentre si affaccenda a procurarseli, fug-gono inquieti e travagliosi quegli anni che egli avrebbe po-tuto serenamente godere ^. La massima XXI non dunque

    seconda la dimostrazione della prima. Per su queste due massime, e la dot-trina espressavi, dovr soffermarmi pi oltre, correggendo anche in modo adeguatoil testo della seconda.

    1 Che poi la massima XVIII non sia un doppione della III, ho mostrato nellenote a queste due sentenze. Quanto alla connessione delle massime XVIII-XIX-XX,risulta evidente dalla dottrina, circa il limite (nQaq) del piacere, che appare intutte e tre.

    2 V. il mio studio citato, p. 803 : cfr, Lucr., Ili, 59 sg. Denique avarities et hono-rum cacca cupido, Quae miseros homines cogunt transcendere fines luris [v. Mass.,XVII] et interdum socios scelerum atque ministros Noctes atque dies niti prae-stante labore. Ad summas emergere opes, haec vulnera vitae Non minimam partemmortis formidine aluntur, Turpis enim ferme contemptus et acris aegestas Semolaah dulci vita stabilique videtur [V. Mass., XXI]. Et quasi iam leti portas cunctarierante: Unde homines dum se falso terrore coacti [v Mass., XX]. Effugisse voluntlonge longeque remosse... rem conflant divitiasque Conduplicant avidi... intereuntpartim statuarum et nominis ergo.

    3 V. Sent. vat., 14. Cfr. Luca., Ili, 931 sgg. ; 955 sgg. Che poi la Massima ca-pitale XXI debba connettersi con la XX, nel modo che ho indicato, risulta anchedal testo epicureo che riferisco pi oltre, p. 31 sg., n. 4.

  • INTRODUZIONE 19

    un doppione della XV, ma il suo contenuto pi ampio,ed illumina una particolare dottrina dell'etica epicurea, ri-connettendosi con la sentenza precedente.

    N ci deve riuscire strano che Epicuro ritorni spessosu dottrine affini, chiarendole di nuovo lume, volta pervolta, o ricavandone applicazioni particolari; perch tale la necessit del suo sistema morale. Anch'egli potrebbe direcome Parmenide: Indifferente per me donde io prendala mossa, perch di nuovo a quel punto medesimo ritor-ner > *, Come infatti la filosofia di Parmenide muove dal-l'unit ed immutabilit dell'essere e ad essa ritorna in per-petuo ciclo, cos la dottrina morale di Epicuro muove dalpiacere supremo (la quiete e l'imperturbabilit del saggio), ead esso sempre si riconduce. Sua ricchezza non sono le sin-gole verit teoretiche, scoperte in curiosa e feconda indagine,ma le applicazioni pratiche, ricercate con assiduo amore ; suaforza la perseveranza assidua d'una sola verit, presentataallo spirito in multiformi aspetti, e quella fede pertinaceche scava negli animi un solco di persuasione profonda. Ancheegli, come Parmenide, ha l'unilateralit che propria deglispiriti contemplativi e mistici ; la mistica di Parmenide per l'ontologia eleatica che ferma lo spirito nella pura unitdell'essere; la mistica di Epicuro, se cos si pu chiamare, l'edonismo che tutta riposa l'anima nella contemplazionedella beatitudine umana. Egli si pu dire infatti un singo-lare mistico della gioia, della gioia della carne che si raffina,in successive rinunzie, sino alla tranquillit astinente. Nepensa di ripetersi, quando rinnova, per ogni forma od eventodella vita, il suo monito di sicurezza. L'etica sua rassomigliainfatti, per questo aspetto, ad un altro libro di fede, alle Con-fessioni di S. Agostino, il quale ripercorre passo passo lavia travagliosa e piena di seduzioni dei suoi errori giovanili,per elevare al fine di ogni capitolo un inno di gioia alla puritspirituale che attraverso alle passioni ha saputo conquistare.Esser colmi d'un solo pensiero in perenne dovizia ed in ri-

    1 Parmkn., fr. 3 Diels.

  • 20 EPICURO

    conoscenza inesauribile, tale la virt della fede per il cre-

    dente, sia essa la fede in Dio o nella felicit. E questa appunto la forza deirepicureismo. Tutti gli epicurei, da Metrodoroa Diogene di Enoanda, ripetono con ingenua continuit e mo-notonia sazievole non solo le dottrine del maestro, ma anchei suoi atteggiamenti, pur quelli minuscoli ed un poco risi-bili; e non se ne accorgono e non se ne tediano, come il

    credente non si sazia di ripetere quelle medesime parole eformule che proclamano la verit per cui egli vive e spera.La filosofia epicurea infatti, come tutta l'etica antica, unaparticolare ascesi.

    Ma ritorniamo alla nostra indagine. Con la massima XXIsi pu ritenere compiuto il secondo gruppo di sentenze (VI-XXI) ove si svolgono le norme prescritte dalla saggezza edalla prudenza alla vita del saggio ^ Con la XXII infattis' inizia una nuova serie (XXII-XXIV) che tratta dei criteridelia verit e del giudizio morale. Il passaggio dall'uno al-l'altro gruppo ben segnato dalla prima sentenza (XXII),ove si afferma che in ogni atto dobbiamo badare sempre alfine etico ed a tutti i criteri del vero ; altrimenti la nostravita sar piena di turbamento ^. Ed appunto perch duplice l'oggetto di questa massima (cio il bene morale e i criteridella conoscenza), essa si presta a servire di passaggiodalle precedenti d'argomento morale alle seguenti d'argo-mento logico. N ad ogni modo potrebbesi aver fede in unadottrina morale qualsiasi, posto che non si dovesse aver fedeche la nostra logica possa adeguatamente conoscere il veroe dar ragione dell'errore: conoscenza ed azione sono duegradi successivi d'un medesimo ordine, ed il secondo devepoggiare sul primo. Epicuro dunque, che fonda la sua etica

    1 Si noti come esse formano un ciclo completo; infatti nella massima XXI siritorna, dopo successivi passaggi, all'argomento della VI e della VII, cio allasicurt della vita ed alla rinunzia alla potenza politica ed agli onori: V. anchesotto p. 21, n. 2.

