1. la psicopatologia in ottica sistemica ila afa, ny ... · cllnica attuale, su come oggi vengono...

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in Couple And Family Therapy: An Empirically Informed Guide to Practice, AFA, NY, (trad.it. Alleanze terapeutiche nella terapia di coppia e della fami- glia, Firera e Liuzzo Group, 2010). Gurman, A., Kniskem, D. (a cura di), (1991), Manuale di terapia della famiglia. Ed. it. a cura di Bertrando, P., Bollati Boringhieri, Torino, 1995. Pinsof, W. M. Wynne, L.C. (2000), "Toward progress research: closing thè gap between family therapy prasctice and research", Journal of Maritai and Family Therapy, 26, 1: 1-8. Reiss D. (1996) "Foreword", in Kaslow F.W., Handbook of relational diagnosis and dysfunctional family patterns, Wiley & Sons, New York. 1. La psicopatologia in ottica sistemica1 di M. Bianciardi e U. Telfener ila "o' 1. Presupposti teorici: la rivoluzione cibernetica Ogni modello è un insieme di concetti teorici e di ipotesi che trovano una propria coerenza attorno ad una metafora fondante. Il modello rappre- senta per il clinico uno strumento indispensabile per organizzare i propri dati, e quindi descrivere e spiegare quanto accade nell'incontro con i pa- zienti. Si tratta di una comice all'interno della quale lo psicoterapeuta in- quadra, legge e decodifica sia ciò che i pazienti portano, dicono e fanno, sia le proprie emozioni e le proprie idee; ogni modello propone pertanto degli assunti espliciti ed impliciti circa 1- la causa e le basi della psicopatologia, 2- la collocazione di questa nel paziente, nelle relazioni o nel contesto, 3- le categorie attraverso le quali i problemi possono venir diagnosticati, 4- le strategie per intervenire sulla psicopatologia. Si tratta, anche, di un sistema di riferimento categoriale che permette di operare scelte cliniche (di setting, di strategia, di tecnica), e di valutare i propri interventi e correggere eventuali errori (ovvero ciò che, alla luce del modello, appare come un "errore"). Non è nostro compito esaminare sia la storia dell'evoluzione del model- lo sistemico, sia i molti sviluppi clinici sorti all'interno di questa ottica (ri- mandiamo ai molti testi presenti in letteratura: tra gli altri Bateson (1972), Bertrando e Toffanetti (2000), von Foerster (1982), Gurman e Kniskern (1989), Heims (1991), Hoffman (1981), Telfener (1983, 2003, 2008), Wa- tzlawick (1967, 1976), Wiener (1948). Abbiamo preferito organizzare il nostro contributo in un'ottica storica, proponendo le differenti ipotesi psicopatologiche dell'approccio sistemico nel contesto di ciò che caratterizza le singole fasi di sviluppo di un modello teorico clinico in costante evoluzione. Ci soffermeremo poi sulla prassi Parti di questo articolo sono state pubblicate nel capitolo "L'approccio sistemico relazionale" nel libro curato da Cesare Albasi Psicopatologia e ragionamento clinico, Cortina, Milano (2009).

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Page 1: 1. La psicopatologia in ottica sistemica ila AFA, NY ... · cllnica attuale, su come oggi vengono considerate e discusse queste ipotesi, sugli aspetti di complessità e di problematicità,

in Couple And Family Therapy: An Empirically Informed Guide to Practice,AFA, NY, (trad.it. Alleanze terapeutiche nella terapia di coppia e della fami-glia, Firera e Liuzzo Group, 2010).

Gurman, A., Kniskem, D. (a cura di), (1991), Manuale di terapia della famiglia.Ed. it. a cura di Bertrando, P., Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

Pinsof, W. M. Wynne, L.C. (2000), "Toward progress research: closing thè gapbetween family therapy prasctice and research", Journal of Maritai and FamilyTherapy, 26, 1: 1-8.

Reiss D. (1996) "Foreword", in Kaslow F.W., Handbook of relational diagnosisand dysfunctional family patterns, Wiley & Sons, New York.

1. La psicopatologia in ottica sistemica1

di M. Bianciardi e U. Telfener

ila"o'

1. Presupposti teorici: la rivoluzione cibernetica

Ogni modello è un insieme di concetti teorici e di ipotesi che trovanouna propria coerenza attorno ad una metafora fondante. Il modello rappre-senta per il clinico uno strumento indispensabile per organizzare i propridati, e quindi descrivere e spiegare quanto accade nell'incontro con i pa-zienti. Si tratta di una comice all'interno della quale lo psicoterapeuta in-quadra, legge e decodifica sia ciò che i pazienti portano, dicono e fanno, siale proprie emozioni e le proprie idee; ogni modello propone pertanto degliassunti espliciti ed impliciti circa 1- la causa e le basi della psicopatologia,2- la collocazione di questa nel paziente, nelle relazioni o nel contesto, 3-le categorie attraverso le quali i problemi possono venir diagnosticati, 4- lestrategie per intervenire sulla psicopatologia. Si tratta, anche, di un sistemadi riferimento categoriale che permette di operare scelte cliniche (di setting,di strategia, di tecnica), e di valutare i propri interventi e correggere eventualierrori (ovvero ciò che, alla luce del modello, appare come un "errore").

Non è nostro compito esaminare sia la storia dell'evoluzione del model-lo sistemico, sia i molti sviluppi clinici sorti all'interno di questa ottica (ri-mandiamo ai molti testi presenti in letteratura: tra gli altri Bateson (1972),Bertrando e Toffanetti (2000), von Foerster (1982), Gurman e Kniskern(1989), Heims (1991), Hoffman (1981), Telfener (1983, 2003, 2008), Wa-tzlawick (1967, 1976), Wiener (1948).

Abbiamo preferito organizzare il nostro contributo in un'ottica storica,proponendo le differenti ipotesi psicopatologiche dell'approccio sistemiconel contesto di ciò che caratterizza le singole fasi di sviluppo di un modelloteorico clinico in costante evoluzione. Ci soffermeremo poi sulla prassi

Parti di questo articolo sono state pubblicate nel capitolo "L'approccio sistemicorelazionale" nel libro curato da Cesare Albasi Psicopatologia e ragionamento clinico,Cortina, Milano (2009).

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cllnica attuale, su come oggi vengono considerate e discusse queste ipotesi,sugli aspetti di complessità e di problematicità, sulle sfide che oggi ci tro-viamo ad affrontare. Vorremmo però innanzi tutto esplicitare i presuppostilogici e teorici che hanno guidato ab initio l'ottica sistemica rispetto allapatologia:1 i problemi non sono individuali ma emergono dalle/nelle relazioni;2 ciò che è considerato il sintomo viene decodificato come un comporta-

. mento comunicativo tra altri, l'espressione di un disagio nelle relazionitra i membri, ma anche una informazione importantissima per compren-dere le caratteristiche del sistema ed una "domanda" implicita che sti-mola le potenzialità evolutive del sistema stesso;

3 il portatore di sintomo non è considerato come "malato", bensì come lapersona più "sensibile", colei che esprime, se pure implicitamente e conmodalità improprie, sia le impasse del sistema, sia l'esigenza di affrontarle;

4 i sintomi sono da collocarsi nel contesto delle emergenze determinatestoricamente e socialmente, e mutano nelle loro espressioni e nei lorosignificati con il mutare delle culture, delle latitudini, del ciclo di vita:deVono quindi essere considerati sempre e comunque nel contesto di vi-ta in cui si manifestano

5 la famiglia (soprattutto in una prima fase temporale) diventa il focusprecipuo dell'attenzione e dell'intervento, in quanto viene consideratacome il sistema relazionale primario nel quale i sintomi insorgono: si-stema unitario ed autoregolantesi, caratterizzato da aspetti di "chiusura"(organizzativa), ma comunque aperto all'ambiente, stabile ma in costan-te evoluzione e potenzialmente attivato dagli "errori";

6 lo scopo della terapia è quello di identificare i patterns circolari e retro-attivi che mantengono il comportamento problematico (meccanismi ci-bernetici regolatori) e di cercare le "regole" implicite di funzionamentodel sistema al fine di favorirne l'evoluzione;

7 i professionisti della salute non possono assumere una posizione neutra-le, né per quanto riguarda le ipotesi psicopatologiche, né per quanto ri-guarda gli approcci e le modalità di intervento: essi non valutano secon-do parametri oggertivi.

A partire da questi presupposti epistemologici e da questi concetti teori-ci l'approccio sistemico ha inizialmente rifiutato in modo netto il modellomedico nella comprensione dei problemi dei singoli individui, per prestareattenzione all'individuo nel contesto2. Il passaggio è dalla "malattia" - che

2 Florido negli anni cinquanta-settanta il punto di vista sistemico viene successivamenteboicottato. L'evoluzione verso un punto di vista unicamente biologico comincia negli anni

contiene la propria causa - ai sintomi come comportamenti comunicativi lacui causa è esterna e contestuale, per cui il sintomo è considerato indi-ce/segno. In tal senso, l'approccio sistemico relazionale ha inizialmenterinunciato, come motivazione primaria del lavoro psicologico, a ogni fanta-sia di cura, guarigione, crescita, miglioramento del sé, all'idea che sia pos-sibile accrescere la consapevolezza (rendere conscio l'inconscio, spiegarele trame relazionali), concetti cui fanno riferimento molti degli altri modelliclinici. Gli individui non possono essere considerati "malati", se non "ma-lati di contesto", e non è quindi concepibile pretendere di "curarli".

