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Dispense Corso Biennale Aromaterapia e Massaggio Dispensa 1 Definizioni Storia Aromaterapia e CAM

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Dispense Corso Biennale Aromaterapia e Massaggio

Dispensa 1

Definizioni

Storia

Aromaterapia e CAM

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Definizioni: olii essenziali

Non esistono definizioni legalmente vincolanti di OE, nè definizioni univocamente accetta-te, oggettive, di cosa costituisca un OE per utilizzo terapeutico. Questa mancanza di stan-dard risulta problematica per il consumatore, sia primario sia secondario (terapeuta e semplice acquirente), perché non permette una facile distinzione tra materiali prodotti se-condo standard terapeutici e materiali prodotti secondo standard di profumeria o altro.

La mancanza di una definizione legale deriva in parte dalla difficoltà di dare una definizio-ne stringente di OE. Ovvero, esistono varie possibili definizioni di olio essenziale, ma nes-suna sembra essere perfettamente adeguata: alcune si basano su una descrizione di tipo chimico, altre li descrivono dal punto di vista botanico, altre ancora si basano su descrizio-ni del processo industriale.

Mi pare istruttivo partire dalla definizione che sembrerebbe più esatta, ovvero quella che parte dalla descrizione chimica degli OE.

Un OE è una complessa mistura di composti organici profumati estratta dalle piante aro-matiche, caratterizzata chimicamente dalla classe dei terpeni (classe assente solo in rari casi, come nell’olio di mandorla amara), ma che comprende anche altri gruppi di composti, in particolare i derivati del percorso dell’acido shichimico come fenoli ed eteri fenolici, ed altri gruppi minori come i composti azotati, quelli contenenti zolfo, ecc.

I terpeni normalmente presenti negli olii essenziali sono mono e sesquiterpeni, anche se raramente si possono riscontrare anche dei diterpeni. Insieme ai terpeni troviamo i loro de-rivati, come esteri, alcoli, aldeidi, chetoni, acetati, ecc.

Il problema della definizione di tipo puramente chimico è che in realtà essa non è una de-finizione ma solo una descrizione di una miscela complessa, nella quale le relative percen-tuali di composti non sono fisse ma molto mobili, e dipendenti sia da fattori relativi alla pianta (botanici, pedoclimatici) sia relativi alla processazione (tempo di raccolta, essica-zione, estrazione). Mentre per gruppi chimici perfettamente identificati (alcaloidi, tannini, ecc.) la descrizione chimica completa può coincidere con la definizione, questo non suc-cedere per gli olii essenziali.

Potremmo allora tentare la definizione di tipo botanico, ovvero definire gli olii essenziali come un prodotto odoroso del metabolismo della pianta, dipendente dalle caratteristiche della specie e dell’individuo, con specifiche funzioni metaboliche e di relazione ecologica (attrazione, difesa, ecc.) e sempre in cambiamento, mai definito nella sua composizione chimica in maniera fissa. Questa definizione ci avvicina alla complessità del prodotto che trattiamo, ma anche essa non è sufficiente. Infatti l’olio essenziale come prodotto non cor-risponde perfettamente al contenuto in molecole odorose (l’essenza) della pianta aromati-ca; gli OE non contengono ad esempio le molecole odorose eccessivamente pesanti, che non possono essere estratte con la distillazione, o quelle eccessivamente leggere, che si possono perdere per evaporazione durante la distillazione, o quelle idrosolubili, che si so-lubilizzano nell’idrolato, o quelle che non sono in forma libera (ad esempio i terpenoidi in forma glicosidica), ecc. Ovvero, come specificato più sopra, la composizione dell’olio es-senziale come prodotto finale, dipende anche da parametri di tipo industriale (come è sta-ta effettuata l’estrazione).

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Sembra quindi che una definizione di tipo procedurale sia la migliore, poiché tiene conto della variabilità intrinseca della essenza della pianta, evita il problema di una definizione chimica stringente, e tiene in conto del ruolo selettivo delle stesse procedure estrattive.

L’olio essenziale può essere allora definito come un estratto fitochimico selettivo che non seleziona un prodotto puro, chimicamente definito, con formula caratteristica, bensì una miscela di prodotti isolati in proporzioni molto variabili che condividono un simile comportamento fisico nelle condizioni date, cioè che sono (nel caso di OE da distillazione in corrente di vapore) volatili nelle condizioni normali, o per lo meno con una pressione di vapore significativa sotto ai 150oC, e che sono contemporaneamente insolubili/poco solu-bili in acqua. Nel caso degli OE ottenuti per spremitura delle scorze degli agrumi, essi sa-ranno caratterizzati solo dalla loro liposolubilità. E’ quindi l’operazione di estrazione, il filtro posto nella trasformazione, a definire l’olio essenziale. Un buon esempio è proprio la buc-cia d’arancia: a seconda che io la distilli o la sprema, ottengo sempre una “essenza” di buccia di arancia, sempre un metabolita della pianta, ma con grosse differenze di tipo chimico.

Ma quali saranno allora le procedure di produzione accettabili per definire un olio essenia-le?

Ricercando nelle definizioni ufficiali troviamo prima di tutto gli standard ISO e AFNOR (NF T 75-006 ottobre 1987), secondo i quali un OE è:

"un prodotto ottenuto a partire da una materia prima vegetale, sia per distillazione con va-pore, sia con dei processi meccanici a partire dall'epicarpo dei Citrus, sia per distillazione a secco. L'olio essenziale è poi separato dalla fase acquosa per mezzo di processi fisici"

Molti autori e aromaterapeuti sono in fondamentale disaccordo con l'inclusione della distil-lazione a secco tra le metodiche permesse per la produzione di OE. Gli olii ottenuti con questo metodo contengono livelli molto elevati d’artefatti (fenoli, benzo-pireni, catrami) ori-ginati dalla distruzione termica dei tessuti vegetali. Quest’inclusione non sembra essere quindi nello spirito di cosa idealmente rappresentano gli OE per gli utenti finali: principi aromatici isolati provenienti dal metabolismo secondario delle piante ed immagazzinati in strutture specializzate, isolati dalla massa vegetale con minime alterazioni causate dall'in-tervento umano (vedi capitolo strutture secretorie).

La definizione adottata dal Geneva Congress for the Suppression of Fraud (Congresso di Ginevra per la soppressione delle frodi) pur essendo più generica, sembrerebbe più vicina alle nostre esigenze:

"Gli olii essenziali sono il prodotto esclusivo dell'estrazione dei principi aromatici contenuti nelle sostanze d’origine vegetale delle quali portano il nome"

Implicita in questa definizione è l'esclusione di prodotti che contengano molecole che non fossero già parte della frazione aromatica contenuta nella pianta. D'altro canto questa de-finizione non specifica i processi attraverso i quali è legittimo ottenere OE (per distinguerli da, ad esempio, assolute), ed esclude in realtà artefatti della distillazione che sono sempre presenti negli OE.

Altre due definizioni che provengono dal mondo dell'aromaterapia ci danno qualche indi-cazione in più. Secondo Balacs & Tisserand (1995, p.7):

"Gli olii essenziali sono i composti organici e volatili del materiale vegetale aromatico che contribuiscono al sapore e all’odore,…estratti per distillazione o per spremitura a

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freddo….Un olio essenziale non dovrebbe avere nessuno dei suoi componenti rimosso ne alcuna sostanza aggiunta "

E secondo l'ATC (Aromatherapy Trade Council) (ATC (996a):

"Un olio essenziale è un composto aromatico e volatile usualmente estratto per distillazio-ne o spremitura da una specie botanica singola. Una volta che il processo principale di distillazione o spremitura sia stato completato niente dovrebbe essere aggiunto"

Alla luce di queste definizioni e delle manchevolezze di quelle già viste sopra, una defini-zione più stringente potrebbe essere la seguente.

Un OE è: “un prodotto volatile della estrazione tramite distillazione in corrente di vapore, idrodistillazione o idrodiffusione di materiale vegetale aromatico, o un prodotto della spre-mitura dell'epicarpo dei frutti del genere Citrus, sempre proveniente da una singola specie botanica, senza alcuna sostanza aggiunta e senza alcuna componente rimossa1. In prati-ca poi, certi "OE" vengono anche prodotti con la distillazione di oleoresine e assolute”.

Un OE non è: “un materiale estratto con solventi (i solventi includono biossido di carbonio, benzene, toluene, acetone, etanolo, esano ecc.), un prodotto della distillazione molecolare o un prodotto ottenuto tramite distillazione secca o distruttiva”.

Il termine OE non può essere perciò applicato agli estratti tramite CO2 supercritica. Sfor-tunatamente alcuni prodotti in commercio sono stati chiamati OE quando in realtà sono tutt'altro, come resine, assolute, resinoidi, ecc.