    2 A torto si volle vedere in questa sentenza una massima di contenuto pura-mente gnoseologico, mutandone arbitrariamente il testo; mentre, come ho indicatonel commento, la morale di Epicuro strettamente connessa alla sua dottrinadella conoscenza, perch ambedue si fondano sulla testimonianza dei sensi.

  • INTRODUZIONE 21

    sopra l'attestazione del senso interno, il quale ci rivela come

    l'uomo tenda naturalmente al piacere e fugga dal dolore, ciavverte nella massima XXIII con quanta ponderazione dob-biamo procedere nel giudicare le testimonianze dei sensi, per-ch in ultima analisi ad essi dobbiamo riferirci come criteridel vero e del falso. Per, aggiunge nella sentenza XXIV, nonsi deve confondere con il contenuto effettivo della sensazione,quell'opinamento che le va congiunto, ma in realt non le imputabile, perch il senso irrazionale, non giudica, non ri-corda, n compie alcun atto proprio dell'intelligenza: e perquesto appunto non pu errare ^ Fermate queste norme, Epi-curo, nell'aforisma XXV, riprende la prima parte della mas-sima XXII, servendosene come conclusione alla serie prece-dente ^ ed insieme come passaggio ad una nuova serie chetratta dei desideri. I desiderii infatti sono l'oggetto del giu-

    dizio morale, onde si comprende perch prima Epicuro abbiaparlato delle norme del giudizio logico. Come infatti nel giu-dizio logico il criterio del vero e del falso a cui dobbiamoriferirci, la sensazione, e l'errore deriva dall'opinamento;cos nel giudizio morale il criterio il bene ultimo, cio lacalma corporea (aponia) e la tranquillit spirituale (atarassia),l'errore viene dal falso opinamento, cio dalle illusioni umane.Giudicati a questa stregua, i desiderii si classificheranno su-bito in due grandi categorie, che Epicuro determina nella mas-sima XXVI; desiderii necessari, quelli che hanno di miral'aponia, non necessari quelli che possano venir repressisenza che ce ne incolga necessariamente dolore. A torto dunquesi volle trasportare questa massima dopo la XXX o dopola XXIX; infatti essa necessariamente congiunta, come ab-biamo visto, alla XXV ^. Piuttosto potrebbe sembrare che

    1 V. pi innunzi p. 29, n. 1.^ Anche (lucsta serie diuKiue, come la seconda (v. s. p. 2fi, n. 1), forma un

    ciclo.

    ^ Che la massima XXVI non si debba collocare dopo la XXX, come vorrebbeil Gassendi, appare manifesto a chi osservi che la XXX tratta della terza cate-goria dei desideri (v. s. p. 23), e non potrebbe perci precedere la XXVl che trattadi qu(!lli della seconda. Anche qui dunque i critici, volendo mutare l'ordine di

  • 22 EPICURO

    siano fuor di posto le massime XXVII-XXVIII, o che inter-ceda una lacuna fra la XXVI e la XXVII. Come mai infattidalla dottrina dei desiderii Epicuro passa a trattare di quelladell'amicizia, per poi ritornare alla prima? Introdurre unospostamento non mi pare tuttavia n utile n prudente; pos-sibile invece sarebbe supporre l'omissione di una massimail cui contenuto, a quanto credo, potrebbe ricavarsi, pressoa poco, da quanto dice Epicuro stesso neW Epistola a Meneceo^ 127 ^ Per egli, fidandosi neiraccorgimento dei suoi disce-poli, omise forse questa formula di passaggio. Ecco dunquecome credo si possa compiere l'ordito del ragionamento. Nellamassima XXVI si afferma che non sono necessari quei desi-derii che non hanno per iscopo il sommo bene : ne conseguedunque che sieno necessari quelli che si propongono tale fine.E siccome fra tutti i beni il pi necessario alla felicit, secondoEpicuro, l'amicizia, senza cui non pu essere vita vitale ^, sicomprende come Epicuro abbia collocata la massima XXVIIsubito dopo la XXVI. Infatti nel luogo citato oiVEpistola aMeneceo, egli afferma che dei piaceri necessari, alcuni sononecessari alla felicit, altri alla sanit del corpo, altri infine

    alla vita stessa: ma l'amicizia necessaria alla felicit; dunquedell'amicizia si deve parlare prima che di ogni altro oggettodei desiderii umani. Non poi vero che le sentenze XXVII-XXVIII siano doppioni, come crede l'Usener per aver maleintesa la seconda di esse ^. Nella prima infatti si dichiara

    queste massime, vi posero non ordine, ma confusione. Si osservi invece come lamassima XXVI propone una prima distinzione generica dei desideri, in rapportoal fine naturale (di cui si parla nella precedente sentenza), utile a determinare

    il valore dell'amicizia, della quale si discorre poi nelle massime XXVII-XXVIII.Quindi la XXIX reca la classificazione compiuta dei desideri; la XXX finalmentedetermina la nostra attitudine verso i desideri della terza categoria. Anche nel-V Epistola a Meneceo, 127, si propone prima una pi larga classificazione dei de-sideri in due categorie, per determinarne poi le sottocategorie.

    1 Se si dovesse credere che una sentenza fosse perduta, potrebbe facilmente

    ricostruirsi dal passo citato dell' Epistola a Meneceo, presso a poco in questa

    forma : xcov jti'&vfiicv al |xv jtQq eSaifiovCav elolv voynaiai, al 6 nQg ttiv xovocfAaTos ox^TioCav, al 5 Jigg a-x t ^fiv.

    2 V. fr. 104: Sent. vat., 78: Cic, De fin., I, 20, 67.3 Cfr. in proposito le mie osservazioni nello studio citato sopra, p. 805: v. an-

    che il commento alle due massime.

  • INTRODUZIONE 23

    essere ramicizia il sommo sussidio che la saggezza ci porgealla sicurt delia vita intera: nella seconda invece si affermache la sicurt, propria del saggio, di fronte al dolore ed allamorte, fa s che Tamicizia possa avere fondamento incrollabileanche in mezzo a quelle circostanze che richieggano gravisacrifizi per non venir meno airaraico.

    Anche qui dunqae la seconda sentenza non gi la ri-petizione, ma la riprova della verit della prima *: poichl'amicizia pu essere solo utile alla nostra sicurt, se potremoconfidare che il suo aiuto non ci verr meno nei pericoli.

