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VENDERE TUTTO Brad Stone

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VENDERE TUTTO

Brad Stone

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VENDERE TUTTO

Jeff Bezos e l’era di Amazon

EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO

Titolo originale: The Everything Store – Jeff Bezos and the Age of Amazon Copyright © 2013 by Brad Stone All rights reserved. No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any means,

electronic or mechanical, including photocopying, recording or by any information storage retrieval system,

without permission from Little, Brown and Company – Hachette Book Group

This edition published by arrangement with Little, Brown and Company, New York, USA.

All rights reserved Per l’edizione italiana

Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2013

via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy)

tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886

e-mail [email protected] Seguici su Twitter: @Hoepli_1870 www.hoepli.it Tutti i diritti sono riservati a norma di legge

e a norma delle convenzioni internazionali ISBN 978-88-203-6055-9 Progetto editoriale e realizzazione: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali ([email protected])

Traduzione: Ilaria Katerinov Realizzazione digitale: Promedia, Torino

A Isabella e Calista Stone Quando avrete ottant’anni,

e in un momento di silenziosa riflessione

ripercorrerete la storia della vostra vita,

l’elemento più significativo saranno

le scelte che avete compiuto.

Alla fine di tutto, noi siamo le nostre scelte. Jeff Bezos, discorso inaugurale,

Princeton University 30 maggio 2010

Sommario

Prologo. Vendere tutto Parte 1

La fede 1 La casa dei quanti

2 Il Libro di Bezos

3 Sogni febbrili

4 Milliravi

Parte 2

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Influenze letterarie 5 L’aspirante astronauta

6 La teoria del caos

7 Un’azienda che produce tecnologia, non un negozio

8 Fiona

Parte 3

Missionari o mercenari? 9 Decollo!

10 Convinzioni utili

11 Il regno del punto interrogativo

Ringraziamenti L’autore Le fonti. I libri preferiti di Jeff Indice analitico Informazioni sul libro Circa l’autore

Prologo

Vendere tutto

All’inizio degli anni Settanta, un’intraprendente agente pubblicitaria di nome Julie Ray restò affascinata da un

corso di studi avviato a Houston, in Texas, e rivolto ai bambini intellettualmente dotati. Suo figlio fu uno dei

primi allievi di quello che in seguito si sarebbe chiamato il programma Vanguard, che si prefiggeva di stimolare

la creatività e l’indipendenza dei bambini spronandoli a pensare fuori dagli schemi. Ray era così entusiasta di

quel programma di studi, e della comunità di insegnanti e genitori che lo promuovevano, che si mise alla ricerca

di scuole analoghe nel resto del Texas e decise di scrivere un libro sull’offerta formativa per ragazzi dotati in

quello Stato. Qualche anno più tardi, quando suo figlio era ormai alle scuole medie, Ray tornò a visitare il centro, che

aveva sede in un’ala della scuola elementare di River Oaks, alla periferia ovest di Houston. Il preside incaricò

un allievo di accompagnarla nella visita: un ragazzino della sesta classe, biondo e con un’eccellente proprietà di

linguaggio; i suoi genitori chiesero solo di non usare il suo vero nome, quindi Ray lo chiamò Tim. Tim, come scrisse Julie Ray nel suo libro Turning On Bright Minds: A Parent Looks at Gifted Education

in Texas (Accendere le menti luminose: un genitore analizza l’istruzione per bambini dotati in Texas), era «un

allievo di spiccata intelligenza, di corporatura snella, cordiale ma serio». Secondo i suoi insegnanti non era

«particolarmente dotato per la leadership», ma interagiva bene con i coetanei e sapeva parlare con eloquenza del

romanzo che stava leggendo, Lo hobbit di J.R.R. Tolkien. A dodici anni, Tim era già competitivo. Spiegò a Ray che stava leggendo vari libri con l’obiettivo di

vincere uno speciale «premio del lettore», ma era in svantaggio perché una sua compagna di classe sosteneva, in

modo poco credibile, di leggere dodici libri alla settimana. Le mostrò inoltre un progetto di scienze cui stava

lavorando: un «cubo infinito», un apparecchio a batteria dotato di specchi rotanti che creava l’illusione ottica di

un tunnel senza fine. L’aveva ideato dopo averne visto uno simile in un negozio. Quello del negozio costava

ventidue dollari, ma «il mio è costato di meno», spiegò Tim a Ray. Gli insegnanti le dissero che tre dei progetti

di Tim avrebbero partecipato a una gara di scienze insieme ai lavori di ragazzi delle medie e dei licei. Tutti i docenti elogiavano l’ingegno di Tim, ma si può immaginare che diffidassero del suo intelletto.

Come esercizio di statistica per il corso di matematica, Tim aveva ideato un sondaggio per valutare gli

insegnanti della sesta classe. L’obiettivo, diceva, era giudicare i maestri sulla base di «come insegnano, non di

quanto stanno simpatici agli allievi». Aveva sottoposto il sondaggio ai compagni di classe, e all’epoca della

visita di Ray stava calcolando i risultati e tracciando grafici sulle prestazioni di ciascun insegnante. Le giornate di Tim, per come le descriveva Ray, erano fitte di impegni. Si svegliava presto e alle sette

prendeva l’autobus a un isolato da casa. Arrivava a scuola, trenta chilometri più in là, e iniziava le lezioni di

matematica, lettura, educazione fisica, scienze, spagnolo e arte. C’erano fasce orarie riservate ai progetti

individuali e alle discussioni in piccoli gruppi. Durante una delle lezioni cui assistette Julie Ray, sette allievi, tra

cui Tim, si sedettero in circolo nell’ufficio del preside per un esercizio di «pensiero produttivo». Ricevettero