L'obiettivo dell'intervento è la comprensione del circolo vizioso rela-zionale che mantiene il sintomo: comprendere un problema significa cono-scere il modo in cui elementi di natura psicologica diversa interagiscono traloro creando un'unità coerente che appare ovvia al paziente. Stiamo parlan-do dello sviluppo di una coerenza molto stretta tra comportamenti, idee einterazioni che portano a vivere e spiegare un quadro omogeneo di azioni.Il concetto di "attrattore" è a nostro parere coerente con ciò di cui stiamoparlando, si tratta del nucleo di caratteristiche psicologiche attorno al qualesi condensa il funzionamento di un individuo. Il sintomo, data la sua carat-teristica inusitata e dolorosa, diventa un attrattore; la psicoterapia potrebbeessere considerata un processo di emergenza di nuovi attrattoli, che portanoalla formazione di nuove connessioni tra intrapsichico e intersoggettivo, traintersoggettivo e intrapsichico. Abbiamo appreso ad individuare quel nodoche fa emergere la coerenza tra azioni, pensieri e accadimenti, tra statid'animo e scelte, tra esperienze, ricordi e aspettative, quasi che ogni perso-na si presentasse con un copione dalla coerenza stretta e non esplicita, cheva compreso e sbrogliato, la cui grammatica va de-costruita e co-costruitadi nuovo al fine di perdere la propria logica e dare spazio a nuove connes-sioni. "Comprendere un problema non significa formulare una diagnosi

Sessanta, con la scoperta di trattamenti farmacologici efficaci contro la depressione, l'ansia ei sintomi della schizofrenia. Queste scoperte spinsero il governo [degli Stati Uniti] e lesocietà farmaceutiche a stanziare fondi per la ricerca sulle correlazioni genetiche efisiologiche dei disordini psichici, fondi che negli ultimi anni sono diventati ingenti. Ancheil diffondersi delle assicurazioni sulla salute e la disponibilità di fondi federali per l'assi-stenza sanitaria, hanno affossato il punto di vista psico-sociale a favore degli aspetti bio: leassociazioni degli psichiatri hanno cominciato a fare pressione perché i disturbi di cui sioccupano siano considerati malattie organiche come tutte le altre, e di conseguenza godanodella stessa copertura assicurativa. Perché questo avvenga si richiede (a) che la diagnosi siaemessa secondo formulati standardizzati; (b) che il programma di cura sia diagnosis related,esattamente come in medicina e in chinirgia (n giorni per un'epatite virale; n giorni perun'ulna fratturata: quante sedute per una fobia?); (e) paziente e terapista concordino alla finedi ogni seduta un resoconto della seduta stessa, con una valutazione del gradino raggiunto.Questo oggettivizza sempre più il lavoro clinico e quest'ottica sempre più si distanzia dalpunto di vista sistemico.

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individuale, bensì costruire un'ipotesi sul modo in cui elementi di naturapsicologica diversa interagiscono tra loro: stili di interazione, significati,emozioni, modalità di regolazione delle stesse, alleanze, rapporti... e con-nettere tutto ciò ad un contesto più ampio." (Bianciardi, Telfener, 2009).

2. L'ottica sistemica, un movimento in evoluzione

II modello sistemico, quindi, si propone come una rivoluzione anche inambito clinico, una rivoluzione che opera un netto rifiuto della psichiatriatradizionale, della diagnosi individuale classica, della lettura psichiatricadei sintomi; esso si fecalizza piuttosto sui patterns comunicativi e relazio-nali e tende a ridefinire in positivo il sintomo.

È possibile suddividere l'evoluzione del modello cibernetico in due fasiprincipali, organizzate in più movimenti: la cibernetica di primo ordine,all'interno della quale è utile distinguere il modello omeostatico ("primacibernetica") e quello evolutivo ("seconda cibernetica"), e la cibernetica disecóndo ordine, che include i movimenti costruttivisti, le teorie dell'autor-ganizzazione e il modello narrativo. Queste due fasi vedono differenti me-tafore della terapia e diverse spiegazioni della sintomatologia, e sono allabase di modalità di intervento differenti.

2.1. La cibernetica di primo ordine

La teoria cibernetica, al momento del suo proporsi nel panorama scienti-fico del dopoguerra, modellizza i sistemi in termini di "sistemi osservati"tendenti all'omeostasi. Coerentemente ad un universo culturale ove l'auto-referenzialità non viene ammessa nelle scienze, la cibernetica mantienel'osservatore inesorabilmente estemo ad un mondo ordinatamente diviso insistemi e sottosistemi. Il concetto di sistema altro non è che una versionepiù complessa (e nello stesso tempo unitaria) della nozione di "oggetto" ela famiglia è il sistema di riferimento per eccellenza per ogni individuo. Ilterapeuta, conscguentemente, formula ipotesi sulle regole implicite che go-vernano il sistema, ed agisce in modo finalistico. Il clinico si ritiene esternoal dominio di osservazione, e cerca di essere il più possibile carismatico edinfluente. Si sforza, ad esempio, di spingere la famiglia lontano dal propriostato di equilibrio, di provocarla, di rompere i patterns comunicativi ritenuti"paradossali" attraverso ingiunzioni "contro paradossali" (Selvini Palazzoliet al., 1975), di indurre la crisi per rompere lo status quo. Il modello è ì-struttivo, e l'approccio clinico è strategico (Haley, 1963). I terapeuti "lotta-

no" contro i sintomi, e le metafore che si utilizzano sono principalmentebelliche: un clinico e una famiglia un contro l'altro armati; il potere e ilcontrollo sono argomenti importanti della prassi clinica.

La cibernetica dei sistemi osservati non resterà però uguale nel tempo,ma fonderà la propria prassi su due metafore diverse della concezione deisistemi in termini di equilibrio.

a) Anni '50-'60: i sistemi omeostatici.La prima cibernetica si fonda su un modello prevalentemente omeostatico.

La prima idea della famiglia come sistema, coerentemente alle metaforescientifiche del tempo, presuppone che nei sistemi viventi agiscano delleforze dinamiche per il mantenimento dell'equilibrio e dello status quo (Ja-ckson, 1957). Si pensa a individui e famiglie come sistemi stabili, costan-temente attenti a difendere il proprio equilibrio, una sorta di entità congela-ta nel tempo. Ogni comportamento (compreso il sintomo) è al serviziodell'omeostasi: un'amplificazione della devianza nel sistema familiare nu-cleare può servire a correggere uno sbilanciamento nel sistema più ampio eaiutare il sistema in toto a mantenere la sua identità.

Il sintomo è considerato un meccanismo omeostatico esso stesso, comeun tentativo di non cambiare di fronte a situazioni nuove che creano unosquilibrio. Si tratta di un comportamento comunicativo che innesca un pro-cesso di autoregolazione e sottrae il sistema alle influenze esterne, bloccan-do l'entrata di nuove informazioni. Il sintomo ha funzione adattativa (Ja-ckson, 19579; Watzlawick et al., 1967), è la spìa di una disfunzione delsistema (Minuchin, 1974 e 1978), può essere considerato una metafora diun disagio a un altro livello (Haley, 1963). Rispetto ad esso la domanda dafarsi è: a quale scopo è comparso in questo momento nella famiglia?

Si cercano i pattern, la struttura, le ridondanze e le regolarità del sistemache possono portare ai sintomi e mantenerli: si analizza, il circuito sintoma-tico che si auto-mantiene. Si evincono i collegamenti tra sintomo e modali-tà comunicative (Gruppo di Palo Alto), tra sintomo e struttura famigliare(Minuchin e scuola strutturale), tra sintomo e gerarchie di potere (Haley escuola strategica), tra sintomo e lealtà familiari (Boszormeny-Nagy eSpark, 1973). Si catalogano le famiglie rispetto a caratteristiche specifiche(famiglie invischiate e disimpegnate rispetto ai confini, lealtà familiare ri-spetto al clima della famiglia in toto, famiglie a transazione schizofrenicacaratterizzata dai paradossi della comunicazione e da doppi legami; si indi-vidua la presenza di coalizioni perverse rispetto alle strategie relazionali, ele difficoltà di individuazione e differenziazione da parte dell'individuo); siricercano i miti familiari (Ferreira A.J., 1963) che si pensa aiutino a mante-nere il sistema coeso nel tempo.

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La terapia si occupa prevalentemente degli aspetti comunicativi all'in-terno del sistema e prende in considerazione la famiglia come unità di ana-lisi privilegiata.

Siamo in un'epoca di forte tecnicismo in cui gli Stati Uniti costituiscono ilpunto di riferimento; sorgono più scuole, ciascuna con a capo un leader cari-smatico che propone i suoi presupposti e alcune tecniche e prassi precipue.

b) Anni '70: i sistemi evolutivi.Intorno agli anni settanta la terapia sistemica inizia a fecalizzarsi sul

cambiamento e i concetti ad esso collegati: Maruyama (1968) parla di mor-fostasi e morfogenesi come processi base dei sistemi aperti e invita a com-prendere i meccanismi di retroazione positiva come elementi alla base delcambiamento; la seconda cibernetica recepisce quindi un modello evolutivo.