1 Questo limite, che dovrebbe servire ad evitare le manipolazioni degli OE, è troppo rigido, poiché nella real-tà vi sono sempre delle piccole pratiche di modificazione dell’OE post-produzione che non sempre sono classificabili come adulterazioni (la dementolizzazione delle mente, alcuni processi di purificazione per elimi-nare odori empireumatici, l’eliminazione di una percentuale di aldeidi in alcuni OE di eucalipto, ecc.)

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Cenni storici sull'aromaterapia

Alla domanda “quando è nata l’aromaterapia” è difficile rispondere senza prima chiarire di cosa si stia parlando. Se cioè stiamo parlando della storia dell’aromaterapia, della storia degli olii essenziali (OE) o della storia delle piante aromatiche.

L'utilizzo degli OE a scopo terapeutico ha una storia relativamente breve. E’ improbabile che la distillazione in corrente di vapore fosse disponibile prima di 1000 anni fa, e certa-mente gli OE non vennero apprezzati come prodotti interessanti se non dolo il 13 secolo. Addirittura, il termine aromaterapia (aromatherapie) è un termine moderno, creato negli anni venti dal chimico francese Gatefossé, ed era limitato all'uso antinfettivo - antibatterico degli OE, a livello locale per le ferite di guerra ed a livello sistemico per infezioni più gene-ralizzate.

L'uso degli OE nel massaggio, e l'approccio “psicologico” che spesso lo caratterizza, sono uno sviluppo degli anni '70, particolarmente in voga nei paesi anglosassoni ed esportato negli ultimi anni (per cui l’aromaterapia é sempre intesa, in Inghilterra, come una terapia di massaggio, mentre in Francia é intesa come una branca della fitoterapia).

Il voler applicare questo termine e questi utilizzi "a posteriori" alla medicina antica è ana-cronistico, per cui sembra inappropriato parlare dell’aromaterapia come di una pratica an-tica, ed il legarla alle origini della medicina.

Se la storia della aromaterapia è relativamente breve, la storia dell’utilizzo delle piante aromatiche è invece molto antica. L’utilizzo delle piante medicinali in varie forme rappre-senta, insieme alla medicina magico-spirituale e alla dietetica, uno dei primi metodi tera-peutici di cui troviamo menzione negli scritti antichi o nell’antica iconografia.

Dato che è probabile che molte delle piante medicinali siano state utilizzate nel passato proprio per la caratteristica di emanare un forte aroma, è giustificato ed utile parlare di quest’utilizzo. Le informazioni che abbiamo sulle piante aromatiche sono sicuramente rile-vanti per lo studio degli OE, ma è altrettanto importante operare dei distinguo: l’utilizzo di piante aromatiche non può essere paragonato all’utilizzo d’OE; molte delle proprietà delle piante in questione risiedono, infatti, nelle porzioni non aromatiche o nel fitocomplesso. Non dimentichiamoci che gli OE rappresentano una porzione limitata del profilo chimico di una pianta aromatica, e che al contrario di quanto spesso viene divulgato, essi non rap-presentano l’essenza della pianta.

Inoltre, quand’anche fosse possibile legare le pratiche contemporanee ad una scienza an-tica, è necessario intendersi sul significato di tale legame. In parte questo problema è quello della definizione di “scienza” in senso lato, ovvero di cosa dobbiamo intendere quando parliamo di scienza antica/tradizionale. A seconda di come rispondiamo a questa domanda, e in genere alla domanda su cosa sia la scienza, sarà molto diverso il ruolo che potremo dare ai concetti della medicina antica.

Se diciamo, con atteggiamento presentista, che scienza antica è tutto ciò, ogni idea, sco-perta o metodo che ha preceduto la scienza moderna ed è sopravvissuto in essa, ci ba-siamo in realtà su analogie che spesso si rivelano meno solide e meno pertinenti quanto più le guardiamo da vicino, perché dimentichiamo che il trovare delle anticipazioni (il pro-cessare delle urine degli antichi medici cinesi come prefigurazione del lavoro del moderno biochimico sugli ormoni steroidei) non è un mero atto di riconoscimento passivo, ma piut-tosto un caso di costruzione attiva di analogie, interessanti e significative se va bene, de-

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boli se va male. E si badi bene che questa riduzione è presente sia in campo biomedico, che crede così di poter riconoscere delle “invarianti scientifiche” nel passato, e di rigettare tutto il resto come “falso”, sia nel campo delle CAM, che la utilizzano per rivestire la cono-scenza passata del camice scientifico, magari dicendo: “lo avevano capito secoli fà”.

Se invece definiamo la scienza antica come tutto il pensiero astratto e sistematico, (dove per astratto intendiamo non solo il definire concetti su un piano più generale di quello delle esperienze sensuali concrete, ma anche il ricercare oggettive forze guidanti il cambiamen-to della natura all’interno della natura stessa piuttosto che, come fanno religione e la ma-gia, cercare spiegazioni in termini di emozioni o di volontà consapevole), allora la nostra esplorazione della scienza antica prende la forma di una ricostruzione di quali idee, e di quale tipo, si sono sviluppate, come sono collegate, come è cambiata la loro corrispon-denza con la realtà e quali delle loro possibili conseguenze sono in effetti emerse nel cor-so del tempo. Una ricostruzione di questo tipo è quindi più interessata al processo attra-verso il quale si è giunti ad un risultato finale piuttosto che al risultato stesso, o meglio, pretende di caratterizzare tale risultato con il processo che gli ha dato forma, per evitare confronti per analogia piuttosto che per omologia.

E questa modalità rifiuta esplicitamente una tendenza antimoderna spesso presente nelle CAM, ovvero lo studio della tradizione come rifugiarsi in un passato idealizzato e cristalliz-zato, come nostalgia dell’età dell’oro vista come fonte “originaria” di un significato perso dalla modernità, un significato da ritrovarsi ripercorrendo la storia all’indietro “per trovare laggiù, in scrigni ben serrati, di cui solo alcuni detengono le chiavi, quei tesori illuminanti il senso della nostra storia e della nostra vita”. Ma “essere più vicini alla fonte non significa custodire qualcosa di ”originario”, ma essere semplicemente all’inizio di un processo: la storia, che si compie facendosi, e non abolendola dissetandosi alla fonte. (..) Solo il rifiuto del mondo che viviamo può far ritenere che il mondo antico ... disponga di segni più veri. Ma rifiuto e nostalgia sono i moti dell’anima di chi disabita il mondo che per sorte si trova ad abitare, non sono certo criteri di giudizio, nè tantomeno sentieri di verità” (Galimberti 1999).

La preistoria degli olii essenzialiPer scoprire quale ruolo possano gli olii essenziali avere ricoperto nella medicina umana dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, a quando le Angiosperme fecero la loro com-parsa nel mondo e portarono ad una rivoluzione chimica. L’avvento di questo gruppo di piante portò alla produzione di una panoplia di composti chimici di difesa che le piante uti-lizzavano in mancanza di strategie di attacco e difesa dinamiche proprie degli animali. Nel-la continua rincorsa di risposte e controrisposte palleggiate tra piante e predatori, le An-giosperme furono “costrette” ad adottare difese più sofisticate, e circa 60 milioni di anni fa, con le prime angiosperme legnose, vediamo la nascita dei primi oli essenziali, caratteriz-zati da fenoli e derivati; in seguito il passaggio alle erbacee porta ad uno spostamento dal percorso dell’acido shichimico a quello dell’acido mevalonico, più duttile e con maggiori potenzialità di diversificazione. Gli oli essenziali si arricchiscono quindi in composti terpe-nici, meno tossici per la pianta, e nascono i lattoni mono e sesquiterpenici.

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Il modello coevolutivoI nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivo-ri-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla ne-cessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferis-se sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piutto-sto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l'anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d'emergenza.

Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontare moltepli-ci messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano.

La tesi qui sostenuta è che l’adattamento ha fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) sia-no le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fat-tore di promozione della salute). La nostra specie, nell'adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma an-zi che potessero esserci utili.

Quindi è ipotizzabile che il nostro organismo possieda già, inscritta nella sua biologia, la storia dell’incontro con gli olii essenziali, che quindi sia sensibilizzato ad avvertire la loro presenza e sia almeno parzialmente adattato alla loro tossicità. Sembra cioè biologica-mente logico che le piante aromatiche possiedano una elevata “salienza percettiva”

Ed infatti è arduo pensare ad una classe di piante che abbia accompagnato l’uomo da più tempo, che abbia segnato la sua storia in maniera più profonda, diversificata, affascinante, al contempo influenzando l’espressione dell’universo sensuale e spirituale.

In tutte le culture umane le piante aromatiche hanno goduto di uno status particolarmente importante, probabilmente, ed originariamente, come è stato precedentemente spiegato, proprio per le loro caratteristiche organolettiche, per la loro “salienza percettiva”, che ne ha certamente favorito la individuazione, l’evidenziazione rispetto allo sfondo. Sembrano quindi costituirsi come agenti importanti a scopo medicinale, alimentare e sacro, come no-do/snodo importante tra un percorso coevolutivo ed uno di costruzione culturale, mediato dai sensi chimici (chemiopercezione). Per questo sono diventate nel corso della storia umana protagoniste della gastronomia, della medicina, della ritualità religiosa, magica e civile.