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brevi storie da leggere per conto proprio e poi ne discussero insieme. La prima storia parlava di un gruppo di

archeologi che tornavano da una spedizione e annunciavano di aver scoperto preziosi reperti, un’affermazione

che in seguito si rivelava falsa. Ray riportò una parte della discussione: «Probabilmente volevano diventare famosi. Scacciavano i pensieri con cui non volevano fare i conti.» «Alcune persone continuano a ragionare nello stesso modo per tutta la vita.» «Bisogna essere pazienti. Analizzare le risorse che abbiamo a disposizione.» Tim disse a Julie Ray che gli piacevano molto quegli esercizi. «Per come va il mondo, qualcuno può

ordinarti di premere il pulsante. Devi saper ragionare con la tua testa.» Julie Ray non riuscì a trovare un editore per il suo libro: le grandi case editrici trovarono l’argomento

troppo di nicchia. Così, nel 1977, con i soldi messi da parte scrivendo i testi di un catalogo natalizio, Ray ne

stampò mille copie in formato tascabile e le distribuì personalmente. A distanza di oltre trent’anni, ho trovato una copia del libro nella biblioteca pubblica di Houston. Ho

rintracciato Julie Ray, che oggi vive nel Texas centrale e si occupa di pianificazione e comunicazione per

attività ambientaliste e culturali. Mi ha detto di aver assistito alla strabiliante carriera di Tim negli ultimi

vent’anni con ammirazione, ma non con stupore. «Quando l’ho conosciuto da bambino le sue abilità erano

evidenti, e venivano nutrite e incoraggiate dal corso di studi», spiega. «Il corso, a sua volta, ha tratto vantaggio

dalla sua ricettività e dal suo entusiasmo per l’apprendimento. È la dimostrazione che l’idea funziona.» All’epoca Ray aveva chiesto a uno degli insegnanti di stimare il livello intellettivo del bambino. «Non

saprei», aveva risposto l’insegnante. «Ma probabilmente non c’è limite a dove può arrivare, con un po’ di

aiuto.» Alla fine del 2011 sono andato a Seattle per incontrare «Tim», che in realtà si chiama Jeff Bezos, nel quartier

generale della sua azienda, Amazon.com. Ero lì per chiedere la sua collaborazione a questo libro, un tentativo di

raccontare la straordinaria ascesa di un gigante innovativo nel settore delle tecnologie, dirompente e spesso

controverso: una delle prime aziende a intuire l’infinita promessa di Internet, e che ha finito col cambiare per

sempre il nostro modo di leggere e di fare acquisti. Amazon è diventata una presenza costante nella vita moderna. Milioni di persone usano regolarmente il

browser per accedere al sito omonimo o ai siti satellite, come Zappos.com eDiapers.com, agendo sulla base

dell’impulso fondamentale di ogni società capitalista: consumare. Sul sito di Amazon c’è l’imbarazzo della

scelta: libri, film, attrezzi per il giardinaggio, mobili, generi alimentari e, ogni tanto, qualche oggetto insolito,

come un corno di unicorno gonfiabile per gatti (nove dollari e cinquanta) e una cassaforte per armi da mezzo

quintale con serratura elettronica (903,53 dollari) disponibile per la consegna in tre-cinque giorni. L’azienda ha

quasi perfezionato l’arte della gratificazione immediata, consegnando i prodotti digitali in pochi secondi e i

prodotti fisici in pochi giorni. Non di rado i clienti raccontano meravigliati che i loro acquisti sono arrivati molto

prima del previsto. Amazon ha fatturato 61 miliardi di dollari nel 2012, il suo diciassettesimo anno di attività, e

probabilmente supererà i 100 miliardi più in fretta di chiunque altro nella storia del commercio. Molti clienti la

adorano, molti competitor la temono. Il suo nome è entrato nel lessico del business, e non in modo del tutto

positivo. «To be Amazoned» significa «restare a guardare impotenti mentre una startup di Seattle sottrae clienti e

profitti al tuo business “brick and mortar” di negozi tradizionali.» La storia di Amazon.com, nella sua versione più nota, è una delle più emblematiche dell’era di Internet.

Dopo un esordio modesto, come rivendita online di libri, alla fine degli anni Novanta ha cavalcato la prima

ondata di entusiasmo per le dot.com estendendosi alla vendita di musica, film, elettronica e giocattoli.

Schivando la catastrofe per il rotto della cuffia, e sfidando lo scetticismo sulle sue prospettive coinciso con il

crollo delle dot-com nel 2000 e 2001, è riuscita a creare una complessa rete di distribuzione per vendere

software, gioielli, abbigliamento, attrezzature sportive, ricambi per automobili… e molto altro. E dopo essersi

affermata come leader nel commercio su Internet e piattaforma su cui altri rivenditori potevano presentare le

loro merci, si è ripensata da zero come azienda tecnologica a tutto tondo, grazie all’infrastruttura di cloud

computing Amazon Web Services e a dispositivi digitali pratici ed economici, come il lettore di ebook Kindle e

il tablet Kindle Fire. «Per me Amazon è la storia di un fondatore brillante che ha realizzato in prima persona la sua visione»,

commenta Eric Schmidt, presidente di Google e competitor accanito di Amazon, che però è iscritto ad Amazon

Prime, il servizio di spedizione rapida in quarantott’ore. «Non mi viene in mente esempio migliore. Forse