Anche a livello del contesto scientifico più ampio le metafore cambiano:la fisica si occupa ora di "fisica del processo" e mette in discussione il de-terminismo, la stabilità, la irreversibilità e l'universalità delle leggi (Prigo-gine e Stengers, 1979). Conscguentemente cambiano anche i riferimenti al-la prassi clinica e le lenti con cui decodificare le situazioni. Si passa quindida una tassonomia strutturale ad una di processo, dall'equilibrio alle flut-tuazioni che si amplificano e possono cambiare completamente e impreve-dibilmente lo stato del sistema, che viene ora immaginato come lontanodall'equilibrio3. Si pensa agli esseri umani e ai sistemi in costante cambia-mento, come capaci di riorganizzarsi e di evolvere verso interazioni dina-miche più elaborate, attraverso fluttuazioni discontinue, non prevedibili,come il succedersi delle figure in un caleidoscopio (plateaux omeostatici emomenti di cambiamento a salti, cambiamento discontinuo, ordine attraver-so fluttuazioni). Si guarda alla riorganizzazione, al cambiamento nelle sueforme possibili: il compito del clinico diventa quello di accompagnare ilcambiamento anziché indurlo.

La complessità comincia a entrare in campo attraverso l'introduzione dipiù livelli di osservazione; ciò sia rispetto ai contenuti (ciò che è osservabi-le e ciò che viene riportato), sia rispetto ai punti di osservazione (ciò che ilterapeuta "vede" e ciò che prende in considerazione chi è dietro lo spec-chio) che alla curiosità verso le modalità di pensiero ed i significati degliindividui che costituiscono il sistema. Tale curiosità permette e nello stessoobbliga ad andare oltre la metafora della "scatola nera", utilizzata inizial-mente per fecalizzare l'attenzione del clinico sulle modalità interattive pre-

Fivaz e coli (1981) teorizzano che il cambiamento avviene in tre momenti separati: lafluttuazione, variazione limitata nel tempo e nello spazio; l'enucleazione, installazione di strutturenuove che sono state amplificate dal feedback positivo; la trasformazione, terzo momento, in cuila nuova strattura invade tutto il sistema modificando la sua organizzazione interna.

scindendo da tutto ciò che può essere considerato intrapsichico (Watzla-wick et al., 1967). L'interesse prevalente dei clinici è al pattem che connet-te diversi aspetti del sistema, comunque ancora osservato dal di fuori:un'attenzione ai rapporti tra i differenti dati disponibili, tra le strutture disignificato e i comportamenti.

Il sintomo viene concepito come il risultato di idee e ipotesi lineari e ri-gide da parte della famiglia (Boscolo, Cecchin et al, 1987); non si da piùper scontato che esso abbia una spiegazione logica e sia il risultato di unconflitto, bensì si ipotizza che possa emergere in modo casuale e contingen-te dalle premesse di tutti i partecipanti alle reciproche interazioni, e vengapoi "ancorato" dai partecipanti divenendo così un principio organizzativodel sistema (Slusky, 1991). Ciò significa che il sintomo non può e non deveessere considerato semplicisticamente come "effetto" di relazioni patogene,o come "funzionale" al mantenimento degli equilibri del sistema. Entrambequeste visioni infatti isolano dal proprio contesto il comportamento-comunicazione considerato "sintomo", mantenendosi così all'interno di unalogica causale; un sistema di relazioni deve invece essere considerato comeun tutto unitario e pur sempre in evoluzione, come un tessuto che intrecciacostantemente ogni singolo comportamento-comunicazione alla trama cheemerge nel tempo, come una danza interattiva ove nessun singolo movi-mento può essere considerato "causa" o "effetto" dell'insieme cui partecipa(Bateson, 1972).

La flessibilità/rigidità del sistema diventa un elemento centrale al fine dipermettere una riorganizzazione, anche per effetto dei sistemi extrafamilia-ri. Si ricercano i vincoli e le possibilità di ogni sistema, diviene centrale ilconcetto di "crisi" come allontanamento dallo stato di equilibrio. Si parla distabilità dinamica che viene espletata nei giochi familiari, l'elemento cardi-ne su cui fare una diagnosi e da andare a ricercare come elemento patoge-netico di pertinenza della famiglia. Anche il ciclo vitale della famiglia di-venta una metafora importante per leggere i sintomi in quanto un problemapuò nascere quando gli individui non adattano i propri ruoli alle richiestedel contesto e del tempo, e propongono regole obsolete rispetto alle esigen-ze attuali. In terapia si lavora sul mito che unisce la famiglia e che si ritienevada scardinato/flessibilizzato nello scorrere temporale, al fine di ristabilireil corso dell'evoluzione. L'obiettivo è altresì quello di destabilizzare il si-stema ponendosi come campo di forze esterno in grado di provocare o am-plificare una fluttuazione, offrendo una lettura differente degli accadimenti.Questo non avviene attraverso la scoperta di verità intrinseche ma attraver-so la costruzione di ipotesi (Selvini, Boscolo, Cecchin, Prata, 1980): loscopo, più che di aggiustare, è quello di rompere/interrompere modalitàrelazionali che appaiono obsolete e ripetitive, nella fiducia che il sistema

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troverà da sé soluzioni alternative. La domanda cui si risponde è: perché lafamiglia porta il comportamento problematico in terapia proprio in questomomento? In che modo vuole coinvolgere il clinico nel suo gioco?

2.2. La cibernetica di secondo ordine, fine anni '80 e anni '90

Un cambiamento significativo all'interno del paradigma sistemico è sta-to l'inclusione dell'osservatore nel sistema osservato: l'osservatore si rela-ziona al sistema attraverso la propria comprensione del sistema, la qualemodifica il rapporto con esso (Fruggeri, 1992). L'osservatore non può piùconsiderarsi esterno al sistema osservato né indurne il cambiamento in mo-do 'istruttivo' e prevedibile. L'oggettività viene posta tra parentesi (Matu-rana e Varela, 1980) e si passa dall'osservazione dei sistemi ai sistemi os-servanti, di cui anche l'osservatore fa parte (von Foerster, 1982).

Si inizia a pensare alla terapia come alla formazione di una realtà condi-visa all'interno di un contesto collaborativo e dialogico. Cade il vincolo divedere le famiglie ad ogni costo e si inizia a sperimentare con la terapiaindividuale sistemica (tra gli altri, Boscolo e Bertrando, 1996)4. L'unità diosservazione in clinica non sono né le famiglie intese come gruppi-con-storia, né gli individui, quanto piuttosto i processi mentali, trasversali alleunità sociali. Questo cambiamento di posizione accentua la necessità di unascelta epistemologica da parte dell'osservatore stesso (e quindi del clinico),e la terapia sistemico relazionale si divide in due indirizzi, che, negli annisuccessivi, diventeranno sempre più distanti tra loro, pur continuando acondividere la premessa che non si è interessati a ciò che avviene nellamente delle persone ma a ciò che accade tra loro. Da una parte vi sono i'veristi', che mantengono l'interesse per la 'realtà' dei sistemi e la patoge-nesi dei disturbi, continuando a riferirsi a specifici 'giochi' e modalità co-municative considerate come osservabili dall'esterno; dall'altra ci sono icostruttivisti che fanno proprie le conseguenze più radicali della ciberneticadei sistemi osservanti e intendono la psicoterapia come la possibilità di co-struire una situazione terapeutica evolutiva e partecipata. Noi ci occupere-mo in questo paragrafo soprattutto del secondo indirizzo, ritenendolo ilmovimento più originale e coerente coi presupposti di base.

Il costruttivismo modifica il rapporto stesso con i processi di conoscen-za. Il clinico non andrà più a cercare i giochi specifici o a scoprire la "real-

4 È un errore identificare la terapia familiare con il modello sistemico-relazionale inquanto da una parte anche clinici di altri indirizzi trattano famiglie, e d'altra parte i sistemicilavorano anche con gli individui.

tà" dèi pazienti; il lavoro clinico non sarà più un processo per risolvere iproblemi quanto per definirli e ridefmirli (Goudsmit, 1989). Le conseguen-ze, sul piano clinico, sono molteplici e profonde: viene completamente ab-bandonata l'idea che il terapeuta debba avere potere e controllo; non inte-ressano più neppure i giochi e la loro scoperta; passano in secondo pianotutte le ipotesi, se pure provvisorie, relative alla eziopatologia in termini dicomunicazione, di paradossi e di doppi legami, di confini generazionali, ditriangolazione, ecc. In una prospettiva costruttivista, il terapeuta non sa dipiù e meglio del paziente: le sue teorie, le sue ipotesi, le sue narrazioni nonsono né vere né false, sono plausibili esattamente quanto lo sono quelle delpaziente. Ciò che le differenzia, piuttosto, è il fatto che le ipotesi del clinicodebbono porsi e mantenersi ad un differente ordine logico rispetto a quelledel paziente: non al livello dei contenuti di conoscenza, bensì dei processiche costruiscono conoscenza; non al livello (di primo ordine) del "conosce-re", bensì al livello (di second'ordine) del "conoscere il conoscere". Mentreil paziente porta una narrazione credendola una descrizione oggettiva dellapropria realtà, il terapeuta propone ipotesi alternative senza credere chedescrivano in modo più "vero" la realtà del paziente, bensì al fine di verifi-carne l'utilità. Il terapeuta, quindi, è (e deve essere) colui/colei che "sa dìsapere" (sa che le conoscenze sono costruite e autoreferenziali), e "sa dinon sapere" (è consapevole che ogni conoscenza è soggettiva, parziale, ri-duttiva, contaminata, provvisoria). Non solo, il terapeuta deve anche esserconsapevole di "non sapere di non sapere", -ovvero della ineludibile presen-za di punti ciechi, alcuni di cui è consapevole, altri che accadono malgradola sua attenzione. È necessario che il terapeuta non ignori la propria igno-ranza, non dimentichi cioè il fatto che è inevitabile la presenza di punti cie-chi, l'esistenza di informazioni che non coglie e di collusioni nelle quali sitrova e delle quali rimane inconsapevole. I sistemi e le situazioni diventanoper principio inconoscibili e le decisioni e scelte indeterminabili. (Per unapprofondimento di questo punto von Foerster, 1992). Considerare la pos-sibilità della propria ignoranza nel dominio clinico implica 1- rinunciare alproprio expertise, 2- rinunciare all'idea stessa di "conoscere" il sistema, 3-accontentarsi di far accadere in seduta alcuni eventi, 4- lavorare sugli spi-goli che emergono senza pretendere di controllare e conoscere il mondodell'altro, 5- immaginare la situazione terapeutica come oggetto frattale(una figura in cui un motivo sempre identico si ripete su scala più piccola oampliata) rispetto alla vita quotidiana dei partecipanti, 6- sopportare l'ansiadi rimanere in tenitori sconosciuti, 7- monitorare la possibilità di entrare inrisonanza.