Un esempio di questa salienza ce lo dà la storia dello zenzero.

Intorno al 4.000 a.C., un gruppo di coloni “austronesiani” partirono dall’odierna Taiwan e dalla costa sudorientale della Cina migrando verso sud est, iniziando una espansione (la cd. espansione austronesiana) che nei millenni sarebbe arrivata molto lontana, raggiun-gendo inizialmente le Filippine, l’Indonesia, il Borneo, e poi ad est la Polinesia e l’isola di Pasqua, e ad ovest il Madagascar (ma senza toccare l’Australia e conquistando solo a metà la Nuova Guinea), coprendo un’area di 8.000 km da nord a sud e di 10.500 km da est a ovest. Questa è un’area di grande omogeneità linguistica, poiché “praticamente tutte le lingue parlate [nell’area] dall’Atayal di Taiwan al Maori della Nuova Zelanda, dal Malga-

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scio del Madagascar al Rapanui delle isole di Pasqua, appartengono ad una singola fami-glia linguistica che i linguisti chiamano ora austronesiano, la famiglia linguistica forse più vasta al mondo e la più parlata prima dell’espansione europea, e che deriva dal cd. proto-austronesiano, il linguaggio ancestrale e ora scomparso che si parlava nell’odierna Tai-wan.

We humans are defined and fascinatedby our languages. Especially intrigu-ing are the 1,200 or so languages of

the Austronesian language family, possiblythe largest family among the 6,000 languagesof the modern world1. Until the Europeancolonial expansion spread Indo-Europeanlanguages far and wide after AD 1492, Aus-tronesian was the most widely distributedfamily, spoken across a realm spanning26,000 km from Madagascar in the west toEaster Island in the east (Fig. 1).

Austronesian history has been difficult to reconstruct, however, because there are no preserved samples of writing in any Aus-tronesian language until about AD 670, bywhich time the family’s expansion was nearlycomplete. A reanalysis of Austronesian languages by Robert Blust2 strengthens theidentification of the first Austronesian way-station, illuminates archaeological findingsand the history of boatbuilding, and mayhelp reinterpret the histories of other lan-guage families.

Blust’s analysis yields an astonishing pat-tern. Those 1,200 Austronesian languagesfall into ten subgroups, of which nine (con-taining only 26 languages) are spoken onlyby the non-Chinese aborigines of the islandof Taiwan. The tenth subgroup encompassesall Austronesian languages outside Taiwan,from Madagascar to east Polynesia — all1,174 of them. It is as if the Indo-Europeanlanguage family consisted of 1,174 closelyrelated Slavic languages, spoken fromBritain to Sri Lanka, with all nine other Indo-European language groups — Germanic,Celtic, Hittite, Italic and the rest of them —being confined to Ireland. Previous studieshad recognized several distinctive Austro-nesian language groups on Taiwan, but it had not been appreciated that the numberwas so high.

How do language families differentiate?With time, languages change, and dialectsthat at first are mutually intelligible graduallybecome more and more distinct. So it seemsthat the early diversification of existing Austronesian languages must have takenplace long ago, on Taiwan. Eventually, justone group of Taiwanese emigrated to otherislands, and their descendants in turn emigrated to still other islands, to becomeancestral to all living Austronesian peoplesoutside Taiwan.

This linguistic evidence for the Austro-

nesian expansion correlates well with archae-ological evidence. Studies of pots, tools andbones have shown that all farming in thePacific outside New Guinea stems from thecolonization of Taiwan by south Chinesefarmers by around 4300 BC, followed by theirexpansion through the Philippines andIndonesia to Polynesia, the Malay peninsulaand Madagascar1,3. Of course, pots do nottalk, and it can be impossible to guess the languages spoken by the pot-makers. But inthe Pacific, identifying the potmakers is easy,because all Polynesian islands were uninhab-ited until the arrival of people making so-called Lapita pots began at around 1200 BC,and there is no archaeological evidence forarrivals of other peoples after them4. Becauseall traditional languages throughout Polyne-sia are Austronesian, those first potters musthave spoken Austronesian languages.

Especially for those of us interested inboats, the details of Austronesian languagesprove as instructive as this main pattern. Thecontrast between big differences among Tai-wanese languages and much more modestdifferences among extra-Taiwanese lan-guages suggests that there was a ‘long pause’between the Austronesian colonization ofTaiwan and the Austronesian expansion outof Taiwan. But there is also another contrast,within those extra-Taiwanese languagesthemselves, between non-Polynesian lan-guages and a discrete sub-subgroup consist-ing of the closely related Polynesian lan-guages. This suggests that there was a further

long pause, between the first colonization of a bridgehead in Polynesia and the sub-sequent expansion throughout Polynesia.

Both of these linguistically deduced longpauses are confirmed by archaeological evi-dence. From this it seems that there was a1,000-year gap (from about 4300 to 3300 BC)between farmers’ colonization of Taiwanand their subsequent colonization of thePhilippines, and a further 1,000-year gap(from about 1200 to 200 BC) between theLapita colonization of west Polynesia and thecolonization of east Polynesia1–4.

Blust suggests that these two long pauseswere due to the time required to develop two leaps in boat technology. Crossing the375-km seas separating Taiwan from thePhilippines would have required much bet-ter boats than crossing the mere 140-kmstrait between mainland China and Taiwan.The ship-building revolution that broughtthe Philippines and Indonesia within reachmay have involved the invention of outriggercanoes. Blust identifies many words in extra-Taiwanese Austronesian languages, but nonein the Taiwanese languages, for the compo-nent parts of these canoes — which, in his-torical times, were widespread among Aus-tronesian peoples except for the Taiwanese,who only had bamboo sailing rafts. Simi-larly, the second ship-building revolutionessential to mastery of the open oceans separating the islands of east Polynesia mayhave been the invention of the Polynesiandouble-hulled platform sailing canoe, rated

NATURE | VOL 403 | 17 FEBRUARY 2000 | www.nature.com 709

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Taiwan’s gift to the worldJared M. Diamond

Figure 1 The geographical span of Austronesian languages. This language family encompasses alllanguages spoken on all Pacific islands from Sumatra in the west to Easter Island in the east, except forthe Papuan languages of New Guinea and a few adjacent islands. They are also spoken in Madagascarand in mainland Malaysia. From the work2 discussed here, it turns out that of the ten subgroups ofAustronesian languages, nine are confined to Taiwan (red circle), and that all Austronesian languagesoutside Taiwan belong to the tenth subgroup (green), which includes Polynesian languages (darkgreen; only a few of the hundreds of Polynesian islands are shown here). (Redrawn from ref. 1.)

Study of the giant Austronesian language family tells us a great deal aboutthe history of Pacific peoples and boatbuilding, as well as about AboriginalAustralia.

© 2000 Macmillan Magazines Ltd

Questo flusso di popoli ci interessa perché gli studi di linguistica e di botanica ci hanno da-to una delle prime evidenze non solo dell’utilizzo, ma dell’importanza associata dalle co-munità umane ad una pianta aromatica, una spezia, forse la prima spezia che l’uomo ab-bia usato: il rizoma dello zenzero (Zingiber officinale Roscoe - Zingiberaceae).

Ciò che sappiamo dal punto di vista botanico è che la flora dell’Indocina e della costa su-dorientale della Cina comprende varie specie appartenenti alla famiglia delle Zingibera-ceae: galanga, zedoraia, zerumbet, ecc. Tra tutte queste lo zenzero è l’unico che abbia perso la capacità di propagarsi per via sessuale (si propaga per via vegetativa, dividendo il rizoma e reimpiantadolo). E’ cioè una cultivar, condizione questa indice di una domestica-zione umana molto precoce, una condizione comune per le piante alimentari ma molto ra-ra per una pianta aromatica.

La linguistica ci dice che in molti dei linguaggi austronesiani il termine per lo zenzero può essere fatto risalire al linguaggio austronesiano delle Filippine, e ritroviamo lo zenzero (e la canna da zucchero, ma questa è un’altra storia) in tutte le isole toccate dall’espansione austronesiana, nonostante la flora dei differenti territori sia molto diversa e lo zenzero non potesse essere nativo in tutti. Questo, secondo Dalby, indica che gli austronesiani furono sempre in contatto con lo zenzero e che se lo portarono con se durante i loro viaggi, pro-pagandolo in tutti i territori che toccarono. Ciò è particolarmente sorprendente se pensia-mo che sulle imbarcazioni usate nelle ondate migratorie non c’era certamente spazio per oggetti inutili o poco utili. Lo zenzero doveva essere quindi considerata una pianta fonda-mentale per la vita dei coloni, se la portarono con se e la propagarono ad ogni spostamen-to.