Apple; ma tendiamo a dimenticare che quasi tutti pensavamo che Amazon fosse condannata a morte perché si

rifiutava di adottare una struttura di costo che potesse funzionare. Continuava ad accumulare perdite. Ha perso

centinaia di milioni di dollari. Ma Jeff era molto loquace, molto sveglio. È il classico esempio di imprenditore-

tecnico, che comprende a fondo come funziona la sua azienda e ci tiene più di chiunque altro.» Nonostante la recente ascesa vertiginosa del prezzo delle sue azioni, Amazon rimane un’azienda

enigmatica e sconcertante. La voce profitti nel suo bilancio è notoriamente anemica, e nel 2012, nel mezzo di

una frenetica espansione in nuovi mercati e categorie di prodotto, ha addirittura segnato una perdita. Ma Wall

Street non sembra curarsene. Proclamando in continuazione di voler costruire l’azienda per il lungo periodo, Jeff

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Bezos si è conquistato la fiducia totale dei suoi azionisti: tanto che gli investitori sono disposti ad attendere con

pazienza il giorno in cui deciderà di rallentare l’espansione e coltivare sani profitti. Bezos si mostra poco interessato alle opinioni altrui. È molto bravo a risolvere problemi, ha una visione da

scacchista del panorama competitivo, e applica la focalizzazione di un ossessivo-compulsivo alla soddisfazione

dei clienti e alla fornitura di servizi come la spedizione gratuita. Nutre grandi ambizioni, non solo per Amazon

ma nel sondare i confini della scienza e nel ripensare da capo i media. Oltre a finanziare la sua azienda

aerospaziale Blue Origin, ad agosto 2013 Bezos ha rilevato l’azienda in crisi che gestisce il

quotidiano Washington Post per 250 milioni di dollari, con una mossa che ha lasciato di stucco il settore dei

media. Come potranno confermare molti suoi dipendenti, Bezos è una persona estremamente difficile per cui

lavorare. Nonostante la sua famosa risata squillante e l’allegria che trasmette in pubblico, è capace degli stessi

scatti d’ira di Steve Jobs, il defunto fondatore di Apple, in grado di terrorizzare qualsiasi dipendente che si

ritrovasse in ascensore con lui. Bezos è un fautore del micromanagement con un flusso ininterrotto di nuove

idee, e non ha pazienza con chi non si attiene ai suoi standard rigorosi. Come Jobs, Bezos emana tutt’intorno a sé un campo di distorsione della realtà: un’aura di propaganda –

persuasiva ma in ultima analisi insoddisfacente – a proposito della sua azienda. Dice spesso che la mission di

Amazon è «alzare l’asticella in tutti i settori, e in tutto il mondo, per la focalizzazione sul cliente».1 Bezos e i

suoi dipendenti si concentrano in effetti sul cliente, ma al contempo sanno essere spietatamente competitivi con i

rivali e anche con i partner. A Bezos piace dire che Amazon compete in mercati vasti, in cui c’è spazio per molti

vincitori. Forse è vero, ma è anche evidente che Amazon ha contribuito a danneggiare o distruggere competitor

grandi e piccoli, brand un tempo noti in tutto il mondo: Circuit City, Borders, Best Buy, Barnes & Noble. Gli americani tendono a innervosirsi quando vedono un’azienda esercitare così tanto potere, soprattutto se

si tratta di grandi aziende con sede in città lontane, il cui successo potrebbe alterare il carattere delle loro

comunità. Anche Walmart ha dovuto fronteggiare questo scetticismo; e così Sears, Woolworth’s e gli altri

giganti del commercio al dettaglio di ogni epoca, fino alla catena di supermercati A&P, che negli anni Quaranta

dovette affrontare un catastrofico processo per antitrust. Gli americani comprano nelle grandi catene per la

comodità e i prezzi bassi, ma a un certo punto queste aziende diventano così smisurate da rivelare una

contraddizione nella psiche collettiva dell’opinione pubblica: vogliamo spendere poco ma non vogliamo che

qualcuno faccia fallire il negozio di quartiere o la libreria indipendente che sono sotto attacco da decenni, prima

a causa delle librerie di catena come Barnes & Noble e oggi per via di Amazon. Bezos è un comunicatore estremamente prudente quando parla della sua azienda. È una sfinge sui dettagli

dei progetti, difende gelosamente i suoi pensieri e propositi, ed è un enigma per la comunità imprenditoriale di

Seattle e l’intero settore tecnologico. Raramente partecipa a convention o concede interviste. Anche chi lo

ammira e segue da vicino la storia di Amazon tende a sbagliare la pronuncia del suo cognome («Si dice be-

zos, non bi-zos»). John Doerr, il venture capitalist che ha finanziato Amazon agli esordi e per dieci anni ha fatto parte del

consiglio d’amministrazione, definisce l’oculato stile di pubbliche relazioni dell’azienda «la Teoria della

Comunicazione di Bezos». Doerr riferisce che Bezos legge i comunicati stampa, le descrizioni dei prodotti, i

discorsi e le lettere agli azionisti con la penna rossa in mano, cancellando ogni frase che non parli ai clienti in

modo semplice e positivo. Pensiamo di conoscere la storia di Amazon ma quel che conosciamo, in realtà, è la sua mitologia, i suoi

comunicati stampa, i discorsi e le interviste che Bezos non ha stralciato con l’inchiostro rosso. Amazon occupa una dozzina di modesti edifici a sud del lago Union di Seattle, un piccolo lago glaciale d’acqua

dolce collegato da un sistema di canali allo Stretto di Puget verso ovest e al lago Washington a est.