    Abbiamo gi osservato che la massima XXVI stabilisceuna prima distinzione generica dei desiderii, necessari e nonnecessari, distinzione utile a determinare il valore dell'amici-zia. Onde Epicuro procede pi oltre, e nella sentenza XXIXpropone una classificazione pi ampia, distinguendo tre cate-gorie di desiderii: 1) naturali e necessari; 2) naturali e non ne-

    cessari ; 3) non naturali e non necessari. Nella massima XXXsi discorre dei desiderii non naturali e non necessari,non dunque essa una ripetizione della XXVI (come crederUsener), perch i desiderii non necessari, di cui si trattavanella XXVI, appartengono tanto alla seconda quanto allaterza categoria, laddove la nostra attitudine deve essere dif-ferente a seconda che i desiderii siano da classificarsi nel-l'una o nell'altra di esse ^.

    Segue ora una nuova serie di massime di carattere giu-ridico {Mass., XXXI-XXXVIII). Anch'esse appariscono di-sposte in ordine logico, purch opportunamente si chiariscanoi rapporti reciproci. Precedono quelle che determinano il con-cetto generale del giusto {Mass., XXXI-XXXV): cio,prima {Mass,, XXXI) si definisce quale sia il diritto di na-tura, che consiste nell'utilit reciproca di non offendere enon essere offesi ^; da questa proposizione fondamentale si ri-

    1 Ed appunto il metodo che Epicuro sej^ue nelle massime XI-XII; XIX-XX.a V. infatti Seni, vai., 21.3 Per l'interpretazione di (questa massima e di (incile che seguono v. n. ad oc.

  • 24 EPICURO

    cava: anzitutto {Mass,XXXII) che non v' rapporto giuridico

    fra esseri che non siano in grado di stabilire tali patti reci-proci: in secondo luogo {Mass., XXXIII) che la giustizia non una entit metafisica per s stante (come credevano i Pitago-rici e Platone) ma solo un concetto relativo alle condizionisocievoli. Non dunque questa sentenza una ripetizionedella XXXI, ma un corollario di essa. L'errore anche qui pro-venne dalla falsa interpretazione delle due massime. Epicuroprocede poi pi oltre; la giustizia non infatti neppure unbene^6r s {Mass., XXXIV), ma solo per l'utile che ne deriva:affinch per non si creda sia possibile violarla impunemente,Epicuro [Mass., XXXV) osserva che nessuno il quale la violi,pu essere sicuro di conservare la propria sicurt e quietespirituale. Il saggio dunque l'osserver sempre ^

    Segue ora la seconda parte di queste massime giuridiche[Mass., XXXVI-XXXVIII) : esse discorrono, non pii del di-ritto considerato nel suo valore generico, ma del dirittospecifico, cio delle particolari disposizioni di legge, varia-bili secondo i luoghi e le circostanze. La distinzione espostanella massima XXXVI, ove si dichiara che, nel senso piampio, il giusto uguale per tutti coloro che siano in condi-zione di apprezzarne il valore, perch il simbolo dell'utilitreciproca di non nuocerci a vicenda: ma poich le norme chesi debbono stabilire, affinch si ottenga tale utilit reciprocapattuita, variano da luogo a luogo e secondo le circostanzemutevoli, ne consegue che da luogo a luogo varii il dirittospecifico a cui provvedono le leggi.

    Ci premesso ne deriva {Mass., XXXVII) che non solo lenorme legislative sono valide, anche se diverse nei vari luo-ghi ~, ove corrispondano al carattere fondamentale del giusto,cio l'utile, ma altres che queste norme sono valide solo

    1 Cfr. Mass., XVII.2 Epicuro (come vide giustamente il Philippson) si contrappone a quei filosofi,

    come ad esempio i Cinici, i quali osservavano che ogni cosa valida per natura,si comporta egualmente ovunque (p. es. il fuoco abbrucia presso tutti i popoli)servendosene a combattere l'autorit delle leggi. Epicuro evita l'obiezione, distin-guendo il diritto secondo natura, cio il diritto generico, dal diritto specifico.

  • INTRODUZIONE 25

    e fin tanto che corrispondano a tale carattere. Quando la loroutilit cessi, cessa pure la loro validit. La sentenza se-guente (XXXVIII), pare anche a me, come airUsener, unduplicato di quella che la precede. Ed in ci non v' nulladi strano: due possono essere le spiegazioni del duplicato.Infatti Epicuro stesso cur due edizioni di questa raccoltae nella seconda sostitu Tuna massima con l'altra, onde poiun lettore solerte not a margine la sentenza mancante nelsuo esemplare; oppure tale aggiunta marginale deriv daun'altra opera di Epicuro, ove ricorreva una sentenza paral-lela a questa inclusa nel nostro manuale. Per delle duesentenze credo la prima sia da considerarsi preferita dall'au-tore o unicamente da lui posta tra le Massime capitali', perchvi si indica che non infirma il valore giuridico di una pre-scrizione di legge, riconosciuta utile in pratica, il non essereessa comune a tutti i popoli : osservazione, come vedemmo,assai significativa ed importante per lo scopo polemico acui mira.

    Le due massime XXXIX-XL, coronano degnamente l'o-pera, determinando quale sia la vita e la condotta del sag-gio in rapporto con gli altri esseri. La prima ^ indica qualiesseri debba ritenere a s affini o addirittura ostili: la se-conda ritrae la felicit della piccola accolta di saggi cuil'amicizia avvince in vincoli indissolubili. Ed bello e giustoche questo libro aureo degli epicurei, che schiude loro la viaalla felicit, si coroni con una massima in lode dell'amicizia,cui Epicuro vanta bene immortale e superiore alla saggezzastessa - : ed bello pure che nelle ultime parole di questolibretto sorga un discreto accenno SiWeuthanasia del sapiente,degno di ricordo, quando dalla vita si diparte, ma non dicommiserazione, perch con Ja morte la sua beatitudine conchiusa, non violata.