Il termine per lo zenzero lo ritroviamo poi con poche variazioni nelle lingue europee: inge-faer (danese), gember (olandese), ginger (inglese), zingibro (esperanto), harilik ingver (estone), inkivaari (finnico), gingerbre (francese), ingver (tedesco), Zingiber (latino), jenji-bre (spagnolo), ecc. I termini derivano, secondo la maggior parte degli autori, da una unica e antica radice Tamil: ingiver, che arriva a greci e romani tramite i commercianti arabi, e da li passa all’Europa continentale. Alcuni autori hanno pensato che derivasse dal termine

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sanscrito singavera = simile ai corni per la forma del rizoma di zenzero (Purseglove et al 1982) ma è improbabile perché quando il commercio della spezia dalla costa del Malabar iniziò il sanscrito non era molto comune, ed è più probabile che venissero usati termini lo-cali in Tamil. Secondo Mahindru il termine è pre-Draviniano e si trova con poche variazioni in 20 lingue diverse dalla Cina all’Oceania all’Inghilterra.

Resine ed incensi.L’incenso e l’imbalsamazione sono tra le prime pratiche umane nelle quali le piante aroma-tiche e resinose giocano un ruolo fondamentale.L’incenso come metodologia appare in varie forme: legna secca, erbe aromatiche, paste, polveri, e addirittura liquidi od olii. In realtà nell’antichità una chiara demarcazione tra in-censi e profumi non è possibile. Qualunque siano le origini dell’uso dell’incenso, gli odori aromatici (incensi e profumi) han-no fortemente attirato e fascinato gli uomini e sono stati considerati fondamentali per le relazioni sociali, per i riti religiosi e mistici. Molte società hanno difatti teorizzato che il bru-ciare legni aromatici fosse la dimostrazione ideale di apprezzamento per i loro dei. La liberazione del fumo di incenso era una fonte di profumo: questa parola viene infatti dal latino per fumum, "attraverso il fumo”. La stessa parola incenso viene dal latino che signi-fica “ciò che viene acceso”.

Fenici, babilonesi, sumeri ed assiri facevano uso di incenso e lo valutavano moltissimo (i fenici chiamavano il loro dio più importante Baah Hamman, ovvero il Signore dell’altare profumato), ma non è chiaro se si trattasse di Commiphora/Boswellia o di altre resine loca-li.

Le prime testimonianze scritte, in particolare la mitologia sumera, menziona varie volte l’utilizzo di incenso e resine in genere, usualmente a scopo sacro, propiziatorio o di offerta. Nel testo “Lugalbanda nella grotta delle montagne” (c.1.8.2.1) per l’arrivo di Lugabanda vengono preparati, insieme alle altre provviste (cibi e bevande in abbondanza per il ban-chetto) “resina di incenso, resine, resine aromatiche, resina di ligidba e resina di prima classe” e nel testo “A šir-namursaĝa to Ninsiana for Iddin-Dagan” (Iddin-Dagan A): c.2.5.3.1 si parla di offerte di incenso come “foresta di cedri aromatici” e di offerte di incen-so di gineproNe “La costruzione del tempio di Ninĝirsu” (Gudea, cylinders A and B): c.2.1.7, si fa riferi-mento all’utilizzo, da parte di Nindub, il sacerdote, del fumo dell’incenso per purificare il tempio il giorno dell’arrivo del vero dio, mentre nello scritto “La casa del pesce”: c.5.9.1 si descrive la preparazione rituale della casa per l’accoglienza con cibo, birra, farina rituale, bruciatori di incenso ed aromi come di “una foresta di cedri aromatici”

Nell’Egitto antico documenti che risalgono al 4500 AC parlano dell’uso di cortecce aroma-tiche e resine, di olii profumati, vini aromatici e aceti, ma il primo dato certo sull’uso di bru-ciare piante aromatiche e resinose viene dal bruciatore da incenso Qustul del 3.400 AC. Papiri risalenti al 2800 AC (regno di Khufu) riportano usi magici/medicinali di piante - so-stanze aromatiche mescolate, in rapporti precisi, dai rappresentanti del clero e alchimisti, per produrre profumi o pozioni medicinali. Il legno di cedro, i semi di carvi, e le radici d’Angelica erano contusi e macerati in olio o vino, o bruciati come incensi. Il materiale ve-getale era immerso nell’olio, messo in una pezza di lino e strizzato per estrarre gli oli es-senziali. Origano, ginepro, mandorla amara, coriandolo e calamo aromatico erano usati di

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frequente. Ai nostri occhi vi è in questi documenti egizi poca distinzione tra l’utilizzo medi-cinale, magico e cosmetico/estetico degli estratti. I rimedi erano utilizzati nel massaggio, nelle inalazioni e come fomente. I dolori muscolari erano trattati con unguenti contenenti incenso e cannella; per le malattie della pelle (forse herpes) gli unguenti utilizzati contene-vano mirra, coriandolo e miele.

Certamente intorno al 3.000 AC molte sostanze aromatiche venivano utilizzate per il rito dell’imbalsamazione – una volta che il corpo era stato essiccato immergendolo nella sab-bia del deserto, veniva unto con legno di cedro, ginepro, cannella, chiodi di garofano e no-ce moscata, ma soprattutto con la resina di mirra. I profumi erano spesso considerati co-me afrodisiaci e legati al concepimento, alla nascita e alla rinascita in un'altra vita; questo spiega l’offerta degli olii preziosi ai morti.

Secondo Hoots inizia in questo periodo anche il commercio su scala significativa dell’in-censo, proprio perché grandi erano le quantità necessarie per i riti (alcune iscrizioni nel 2500 AC parlano di 80.000 misure di mirra), mentre in Egitto non era possibile coltivare la Commiphora. Groom (1981) sposta invece molto più in avanti la nascita del mercato delle spezie e degli incensi, almeno al 1500 AC, quando, secondo un’iscrizione al tempio della Regina Hathepshut vicino Tebe, che testimonia il trasporto per conto della Regina di 31 alberi di incenso (Boswellia), dalla terra di Punt (un’area che dovrebbe coincidere all’incir-ca con la costa somala e la costa araba subito di fronte) all'Egitto. Vasi ritrovati nella tom-ba di Tutankhamen (1350 AC, aperta nel 1922 DC) contenevano ancora tracce d’incenso e mirra e altre piante aromatiche. Secondo i documenti, in Egitto l’uso religioso dei mate-riali aromatici era ben strutturato: al mattino venivano bruciate delle resine, a mezzogiorno della mirra, e al tramonto la miscela detta Kyphi (preparazione particolarmente famosa che conteneva 16 ingredienti tra i quali troviamo incenso, mirra, menta piperita, cannella, citronella e uva passa), utilizzata dai sacerdoti per motivi spirituali, come mezzo per “tra-sportare” il dono dell'uomo verso gli dei, come mezzo per allontanare gli spiriti ecc. Il Kyphi non aveva solo utilizzi religiosi, serviva anche per facilitare il sonno, alleviare le ansie, au-mentare i sogni, eliminare la tristezza, trattare l’asma ed agire come un antidoto generico.

Quando questo succede, comunque, è già da tempo (forse dal 2000 AC) che gli Arabi mo-nopolizzano il mercato, per il momento ridotto e locale, di Boswellia e Commiphora, mer-cato che vedrà una prima forte accelerazione grazie alla introduzione del cammello, do-mesticato nel 2000 AC ma divenuto importante mezzo di trasporto solo intorno al 1000. Questo animale velocizzerà enormemente il trasporto via terra, e permetterà di raggiunge-re le aree del Mediterraneo più lontane, in tempi più brevi e con carichi molto maggiori, e permette quindi l’incontro tra domanda ed offerta in maniera più efficace. La domanda era dominata da greci e in seguito romani, che utilizzavano ampiamente gli incensi per offrire doni ed offerte agli dei, per nutrirli con l’unico cibi che l’uomo poteva offrirgli (cfr. lo stesso utilizzo di incenso come cibo per gli dei in America tra i Maya)

E’ proprio in questo periodo che il mercato diventa economicamente molto importante per le terre Arabe, per raggiungere l’apice intorno al 750-500AC, creando la ricchezza delle terre arabe (Arabia felix) principalmente intorno al mercato di Commiphora e Boswellia. Si hanno di questo periodo testimonianze dell’uso delle spezie per unguenti ed incensi in Pa-lestina.