Nell’Ottocento l’area ospitava una grande segheria, e prima ancora era abitata da nativi americani. Questo

panorama bucolico non esiste più: nella densa urbanizzazione della zona trovano posto startup biomediche, un

centro di ricerca sul cancro e gli edifici della facoltà di medicina dell’Università di Washington. Da fuori, i moderni e bassi uffici di Amazon passano inosservati. Ma entrando nel Day One North, sede

dell’alto comando di Amazon all’incrocio tra Terry Avenue e Republican Street, si viene accolti dal logo

sorridente di Amazon affisso alla parete dietro il lungo e rettangolare banco della reception. A un lato del banco

c’è una ciotola di crocchette, per i dipendenti che portano i cani in ufficio (un privilegio raro, per un’azienda che

chiede ai dipendenti di pagarsi parcheggio e snack). Accanto agli ascensori, una targa nera con testo bianco

informa i visitatori che sono entrati nel regno del CEO-filosofo. Dice: Molte cose devono ancora essere inventate.

Molte cose devono ancora succedere.

La gente non ha idea dell’impatto che avrà Internet, e per tanti versi siamo ancora all’inizio.

Jeff Bezos

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In Amazon vigono consuetudini profondamente idiosincratiche. Nelle riunioni non si usano mai

presentazioni in PowerPoint: i dipendenti devono esprimere i concetti per iscritto e in un massimo di sei pagine,

perché Bezos è convinto che questa attività stimoli il pensiero critico. Per ogni nuovo prodotto, la

documentazione viene redatta nello stile di un comunicato stampa: l’obiettivo è presentare un’iniziativa nel

modo in cui un cliente potrebbe sentirne parlare per la prima volta. All’inizio di ogni riunione tutti leggono in

silenzio il documento, e poi inizia la discussione: esattamente come l’esercizio di «pensiero produttivo» che si

svolgeva nell’ufficio del preside della scuola elementare di River Oaks. Per il mio incontro con Bezos avevo deciso di attenermi alle usanze dell’azienda e preparare il mio testo in

stile Amazon: un finto comunicato stampa che presentava questo libro. Bezos mi aspettava in una sala riunioni all’ottavo piano. Ci siamo seduti a un tavolo composto da mezza

dozzina di porte, dello stesso legno chiaro che Bezos aveva usato vent’anni prima per costruire Amazon da zero

nel suo garage. Le porte-scrivania sono spesso citate come simbolo della parsimonia dell’azienda. La prima

volta che avevo intervistato Bezos, nel 2000, era pallido e fuori forma: alcuni anni di continui viaggi all’estero

avevano lasciato il segno. Questa volta invece l’ho trovato snello e muscoloso: aveva trasformato il suo corpo

come aveva trasformato Amazon. Si era persino tagliato i capelli quasi a zero, per via di una fastidiosa

stempiatura: con quel nuovo look somigliava a uno dei suoi eroi della fantascienza, il capitano Picard di Star

Trek: The Next Generation. Ci siamo seduti, e io ho fatto scorrere sul tavolo verso di lui il comunicato stampa. Quando ha capito cosa

stavo facendo, ha riso così forte da spruzzare goccioline di saliva tutt’intorno. Negli anni si è parlato molto della risata di Bezos. È un suono sconcertante e repentino che viene prodotto

spingendo in avanti il mento, chiudendo gli occhi ed emettendo un ruggito gutturale, a metà fra un tricheco in

fase di accoppiamento e un trapano elettrico. Spesso la risata prorompe in circostanze nelle quali nessun altro

trova alcunché di divertente. Per certi versi, la risata di Bezos è un mistero irrisolto: non ci si aspetta che una

persona così seria e concentrata sul lavoro rida in modo così sguaiato, e nessuno nella sua famiglia ride allo

stesso modo. Per i dipendenti la risata è una pugnalata al cuore, che interrompe le conversazioni e spiazza il bersaglio.

Vari colleghi ipotizzano che si tratti di un effetto voluto, che Bezos la usi come un’arma. «Non la si può

fraintendere», dice Rick Dalzell, ex Chief Information Officer di Amazon. «È disarmante e punitiva. Vuol dire

che ti sta castigando.» Bezos ha letto in silenzio il mio comunicato stampa per un paio di minuti e poi abbiamo parlato delle

ambizioni di questo libro: raccontare per la prima volta l’intera storia di Amazon, dai primi anni Novanta a Wall

Street fino al giorno d’oggi. La nostra conversazione è durata un’ora. Abbiamo parlato di altri libri di business

che potevano servire da modello, e della biografia Steve Jobs di Walter Isaacson, pubblicata poco dopo la

prematura morte del CEO di Apple. Abbiamo anche riconosciuto la difficoltà di scrivere e vendere un libro su Amazon in quel particolare

momento storico. (Senza dubbio, tutti i rivenditori online e offline di questo libro hanno opinioni forti

sull’argomento di cui tratta. Non a caso il gigante francese Hachette Livre, che possiede Little, Brown and

Company, la casa editrice di questo libro, di recente ha chiuso in via stragiudiziale un lungo contenzioso

antitrust con il Dipartimento di Giustizia americano e con le autorità di vigilanza dell’Unione Europea che

nasceva dalla disputa tra quell’azienda e Amazon sul prezzo degli ebook. Come tante altre aziende in molti altri

settori del commercio e dei media, Hachette ha dovuto vedere in Amazon al contempo un prezioso partner

commerciale e un concorrente pericoloso. Naturalmente Bezos ha la sua opinione su questo tema. «Il problema

dell’editoria non è Amazon», gli piace dire ai giornalisti. «Il loro problema è che sta arrivando il futuro.») Ho parlato con Bezos una dozzina di volte negli ultimi dieci anni; le nostre conversazioni sono vivaci,

divertenti e spesso interrotte dai suoi scoppi di risa. È una persona che trabocca di energia e passione (se lo

incontrate in corridoio non esiterà a dirvi che in ufficio non prende mai l’ascensore ma usa sempre le scale).