All'interno di questa prospettiva, coloro che partecipano all'incontropsicoterapeutico osservando attraverso lo specchio unidirezionale, sono

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considerati co-partecipi di un processo di costruzione a partire da un diffe-rente punto di vista; ma, ciò che è di gran lunga più interessante, i clientistessi contribuiscono alla costruzione condivisa del comune punto di vista,e il loro parere non viene considerato "inferiore", o "meno significativo" diquello dei terapeuti.

L'attenzione passa dalla famiglia e dal singolo alla relazione terapeuticae al fit tra comportamenti e idee di tutti. Il terapeuta non insegna né spiega,bensì stimola pensieri e perturba il sistema: non si tratta di produrre uncambiamento ma di interagire in modo che il cambiamento (che si verificacomunque) segua un corso piuttosto che un altro; il cambiamento non ècreato né diretto dal clinico - considerato un perturbatore strategicamenteorientato5 - è soltanto innescato e dipende dalle reazioni organizzative delsistema all'interno di un contesto sul quale si può anche intervenire.

È però interessante riflettere sul fatto che le credenze/conoscenze degliindividui costruiscono la realtà, la quale viene mantenuta attraverso intera-zioni sociali che a loro volta confermano le credenze: queste ultime, quindi,sono originate nel contesto sociale. All'interno di questa riflessività è chia-ro*che più livelli di conoscenza propone il clinico e più vaste sono le suecategorie, più ricca sarà la realtà che potenzialmente può esser costruitaall'interno del processo psicoterapeutico. Accedere a più teorie di riferi-mento appare, in questa fase, come un valore aggiunto ai fini della possibi-lità di introdurre complessità nel sistema; e questo comporta che possa ri-sultare utile accedere ad altre conoscenze presenti in campò psicopatologi-co, anche se non strettamente collegate al proprio modello clinico. Non so-lo, ciò implica anche e naturalmente che sia utile conoscere la psicopatolo-gia "tradizionale" - sia quella di stampo medico (DSM e ICI le principali)che le nuove teorizzazioni a sfondo psicologico rispetto alla insorgenza psi-copatologica.

Una concezione costruttivista implica che nessuna "costruzione" o ri-narrazione del problema sia utile di per sé, o a priori: solo l'evoluzione delsistema terapeutico dirà quale ipotesi sia risultata utile in quella situazionespecifica. Non è possibile infatti immaginare che qualunque narrazione va-da bene o che sia sufficiente mantenere una posizione dialogica e lasciareaperto il discorso: di fatto alcune modalità narrative risultano più congrue aquel particolare sistema in quel momento e si rivelano essere più utili. Ilpunto è che viene riconosciuta esplicitamente l'impossibilità di conoscere apriori quale modalità narrativa (e quindi quale teoria psicopatologica) possa

5 Perturbatore in quanto già la sua entrata nel sistema lo cambia, strategicamenteorientato in quanto l'imprinting del modello relazionale è la terapia breve e un lavoro attivodi costruzione di pattern diversi in modo da favorire il cambiamento. Stiamo parlando di unmodello "attivo" di psicoterapia.

risultare utile: sarà il sistema terapeutico (comprendente clienti e terapeuti,équipe ed eventuali consulenti) a "dire", nel tempo del processo, quale mo-dalità di leggere e rinarrare il problema si è dimostrato utile a usciredall'impasse*

II "sintomo" è ciò che viene consensualmente definito linguisticamentee pragmaticamente come sintomo; perde ogni carattere di oggettività e real-tà. Non intendiamo con questa affermazione negare o misconoscere la sof-ferenza soggettiva, ben sappiamo che le lacrime di dolore sono vere e perquesto i sistemici italiani si rifiutano di ridurre tutto a linguaggio, comefanno invece costruttivisti radicali statunitensi (Anderson, 1988; Gooli-shian, 1992).

Nel movimento della cibernetica di secondo ordine si affiancano co-munque più indirizzi specifici: andremo ad accennarne due.

a) II modello aut organizzativo.La cibernetica di secondo ordine riconosce esplicitamente l'autorefe-

renzialità dei processi di conoscenza. I concetti di chiusura organizzaziona-le dei sistemi viventi, di autopoiesi, di non istruttività delle relazioni muta-no radicalmente sia il modo di concepire i sistemi sia il modo di concepirnele relazioni e conscguentemente l'insorgenza della patologia. Nel frattempoil riconoscimento dell'autoreferenzialità in ogni prassi cognitiva e la conse-guente concezione costruttivista della conoscenza, comportano il fatto che ilclinico debba essere considerato parte del sistema di osservazione.

All'interno del modello autoorganizzativo la psicoterapia può venireconsiderata come un processo recursivo e auto-organizzativo che implicachiusura, recursività e autonomia. Chiusura significa che il sistema, in quan-to sistema, è strutturato in modo da mantenere nel tempo la propria organiz-zazione e la propria identità, e quindi seleziona gli stimoli esterni e li legge amodo proprio integrandoli nella propria organizzazione (Poincaré, 1903;Ashby, 1956; Piaget, 1967; Varela, 1979); per recursività si intende che ilrisultato delle operazioni di un sistema danno inizio alle conseguenti opera-zioni del sistema; l'autonomia emerge dalla proprietà di chiusura, circolari-tà, recursività: le caratteristiche organizzazionali e di funzionamento di unsistema sono determinate dall'interno e non dall'esterno, la sua logica inter-na è basata sulla coerenza e sulla recursività stessa, la sua operazionalità nonè determinata dall'esterno e quindi non è prevedibile e tanto meno control-labile. In questa prospettiva acquistano grande rilevanza i concetti di se-cond'ordine, che si presentano ogni qual volta il medesimo operatore logicoopera su se stesso. Il concetto stesso di auto-organizzazione è un concetto disecondo ordine: organizzazione dell'organizzazione (organizzare dall'inter-no la propria organizzazione). Allo stesso modo sono concetti di second'or-

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dine il conoscere la conoscenza, il sapere di sapere e sapere di non saperecui abbiamo già fatto riferimento, l'osservare i propri processi di osserva-zione, l'operazione di diagnosticare la propria diagnosi ecc.

Nella pratica clinica, nello specifico, il clinico diviene molto attento adoperazioni recursive quali:

a) riconoscere la complementarietà tra "oggetto" e "metodo", secondo cuil'uno rimanda all'altro;

b) considerare l'auto-referenzialità della relazione come elemento fondanteil lavoro;

e) intendere la psicoterapia stessa come sistema auto-organizzazionale ca-pace di dare forma alla realtà interattiva in modo da garantire il mante-nimento della sua struttura (di garantire il paziente come "paziente" e ilclinico come "clinico");

d) mettere in primo piano i processi recursivi dei sistemi osservati: conside-rare il mondo in cui l'attore agisce su se stesso perché è incluso nella suaorganizzazione, prestando attenzione ai circuiti che includono anche il

* sintomo;e) considerare le categorie che il clinico stesso utilizza al fine di non blocca-

re la naturale processualità (attenzione a sé come operatore, alle opera-zioni sulle operazioni);

f) agire su sé stessi perché inclusi nel sistema e strumento principe nellostudio/sbroglio delle interazioni;

g) monitorare la propria posizione all'interno del sistema.

Il clinico, quindi, non contempla oggetti, materia, territorio, ma privilegiai processi recursivi di secondo ordine, mappe di mappe, punteggiature dipunteggiature, controllo del controllo, retroazioni delle retroazioni, cambia-mento degli usuali processi di cambiamento. La sistemica forse più di altrimodelli si occupa della autoreferenza; nello specifico teorizza che ciò checonosciamo è sempre il prodotto dell'interazione tra le operazioni che av-vengono tra noi e ciò che ci sta intorno. Ogni fenomeno biologico ha ed è unmodo di conoscere.

Il cambiamento emerge da una coordinazione di una coordinazione trapersone all'interno di uno spazio di discorso condiviso. Non ci sono proce-dure oggettive in psicoterapia, e quello che sarà chiaro ed autoevidente allafine di una terapia - sostiene Goudsmit (1989) - non è prevedibile primadell'incontro psicoterapeutico. Il processo terapeutico diviene una relazioneevolutiva in quanto all'interno di essa è possibile conoscere le modalitàsecondo cui si conosce e prendersi cura del processo di cura.

b) II modello narrativo.Parallelamente acquista grande rilevanza l'influenza che le teorie narra-

tive hanno in tutto il campo della conoscenza e nelle psicoterapie (Bertran-do, 1998; Bianciardi e Bertrando, 1998; Bruner, 1990). Anche in psicotera-pia sistemica si introduce un filone interpretativo e si parla di conversazio-ne terapeutica, di dialogo socratico, di ermeneutica: la psicoterapia, comeogni impresa umana, è basata sul circolo ermeneutico di interpretazione-azione. Le parole acquisiscono significato non in base alla capacità di rap-presentare la realtà ma per la loro utilità e coerenza nello scambio socialetra terapeuta e utente. Il sense making diventa la ragione per stare insieme.Il terapeuta si considera sempre meno un "esperto" in grado di osservaredall'esterno un sistema e di influirne le caratteristiche, e sempre più un'perturbatore' delle narrazioni con cui la famiglia giunge in terapia, un faci-litatore del dialogo. Il terapeuta quindi partecipa ad una mente comune,mantiene aperto il dialogo per favorire una attività di produzione di senso,si impegna con i membri della famiglia nel costruire una nuova narrazionecondivisa. Ogni seduta è costruita allo scopo di assumere informazioni e didarne allo stesso tempo; conoscere diventa un'azione per cui il significatoemerge attraverso la coordinazione delle credenze di tutte le persone coin-volte.