    Ha termine cos il nostro minuto esame che ci ha fattoripercorrere, non senza frutto, credo, gran parte dell'etica di

    1 Come si debba interpretare questa massima v. nella min n. ad loc2 V. Sent. vat., 78.

  • 26 EPICURO

    Epicuro. Conforme allo scopo pratico di essa, abbiamo vistoessere il disegno, ben condotto e compiuto, di questo ma-nuale: cade dunque ogni argomento contro la sua autenti-cit. Quanto a doppioni, ne trovammo uno solo, e precisa-mente contiguo alla sentenza di cui la ripetizione, e talevicinanza spiega il modo onde vi fu introdotto. Possiamodunque esser certi di avere nelle Massime capitali un libroa lungo meditato dal maestro, e composto ad arte per di-scepoli che avessero la preparazione necessaria a seguirnele linee, godendo di ripercorrere mentalmente la dottrina ^E potr giovare Tesserci fatti noi pure, per breve ora, suoifidi, e aver meditato con lui queste sentenze lapidarie, chein s racchiudono la singolare passione d'uno tra i maestridi vita la cui voce ebbe nelle et pi larga eco ^.

    III

    Uno studio particolare meritano le due massime XIX eXX, perch trattano d'una ingegnosa dottrina epicurea nonbene^interpretata sin ora, e perch il testo della seconda non

    1 Questo appunto raccomanda Epicuro nel fine AqW Epistola ad Erodoto.2 Determinata l'autenticit di questa raccolta, pu essere utile accertarci che

    l'esemplare che Diogene Laerzio ebbe presente e ci tramand era buono, anche semolteplici errori derivarono poi per causa degli amanuensi che copiarono l'operadi Diogene. Di ci si potrebbe gi aver fiducia dato l'interesse singolarissimo cheDiogene ha per Epicuro. Ma migliori prove ci arrecarono le ultime scoperte. In-fatti alcune di queste sentenze si trovarono nel Gnomologio Vaticano (v. sotto, ciche diremo delle sentenze vaticane da me tradotte) e nell'iscrizione di Enoanda,entrambe scoperte posteriori agli Epicurea dell' Usener. Orbene, dallo studiocomparativo delle lezioni si vede che, se in qualche punto le due nuove fontici servono a colmare lacune di qualche parola, caduta nel testo di DiogeneLaerzio per omissione degli amanuensi, in generale per la fonte a cui attinseDiogene I^aerzio certamente migliore. E prova anche pi persuasiva abbiamoda un papiro ercolanese (pap. 1012, col. 41), il cui testo venne recentemente rive-duto del Crnert {KoL u. Mened., p. 116), da cui si ricava che la lezione vne%a(,Qeaiq,che Diogene Laerzio reca nella massima III, si trovava solo nei buoni manoscrittiposseduti dagli epicurei, mentre i cattivi {x xa>tc5g xovxa yxiyQacpa) recavanola lezione lalQeoig.

  • INTRODUZIONE 27

    fu ancora corretto in modo soddisfacente ; n potrebbe questoproblema esser trattato nel breve spazio concesso dal com-mento.

    Anzitutto che il secondo di questi due aforismi non siauna ripetizione del primo, come pensa TUsener, apparirfacilmente a chi li esamini con attenzione; n difficile scor-gere che la prima massima propone il quesito che nella se-conda si dimostra. Fra le due sentenze intercede cos il me-desimo rapporto che abbiamo veduto essere, per esempio, frala decima prima e la decima seconda; sono perci ambedueda ritenersi e Tuna non potrebbe stare senza Taltra. Vediamoora la dottrina di cui trattano. La sentenza decimanona af-ferma : Il tempo finito e V infinito hanno ugual copia digioia, se di essa si definisca giustamente il limite con laragione. questa una dottrina particolarmente cara adEpicuro, perch solamente se di ci persuaso il saggio potrcontendere di felicit con gli di, come egli orgogliosamenteaff'erma ^ Con pi umani sensi, Saffo pensava che la mortedebba essere il peggior male, altrimenti non si comprende-rebbe che gli di onnipossenti ne abbiano lasciato Tereditagli uomini e per s abbiano ambita Teterna beatitudine.Epicuro persuaso invece che il timore della morte ed ildesiderio dell'immortalit siano i due pi terribili errori, a cuila filosofia porge rimedio, non gi aggiungendo interminatotempo al vivere, ma sgombrando l'immedicato rimpianto del-l' immortalit^. Veramente, egli osserva, come dei cibi nonricerchiamo i pi abbondevoli ma i pi piacevoli, cos nonil tempo pi durevole ma il pi gradevole ci caro ^. Il per-fetto goditore bada alla squisitezza e non alla durata dellagioia : ed questa una verit che Aristippo, l'esteta dell'edo-nismo, avrebbe sottoscritta volentieri. Ma Epicuro vuole ac-certamenti anche pi precisi e persuasioni pi solide, e perci,ritornando su questo argomento che gli caro, aff'erma ri-

    1 V. Sent. vat.^ 33; Ep. a Menec, 135 e n. ivi.2 V. Ep. a Menec, $ 184.3 Ibid., 126.

  • ^8 EPICURO

    soluto, che non solo nella qualit del piacere ma neppurnella quantit, il tempo finito, che prescritto alla vitaumana, deve nulla invidiare all'eternit concessa agli di

    ;

    -ed In questo ambizioso vanto s'accordano con Epicuro an-che gli stoici K Come Epicuro intenda provare quanto af-ferma, accennato di passaggio nella sentenza decimanona,ed esposto distesamente nella massima che segue. Per disgra-zia per la prima parte della massima ventesima corrottanei codici ^, e sin ora gli sforzi fatti dai critici per sanarlafurono vani. Ingegnosa a prima vista la correzione dell'Use-ner che legge ga^oi av invece della lezione manoscrittajtaQeaxeuaoev ; ma, chi esamini attentamente il passo, vede chenon correzione accettabile. Anzitutto, n facile a spie-garsi come sia accaduta tale corruzione nei manoscritti, n consigliabile correggere la parola JtaQeaxeiJaaev che ricorrepoche linee dopo ed in fine della massima XVIII, ed ha perciogni aspetto d'essere genuina anche l dove l'Usener vor-rebbe mutarla. In secondo luogo questa correzione fa diread Epicuro cosa inconciliabile con la sua dottrina. Questeprime parole infatti, secondo l'emendamento dell'Usener, si--gnificherebbero:

  • INTRODUZIONK 2^

    Epicuro stesso dice, che la sensazione n ricorda, n ragiona,n opina alcunch? ^ Desiderare che il godimento duri infi-nito emettere un giudizio sull'eccellenza del piacere illimi-

    tato rispetto al limitato. Il corpo, questo non fa n pu fare:questo affermer se mai la ragione, se le sembri giusto, edella ragione Epicuro parla dopo ed indica come essa risolvaaltrimenti il quesito. Non dobbiamo dunque far dire ad Epi-curo cosa contraria alla sua dottrina, tanto pi se per giungerea questo avremo dovuto modificare la lezione manoscritta.