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E così l’aumentare dell’importanza commerciale delle resine delle due piante porta allo stabilirsi di tratte commerciali via terra sempre più stabili, all’aumentare in numero e fre-quenza delle carovane e quindi al crescere di agglomerati urbani intorno alle stazioni di scambio e di riposo per le stesse. Con l’aumentare dei traffici, altri merci si aggiunsero agli incensi, spezie e seta proveniente dall’India e altre merci preziose dalle coste africane, e merci di ritorno da Grecia, Etruria e più tardi Roma, favorendo la nascita delle prime città-stato dell’area, la più famosa delle quali è probabilmente, della quale si narra che nel 992 AC la sua Regina di Sheba portasse delle spezie in dono a Re Salomone, e che soprattut-to raggiunse una tale ricchezza da poter costruire delle dighe per migliorare l’irrigazione delle sue terre e creare i giardini e gli orti di Marib, così famosi da essere ritenuti il Giardi-no dell’Eden.La maggior via di commercio era quella che partiva dalle regioni di Dhofar e dall’isola di Socotra, da dove le navi cariche di merci partivano per arrivare al porto di Qana. Da qui esse passavano per Narib, da dove potevano prendere la via del Mar Rosso, raggiungen-do la Mecca, e dopo 2000 km arrivare in Palestina, a Petra e ai porti di Gaza o di Alessan-dria d’Egitto, da dove le merci potevano arrivare in Grecia in Italia o in Spagna. Altrimenti da Narib potevano piegare verso il Golfo Persiano, passare per Gherra, poi Teradon. Da qui le navi risalivano la corrente fino alla città di Bassora da dove si poteva proseguire fino alla città di Bagdad oppure scendere e viaggiare via terra verso Siria ed Egitto. L’importanza che queste resine raggiunsero in Palestina è testimoniata dalla frequenza con la quale Commiphora e Boswellia sono citate nel Vecchio e nuovo testamento (22 ci-tazioni). Il Vecchio testamento parla di unguenti medicamentosi a base di mirra, cannella, cassia, calamo aromatico, ecc. Lo spiganardo (Nardostachys jatamansi) fu usato per un-gere il capo di Gesù.

L’isola greca di Chios era la fonte di aromi (aromata) che i Greci apprezzavano somma-mente, come l’essudato gommoresinoso detto mastice (o mastic) da Pistacia lentiscus e della trementina (Pinus spp), che diventò un prodotto di importazione; il mastice veniva anche usato come una specie di gomma da masticare, e da questo uso viene il verbo ma-sticare. Ma le fragranze più importanti ed apprezzate erano l’incenso vero (Boswellia car-terii) e la mirra (Commiphora molmol).

Le fonti greche circa l’utilizzo di queste fragranze sono poche e frammentarie. Erodoto, intorno al 500 aC, parla per primo dell’utilizzo e del commercio dell’incenso di provenienza araba, e di come quella terra sia tutta pervasa dal profumo “meravigliosamente dolce” del-le sue resine aromatiche. E Teofrasto, due secoli più tardi, parla della della spedizione na-vale di Alessandro il Grande e di come essa avesse portato per la prima volta alla raccolta della resina dell’albero di incenso. Sono le fonti romane, in particolare con Plinio il Vec-chio che dominano la letteratura. Intorno al primo secolo AC, è Plinio che raccoglie la maggior messe di dati sull’argomento.

L’incenso veniva usato come antidoto per la debolezza causata dal gran caldo. La sua introduzione nei riti religiosi è testimoniata da molti autori classici . Erodoto parla del suo utilizzo da parte degli Assiro-Babilonesi. Entrò in maniera importante nella liturgia ebraica, soprattutto durante le offerte eucaristiche di olio, frutta e vino (Leviticus, vi, 15).

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Se ne fa menzione nel Vecchio Testamento (Num., vii, 14; Deut., xxxiii, 10, ecc.). Per au-mentarne la fragranza ed ottenere un fumo più denso venivano aggiunte sostanze diverse. Solitamente venivano aggiunti 4 elementi, ma si poteva arrivare anche a 13 elementi, ed il compito di mescolarli nelle debite proporzioni era assegnato a particolari famiglie (Cant., iii, 6).

Con la trasmissione del pensiero e della cultura greche nel bacino del Mediterraneo Orien-tale, si trasmette anche l’uso e il fascino dell’incenso. I greci offrivano l’incenso ai propri dei con la speranza di ottenere favori personali, e si trovano riferimenti alle essenze pro-fumate in tutta la letteratura mitologica.

Nella più tarda era Ellenica gli stessi filosofi che avevano trovato la ‘musica delle sfere’ nei cieli la trovarono nello studio dell’arte della profumeria. Nel momento in cui la cultura ro-mana si trovò ad assorbire quella del mondo antico, le varie tradizioni dell’incenso erano ormai fortemente radicate. I mercanti ‘trafficavano’ e facevano le proprie fortune con in-censo e profumi lungo la via Appia e sulle vie marittime percorse dalle galere romane. Il traffico interessava soprattutto Tyro, Constantinopoli e Alessandria, ed i mercanti traspor-tavano soprattutto cannella, Boswellia, e sandalo.

All'apice della loro importanza, gli incensi erano per il mondo romano uno dei 5 materiali più pregiati: ambra, incenso, seta, pepe nero, mirra (controlla). Commiphora e Boswellia le due specie vegetali

E in Oriente?In Asia, intorno al 1700 a.C. le leggende vediche di Shiva citano le resine, e nello stesso periodo inizia l’utilizzo medicinale delle resine (nel 300 aC si hanno le prime prove dell’uti-lizzo della resina di Cannabis a scopo analgesico in medicina Cinese, e intorno al 200 aC la Cina importa i chiodi di garofano dalle Molucche). I primi testi indiani a parlare dell’uso dell’incenso sono i testi Athar-va Veda e Rig Veda, i testi vedici alla base della tradizione religiosa indiana, e che tratta l’argomento senza se-parare l’aspetto religioso e magico da quello terapeutico. Secondo la tradizione vedica l’uomo può assorbire qualsiasi cosa se in forma minuscola; durante la cerimonia Havan (cerimonia del fuoco) l’atmosfera viene purificata grazie proprio al rilascio di minuscole particelle aromatiche del legno bruciato insieme a varie piante medicinali. I bastoncini d’incenso sono una versione del fuoco dell’Havan, fanno parte del rituale Hindu dell’offerta agli dei ed aiutano a mantenere il devoto in uno stato mentale calmo e rilassato.

Anche la Cina conosce l’uso delle sostanze aromatiche, citate nei primi testi terapeutici conosciuti (come il Canone dell’Imperatore Giallo e la Materia Medica di Shen Nung). Il termine hsiang veniva usato per significare profumo, incenso ed aroma, e veniva classifi-cato in sei tipi. Furono i cinesi a scoprire il muschio (ricavato dalle ghiandole sottotesticola-ri di un mammifero simile ai cervidi – ora vietato per motivi etici e di salvaguardia della specie) che rimase un oggetto di grande consumo per tutto il medioevo e fino al 1800.

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Le spezie

Il ruolo delle aromatiche è particolarmente evidente e rilevante per la cultura europea se ci si concentra su un loro sottoinsieme, sull’oggetto, complesso e mutevole, che va sotto il nome di spezie, una categoria merceologica e dell’immaginario che ha segnato la storia medica, economica, gastronomica, sensuale, religiosa dall’Antichità fino all’epoca moder-na. E che anche quando, come al giorno d’oggi, ha perso il primato economico e culturale, rimane presente sottotraccia.

Per quanto difficile da immaginare al giorno d’oggi, quando acquistare pepe nero o chiodi di garofano al supermercato è un atto normale, banale, le spezie ed il loro mercato hanno costituito una forza di trasformazione culturale ed economica enorme per Europa ed Asia (ed in seguito per le Americhe) dall’Antichità al 1800, contribuendo a creare canali com-merciali, scoprire nuove vie di comunicazioni e nuovi continenti, colonizzare, trasformare il gusto e la vita di milioni di persone (spesso in peggio, a seguito delle politiche coloniali-ste).

Per dare una idea di quanto peculiare fosse il mercato delle spezie, basterebbe accennare al pepe nero ed alla sua storia. Tra il 1975 ed il 1976 una equipe del Musee de l’Homme di Parigi, osservando la mummia di Ramsete II, scoprì, inseriti nelle sue narici, due grani di pepe nero.

Nei tre anni tra 11 e 8 a.C, la truppa romana si accampò lungo le sponde del fiume Lippe, vicino a Oberaden (nell’odierna valle della Ruhr) per affrontare la tribù dei Sugambri. Duemila anni più tardi, gli scavi del campo militare romano rivelarono, tra i resti della cuci-na, dei grani di pepe nero.

Questo due fatti potrebbero essere dei semplici indicatori che il pepe nero era una spezia considerata importante, magari anche estremamente utile, ma nulla di più, se ci dimenti-cassimo di un altro dato fondamentale: le piante del pepe antico (Piper nigrum e Piper longum) sono originarie della costa del Malabar, in India occidentale, e non crescono in altri luoghi, o per lo meno non crescevano in altri luoghi.

Come siano arrivati nell’Egitto del 1300 a.C.è difficile saperlo; è possibile che esistesse già un mercato per le spezie che univa questo territori, ma è più probabile che queste spezie fossero arrivate per vie traverse, passate di mano in mano, senza che il ricevente sapesse molto sulla provenienza del prodotto.