3. Come emerge un sintomo?

Dopo aver, sia pure sinteticamente, ripercorso il cammino evolutivo delpensiero sistemico, torniamo alle ipotesi relative all'emergere di ciò cheviene definito "psicopatologico".

È possibile affermare che il movimento di psicoterapia sistemico rela-zionale si è mosso, fin dal suo nascere, tra due opposte esigenze. L'una, piùattenta a mantenersi coerente alla epistemologia cibernetica, ha sempre cer-cato di evitare qualsiasi ipotesi relativa all'insorgenza del "sintomo" cheriportasse, anche senza volerlo, ad una visione del tipo causa-effetto ed elu-desse quindi una visione più coerentemente contestuale. L'altra, più attentaalle esigenze cliniche e di teoria della clinica, ha proposto nel tempo unaserie di ipotesi eziopatogenetiche, sia in senso "causale" (il sistema di ap-partenenza è all'origine del sintomo), sia in senso 'funzionale' (il sintomo èfunzionale agli equilibri del sistema).

La prima istanza è rappresentata, non a caso, da un pensatore quale Gre-gory Bateson, che non fu mai un clinico, e che, negli ultimi anni della suaricerca, si allontanò sempre più dal mondo della psicoterapia. Si deve al suo

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progetto di ricerca l'ipotesi eziopatogenetica nata all'interno del modellosistemico che ebbe maggior impatto anche al di fuori dell'ambito della te-rapia familiare: il concetto di "doppio legame'" (Bateson, 1972; Sluzky eRamson, 1976). Ma Bateson si discostò ben presto sia dalle versioni piùsemplicistiche e meno sofisticate del concetto, sia dalle sue applicazionipratiche in ambito psicoterapeutico. Per Bateson, ogni volta che isoliamoun comportamento dal suo contesto, ad esempio considerando il sintomocome "effetto" del "doppio legame", compiamo un errore epistemologico eperdiamo di vista il fatto che il cosiddetto "sintomo" è parte del propriocontesto e non può esserne considerato né l'effetto né la causa: piuttostoesso coevolve con il contesto e nel contesto.

La seconda istanza, naturalmente, è rappresentata dai clinici (spesso ca-pi carismatici di scuole sistemiche), che hanno proposto differenti ipotesiall'interno dei rispettivi modelli di riferimento.

È bene a questo proposito sfatare un'idea diffusa, ossia che la teoria deisistemi abbia avuto il suo sviluppo clinico dalle riflessioni di J.J. Jackson edaj suo laboratorio di ricerca a Palo Alto, e si identifichi quindi con la teo-ria di Watzlawick, Weakland e Fish (1967). Storicamente le scuole sistemi-che sono invece sorte contemporaneamente in più Menthal Health Centersnegli Stati Uniti a seguito di esigenze diverse, dalle differenti sfide psicopa-tologiche e dalla comune insoddisfazione per le pratiche in voga; hanno poievidenziato concetti diversi in base al capo carismatico cui facevano riferi-mento, così che possiamo identificare modelli relazionali differenti (struttura-le, strategico, esperienziale, e sistemico i principali, i quali si sono poi parcel-lizzate sempre più) che privilegiano ipotesi psicopatologiche differenti, purmantenendosi tutte all'interno di una comune cornice comunicazionale.

Intendiamo in questo paragrafo evidenziare alcune delle>idee portanti ri-spetto alla insorgenza dei sintomi.

1- Un primo gruppo di ipotesi riporta la sintomatologia ai giochi comuni-cativi che emergono dalle interazioni tra le persone, organizzate neltempo secondo modalità circolari e retroattive. La teoria della comuni-cazione, nata come accennato in Califomia, a Palo Alto, e conosciutagrazie alle pubblicazioni di P. Watzlawick e al famoso libro Pragmaticadella comunicazione umana, sostiene che tutto è comunicazione. Il sin-tomo è considerato come una risposta coerente ad un contesto di comu-nicazioni che presenta precise caratteristiche. Vengono quindi proposticome possibili contesti comunicazionali all'emergere di un sintomo: a)una incongruenza tra livelli di messaggio (ad esempio tra "contenuto"del messaggio e tono con cui viene comunicato, il "commento" che se-gnala come intendere il messaggio stesso); b) una escalation reciproca

all'interno della relazione (l'escalation è un processo sempre più, chepuò essere di tipo "complementare6" o di tipo "simmetrico"); e) una dif-ficoltà a livello della meta-comunicazione esplicita: l'impossibilità acommentare verbalmente le caratteristiche della propria reciproca co-municazione e quindi a chiarire eventuali incomprensioni.Questa ipotesi è, d'un lato, quella che si presta maggiormente ad una let-tura lineare causale (ovvero ad intendere il ricevente come "vittima"),ed è, d'altro lato, l'ipotesi che sta alla base del concetto di "doppio le-game", il modello forse più conosciuto e di maggior fortuna chel'approccio sistemico relazionale abbia formulato - modello dal quale cisi è ora allontanati per la sua semplicità. All'interno di un contesto rela-zionale continuativo e caratterizzato dall'impossibilità di abbandonare ilcampo e di commentare esplicitamente ciò che avviene (come si fosse aldi fuori della relazione) l'incongruenza nella comunicazione diviene laregola e pone ambedue i partecipanti in una situazione di profondo di-lemma: l'impossibilità di rispondere in modo appropriato ad una ingiun-zione contraddittoria che viene misconosciuta dall'emittente, e che nonpuò essere commentata e spesso neppure riconosciuta dal ricevente liinchioda ambedue in una relazione frustrante e patologica (Bateson,1972; Sluzky e Ramson, 1976). Si ipotizza che chi si trova invischiato inuna relazione con quéste caratteristiche formali avverta di 'sbagliare' siache risponda in un modo sia che risponda in modo opposto: è in questosenso che viene preso in un "paradosso" per cui l'unica risposta appro-priata sembra essere il sintomo, inteso come comportamento-comu-nicazione cha presenta caratteristiche di non risposta. Il sintomo infatticomunica, ed è un esempio, "mi comporto così, ma non dipende da me,bensì da una forza più grande di me"; oppure: "ciò che dico non lo dicoio, ma le voci che parlano in me". Interessante come la scuola di Milanoabbia proposto negli anni '80-'90 una modalità terapeutica contropara-dossale per "sciogliere" i paradossi in cui le persone e il sistema in totosi trovano: i terapeuti chiedevano esplicitamente ai membri della fami-glia di agire di fronte a tutti gli altri un rituale per sciogliere il paradossoesplicitandone la logica interna; questo avveniva in un contesto spessomolto emotivo (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin, Prata, 1975).Negli anni '90 l'ipotesi del doppio legame verrà rielaborata in manieramolto sofisticata e interessante da Valeria Ugazio (1998), nella teoriadelle polarità semantiche. Secondo tale teoria, i membri di una famiglia(così come ogni gruppo con storia) si "con-pongono", costruendo la

Processo che esalta due comportamenti diversi e complementari: più l'uno è autoritariopiù l'altro è sottomesso

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conversazione, all'interno di trame narrative, salienti e condivise, aventila struttura di polarità di significato antagoniste. Tale modello prevedeche la conversazione nella famiglia sia organizzata entro costrutti del tipobuono/cattivo, dipendente/indipendente, vincente/perdente, bello/brutto,dando origine a contesti conversazionali primariamente emotivi.Parafrasando uno degli assiomi della comunicazione umana, per ognimembro della famiglia "sarà impossibile non posizionarsi" all'internodell'asse semantico avente come estremi le polarità salienti che differi-scono in base ad idee cardine centrali e differenti per ciascuna patologia.Secondo V. Ugazio, la "con-posizione" conversazionale ed il "positio-ning" assunto all'interno delle narrative dominanti sono processi attra-verso i quali il soggetto definisce la propria identità in relazione a quelladegli altri membri del gruppo, garantendo Fintersoggettività.Assumendo la revisione costruzionista-sociale del concetto di "doppiolegame" effettuata da Cronen, Johnson e Lannamann, Valeria Ugazioipotizza che le differenti psicopatologie siano espressione di una deter-

«minata organizzazione semantica e delle posizioni che i membri dellafamiglia assumono all'interno di essa, con-ponendosi in una particolareconfigurazione relazionale ed emotiva.