    E del resto, che Epicuro qui si ricordi bene della suateoria, secondo cui il senso non emette giudizi, e che anzisu di essa si fondi, risulta dalla stessa sua affermazione (nelleprime parole del testo) che la carne percepisce come illimitatii limiti del piacere. La qual cosa non potrebbe accadere se ilcorpo avvertisse che il godimento ha un fine, e che sarebbedesiderabile non avesse termine mai ; solo accade invece seil senso, nella sua schietta e divina ingenuit, viva nel puroistante che fugge, ed in quell'istante non abbia perturba-zione o presentimento dell'attimo successivo; onde in ogni at-timo senta la pienezza dell'infinito. Perch finito ed infinitosi eguagliano a chi non ha nozione del limite che distinguel'uno dall'altro. Quando il Leopardi, sopra Termo colle, vuolrisentire il brivido, o diremo meglio l'horror lucreziano del-l'infinit degli spazi, ove il suo animo ama perdersi, deveseder presso l'amica siepe ed a quell'esiguo confine parago-nare l'immensit sconfinata. Per il fanciullo, invece, chevive nella purit del senso, interminato ed immenso tuttoquello in cui posi l'anima sua, non prevedendo termini allapienezza del suo sentire. Per questo, a ripensarvi, gli annidella fiinciullezza e della prima gioventi paiono cos lunghie ricchi di cose, mentre quelli che seguitano poi s'incalzanorapidi al loro termine.

    1 V. Vita di Epicuro, % 36: cfr. Tertull., De anima, 17 (Usen., p. 183, 5 sgg.)Epicurei constantius parem omnibus atque perpetuam defendunt veritatem, scdalia va. Non enim sensum mentiri, sed opinioiiem : sensum enim pati non opinavi.Animam enim opinavi. August., De civilaW dei, Vili, 7 : ad Diuscov., ep. CXVIII, 29:Epicurei numquam sensus corporis [cfr. -f] oQ%] falli (dicunt).

  • 30 EPICURO

    Secondo Epicuro dunque il corpo, ingenuo goditore, nonprevede confine alla sua gioia : la gode nel suo pieno el'assapora: non infausto profeta; ma in ogni attimo cogliela beatitudine deir infinito.

    Dopo questo che s' detto, non difficile correggere iltesto, leggendo : xal ajr8iQ(ov oiix ajieiQ)og avx^v XQvog jraQe-oxvaaev. L'errore avvenne per il caso consueto di aplografia:l'occhio del copista, mentre scriveva la prima parola, corsealla seconda, in cui ricorrevano le medesime lettere, edomise quelle che erano in mezzo. Corretto cos il testo, Epi-curo, nelle ultime parole, viene a dire appunto ci che con-segue di diritto alla prima parte di questa frase: E pervero la carne percepisce ^ sempre come illimitati i confinidel piacere, e cos un tempo pur non illimitato produce il-limitato piacer. Conclude dunque secondo vuole la suadottrina, e con ingegnosa psicologia.

    Posti sulla buona via, ci che segue non ci pu recarpili difficolt. Epicuro infatti continua: La ragione poi ren-dendosi conto quale sia il sommo bene corporeo ^ e qualene sia il limite ^, dissipa i terrori rispetto all'eternit e dordine e sicurezza a tutta la vita: non ha quindi pi alcundesiderio del tempo infinito. N fugge tuttavia il piacere, equando le circostanze ci costringano ad escir di vita, di-partendosi, non sente rimpianto di qualcosa che le manchialla vita perfetta ^ >

    .

    La carne non ha emesso alcun giudizio, a giudicareinterviene l'intelligenza; e sentenzier secondo l'analisi delpiacere che Epicuro ha premesso altrove. Sa dunque essa

    1 I due aoristi, come poi il seguente in tv 3tavxeXf\ ptov jtaQsoxeijaosv, sonoaoristi gnomici: cfr. Mass. eap., XL.

    2 T xf\c; ouQ^q xXoq: cio l'aponia: v. Ep. a 3Ienec., 131: x \ii] Xyelv xax xocfia: cfr. Mass. cap., XXV: x xXoq xf\g cp-uOECog.

    3 Per questo limite, Jigag, v. Mass. cap., Ili (oqos) e cfr. Epistola a Menec, 133, ove si riassume la dottrina della massima III, x xcv Ya-O-cv jtQag. Lucr.,V, 1430 sgg., ergo hominum genus incassum frustraque laborat Semper et in cu-ris consumit inanibus aevum, Nimirum quia non cognovit quae sit habendi Finiset omnino quoad crescat verv, voluptas.

    * xo-u Qiaxov pCou: v. p. 31, n. 4.

  • INTRODUZIONE 31

    che il sommo bene corporeo l'assenza di dolore, e che ilpiacere non cresce oltre questo termine, ma solo si svaria inraffinamenti che non sono necessari alla felicit ^ Del resto inquesta massima non si considera la qualit, ma la quantitdel piacere. Perci, per T intelligenza, il piacere, sino a quandoperdura, perfetto e non pu crescere pii oltre. N pu per-turbarlo il pensiero della morte, perch il saggio persuasoche essa nulla per noi ~, essendo ogni male o bene nelsenso e la morte privazione di senso. N di l della mortevede eterne pene, quei timori, cio, dell'eternit di cui Epi-curo ha guarito gli animi umani ^. Le basta dunque che finoa quando la vita duri, perfetto permanga il piacere, ed aquesto provvede la dottrina che lo riconosce pieno e assolutoneWatarassia assicurata al saggio. Il tempo infinito invecenessuna squisitezza potrebbe aggiungere alla nostra gioia, chequando viviamo non ha mancamento, e quando non saremopi non sapremo di non possedere. Ed a coloro, i quali comeEgesia, il persuaditore di morte pensano, che, essendo ilpeggior male soffrire ed il vero bene non soffrire, la morte siamigliore della vita; Epicuro oppone che Vaporila non solo unbene negativo, ma concreto in s e solido (v. fr. 11) ; il piaceredunque, pur nel suo limite della non sofferenza, da ricor-carsi e gustarsi, e la vita per chi la prova un bene: s'anchela morte non sia un male perch la morte stato d'inco-scienza. Godr dunque l'epicureo la vita e, quando giungail tempo di escirne, non sentir rimpianto di qualcosa che glimanchi alla vita perfetta *. Alla voce di Epicuro s'unisce cos