Dedica la sua piena attenzione all’interlocutore, e a differenza di molti altri amministratori delegati non dà mai

l’impressione di essere distratto o impaziente; ma non ama allontanarsi dai suoi temi di discussione preferiti, che

sono molto astratti. Alcune delle sue massime sono ripetute così di frequente che le potremmo chiamare

«jeffismi». Alcune sono in voga da più di un decennio. «Se vuoi la verità su ciò che ci rende unici, è questa», dice Bezos, ed enuncia un tipico jeffismo: «Siamo

veramente cliente centrici, siamo davvero orientati sul lungo periodo e ci piace davvero innovare. Quasi nessuna

azienda è così. Le aziende si concentrano sui competitor più che sul cliente. Vogliono lavorare a progetti che

frutteranno dividendi nel giro di due o tre anni, e se in due o tre anni non vedono risultati passano a

qualcos’altro. E preferiscono tallonare il leader di mercato anziché innovare, perché è meno rischioso. Quindi,

se vuoi la verità su Amazon, ecco perché siamo diversi. Poche aziende racchiudono tutti e tre questi elementi.» Verso la fine dell’ora che abbiamo trascorso a parlare di questo libro, Bezos si è proteso in avanti con i

gomiti sul tavolo e mi ha chiesto: «Come pensi di affrontare la fallacia narrativa?» Ah, certo, dimenticavo, la fallacia narrativa. Per un momento mi sono venuti gli stessi sudori freddi che da

vent’anni i dipendenti di Amazon sperimentano di fronte alle domande spiazzanti del loro geniale boss. La

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fallacia narrativa, mi ha spiegato Bezos, è un termine coniato da Nassim Nicholas Taleb nel suo libro del 2007 Il

cigno nero, e indica la propensione biologica degli esseri umani a trasformare realtà complesse in narrazioni

consolatorie ma semplicistiche. Taleb è convinto che i limiti del cervello umano spingano la nostra specie a

creare illusori rapporti di causa ed effetto tra fatti ed eventi non correlati tra loro, e poi a convertirli in racconti

di facile comprensione. Queste storie, scrive Taleb, ci proteggono dall’imprevedibilità del mondo, dal caos

dell’esperienza umana, dall’inquietante elemento fortuito che è in gioco in tutti i successi e gli insuccessi. Bezos mi stava dicendo che l’ascesa di Amazon poteva essere una di quelle storie, così complessa da

essere incomprensibile. Non esisteva una spiegazione semplice per il modo in cui certi prodotti erano stati

inventati; per esempio Amazon Web Services, il pionieristico servizio cloud che tante altre internet company

oggi usano per gestire le proprie attività. «Quando in un’azienda nasce un’idea, parte un processo complicato.

Non c’è un singolo momento “Eureka”», mi ha detto Bezos. Temeva che ridurre la storia di Amazon a una

narrazione lineare potesse dare un’impressione fallace di chiarezza. Nel libro di Taleb – che, tra parentesi, è una lettura obbligata per tutti i dirigenti di Amazon – si afferma

che per evitare la fallacia narrativa è necessario privilegiare la sperimentazione e la conoscenza clinica rispetto

allo storytelling e alla memoria. Ma forse, per l’aspirante saggista, la soluzione più pratica è riconoscere il

rischio della fallacia narrativa e poi andare avanti come se niente fosse. E così, inizio con un’avvertenza. L’idea di Amazon è nata nel 1994, al quarantesimo piano di un

grattacielo a Midtown Manhattan. Quasi vent’anni dopo, l’azienda dava lavoro a oltre novantamila persone ed

era diventata una delle corporation più famose del pianeta, con frotte di clienti soddisfatti del vasto

assortimento, dei prezzi bassi e dell’eccellente customer service, e intanto stava trasformando interi settori e

destando preoccupazione nei titolari di alcuni dei brand più antichi del mondo. Quello che state per leggere è un

tentativo di raccontare com’è potuto succedere tutto questo. Il libro si basa su oltre trecento interviste a dirigenti

e dipendenti di Amazon, di ieri e di oggi, e sulle mie conversazioni nell’arco di vari anni con Bezos, che alla

fine ha deciso di sostenere il mio progetto pur ritenendo che fosse ancora «troppo presto» per riflettere sulla

storia di Amazon. Ciò nonostante ha approvato molte interviste ai suoi alti dirigenti, ai suoi familiari e amici, e

di questo gli sono grato. Mi sono basato anche sugli articoli a proposito di Amazon che ho scritto nell’arco di

quindici anni per Newsweek, il New York Times e Bloomberg Businessweek. Questo libro si prefigge di raccontare la storia di uno dei più grandi successi imprenditoriali fin dai tempi

in cui Sam Walton sorvolò il Sud degli Stati Uniti col suo turboelica a due posti per cercare i luoghi giusti in cui

costruire i negozi Walmart. È la storia di un bambino dall’intelligenza precoce che è diventato un

amministratore delegato straordinariamente ambizioso e versatile, e che, con la sua famiglia e i colleghi, ha

scommesso a fondo su una rete rivoluzionaria di nome Internet e sulla grandiosa visione di un negozio capace di

vendere qualsiasi cosa. ______________________________ 1. Jeff Bezos, discorso ai laureandi della Tepper School of Business, Carnegie Mellon University, 18 maggio

2008.