Che i grani di pepe fossero presenti nel mondo romano è meno sorprendente, ma è indi-cativo di un cambiamento radicale di impostazione: se fino al tempo della Grecia classica le spezie sono presenti e utilizzate solo molto raramente e per utilizzi medici, a causa del loro prezzo, questi grani sono presenti nei resti della mensa di un soldato romano. Il pepe deve cioè avere raggiunto un livello di distribuzione impensabile prima, ed il suo prezzo deve essersi ridotto se poteva essere utilizzato nell’alimentazione. In effetti sia Antifane (ca. 400 a.C., sia Teofrasto nel 200 a.C., sia Plutarco nell’86 a.C. parlano delle spezie co-me prodotti costosissimi, ma già pochi decenni più tardi Strabone dichiara che 120 navi partono ogni anno per il lungo viaggio (12 mesi) fino all’India, viaggio testimoniato nel Pe-riplus di un anonimo autore greco.

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Plinio il vecchio si lamenta che ogni anno venivano sprecati 50 milioni di sesterzi per pepe nero ed altre “spezie da effeminati”. I mercanti che si arricchivano con questo commercio erano di opinione differente, come si nota nelle opere satiriche del primo periodo imperia-le, dove il pepe divenne il simbolo dell’avarizia, e in genere nell’opera moraleggiante di tanti autori, tra i quali Plinio, che vedevano nelle spezie e nell’avarizia e lussuria da esse stimolati, una indicazione della decadenza dei tempi, tinta moraleggiante che non ha più lasciato le spezie.

La presenza del pepe nella vita delle persone diventa sempre più comune (seppur sempre limitata agli strati più ricchi della società) se si legge che intorno all’anno mille i mercanti tedeschi a Londra pagavano le tasse in grani di pepe, se nel 12 secolo Anselmo di laone scrive che il pepe “è una necessità” per il viaggiatore, come il formaggio ed il pane. E’ in questi decenni che iniziano a comparire le Gilde degli Pepperers and Spicers, e lo Specia-rum diventa figura comune nei mercati fino a far parte dell’establishment nel 13 secolo.

E’ innegabile che la ricerca delle spezie e del controllo del loro mercato domini il mondo antico e ancora di più quello moderno, ne segni anzi in un certo senso la nascita, se con-sideriamo che i viaggi di esplorazione che portarono alla scoperta del continente america-no erano in realtà spedizioni organizzate per trovare una via alternativa verso il mercato asiatico delle spezie.Tutto questo è ancora più sorprendente se riflettiamo sul fatto che, a differenza di altre piante che hanno segnato la nostra storia ed economia, come le principali piante alimenta-ri, le spezie non davano un contributo significativo alla dieta in termini nutrizionali. Esse potevano però caratterizzare e rendere speciali piatti insipidi o poco interessanti, modifica-re il sapore di cibi conosciuti in maniera insolita (e sappiamo come questo sia importante per un animale dalla sazietà sensorio specifica come l’uomo), funzionare come metafore dello sconosciuto, esotico e paradisiaco, come simbolo di status sociale e religioso, entra-re facilmente nella struttura delle medicine tradizionali, ed agire come riserva di composti fitochimici attivi.

Perché le spezie erano così importanti economicamente? Perché venivano così fortemen-te associate al mondo del sensuale ed allo stesso tempo dello spirituale, del terreno (cibo, lusso, qualità della vita, status sociale) e del trascendente (riti religiosi, associazione con l’immortalità del corpo e dello spirito, associazione al mondo ultraterreno, alla santità, ecc.). Perché, nonostante materialmente non siano più, se non raramente, associate al-l’idea di lusso, status, esoticità, permane ancora nel linguaggio moderno una reminiscenza della loro forza evocativa (frasi come “una donna tutta pepe”, la sensualità che caratteriz-zerebbe gli odori orientali, ecc.)?

GreciaI greci impararono molto dagli scambi culturali con gli egiziani – Erodoto e Democrito visi-tarono l’Egitto nel IV secolo AC e dissero degli egiziani che erano maestri nell’arte dei pro-fumi. I greci ascrivevano origini divine alle piante aromatiche, e l’arte della profumeria si pensava fosse stata creata da una ninfa di Venere – Aeone.

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Erodoto (e più tardi Plinio e Dioscoride) parlano di due soli “olii essenziali” nei loro testi, la trementina (che veniva ricavata dal legno delle conifere con una procedura solo in parte riconducibile alal distillazione), e la canfora (non un olio essenziale vero, bensì una resina ricavata bollendo il legno di canfora in grandi tini d’acqua). Il grande commercio di olii aromatici tra Asia, Grecia e Roma esiste, ma si tratta in realtà di oleoliti aromatici.

Con la civiltà greca si osserva l’inizio della distinzione dell’arte medica dalla religione, e nascono delle scuole di pensiero medico che enfatizzano l’importanza di un approccio ra-zionale (sotto l’influsso del pensiero aristotelico). Già alcuni autori del Corpus Hippocrati-cus consigliavano di fare bagni aromatici e massaggi profumati ogni giorno, e descriveva-no l’utilizzo delle piante aromatiche per fumigazioni durante la peste in Atene. Teofrasto, nel suo Historia Plantarum, descrive molte delle piante aromatiche greche, e ipotizza che il profumo dei fiori sia contenuto vicino alla superficie dei petali. Dioscoride, nel suo De Ma-teria Medica, cita anche i momenti nei quali i principi attivi sono più abbondanti nelle pian-te: ad esempio il profumo del gelsomino è più forte dopo il tramonto e la pianta dovrebbe essere raccolta di notte; i fiori di rosa dovrebbero essere raccolti al massimo a mezzogior-no.

RomaGli antichi ed in particolare i romani nell’era imperiale, avevano una vera e propria fascina-zione e passione per i prodotti aromatici; si pensava allora che l’essenza, l’aroma di que-ste piante desse al rimedio un potere quasi magico, e su questo esistono innumerevoli ci-tazioni classiche di un utilizzo apotropaico, magico, antimalocchio, ecc. In parte esse ve-nivano trattate come piante “allucinogene”, e se ci ricordiamo che queste popolazioni non conoscevano il tabacco possiamo forse comprendere la possibilità di un’esperienza psi-coattiva. Le spezie entravano nella costruzione di filtri magici, antidoti, ecc. ed erano cari-cate di significati mitologici profondi.Nel 1° secolo AC Mitridate VI, re del Ponto (nell’odierna Turchia), formulò con il suo medi-co un rimedio contro i veleni, un antidoto che 200 anni più tardi fu chiamato Mitridatium da Galeno, il quale poi inventò un altro importante antidoto: la Teriaca. Ingredienti tipici di queste formulazioni molto complesse (con 40-50 ingredienti) includevano; zenzero, can-nella, cassia, malabatrum, galbanum, cardamomo, nardo, pepe, incenso, mirra, zafferano, ecc.Le spezie erano naturalmente oggetti di lusso, limitati ad una minoranza della popolazio-ne, ma ciò non diminuisce la loro importanza nella vita anche culturale. Il mondo delle spezie è un mondo di ricchezza sia sul piano commerciale che sul piano dell’ostentazione. La raccolta, il trasporto, la distribuzione, la stessa utilizzazione delle spezie, erano stretta-mente controllati ed organizzati in un circuito commerciale centralizzato.

La fascinazione dei Romani era onnicomprensiva. Un’analisi della letteratura rivela che le spezie erano presenti in quasi tutte le attività umane: cerimonie e culti; cucina e alimenta-zione; decorazioni; igiene; profumeria e cosmetica; antidoti; esequie funebri; sporti ed atti-vità fisica; pigmenti tessili; vini aromatici. Un famoso olio profumato – il Susinum – era ricavato da melissa, miele, mirra, cannella, cardamomo, calamo aromatico e zafferano.Dall’antichità classica fino al Medioevo le spezie sono state spesso utilizzate per produrre vini medicati (enoliti), utili per dolori di stomaco e problemi digestivi. Una tipica ricetta det-

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ta hippocras consisteva in: cannella, zenzero, melegueta (pepe africano), noce moscata, galanga e miele in vino. Questo rimedio era utilizzato per curare il raffreddore, patologie “fredde” e flegmatiche. Ancora oggi rimangono tracce di quest’utilizzo nei vari vini aroma-tizzati presenti nelle cucine regionali, come il vin brulé.

Quale è la ragione di questa passione, che poi si trasmetterà per molti secoli fino al 1700-1800?Prima di tutto il gusto dei romani per il lusso, inteso anche come benessere e ben-vivere e non solo come ostentazione. Con il tempo, la concezione di lusso come scelta di qualità di vita e di benessere si ridusse sempre di più in importanza, e si accrebbe l’uso delle spezie come segno di ricchezza, potere, capacità d’influenza e di pressione sociale e politica, in-somma un segno di status. Poi l’attrazione verso l’Oriente e l’esotico, un cosmopolitismo di cui le spezie erano un simbolo. E quindi l’attrazione per le piante aromatiche: sia per il pia-cere sensoriale che possono dare, sia per le attività fisiologiche che svolgono, sia per lo sviluppo delle conoscenze scientifiche che stimolarono, perché permisero la creazione di molteplici categorie descrittive (grazie alla ricchezza di diversi stimoli).