    1 V. Mass. cap., XVIII: Plut., Contr. Epic. beat., 3, p. 1088 C: Comune limitepose Epicuro ai piaceri, la detrazione di tutto il dolore, in quanto solo sino a talpunto la natura accresce la ffioia, ma non concede che proceda pi lungi in gran-dezza; e quando essa natura sia pervenuta alla cessazione del dolore, solo accogliecerte variazioni non necessarie: cfr. lo scolio, alla Mass. cap., XXIX.

    * V. Mass. cap., II, e n. ivi.3 V. Ep. ad. Erod., 81 e n. ivi.* Un raffronto epicureo, non ancora scorto, con questa sentenza e la se-

    guente (XXI), nell'operetta intitolata OiXtoxa dell'epicureo Carneisco, conser-vataci frammentaria nei papiri ercolanesi e pubblicata dal Crnkrt recentementein Kololes u. Mened., p. 69 sgg. : v. ivi col. XII, p. 70: xal el ixejiVTijivov, xa]\>'6

  • 32 EPICURO

    quella di Metrodoro: Ti prevenni, o Fortuna, e ad ogni tuainsidia mi premunii; e non a te, non ad altro frangente m'ar-render ; ma quando sia necessit dipartirci, assai sputac-chiando la vita e quelli che ad essa stoltamente s'appiccicano,con bel peana ci dipartiremo, proclamando che ben per nois' vissuto ^

    IV

    Se molte sono le difficolt di lezione e di interpretazionedelle Massime capitali, che abbiam cercato di risolvere, piinumerose anche sono nella Lettera ad Erodoto, che per noila fonte pi preziosa per la fisica di Epicuro. E non proven-gono solo dalla condizione materiale del testo, corrotto neicodici, ma dalla forma stessa e dal carattere di questo scritto.Letterariamente la differenza di questa dalla Lettera a Meneceosi scorge a prima vista. Epicuro qui non ha ambizioni stili-stiche, anzi per lo pi trascurato e frettoloso. La ragioneappare dal proemio alla lettera. Egli parla agli iniziati: per

    'X,r\ xQvov, Tov cpuoino) xkXovc, xal O''8'v k'k'ki^yxa, xov Qicxov (3iou[v. Mass., XX] jcaQ t jat] xv%zXy xcv na^ xoig atoXA,o['5] JteQi pX, jtxwv,jil 5 xov jtaQVTOg o^'d-v xovxa SuoxsQq ov'elg xv Xoijcv alcva oj^rioovxa.Questo confronto particolarmente utile, perch le parole x jt) xuxelv xcav jtaQxotg jto^^oig ji;8Qi|3X,sjtx(ov, alludono a quelle competizioni per ottenere onori e po-tenza, di cui si parla nella massima XXI; onde si vede che la sentenza XXI era daCarneiseo letta ed interpretata in connessione con la XX, appunto come mostraisopra. Interessante poi, per lo studio della dottrina espressa nelle massimeXIX-XX, il confronto con il frammento LXIII sg. di Diogene di Enoanda. Ivi(fr. LXIII, col. 3 sg. W.) si dice: Non piccole n frali sono queste cose che rendonola nostra vita pari a quella degli di, e che non ci rendono in nulla inferiori, per-ch mortali, all'essere beato e incorruttibile [efr. Mass. cap., 1]. Perch, quandoviviamo, pari la nostra felicit a quella degli di... qui intercede una lacunain cui certo si diceva che quando moriamo perdiamo coscienza di noi, e percinon ci accorgiamo d'essere privati d'alcun bene. Infatti il testo prosegue nelfr. seguente: ... e se privo di senso, come pu sentire la propria inferiorit?.

    1 V. Sent. vat., 47: questo passo indica come le Massime capitali XIX-XX sianogiustamente riunite in un sol disegno con la massima XVI, che tratta della For-tuna, come ho mostrato sopra, p. 17 sg.

  • INTRODUZIONE 33

    i neofiti ha composto un compendio sul medesimo tema,pi ampio e diffuso ^ Confida adunque che coloro che lo leg-gono comprenderanno agevolmente, s'anche ommette parti-colari, se scrive alla brava, in un linguaggio tecnico, incu-rioso di quella nitidezza d'espressione che piacerebbe anchein un filosofo. E T incuria spesso manifesta; anche nei primiperiodi, che esprimono un concetto piano e naturale, il pen-siero s'avvolge in ambagi inutili. Epicuro non sa pi scriverecome si parla, arte meravigliosa dei primi scrittori attici ; eneppure ha quella densit nervosa, anche se inelegante edardua, eh' propria degli scritti di scuola d'Aristotele, ovetutta si rivela quella mente sempre inquieta a ricercare, adefinire, a proporre problemi, nel travaglio ansioso d'un pen-siero che di continuo scopre e ci addita nuove mete. Epi-curo invece ha qualche cosa da dire ben definito e conchiuso;ma, ove non si sorvegli, la sua forma modella male il pen-siero. Pur tuttavia, anche in questa lettera, sono qua e lbrani che nella loro secchezza arida hanno un che di austero.La difficolt maggiore viene dalla mancanza di certi nessidel pensiero, dall'essere alcune dottrine trattate troppo inbreve e quasi di scorcio; perch egli si propone di discor-rerne per discepoli che gi conoscano la sua filosofia e pos-sano seguirlo in una ricapitolazione rapida. Accadde perciche molto spesso i moderni abbian trovate difficolt che ilettori a cui il maestro si rivolgeva non avrebbero rilevate,ed abbiano corretto il testo l dove era sano e diceva cosaconforme alla dottrina di Epicuro. Occorre dunque anche ora,dopo l'opera insigne dell' Usener e le acute ricerche del