Parte

LA FEDE

La casa dei quanti

Prima di autoproclamarsi libreria più grande del mondo, o supernegozio leader del Web, Amazon.com era

un’idea che circolava negli uffici newyorkesi di una delle aziende più insolite di Wall Street: D. E. Shaw & Co. DESCO, come la chiamavano affettuosamente i dipendenti, era un hedge fund quantitativo fondato nel

1988 da David E. Shaw, un ex docente di informatica della Columbia University. Insieme ai fondatori di altre

rivoluzionarie «case dei quanti» dell’epoca, come Renaissance Technologies e Tudor Investment Corporation,

Shaw fu un pioniere nell’uso dei computer e di sofisticate formule matematiche per sfruttare le anomalie

ricorrenti dei mercati finanziari globali. Quando, per esempio, il prezzo di un titolo in Europa era leggermente

più alto che negli Stati Uniti, gli informatici di DESCO, veri e propri guerrieri di Wall Street, programmavano

un software in grado di sfruttare la disparità portando a termine rapidamente le transazioni. La comunità finanziaria sapeva ben poco sul conto di D. E. Shaw, e il suo poliedrico fondatore preferiva

che le cose restassero così. L’azienda cercava di restare sottotraccia, e impiegava i capitali privati di ricchi

investitori, come il miliardario finanziere Donald Sussman e la famiglia Tisch, per tenere lontani dalle mani dei

competitor i suoi algoritmi di trading proprietari. Shaw era convinto che se DESCO voleva diventare un’azienda

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pioniera nelle nuove frontiere della finanza dovesse tenere nascoste le sue armi, cercando di non far scoprire ai

competitor come usare i computer per fare affari in borsa. David Shaw era cresciuto agli albori dell’era dei supercomputer. Dopo un dottorato in informatica a

Stanford, nel 1980, si trasferì a New York per insegnare nel dipartimento di Informatica della Columbia. Nei

primi anni Ottanta, varie aziende high-tech cercarono di attirarlo nel settore privato. L’inventore Danny Hillis,

fondatore dell’azienda di supercomputer Thinking Machines Corporation e in seguito uno degli amici più stretti

di Jeff Bezos, riuscì quasi a convincere Shaw a lavorare per lui progettando computer paralleli. Sulle prime

Shaw accettò, ma poi cambiò idea: disse a Hillis che voleva fare qualcosa di più redditizio, e poteva sempre

tornare a lavorare con i supercomputer dopo essere diventato ricco. Hillis ribatté che, se anche Shaw fosse

diventato ricco – e sembrava improbabile – non sarebbe mai tornato all’informatica. (E invece Shaw ci tornò,

dopo essere diventato miliardario, e delegò ad altri la gestione di D. E. Shaw.) «Mi sono sbagliato di grosso su

entrambi i fronti», ammette oggi Hillis. Alla fine fu Morgan Stanley a strappare Shaw al mondo accademico, nel 1986, inserendolo in un

prestigioso gruppo che lavorava sul software di arbitraggio statistico per il nuovo sistema di trading

automatizzato. Ma Shaw aveva voglia di mettersi in proprio. Nel 1988 lasciò Morgan Stanley e, con un fondo di

avviamento da 28 milioni fornito dall’investitore Donald Sussman, aprì bottega nel West Village, a Manhattan,

in un palazzo al cui piano terra aveva sede una libreria comunista. Fin dall’inizio D. E. Shaw si presentò come un nuovo tipo di azienda di Wall Street. Shaw non reclutò

esperti di finanza, ma scienziati e matematici: persone di spiccata intelligenza e dal background insolito, con

prestigiose credenziali accademiche e una certa goffaggine nei rapporti sociali. Bob Gelfond, che entrò in

DESCO dopo che l’azienda si era trasferita in un loft di Park Avenue South, racconta: «David voleva applicare

alla finanza in modo scientifico il potere della tecnologia e dei computer; ammirava Goldman Sachs e voleva

costruire un’azienda capace di entrare nella storia di Wall Street.» David Shaw era molto esigente con i dipendenti. A più riprese comunicò che era obbligatorio scrivere il

nome dell’azienda con uno spazio tra la D. e la E. Enunciò inoltre una precisa mission aziendale: «Lo scambio

di azioni, obbligazioni, futures, opzioni e vari altri strumenti finanziari», da elencare precisamente in

quest’ordine. Il rigore di Shaw si estendeva anche a questioni più concrete: ciascuno dei suoi informatici poteva

suggerire idee per il trading, che però dovevano essere sottoposte a rigorosi studi scientifici e analisi statistiche

per dimostrare di essere valide. Nel 1991 D. E. Shaw era in una fase di rapida crescita, e si trasferì agli ultimi piani di un grattacielo di

Midtown a un isolato di distanza da Times Square. Gli uffici dell’azienda, eleganti ma sobri, progettati

dall’architetto Steven Holl, comprendevano un atrio a due piani in cui fasci di luce uscivano da fenditure

praticate sulle grandi pareti bianche. Quell’autunno, Shaw organizzò una raccolta di fondi per il candidato alla

presidenza Bill Clinton, con quote di iscrizione da mille dollari a testa, cui partecipò tra gli altri Jacqueline

Onassis. Ai dipendenti quella sera fu chiesto di lasciare libero l’ufficio. Jeff Bezos, uno dei vicepresidenti più

giovani, se ne andò a giocare a volley con i colleghi, ma prima si fermò a farsi scattare una foto con il futuro

presidente. Bezos aveva ventinove anni, era alto un metro e settantatré, stava già perdendo i capelli e aveva l’aspetto

pallido e scarmigliato di uno stakanovista di natura. Era a Wall Street da sette anni e impressionava tutti con il

suo intelletto vivace e la sconfinata determinazione. Dopo la laurea a Princeton nel 1986, Bezos aveva lavorato

per due docenti della Columbia in un’azienda di nome Fitel, che stava sviluppando una rete informatica privata

e transatlantica destinata agli operatori di borsa. Graciela Chichilnisky, cofondatrice e diretto superiore di Bezos,

lo ricorda come un dipendente capace e pieno di energia, che lavorava instancabilmente e per vari periodi

diresse le attività dell’azienda a Londra e a Tokyo. «Non gli importava delle opinioni altrui», ricorda