Inoltre le spezie svolgevano senza alcun dubbio delle attività fisiologiche riconosciute dagli antichi, stimolavano la salivazione e i succhi gastrici, promuovendo la buona digestione e riducendo i gonfiori intestinali (sono a tutt’oggi utilizzate per queste proprietà); promuove-vano la sudorazione, cosa che le lega intimamente alle teorie umorali ma che ha anche un’utilità pratica, perché abbassa la temperatura corporea; in alcuni casi (zenzero, pepe-roncino, pepe, ecc.) riducevano i rischi d’intossicazione alimentare sia direttamente (mo-derata attività antimicrobica) sia indirettamente (stimolazione della digestione). Inoltre si adattavano bene alla struttura teorica dell’umoralismo ippocratico prima e galeni-co-arabico poi, che ha dominato l’Europa fino al 1600. In particolare le spezie erano quasi tutte droghe “calde” e “secche”, quindi utili in patologie fredde ed umide, del tipo flegmati-co o reumatico, come ad esempio stomaco debole (con poco calore) che non riesce a “cuocere” bene il cibo e a trasformarlo nei quattro umori, oppure reuma (o flemma) che si accumula nelle articolazioni (reumatismi), nei polmoni (polmoniti), nella testa (vista offu-scata o pensieri annebbiati). Erano inoltre piante “aperienti”, cioè che aprono i passaggi corporei (urine, flusso mestruale, ecc.).

Breve storia della distillazione.Quest’argomento è controverso, alcuni autori dichiarano che gli egiziani conoscessero il principio della distillazione, ma l’evidenza per supportare questa tesi è minima. Tradizio-nalmente si è sempre mantenuto che Avicenna abbia scoperto la distillazione, ma è pro-babile che l’autore e come egli molti fino al medioevo, fossero interessati nel processo di distillazione perché permetteva di ottenere acque aromatiche. Rimangono comunque an-cora dei dubbi sulla paternità del metodo, se è vero che alcuni recenti studi indicano la possibilità che i Cinesi conoscessero la distillazione prima degli Arabi.

Non è facile stabilire con certezza la data della prima estrazione con distillazione di quelli che noi chiamiamo "olii essenziali". Le prime distillazioni servirono ad ottenere alcol dal vino, lo "spirito" del miele fermentato. Questa pratica, secondo gli scritti ebraici (Genesi 9:20-24), risale al periodo subito dopo il diluvio.

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Anche se balsami, resine e piante aromatiche sono state utilizzate per l’imbalsamazione, per cerimonie religiose o sacrifici, non esistono documenti scritti che ci offrano una chiara evidenza della preparazione degli OE.

I primi documenti scritti sulla storia della distillazione risalgono al IX secolo, con i testi di Geber (Dschabir) sulla distillazione a secco e in acqua, mentre Mesue, nel suo “Graba-din” del XIII sec., descrive due oli da distillazione distruttiva (olio di cade ed asphaltus)

Il primo autore a parlare esplicitamente di olii da distillazione fu Arnaldo di Villanova (1240?-1311) che menziona trementina e rosmarino. Va però detto che ci sono dei dubbi sulla paternità dello scritto relativo a questi prodotti, che potrebbe essere una interpolazio-ne più tarda, e che comunque il significato del termine distillazione nel testo è diverso è più generico di quanto intendiamo al giorno d’oggi. Si legge infatti che la distillazione è: “preparazione di estratti animali e vegetali secondo le regole dell’arte, ovvero rettificazione e separazione”. Inoltre Arnaldo (come tutti gli autori del tempo) era comunque interessato alle proprietà delle acqua aromatiche, e probabilmente gli OE erano visti come residui non importanti. Essi infatti maceravano prima le piante in "acquavite", o le facevano fermentare in acqua. La presenza di alcol significa che non si separassero degli OE, bensì delle ac-que aromatiche distillate.

All’incirca in questo periodo sono menzionate le distillazioni di mandorla amara, Ruta, cannella, rosa e sandalo. La pratica di distillare le piante aromatiche crebbe in popolarità con la pubblicazione dei libri di Hieronymus Brunschwig (c. 1450-1512) sull’arte della distil-lazione dei semplici e dei composti: Liber de arte distillandi (1500) e Liber de arte distillan-di de compositis (1512). Egli fa menzione di trementina, legno di ginepro, rosmarino e spi-ga. Ma i processi descritti coinvolgono ancora l’utilizzo di alcol, ed il risultato non poteva essere un OE. La distillazione era importante perché era vista come processo alchemico atto ad discriminare l’essenziale dal non essenziale, ed infatti Paracelso (Bombastus von Hohneheim) ne parla come processo di separazione dell’ultimo principio che contiene in sè la virtù della pianta, la quint’essenza (da cui il nome e la carica semantica del termine olii “essenziali”).

Il primo importante punto di svolta si ha con la pubblicazione del Krauterbuch di Adam Lonicer (1551), che parla delle virtù di: ”molti meravigliosi ed efficienti olii di spezie e se-mi” e ci dice che la distillazione: “è una invenzione abbastanza recente, non antica, sco-nosciuta ai medici antichi greci e romani, e in effetti non è stata usata per niente”.

Pochi anni dopo (nel 1563) Giovanni Battista della Porta pubblica il suo Liber de distilla-tione, il primo testo che specifica esattamente le differenze tra olii grassi, OE, i metodi e le apparecchiature necessarie per separare questi ultimi dalle acque aromatiche distillate.

Oltre che dal punto di vista tecnico, la distillazione fu importante anche per lo sviluppo del pensiero medico. Essa, infatti, agì come ponte tra la medicina delle piante (Galenica) e quella chimica (Paracelso) attraverso la “chimicizzazione” delle piante. Dagli anni 1540 in poi, con il movimento della Controriforma che prendeva sempre più piede, gli adepti di Pa-racelso passarono alla clandestinità in Italia; gli scritti di Paracelso vennero considerati eretici, accusati di Protestantesimo e di magia. Comunque, la distillazione degli OE e del-le acque da animali e piante divenne molto popolare a Venezia e contribuì alla transizione ai rimedi chimici. La prima edizione del Dispensatorium Pharmacopolarum di Cordus (1546) elenca solo tre OE (trementina, ginepro e spiga) ma la seconda edizione del 1592 ne elenca ben 61. Nel 1607 il Quercetanus (Joseph du Chesne) può dire che “la prepara-zione degli olii essenziali è conosciuta a tutti, anche agli apprendisti” e dice che dai 15 ai

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20 OE erano conservati nelle farmacie. Nel 1642 il Collegio degli Speziali prevedeva nei suoi listini dei prezzi ufficiali medicine ermetiche e spagiriche (alchemiche) e medicine preparate per distillazione.

E’ importante puntualizzare che per secoli sono state le acque aromatiche a ricevere l'at-tenzione dei vari autori, e non gli OE. Boerhave nel 1728 descrive gli OE come formati da due principi: Mater: “un principio resinoso, insolubile in acqua…” e Spiritus Rector: “un principio molto sottile, difficilmente percepibile, forse ‘eterico’…Questo principio – continua Boerhave - comunica le proprietà olfattive ed aromatiche tipiche di ogni pianta al suo idro-lato. E' un principio idrosolubile che comunica la fragranza, il sapore e le proprietà alle acque distillate."

La chimica degli olii essenzialiNel XVII e XVIII secolo le investigazioni dei farmacisti e chimici iniziarono l’era delle sco-perte analitiche. L’interesse nell’utilizzo delle essenze in profumeria crebbe rapidamente (la Francia, ed in particolare Grassé, divenne un centro mondiale di produzione di OE) e si Lo studio sistematico degli OE inizia con JB Dumas ed il suo trattato sugli olii essenziali (1833), mentre nel 1866 appare per la prima volta il termine Terpene, coniato da Kekulè, il cui lavoro viene portato avanti alla fine del 19 secolo da Tilden e Wallach, che sono con-siderati i padri della chimica dei terpeni. Tale è lo sforzo e l’interesse in questi decenni che il periodo di tempo tra la fine del 19 secolo e l’inizio del 20 viene definito l’Era Elisabettia-na dell’industria degli olii essenziali

All’inizio del XX secolo l’interesse nelle piante aromatiche e nelle essenze naturali dal punto di vista terapeutico fu ravvivato dal chimico e studioso francese Rene-Maurice Ga-tefosse. Gatefosse sperimentò gli OE durante la prima guerra mondiale, usando OE co-me lavanda, timo, camomilla, limone e chiodi di garofano presso l’ospedale militare per le loro proprietà antisettiche e vulnerarie. Più tardi, Gatefosse coniò il termine "Aromatera-pia" scrivendo che “i chimici cosmetici francesi pensano che i complessi naturali dovrebbe-ro essere utilizzati come unità costruttive complete…senza essere frammentati. La terapia dermatologica si evolverebbe quindi in "Aromaterapia"”. Egli scrisse vari libri, incluso il famoso Aromatherapie (1928), spiegando le varie proprietà degli OE e le possibili applica-zioni, con esempi delle loro proprietà antisettiche, battericide, antivirali e antinfiammatorie. Più tardi egli parlò di terapie di grande successo per tumori della pelle, ulcere del viso, cancrene e osteomalacia.