    1 II Grande compendio (v. Epistola ad Erod., }5 e n. ivi). Appunto perchquest'epistola lo scritto pii diffcile di Epicuro, l'ho posta dopo la Lettera a Me-neceo e le Massime capitali. Veramente, per l'arg-onicnto che tratta, dovrebbe pre-cedere, perch, nell'ordine della dottrina epicurea, prima veniva la dottrina dellaconoscenza (cio la canonica) di cui non abbiamo alcuno scritto particolare ma soloqualche accenno nelle Massime capitali e n^WEpisioa ad Erodoto, poi la fisica,poi Velica. Mi parve per inopportuno porre sin dal principio innanzi ai lettori loscritto pi arduo di Epicuro (composto da lui per lettori gi iniziati ed espertidel sistema) mentre la Lettera a Meneceo e le Massime capitali, potevano prepa-rarli man mano ad affrontare diflScolt maggiori.

    Epicuro. 3

  • 34 EPICI! no

    Brieger e particolarmente del Giussani \ convergere su questepagine ogni luce che si possa derivare dalle altre testimo-nianze epicuree. Questo abbiamo cercato di fare, e credo ap-parir che in molti punti la dottrina ne esce chiarita ed iltesto ridotto a migliore e pi sicura lezione.

    Affine per argomento a questa lettera, quella a Pitocle,che tratta di una provincia della fisica epicurea, di secondariaimportanza per il maestro; cio, delle dottrine metereolo-giche, in cui egli non ambiva a novit di risultamenti o diricerche, ma solo ad indicare le opinioni pi probabili, com-battendo quei filosofi che avevano su tali questioni dottrinedogmatiche. Pi rude e incondita anche di quella ad Ero-doto ^, potrebbe, a chi la legga, parer poco degna di Epi-curo. E per verit TUsener trov in un testo ercolanese chedella sua autenticit gi sollevarono qualche dubbio i succes-

    1 Acute ricerche sono anche nej?li Studi critici sul poema di Lucrezio del Pascal(1903), n occorre qui ricordare altri lavori che saranno indicati, ove occorra, nellenote. Desine di lode sono pure la versione latina del Tescari {Studi di filologiaclass., voi. XV) e quella tedesca del Kochalskt (Lipsia, 1;14), dalle quali perdissento in parecchi luoghi. Sopra tutto poi il Kochalsky in troppi punti, in questaepistola e altrove, ricorre a rimaneggiamenti arbitrari del testo. Una nota par-ticolare merita l'opinione, sostenuta specialmente dal Giussani {Studi lucreziani,1896, p. 12 sgg., 104 sgg.) che in quest'epistola si riveli gran disordine avvenutoper trasposizioni di brani nei codici. In verit per, quando egli vuole mostrarecome vi si possa porre rimedio, non vi riesce (v. la mia Appendice). E di fatti,come ho mostrato nell'Appendice, questo preteso disordine proviene dal caratterestesso della lettera composta per gli iniziati, che scorgevano nessi che a noi sfug-gono se non approfondiamo bene l'esame delle particolari dottrine. Ogni ritocco dunque non solo pericoloso, ma arbitrario. La medesima questione ricorre in-fatti anche per la Poetica e per altre opere di Aristotele, in cui furono propostetrasposizioni che poi in effetto si videro inopportune.

    - Non so se valga la pena di rilevare una curiosa svista dell' Usener, il quale{Praef., p. xxxvii) dice: De secunda ad Pythoclem epistula lepidum extatSchneideri Saxonis iudicium, ' multo elegantiorem scripturam atque Epicuri digni-reni iilam' quam primam (cio V Epstola ad Erodoto) esse vel propterea, quod adadulescentem pulcherrimum pulcra danda fuerit; ' fuisse enim Epicurum acerrimopulcritudinis sensu in sexu utroque praeditum et ad scribendum instigatum '.Le parole virgolate dall' Usener aono veramente dello Schneider (E'ptcuri P/jysica

    \

  • ' INTRODUZIONE i

    sori del maestro ^ Ad ogni modo, anche se non dovesse rite-nersi scritta da lui, certo compilata sull'opera sua maggiore,i libri della natura. E di una compilazione frettolosa, fattadal maestro stesso o da qualche discepolo, forse per suo in-carico, serba le tracce e le oscurit, che abbiamo cercatodileguare per quanto ci fu possibile.

    Il Testamento di Epicuro, conservatoci pure da DiogeneLaerzio, l'ultimo suo scritto giuntoci compiuto. Piccolo ma-nipolo dunque fra tante opere del maestro, che fu uno deipi fecondi autori dell'antichit. Ed a compensarne la per-dita, non possono corto, se non in piccola parte, servire le

    testimonianze raccolte dagli scrittori antichi, i frammenti er-colanesi ^, ed il mirabile poema di Lucrezio, che in vasta emolteplice anima di poeta ripercote la parola e la dottrinadi Epicuro. Giova per riudirne, qua e l, la voce in quellesentenze che ne serbarono gli scrittori antichi o i florilegi.E tra queste, particolarmente quelle scoperte in un florilegiovaticano, un anno dopo la pubblicazione degli Epicurea del-rUsener, onde non furono comprese da lui nell'opera sua erimasero perci assai meno note ^. Ed peccato, perch fu

    et Metereologica, p, 98), ma esse non si riferiscono gi ad un giudizio di premi-nenza eW epistola a Pitocle su quella ad Erodoto, ma alla semplice preferenzache dovrebbesi, secondo lui, dare alla lezione (scripturam illam) KXcov xaX.5,(invece del semplice KA,cov dei manoscritti) che trovasi in Eudocia, nelle primeparole d4?.8a jieqI (xexecQCov :tiToji,fjg xal tov YIbq y[ea]Tcov

    ( dubbio per se si debba leggere e integrare Qeoxcv o gercv) al xcv el^Mtxqcoqov vacpegofivcov 'Yito'dTixJv %xX.