2- Un secondo gruppo di ipotesi psicopatologiche si fonda sull'idea dellafamiglia in termini di sistema sociale in evoluzione7, caratterizzato daproprie regole e da fasi di sviluppo idiosincratiche che, se non rispettate,portano alla patologia. Si tratta di dinamiche considerate nelle loro ca-ratteristiche più esplicite, visive, comportamentali; viene osservata laconfigurazione del sistema nel qui e ora rispetto ai comportamenti messiin atto, agli aspetti strutturali della famiglia (dimensione sincronica), eagli aspetti evolutivi (dimensione diacronica): sia gli uni che gli altriimplicano ruoli e regole diverse in rapporto alla fase del ciclo di vita ealla collocazione sociale, e vengono presi in considerazione e confronta-ti rifacendosi ad una configurazione ottimale. Il modello strategico diJay Haley e Cioè Madanes (Haley, 1963,1976; Madanes, 1981) si fondasul concetto di 'potere' nella relazione (Haley giunge ad affermare che"l'informazione è potere"), e quindi sulle coalizioni all'interno del si-stema familiare. Gli autori pensano che la patologia emerga come rispo-

7 L'influenza del modello strutturalista nelle scienze e in sociologia in particolare (LevyStrauss) fa sì che il mondo sociale sia ordinatamente suddiviso in sistemi, sottosistemi esovrasistemi e che la famiglia sia considerata l'origine e la 'causa' dei problemi dei singoli.Questa visione lascerà poi il posto al considerare i sistemi come quelle relazioni che unosservatore ha scelto di identificare rispetto ad uno sfondo, una scelta soggettiva quindi dicosa considerare sistema e cosa contesto.

sta a coalizioni tra membri del nucleo familiare appartenenti a differentigenerazioni (ad esempio l'alleanza tra un genitore e un figlio control'altro genitore) ove esse siano negate e misconosciute (concetto di 'tri-angolo perverso'). Salvador Minuchin (1974, 1978), studiando configu-razioni familiari tipiche rispetto a specifiche patologie (famiglie psico-somatiche, famiglie tossicodipendenti), descrive il sistema familiare intermini di "confini generazionali", e ipotizza che la patologia emergaove i confini tra le generazioni non sono sufficientemente chiari (fami-glie invischiate) o, al contrario, sono troppo rigidi e freddi (famiglie di-simpegnate). È importante sottolineare che queste modellizzazioni sot-tendono l'idea di una comunicazione "sana" (non contradditoria, ad e-sempio), e/o di una struttura familiare "normale" (che presenta, ad e-sempio, confini chiari e permeabili tra generazioni), e intendono quindil'intervento del terapeuta come sostanzialmente "normativo".Entrambi questi modelli ipotizzano che l'insorgenza del sintomo si dianel momento di passaggio ad una differente fase dello sviluppo dellafamiglia quando è richiesta una modifica ed una ricalibrazione dei pre-cedenti equilibri; viene quindi introdotto il concetto di "ciclo vitale dellafamiglia", secondo cui alcune sintomatologie compaiono tipicamentenelle fasi di passaggio da un compito relazionale/sociale ad un altro: ilpassaggio dall'essere due alla nascita dei figli, il passaggio dalla primainfanzia all'età scolare, il momento di distacco dalla famiglia del figliocon l'entrata nell'età adulta, la costruzione di una famiglia propria, ilmomento in cui la coppia nucleare si ritrova nuovamente sola. Si prestaattenzione ai processi di individuazione dei membri tra loro (Bo-wen,1978) e di differenziazione tra le generazioni (Whitaker,1981), alleorganizzazioni centripete e centrifughe delle relazioni (Olson, 1976),processi che se non avvengono per tempo, se si irrigidiscono, se nonportati a termine danno adito alla psicopatologia.

3- A partire dagli anni '70, come abbiamo già visto, il movimento di tera-pia familiare può emanciparsi da una concezione rigida e "letterale" del-la metafora della 'scatola nera', ed interessarsi quindi anche alle emo-zioni individuali e ai significati soggettivi. È da questa apertura che e-merge il terzo costrutto importante, quello di "gioco familiare". Il "gio-co familiare" viene identificato come epifenomeno che deriva dalle di-verse interazioni emotive, cognitive e valoriali di tutti i membri di un si-stema che non viene più osservato nel solo tempo presente. L'analisicoinvolge gli aspetti storici, evolutivi, le narrazioni portate e le differen-ze nell'interpretazione degli eventi. Nasce un nuovo interesse al giocoinconsapevole che tutti insieme mettono in atto e alla coerenza che ne

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deriva; per farlo emergere diventa fondamentale fecalizzarsi sul puntodi vista soggettivo, sulle emozioni, sulle premesse logico-emotive deisingoli membri della famiglia. Al piano strategico e tattico si affianca unlivello semantico ricco in cui si connettono tra loro le idee dei singolipartecipanti al gruppo. Si teorizza che il paziente tenda a portare in tera-pia un proprio sistema di coerenze, fatto di elementi tra loro connessi at-traverso legami rodati e ridondanti. Tale narrazione si presenta come uninvolucro traslucido ed inattaccabile (o comunque non facilmente attac-cabile) di percorsi mentali intemi, già esplorati e ripetitivi, di storie, re-lazioni, convinzioni e sintomi.Il gruppo di Milano, formatosi intorno alla figura carismatica di MaraSelvini Palazzoli, pone maggiormente l'accento sulle caratteristiche si-stemiche, cioè sulla connessione tra elementi della famiglia, intesa come"gruppo con storia". A partire dalla osservazione di "ridondanze comu-nicative" (sequenze relazionali che si ripetono indipendentemente daicontenuti o dagli argomenti discussi) l'equipe cerca di pervenire ad unaipotesi sul 'gioco sistemico' implicito, ipotesi che sia il più possibile

'complessa e circolare, ovvero includa in modo significativo tutti i mem-bri della famiglia ed eventuali persone esterne significative, ivi compresigli invianti (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin, Prata, 1975). Per alcu-ni clinici i giochi debbono venir decostruiti al fine di impedire alla fa-miglia di continuare a comportarsi nello stesso modo, per altri vannosemplicemente resi espliciti.La successiva differenziazione tra l'equipe di ricerca diretta da MaraSelvini Palazzoli e il centro fondato da Luigi Boscolo e GianfrancoCecchin porterà a sviluppi assai differenti. Il gruppo Selvini manterràcome centrale il concetto di 'gioco familiare', e descriverà le caratteri-stiche specifiche dei giochi che fanno da contesto a sindromi specifiche,classificando così le famiglie secondo modalità che recuperano la logicanormalità/patologia (famiglie a transazione schizofrenica, famiglie atransazione anoressica ecc.; Selvini Palazzoli et al, 1988, 1998). Bosco-Io e Cecchin si lasceranno profondamente influenzare dagli sviluppi teo-rici ed epistemologici della cibernetica, e diverranno tra gli esponentipiù conosciuti a livello internazionale di un modello di terapia "costrut-tivista", "narrativa", "post-moderna". Il loro modello riconosce l'impor-tanza cruciale dell'osservatore e delle sue premesse cognitive nel defini-re e mantenere il sintomo. Boscolo giunge ad affermare che "per fareuno schizofrenico sono necessario tre generazioni più uno psichiatra", eritiene che il mantenersi entro una logica di sanità/patologia comporti ilrischio di confermare implicitamente il problema e favorirne la croni-cizzazione; Cecchin scrive due importanti contributi (1993, 1997) sui

r

pregiudizi del terapeuta, e sull'importanza che sappia essere "irriveren-te" innanzitutto verso le proprie premesse implicite e le proprie teorie.

. Entrambi insistono sulla necessità di cercare le risorse e le potenzialitàdella famiglia più che osservarne le difficoltà e gli aspetti patologici.Un ulteriore importante costrutto diventa quello dell'emergenza del pro-blema nel linguaggio. Vi accenniamo solamente in quanto siamo conMinuchin dell'idea che i problemi nascono nelle interazioni umane enon pensiamo che essi siano reali solo ove vengano verbalizzati. Secon-do questo punto di vista un problema diventa un problema se viene iden-tificato in quanto tale ed emerge nel linguaggio, avendo altre personeaccettato la definizione e confermato lo status problematico. Maturana ecoli. (1989) si riferiscono a questo processo come al far emergere la pa-tologia attraverso la descrizione e la nominalizzazione di qualcosa comeun problema, che sia un comportamento, una emozione, uno statod'animo, questo assume lo status di problema. Le persone che condivi-dono la definizione semantica fanno parte di un sistema determinato dalproblema (sistema di influenza, sistema che organizza il problema) (An-derson, Goolishian, 1988).

4- Rispetto all'excursus fatto finora desideriamo sottolineare un ultimoaspetto specifico: il rapporto biologia e relazioni che è stato ultimamentea lungo dibattuto. In quanto sistemici riteniamo che il sintomo emergacome conseguenza di fattori favorenti - personali, interpersonali, conte-stuali, culturali, biologici - e che si esplichi in un particolare comporta-mento che viene definito "patologico" da chi lo manifesta, dalla sua fa-miglia e dalla comunità di operatori che con esso sono confrontati dallapresenza di una domanda. La centralità sugli aspetti biologici rischia: 1-una eccessiva semplificazione rispetto a come concepiamo l'uomo; 2- diconvogliare l'attenzione sull'individuo, dimenticando il contesto, sottoli-neando l'autosufficienza più che la cooperazione (Bertrando, 2001); 3- diproporre una determinazione restrittiva. Non a caso Viaro (2001), Liotti(2001) e Ceccarelli (2005), tra gli altri, descrivono una biologia non ridu-zionista che necessita di un dialogo interdisciplinare, necessario per un di-scorso biologicamente fondato sull'umano, a patto che tutte le disciplinecondividano uno stesso modello epistemico rispettoso della complessità edella relazionalità, che renda i costrutti tra loro commensurabili.Al termine di queste note sulle prime differenti ipotesi eziopatogeneti-che proposte dal movimento di terapia relazionale vorremmo sottolinea-re che i più recenti sviluppi teorici hanno creato una cornice concettualeche permette, per lo meno potenzialmente, di superare l'oscillazione tra'purismo' sistemico ed esigenze cliniche cui abbiamo accennato all'ini-

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zio del paragrafo. In un'ottica costruttivista ed all'interno di una teoriadei sistemi osservanti, infatti, è possibile recuperare come utili le diffe-renti ipotesi eziologiche (riconoscendo che non è possibile non formula-re ipotesi esplicative), e mantenere nel contempo un atteggiamento non'realista' che eviti di illudersi che tali ipotesi descrivano il sistema cosìcom'è: tale cornice logica e concettuale permette di utilizzare le diffe-renti ipotesi eziologiche come provvisorie, parziali, pur sempre discuti-bili, e di riconoscere che qualsivoglia ipotesi esplicativa è congruente achi la formula più che a ciò che egli descrive.