Chichilnisky. «Se gli presentavi un problema teorico interessante, ci rifletteva e lo risolveva.» Nel 1988 Bezos si trasferì alla società finanziaria Bankers Trust, ma a quel punto, irritato dalla riluttanza

dell’azienda a mettere in questione lo status quo, era già alla ricerca di un’occasione per fondare un’impresa

propria. Tra il 1989 e il 1990 lavorò nel tempo libero a una startup insieme a un giovane dipendente di Merrill

Lynch di nome Halsey Minor, che in seguito avrebbe fondato il network di notizie online CNET. Il loro

progetto, che puntava a inviare via fax una newsletter personalizzata agli utenti, collassò quando Merrill Lynch

ritirò i finanziamenti promessi. Ma Bezos riuscì comunque a fare buona impressione. Minor ricorda che Bezos

aveva studiato a fondo la storia di alcuni ricchi industriali, e ammirava in particolare un uomo di nome Frank

Meeks, un imprenditore della Virginia che aveva fatto una fortuna con le pizzerie in franchising Domino’s.

Stimava anche il pioniere dell’informatica Alan Kay, e citava spesso una sua frase: «Un punto di vista vale

ottanta punti di quoziente intellettivo». Quell’osservazione gli rammentava che un’ottica innovativa può

stimolare la conoscenza. «Imparava da tutti», ricorda Minor. «Non penso che Jeff abbia mai conosciuto

qualcuno senza trarne una lezione.» Bezos era pronto a lasciare Wall Street quando un cacciatore di teste lo convinse a incontrare i dirigenti di

un’altra società finanziaria, un’azienda dal pedigree insolito. In seguito Bezos avrebbe detto di aver trovato in

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David Shaw un’anima gemella: «Una delle poche persone che io conosca con entrambi gli emisferi del cervello

pienamente sviluppati.»2

In DESCO, Bezos diede prova di molte delle idiosincrasie che i suoi dipendenti avrebbero in seguito

osservato in Amazon. Era disciplinato e puntiglioso, e si appuntava continuamente le idee su un quaderno che

portava con sé, come se temesse di dimenticarle. Era sempre pronto a scartare le vecchie idee e ad adottarne di

nuove, allorché si presentavano opzioni migliori. Aveva già lo stesso entusiasmo infantile e la risata spiazzante

che ben presto tutto il mondo avrebbe conosciuto. Bezos ragionava in modo analitico su qualsiasi tema, comprese le interazioni sociali. All’epoca era single,

e iniziò a frequentare un corso di ballo calcolando che quel contesto avrebbe aumentato la sua esposizione a «n+

donne». Con una dichiarazione rimasta celebre, ammise di puntare a un incremento del suo «flusso di

donne»:3 un corollario al deal flow, che nel gergo di Wall Street indica il numero di nuove proposte ricevute da

un investitore. Jeff Holden, che ha lavorato per Bezos prima in D. E. Shaw e poi in Amazon, lo definisce «la

persona più introspettiva che abbia mai conosciuto. Era molto metodico in ogni aspetto della sua vita.» In D. E. Shaw non c’era l’atmosfera di formalità tipica di altre aziende di Wall Street; perlomeno in

apparenza era più simile a una startup della Silicon Valley. I dipendenti indossavano jeans o khaki anziché

giacca e cravatta, e la struttura gerarchica era orizzontale (benché le informazioni cruciali sulle formule di

trading fossero gelosamente custodite). Bezos sembrava adorare l’idea della giornata di lavoro non-stop: teneva

un sacco a pelo arrotolato in ufficio e del polistirolo sul davanzale, prevedendo di dover restare a dormire in

ufficio. Nicholas Lovejoy, un collega che poi l’avrebbe seguito in Amazon, ritiene che il sacco a pelo «servisse

più che altro a fare scena, e venisse usato di rado». Bezos e i colleghi si frequentavano anche fuori dall’ufficio:

giocavano a backgammon o a bridge fino a tarda notte, di solito per soldi. Man mano che l’azienda cresceva, David Shaw iniziò a chiedersi come reclutare nuovi talenti. Non si

limitò a matematici e scienziati ma andò in cerca di quelli che definiva «generalisti»: neolaureati con il massimo

dei voti e particolarmente dotati per certe discipline. Passò in rassegna anche i ranghi del Programma Fulbright e

gli studenti con la media di voti più alta nei migliori college, e inviò centinaia di lettere in cui presentava

l’azienda e proclamava: «Il nostro processo di selezione del personale è dichiaratamente elitario.» Tra chi rispondeva alla lettera, agli studenti con la media più alta e i punteggi più elevati nei test

attitudinali veniva pagato un volo aereo per New York, dove erano sottoposti a una fitta giornata di colloqui. I

dipendenti dell’azienda si divertivano a porre ai candidati domande assurde, del tipo: «Quanti fax esistono negli

Stati Uniti?» L’obiettivo era vedere come i candidati cercavano di risolvere problemi difficili. Dopo i colloqui,

tutti i selezionatori si riunivano ed esprimevano un giudizio di quattro possibili su ogni candidato: «da non

assumere», «tendenzialmente da non assumere», «tendenzialmente da assumere», «da assumere». Bastava un

voto contrario per affossare una candidatura. In seguito Bezos avrebbe impiegato a Seattle questi processi, insieme ad altre tecniche di management di