    - Dei frammenti ercolanesi del jisqI qjvoEcog di Epicuro ci manca ancora unaedizione attendibile (vedi in proposito le notizie del Cosattini, Per una nuovaedizione dei frammenti del n. (piio. di Epicuro in Riv. di filai., XXXIII, p 292 sgg.":,ed anche l'Usener li ommette nei suoi Epicurea. N mai forse se ne avr un testoche conceda di trarne una traduzione, in cui non possibile indicare in ognipunto ci che si legge realmente nel papiro e ci che integraxione o congettura.

    ^ Queste SI sentenze, da me tradotte e designate con il nome di Sentmze Va-licane, furono scoperte dal Wotke nel codice vaticano gr. 1950 del secolo XIV:

  • 36 EPICURO

    rono scelte ad arte fra i pi bei fiori dell'opera di Epicuro.Gli altri frammenti conservatici, ci giunsero infatti per lopi per citazione dei suoi nemici ; e dai nemici vennero tra-scelti con cura i tratti meno simpatici e quelle boutades che

    potevano far scandalo. Ci rivelano perci un aspetto interes-

    sante del suo carattere, ma, direm cos, piuttosto segnanole ombre che le luci della sua figura spirituale. E neppuri discepoli, con l'ingenua ammirazione che raccoglie con

    codice miscellaneo che contiene le opere di Senofonte, i Pensieri di M. Aurelio

    (V. l'ediz. di M. Aurelio dello Stich, p. vii), il Manuale di Epitteto ed altre opereIl florilegio epicureo contenuto nei fogli 401 v.-iO?. La raccolta reca il titolo'EniKOVQOv rtQoocpcvTioig Allocuzione di Epicuro, n probabilmente da cor-reggersi jtQoocpa)VT]Ois in oTQoocpcovriasig, come propose il Weil. Il titolo che il rac-

    coglitore diede alla raccolta indica lo scopo morale che si propose. Volle egli

    farci riudire la voce di Epicuro, trascegliendo dai suoi detti quelli che ne rias-

    sumessero l'insegnamento morale come guida della vita umana. Di queste sen-tenze epicuree alcuna per non del maestro, ma dei discepoli: a Metrodoro,infatti, sono assegnate da altre fonti la sentenza 10, la 30 e la 47. dubbio sesia di Metrodoro o di Epicuro la 31 (v. mia nota ivi). Per di pi una (la 3S)non fu probabilmente scritta n da Epicuro, n da Metrodoro, che premor almaestro, ma da un discepolo dopo la morte di Epicuro: l'Usener crede sia forse di

    Ermarco. Delle altre, circa una ventina ci erano gi note, e buona parte di esseatipartengono alle Massime capitali, le rimanenti sono in tutto o in parte nuove.Recano tutte per il suggello dell'autenticit, sia nella forma che nella dottrina.

    Rispetto alla fonte di cui si serv il compilatore, l'Usener crede fosse una raccolta

    di pensieri, desunti dalle lettere di Epicuro, Metrodoro, Polieno ed Ermarco, di

    cui si sarebbe servito anche Seneca (v. Usener, Wiener Studien, 18'^8, p. 189 sg.:i-i'r. Crnert, Kol. und Men., p. 20, n. Ili), e l'ipotesi dell'Usener spiegherebbeper qual ragione alle massime di Epicuro siano frammischiate quelle di Metro-doro ed una almeno di altro discepolo. Per il raccoglitore del florilegio vaticanoavrebbe aggiunto a questo primo nucleo anche una scelta delle Massime capitali.L'ipotesi dell'Usener ingegnosa e assai probabilmente, in parte, coglie nel vero,perch qualcuna di queste sentenze ha carattere epistolare, credo per sia troppoassoluta. Il compilatore, come usufru senza dubbio le Massime capitali, pot an-che attingere da altri florilegi, se non alle opere epicuree. In nota al fr. 8, hoindicata infatti la possibilit che una di queste sentenze appartenga al Simposio

    di Epicuro. bene dunque evitare ipotesi troppo assolute, e non affermare sen-z'altro che tanto il compilatore di questa raccolta quanto Seneca, non avessero altrn

    fonte, oltre alle Massime capitali, che il predetto florilegio delle epistole epicuree.Di queste massime l'edizione principe, ed unica sin ora, quella del Wotkk

    nelle Wiener Studien, 1888, p. 191 8gg., con apparato critico del Wotke stesso econsiderazioni dell'Usener (p. 175 sgg., 199-201) e del Gomperz (p. 802-210). Ma, come naturale, il primo testo costituito non sempre soddisfacente; perci nelle notealla mia traduzione indicai, di volta in volta, quando me ne allontanai per rista-bilire la lezione manoscritta o per correggere altrimenti i passi corrotti nel codice.

    Gli studi posteriori di cui mi servii saranno ricordati, volta per volta, nelle note.

  • INTRODUZIONE 37

    Ugual compiacenza i detti pi salienti come i meno signifi-cativi, sarebbero sempre per noi la miglior fonte a conoscere

    il meglio della saggezza morale di Epicuro. Chi raccolse in-vece le sentenze vaticane, non fu, come si pu desumere daalcuni indizi, ne un discepolo n un avversario ^ Gi lastessa collocazione di questo florilegio, fra altre opere stoiche,

    ci fa presumere che esso dovesse esser composto da qualchestoico ecclettico dell'et imperiale che, come Seneca, non

    ricusava di trarre pensosi ammonimenti da ogni scuola eperci neppure dall'epicurea. Scriveva infatti Seneca ^i lrimedi dell'anima furon gi ritrovati dagli antichi; a noi nonresta se non cercare le occasioni e la maniera di servircene ;ed Epicuro era stato veramente fra i primi che avesse im-presso al suo insegnamento quel carattere di direzione intimadelle coscienze, che prevalse poi nell'et imperiale. Non strano dunque che non solo Seneca ma anche M. Aurelio,nelle sue meditazioni, da Epicuro togliesse massime di sag-gezza e si ponesse innanzi la figura di lui morente e le ultimesue parole, come sigillo d'una vita austera e confortata dasuprema serenit contro il dolore ^. L'imperatore filosofo, checontempla dall'estremo culmine del mondo classico la sapienzaantica, senz'altra passione che quella dell' eroica verit,sente spesso che gli atomi o gli di sono ipotesi per cui troppos' combattuto con asprezza dogmatica, mentre all'animainquieta ed avida di sicurezza morale altri pi intimi bisognidi bont, di forza, di bellezza prevalgono, a cui si pu