4. Le specifiche degli ultimi anni

Vorremmo riflettere in questo paragrafo sugli aspetti di complessità e diproblematicità che caratterizzano il modo in cui i sistemici discutono oggi-giorno del processo clinico e dell'insorgenza dei sintomi.

* Un primo aspetto di problematicità riguarda la consapevolezza dei rischiinsiti nell'incontro psicoterapeutico. La teoria sistemica considera oggi isistemi viventi in costante divenire: sistemi che si complessificano nel tem-po in una costante processualità. Per questo diventa importante che il clini-co sia consapevole del fatto che il suo intervento può avere l'effetto dibloccare tale processualità. Deve pertanto partecipare a creare un contestodi relazione che permetta di cambiare le usuali modalità di cambiamento;deve immaginare gli individui e le situazioni in divenire; deve nutrire unaautentica fiducia negli individui e nella loro innata tendenza a risolvere iproblemi; deve soprattutto preoccuparsi di favorire che il processo evoluti-vo si rimetta in moto, non certo portare gli individui per mano o spingerliverso soluzioni che rischiano di essere unicamente nella sua testa. Diventaquindi fondamentale il rispetto delle capacità di autoregolazione e auto-guarigione degli organismi implicati e dei sistemi in quanto tali.

Si assume inoltre che il sistema possa conoscere-agire solo entro i vin-coli dettati dalla propria organizzazione, e possa apprendere solo ciò che èpredisposto ad apprendere. Questo aspetto enfatizza l'autonomia dei siste-mi: gli individui e le famiglie sono considerati alla stregua di macchine nontriviali, che si comportano in maniera non prevedibile e non sempre uguale.Anche questo punto di vista esclude la possibilità di prevedere le soluzioniche il sistema troverà in modo autonomo, valorizza la possibilità creativa discelte e soluzioni non sempre razionali e/o prevedibili, sottolinea i rischiconnessi a una concezione della terapia finalizzata all'adeguamento a mo-delli di sanità o di normalità predefiniti. Lo/a psicoterapeuta non intervienesu un sistema da modificare e influenzare, bensì partecipa ad una danza

fcomune e partecipa a definire nel tempo precisamente ciò che si sforza dicomprendere (Bianciardi, 2009).

Un secondo punto problematico nasce dal sapersi partecipi di un proces-so recursivo che non può essere governato in modo unilaterale, ma piutto-sto richiede di interrogarsi costantemente sull'interazione in atto. Le perso-ne arrivano in seduta con comportamenti, pensieri, emozioni che noi acco-gliamo ridefinendoli, restituendoli attraverso lo specchio rappresentato dachi siamo, dai nostri presupposti teorici (che ci fanno leggere proprio inquel modo la realtà dell'altro), dalle narrazioni che emergono, dalla embri-cazione tra le loro offerte e le nostre disponibilità, frutto della relazione chesi è costituita. Poiché le modalità di decodificare l'esperienza e attribuiresignificato ai fatti della vita non sono né 'reali' né oggettive, esse possonoessere considerate come scelte soggettive seppur inconsapevoli (è quantoha proposto Heinz von Foerster): sebbene chi a noi si rivolge avverta di'subire' le modalità che lo fanno soffrire, il soggetto è partecipe del percor-so che lo ha portato a chiedere aiuto.

Questa recursività tra cosa vediamo e come organizziamo ciò che ve-diamo non può prescindere da una posizione autoriflessiva e partecipata:che cosa ci stanno portando? Che significato ha? Quale è la relazione che siè costruita? Come si è costruita? Le domande che il clinico si deve fare so-no molteplici. Diventa quindi fondamentale riflettere sui pattem di colle-gamento tra individuo/famiglia e clinico e sui livelli di osservazione che sifanno via via più complessi: non solo ciò che il sistema porta - la sua orga-nizzazione precipua - ma anche questo si connette con il clinico e con ciòche emerge dall'incontro, rispetto alla cultura dominante in cui tutti sonocoinvolti.

Venendo quindi alle ipotesi circa l'insorgenza della patologia, è impor-tante che il clinico non "sposi" le proprie ipotesi, non ci creda fino in fon-do, le consideri linee guida parziali e non definitive, temporalmente validese coerenti con la conversazione in atto. Diventa fondamentale per il clinicoriflettere sulla propria modalità generale di diagnosticare e, nello specifico,di diagnosticare la diagnosi effettuata. Se, e solo se questa operazione disecondo livello viene messa in atto si può parlare di una piena responsabili-tà terapeutica, intesa come la capacità di rispondere con coscienza del pro-prio operare nel rapporto tra conoscenza e scelte. La riflessività e la capaci-tà di entrare in relazione diventano le operazioni cardine di tutto il proces-so, l'oggetto di osservazione consiste nell'atto stesso di osservare l'oggettoe relazionarsi con esso. Non vi è "causa" che si possa scoprire, non c'è unateoria eziopatogenetica che spicchi come teoria forte, l'attenzione torna sulprocesso clinico e come clinici ci ritroviamo una funzione fondamentale,quella di gestire il cambiamento e le spiegazioni della situazione in atto -

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patologia compresa. Questa è la nostra specifica responsabilità. Per far que-sto dobbiamo stare all'interno di una relazione di fiducia e autorevolezza,caratterizzata da un linguaggio empatico e da una narrazione comune.

In un'ottica costruzionista non si ricercano dati 'Veri", si fa invece e-mergere ciò che è coerente (ma contemporaneamente innovativo) con lasituazione portata al fine di creare una "workable reality", una realtà tera-peutica efficace e percorribile che favorisca l'evoluzione. Una costruzionediagnostica diviene così la capacità (l'arte?) di scegliere alcuni tra gli in-numerevoli elementi che il paziente porta iscritti nella propria realtà e diriconnetterli tra loro in più visioni significative per l'individuo, differentidalla teoria esplicativa con cui la persona si è presentata. Sono queste "co-struzioni" idiosincratiche che rendono conto del fatto che, tra cento even-tuali terapeuti, si instaurano infinite diverse possibilità di percorsi terapeu-tici, partendo da una stessa sintomatologia. La de-costruzione/costruzionecostituisce una operazione di modifica delle mappe cognitive, emotive, re-lazionali del paziente, del suo sistema di appartenenza e conscguentementedel nostro rapporto con lui/lei. In questa prospettiva il clinico diviene chi,cogliendo alcuni segni possibili tra milioni di segni presenti - elementi scis-si, frantumati, secondari, contraddittori per la persona che li emette - li ri-collega in una organizzazione coerente e, attraverso la sua persona, costrui-sce una storia/narrazione plausibile e significativa comune agli interlocutori.

Tutto questo avviene a partire dall'analisi della domanda, elemento/con-testo di significazione all'interno del quale le azioni del clinico vengonocostruite: attraverso quale percorso la persona/la famiglia è giunta al collo-quio? Quale ritiene essere il suo problema, come lo spiega? Cosa vuole ot-tenere dalla terapia, a chi ha comunicato questa sua scelta e chi sa che ades-so è qui? Chi ritiene il problema importante, chi se ne preoccupa e come,chi lo qualifica o lo ignora, chi altro sta partecipando al gioco relazionaleche già vede il terapeuta implicato? Quali sono i tentativi messi finora inatto per "curarsi" o per cambiare la situazione, quali sono le fantasie su ciòche la terapia metterà in moto? Cosa ci si aspetta quindi e verso cosa si ten-de, verso quale idea di salute mentale o di benessere? A quale livello il pro-blema presentato va definito e successivamente ridefinito, proponendo unacornice differente, una definizione diversa del lavoro comune? La risposta aqueste domande da significato al sintomo e al suo mantenimento.

Se le scelte del clinico si basano sull'interazione con un sistema di cui ècomunque parte costituente, la relazione stabilita nei primissimi momentidell'incontro diviene elemento determinante del percorso successivo, ed èin sé oggetto dell'indagine diagnostica. Il disturbo mentale diventa epife-nomeno di una costellazione di fattori di rischio che sfociano in comporta-menti non sempre esplicitamente distruttivi, che vengono rinforzati dal si-

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stema allargato e rischiano di incistarsi e diventare pattern ripetitivi. Ognisingolo caso è organizzato da accadimenti connessi in maniera differente. Ilivelli e i contesti di complessità relazionale diventano multipli: diversi li-velli strutturali, narrativi e relazionali che determinano come una medesimapatologia può derivare da diversi percorsi e diverse costellazioni causalicosì come una stessa causa può condurre a diversi sintomi. I "segni", glielementi catturati (capta) a partire dai quali faremo la nostra ipotesi diagno-stica non sono inscritti nella situazione, sono post-scritti, perché la personaarriva con una miriade di elementi ed è il processo in atto che definiscequali verranno scelti e il percorso che si costruirà (Boscolo e Cecchin,1988; Bianciardi, 1999; Peruzzi, 1999; Mosconi, 1999).