I ricercatori italiani Gatti e Caiola studiarono i benefici medicinali, psicologici e cosmetici degli OE negli anni ’20 e ’30. Paolo Rovesti fu il primo a dimostrare il valore di certe es-senze per problemi come ansia e depressione.

Il Dottor Jean Valnet, come Gatefosse, usò gli OE per trattare le ferite di guerra – nella seconda guerra mondiale. Egli era sia un medico che un fitoterapeuta e usò gli OE per molte condizioni differenti. Pubblicò il suo libro sull’aromaterapia nel 1964.

La storia successiva degli studi sugli OE diventa molto più complessa e ricca di autori, con la crescita dell’importanza dell’aromaterapia dal punto di vista commerciale oltre che tera-peutico; si moltiplicano le pubblicazioni sull’argomento, molto spesso di scarso valore scientifico e spesso rimasticazioni di materiale già prodotto da altri studiosi.

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Aromaterapia e medicine alternative

Ciò che non mi soddisfa nel termine Medicine alternative e complementari (CAM), o negli altri termini cognati come medicine naturali, dolci, tradizionali, olistiche, non-ortodos-se, ecc. è il fatto di usare un termine “ombrello” unico per accomunare in maniera non giu-stificata terapie spesso molto differenti nella teoria, nella prassi, nel livello di formazione dei terapeuti. Il raggruppamento viene fatto secondo parametri negativi, cioè definendole come terapie che non sono ufficialmente riconosciute, che non sono parte dei curricula universitari di medicina, che non sono biomedicina. Questo raggruppamento artificiale non solo é di scarso valore esplicativo e predittivo, ma svilisce la storia e l’individualità dei sin-goli modelli, costretti a coabitare in fallaci costruzioni astratte che vorrebbero unire la me-dicina tradizionale cinese, l’omeopatia, la fitoterapia, la fisiognomica ottocentesca, la kine-siologia applicata, ecc.

Una proposta tassonomica (Pieroni)Sistemi di guarigione completi•MTC•Ayurveda• Fitoterapia tradizionale•Osteopatia•Chiropratica•Omeopatia•Naturopatia

Sistemi diagnostici• Iridologia•Chinesiologia•Pendolino•Diagnosi dell’aura

Modalità terapeutiche•Massaggio•Riflessologia•Aromaterapia•Guarigione spirituale•Shiatsu

Auto-aiuto•Rilassamento•Yoga•Qi-gong• Tai-chi•Meditazione•Visualizzazione•Digiuno

In realtà, ad una analisi più stringente, ciò che colpisce di più dei modelli raggruppati è la mancanza di basi epistemologiche comuni, di minimi obiettivi educativi comuni, la grande diversità di tradizione e la mancanza di concordanza sul significato dei termini “cardine”

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quali olismo, che risultano spesso svuotati di un reale significato piegati come sono alle molteplici interpretazioni.Anche i teorici punti di concordanza tra le diverse terapie risultano ad uno sguardi più rav-vicinato più delle enunciazioni teoriche molto generali che delle prassi significative: trovia-mo spesso enfatizzata l’esperienza soggettiva del paziente, l’importanza delle emozioni, l’obiettivo di trattare mente e corpo con rimedi non aggressivi e non sintomatici, la ricerca della “salute totale” tramite l’ausilio di un terapeuta che non sia un non esperto ma un faci-litatore.

E’ invece necessario discutere le caratteristiche proprie di un modello terapeutico, valoriz-zandone le peculiarità, se necessario per poterle meglio criticare in un secondo tempo.

Per fare questo è necessario interrogarsi prima di tutto sulle ragioni del successo delle medicine alternative, per vedere quanta parte di questo successo derivi dalle particolarità delle terapie e quanto dal momento storico, dall’appeal del modello di medicina proposto. E’ possibile che forze solo in questo sia possibile raggruppare le CAM in maniera sensata, ovvero nel fatto che sono riuscite a rispondere ad una domanda di senso che emergeva dal fallimento del modello biomedico ortodosso nel rispondere alle nuove esigenze dei pa-zienti all’interno di una società dei consumi. La crisi del modello paternalistico, la richiesta di una libertà di scelta terapeutica all’interno del mercato libero capitalistico, la richiesta di partecipazione, di coinvolgimento, di maggior relazione terapeutica, sono a parere di molti sociologi della salute all’origine del primo movimento New Age.Questa rivoluzione di ruoli a cui la New Age ha risposto si inserisce perfettamente nel quadro della società capitalistica e consumista, ad esempio nel porre sempre di più al cen-tro del dibattito sociale il binomio salute/malattia, ed in particolare quelle attività tipicamen-te moderne che sono la ricerca attiva di salute, benessere, qualità della vita, e la cura della malattia da parte della medicina organizzata e professionale. Il movimento delle CAM ha accompagnato il passaggio dalla dimensione sociale della malattia a quella individuale. Le radici sociali della malattia non sono quasi mai discusse nelle CAM, che tendono sempre ad enfatizzare la dimensione della responsabilità indivi-duale: le visualizzazioni del paziente tumorale per combattere il cancro, le donne che non possono lavorare in certi ambienti per ik rischio alla loro fertilità, l’uso della volontà perso-nale e della allegria (o pensiero positivo) come rimedi per le malattie, il controllo di dieta, esercizio, stress, sessualità per migliorare la salute. Naturalmente non c’è nulla di comple-ta,ente sbagliato in queste affermazioni, ma è la mancanza di riferimenti alle altre dimen-sioni a colpire. Questo approccio è del tutto congruente con un modello economico, di mercato, capitalistico, individualista, della malattia.

Ma esiste un modello di salute/malattia tipico delle CAM? Non credo, anche se il loro suc-cesso ha anche le sue basi nella crisi di un certo modello biomedico, che ha reificato ma-lattia e salute come conseguenza dell’enorme sviluppo della tecnologia medica. Questa reificazione ha permesso di immaginare la malattia come entità reale nel mondo, osser-vabile, identificabile, manipolabile, quindi eliminabile, ed ha permesso una facile quanto fallace equazione: salute = assenza di malattia, e la proposizione che salute e malattia siano concetti opposti.

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Anche ad uno sguardo distratto appare però evidente che l’assenza di malattia sembra una condizione necessaria ma non sufficiente per parlare di salute, e che in realtà molti professionisti della salute non combattono la malattia ma promuovono la salute. Se malat-tia e salute fossero contraddittori non avrebbe senso logico parlare di massimizzare la sa-lute.

In seno a questa discussione si pongono le proposte teoriche delle CAM che si inserisco-no comunque all’interno del dibattito classico tra normativismo e non-normativismo, ovvero tra “malattia come categoria imposta da esseri umani su esseri umani” (normativismo di Boore) e “malattia come stato posseduto e definibile oggettivamente” (non normativismo di Culvert e Gert).

Per i normativisti nella malattia esiste sempre una dimensione di giudizio di valore, nel senso che per decidere cosa significhi salute/malattia è necessario fare riferimento a giu-dizi di valore. E’ malattia ciò che viene considerato spiacevole, non buono, non augurabile dalla maggior parte delle persone, e non sarebbe possibile dare delle definizioni oggetti-vamente vere di malattia senza parlare di valori. Molti esempi sembrano dare supporto ad una versione più o meno forte del normativismo, ad esempio il fatto che nel XVIII secolo il fatto che una donna provasse piacere nel fare l’amore o nel masturbarsi fosse considerato un sintomo di gravi disturbi mentali, o il fatto che lo schiavo africano che tentava conti-nuamente di scappare dalla piantagione di cotone del sud degli stati uniti fosse considera-to affetto da una patologia specifica chiamata drapetomania, per non parlare di autori an-che contemporanei che descrivono l’omosessualità come una malattia.

La malattia consisterebbe allora in una percezione della indesiderabilità di una condizione, percezione variabile ma abbastanza stabile in uno stesso contesto

Normalmente le proposte teoriche delle CAM tendono a raggrupparsi con i normativisti, ma una certa tendenza a definire la malattia come “fisiologia in difficoltà”, cioè a sussume-re il discorso patologico a quello fisiologico, è presente in alcuni modelli teorici CAM e si può ricondurre alle posizioni non normativiste.

Secondo queste ultime la malattia (disease) è definibile oggettivamente e ciò che cambia sono le percezioni individuali (illness) e sociali (sickness) della stessa. Per parlare di salu-te e malattia basterebbe fare riferimento a concetti statistici senza appellarsi ad alcun giu-dizio di valore. La salute sarebbe normalità, la malattia anormalità.

Alcune tradizioni o concetto utilizzati nelle CAM, come ad esempio la medicina umorale o l’omeostasi, fanno specifico richiamo ad un concetto di normalità/anormalità, e quindi rica-dono in una concezione oggettiva di salute/malattia.