Stiamo parlando di una diagnosi della diagnosi, della riflessione sullecategorie che si sono utilizzate per fare diagnosi: Chi sono io? Cosa penso?Che idea ho della situazione che mi è stata descritta? Ma anche, necessa-riamente, chi è l'altro? Cosa mi porta? Cosa stiamo costruendo insieme? E,ancora, quali categorie ho utilizzato per leggere la situazione? Ho apertospazio a possibilità evolutive oppure ho concluso nelle mie definizionil'ermeneutica del processo? Sosteniamo che uno dei modi in cui ci si muo-ve è strettamente dipendente da chi siamo: rispetto all'osservazione del si-stema, c'è chi ha bisogno di conoscere quali persone siano presenti nel con-testo del paziente per tre generazioni (nonni, genitori e figli...) e contestua-lizza queste informazioni rispetto alla consulenza; chi invece entra subitonella conversazione e presta attenzione alle differenze analogiche, la formadel verbale e il contenuto, il rapporto tra verbale e non verbale, tra apparen-za e contenuti espliciti. C'è poi chi è portato a soffermarsi su particolarisecondari e ad amplificarli, facendoli diventare il fulcro dell'incontro.

È impossibile per qualunque clinico non avere anche le categorie noso-grafiche della psichiatria tradizionale in quanto ciascuno di noi proviene dauna formazione istituzionale che dovrebbe averle proposte. Importante èche la lettura nosografica non sia l'unica con la quale si approccia una si-tuazione clinic'a: se, ad esempio, ascoltiamo un paziente che ipotizziamo"depresso" e pensiamo che la depressione sia "curabile", oppure ascoltiamoil delirio di un paranoico e pensiamo che la paranoia sia pericolosa, i nostrivissuti rispetto a come consideriamo il "problema" dell'altro influisconosulle cose che ascoltiamo, su quello che emergerà in seduta, su ciò che pen-siamo della situazione, su quanto riusciamo a "sentire", su quello che chie-deremo e su come interverremo. Se abbiamo molta paura di una personaparanoica, di quel che può fare (questo è molto evidente nel lavoro ambula-toriale di tipo psichiatrico), se abbiamo molta paura che questa personapossa uccidersi, indagheremo con insistenza, e il nostro chiedere serviràprincipalmente a noi, non servirà assolutamente al "paranoico" - se non per

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suggerirgli implicitamente l'idea della sua "pericolosità". La nostra indagi-ne servirà a calmare le nostre ansie, servirà forse nella scelta dei farmaci,come se ci fosse una sorta di scissione, di separazione netta, tra ciò che ri-guarda noi come sistema che osserva e come persone che producono ipotesie organizzano azioni (partendo da un proprio mondo di presupposti e didoveri ), e la persona che ci è davanti e che con questi elementi di fatto haben poco a che fare.

E, infine, come concettualizziamo oggi la psicoterapia?La psicoterapia è considerata come costituita da interazioni di carattere

riflessivo che generano senso all'interno del medium linguistico, attraversouna dinamica di continuità e discontinuità. Il self, le relazioni e il rapportoterapeutico funzionano in qualche modo allo stesso modo, trattali unodell'altro, funzionano come un processo in movimento, come la corrente diun fiume, mai uguale a se stessa. La terapia diventa un processo in cui ci siinfluenza reciprocamente, un sistema chiuso, non banale (reticolare e nongerarchico) che richiede procedure di secondo ordine, operazioni che ope-rano su se stesse. Si tratta di un processo computazionale, la costruzione diuna mente sociale, un processo che fa emergere degli auto-comportamentidipendenti dall'evoluzione del processo e non determinabili a priori. Il pro-blema della psicoterapia diventa quello di comprendere la comprensionepiù che i sintomi implicati.

I terapeuti sistemici esperti continuano a considerare non prevedibili leinterazioni che si danno in psicoterapia, per cui diviene impossibile unapianificazione razionale e diretta dall'alto o dal di fuori. Si considera inveceil cambiamento come emergente dall'interazione linguistica, narrativa, aseguito di un'attenta analisi della domanda e di un lavoro clinico esplicito,rispettoso e trasparente.

5. Conclusioni

In questi ultimi anni nessun modello clinico è isolato dagli altri; concor-diamo con chi sostiene che clinici di differenti approcci in fondo operano inmodo abbastanza simile, anche se ciò che essi fanno viene poi spiegato inmaniera profondamente diversa. Alcuni eventi hanno poi reso i modelliancora più connessi tra loro (l'accesso a più di un training formativo, lacontaminazione tra modelli presente nel lavoro dei Servizi, la necessità didialogo tra operatori, la specificità nella ricerca scientifica di pattern e ideespecifiche a particolari patologie, l'ampliamento delle lenti patologiche perfar posto ai disturbi di personalità...). Questo fa sì che molti psicoterapeuti,pur ritenendo di utilizzare categorie "oggettive", di fatto privilegino il pro-prio percorso personale e utilizzino categorie idiosincratiche.

Tutto ciò che abbiamo detto fin ora comporta una conseguenza moltoimportante: la responsabilità etica dello psicoterapeuta (von Foerster, 1982;Bianciardi e Telfener, 1995; Bianciardi e Bertrando, 2002). Abbandonataogni illusione di poter influenzare l'altro secondo modalità prevedibili eprotocolli di intervento predefìniti, e accettato il fatto che il clinico parteci-pa ad una comune costruzione di senso, vi è il rischio che lo psicoterapeutanon si consideri responsabile di come il processo terapeutico evolve e siconclude. In realtà, anche a questo proposito, lo psicoterapeuta deve oggiriconoscere che la propria responsabilità, strettamente collegata alla neces-sità di scegliere durante tutto il processo, lungi dal poter essere elusa, di-viene ancor più articolata e complessa. Non si limita alla responsabilità pro-fessionale in sé, ma si rivela una responsabilità di second'ordine: non solouna responsabilità relativa alla corretta applicazione delle metodologie etecniche che il proprio modello prevede, ma relativa anche (ad un altro li-vello) alle modalità stesse secondo cui si scelgono e selezionano le informa-zioni, si connettono, vi si attribuisce significato. Come il clinico interverrànella conversazione terapeutica, chi convocherà e quale processo proporrà, seil processo risulterà evolutivo oppure omeostatico, se la situazione evolverà omeno, sono tutte modalità costruttive che derivano dalla danza collettiva eche sono responsabilità di un clinico, per definizione con un ruolo sociale dicui deve essere consapevole. Anche a tale livello, quindi, lo psicoterapeutadeve totalmente assumersi le sue responsabilità, che si espletano attraverso laricorsività di cui avevamo parlato all'inizio del nostro contributo.

Sosteniamo quindi che intendiamo la psicoterapia come una pratica 'eti-ca' in quanto ciò di cui si occupa è in definitiva la responsabilità soggettiva(del terapeuta e della danza): lo psicoterapeuta cerca di assumere piena-mente la responsabilità soggettiva delle proprie modalità descrittive al finedi favorire la possibilità che l'altro riconosca a sua volta la responsabilitàdel proprio 'ethos' (delle proprie 'abitudini' costruttive e computazionali)all'interno del contesto di relazione cui entrambi partecipano e che entrambicontribuiscono a definire (responsabilità della co-responsabilità).

La consapevolezza di una responsabilità innanzi tutto epistemica macontemporaneamente strategica e relazionale.

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2. L'intervento in ottica sistemica nei disturbid'ansia. Indicazioni e scelte strategiche

di A. Mosconi e L. Gallo

1. Introduzione

I disturbi d'ansia sono un tipo di patologia intorno alla quale moltescuole di pensiero nell'ambito della psicopatologia e della psicoterapia han-no fornito le proprie ipotesi eziopatogenetiche e le proprie modalità di cura.Anche nell'ambito della Teoria Sistemica, specie in questi ultimi anni, mol-to è stato detto e scritto a proposito di tale disturbo.

In questo articolo tenteremo di sistematizzare il pensiero teorico e ilconseguente intervento clinico di coloro che riteniamo annoverare fra iprincipali Autori che possono, a buon diritto, essere considerati "sistemici".Descriveremo le caratteristiche e le modalità di intervento terapeutico in-torno ai disturbi d'ansia facendo riferimento ad un costrutto teorico, recen-temente ideato da uno degli Autori, utilizzabile sia come modalità di analisiche come struttura di intervento clinico: il "Quadrilatero Sistemico"1.

Tale costrutto è uno strumento che compendia in sé la storia e l'evolu-zione della teoria sistemica: dalle prime ipotesi eziopatogenetiche, articola-te attorno alla teoria del "doppio legame", fino alle più recenti acquisizioniteoriche che rivalutano l'individuo, quali, ad esempio, le "polarità semanti-che" di V. Ugazio. Il "Quadrilatero Sistemico" permette di articolare le in-formazioni relative ad un problema in livelli logici differenti ed identifica-bili, facilitando la descrizione delle diverse componenti che interagiscononella costruzione del problema stesso.

I vertici che compongono il quadrilatero sono i seguenti:a) problema vissuto

1 Per una dettagliata descrizione del quadrilatero sistèmico, vedere: Mosconi A. (2008),"Terapia relazionale-sistemica con l'individuo: II "quadrilatero sistemico" come riferimentoper una costruzione di ipotesi ben formata e l'integrazione di differenti ottiche di lavoro,ovvero, "Fai una buona ipotesi e poi fai quello che vuoi", Connessioni, n° 20 marzo 2008.