Shaw; e ancor oggi i dipendenti di Amazon usano questa classificazione per decidere l’assunzione di un

candidato. L’imponente impresa di selezione del personale compiuta da DESCO e le tecniche usate nei colloqui

erano in perfetta sintonia con la mentalità di Bezos; e riuscirono anche ad attrarre una persona che sarebbe

diventata la sua compagna di vita. MacKenzie Tuttle, che si era laureata in letteratura inglese a Princeton nel

1992 studiando con la scrittrice Toni Morrison, entrò nel fondo hedge come assistente amministrativa e in

seguito lavorò alle dirette dipendenze di Bezos. Lovejoy ricorda che una sera Bezos noleggiò una limousine e

portò vari colleghi in un nightclub: «Offriva da bere a tutti, ma era chiaramente concentrato su MacKenzie.» In seguito MacKenzie ha raccontato che era lei a puntare Bezos, non il contrario. «Il mio ufficio era vicino

al suo, e per tutto il giorno ascoltavo quella favolosa risata», ha dichiarato a Vogue nel 2012. «Come si fa a non

innamorarsi di quella risata?» Iniziò il suo corteggiamento invitandolo a pranzo. I due si fidanzarono tre mesi

dopo aver iniziato a frequentarsi; e dopo altri tre mesi erano sposati.4 Al matrimonio, che si tenne nel 1993 al

Breakers, un resort di West Palm Beach, si svolsero una serie di giochi per gli ospiti adulti e una festa a tarda

sera nella piscina dell’albergo. In rappresentanza di D. E. Shaw furono invitati Bob Gelfond e un

programmatore di nome Tom Karzes. DESCO cresceva in fretta e diventava sempre più difficile da gestire. Vari colleghi dell’epoca ricordano

che l’azienda incaricò un consulente di management di sottoporre al test di personalità Myers-Briggs tutti i

dirigenti. Com’era prevedibile, risultarono essere tutti introversi. La persona meno introversa del team era Jeff

Bezos. In D. E. Shaw, nei primi anni Novanta, era considerato l’estroverso del gruppo. In DESCO, Bezos si rivelò molto portato per la leadership. Nel 1993 diresse a distanza il gruppo che si

occupava del trading di opzioni e che lavorava a Chicago; successivamente seguì l’ingresso dell’azienda nel

business del terzo mercato, un mercato non regolamentato che permetteva agli investitori nel settoreretail di

scambiare titoli senza le commissioni richieste dallo Stock Exchange di New York.5 Brian Marsh, un

programmatore dell’azienda che successivamente avrebbe lavorato in Amazon, ricorda che Bezos era

«estremamente carismatico e persuasivo riguardo il progetto del terzo mercato. Era chiaro che avevamo di

fronte un grande leader.» Ma la divisione di Bezos doveva affrontare problemi continui: il soggetto dominante

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in quel settore era un certo Bernard Madoff (ideatore di un gigantesco schema Ponzi che sarebbe collassato nel

2008), la cui divisione di terzo mercato era stata una delle prime ad affermarsi e conservava una posizione di

market leader. Dalle finestre dei loro uffici Bezos e i suoi potevano vedere la sede di Madoff, al Lipstick

Building, nell’East Side. Se il resto di Wall Street considerava D. E. Shaw un hedge fund che custodiva gelosamente i suoi segreti,

l’azienda invece vedeva se stessa in termini un po’ diversi. David Shaw considerava la sua azienda non

propriamente un fondo hedge, ma un versatile laboratorio tecnologico pieno di innovatori e informatici di

talento, in grado di applicare le risorse informatiche a una vasta gamma di problemi.6 Gli investimenti erano

solo il primo degli ambiti nei quali l’azienda avrebbe sfruttato le competenze di cui disponeva. Così, nel 1994, quando i primi osservatori iniziarono a intuire le opportunità create da Internet, Shaw si

convinse che la sua azienda fosse nella posizione ideale per sfruttarle. E la persona che incaricò di guidare il

progetto fu Jeff Bezos. D. E. Shaw aveva tutto il necessario per trarre vantaggio da Internet. La maggior parte dei dipendenti non

usava terminali di trading proprietario, ma postazioni di lavoro Sun con accesso alla rete, che utilizzavano i

primi strumenti di Internet come Gopher, Usenet, l’email e Mosaic, uno dei primi browser. Per scrivere

documenti usavano uno strumento di formattazione impiegato in ambito accademico, LaTeX, di cui però Bezos

diffidava perché lo riteneva inutilmente complesso. D. E. Shaw fu anche una delle prime aziende di Wall Street

a registrare un dominio Web: gli archivi di Internet mostrano che Deshaw.com risale al 1992. Goldman Sachs

avrebbe registrato il suo dominio nel 1995 e Morgan Stanley un anno dopo. Shaw, che aveva usato Internet e il suo predecessore ARPANET quand’era docente universitario, era

molto interessato alle implicazioni commerciali e sociali di una rete globale di computer. Bezos aveva avuto il

suo primo incontro con Internet durante una lezione di astrofisica a Princeton, nel 1985, ma non aveva riflettuto

sul suo potenziale commerciale finché non era arrivato in DESCO. Shaw e Bezos si incontravano alcune ore alla

settimana per generare nuove idee sul futuro della tecnologia, e poi Bezos indagava sulla possibilità di tradurre

quelle idee in realtà.7

All’inizio del 1994, dalle discussioni tra Bezos e Shaw e altri in D. E. Shaw emersero vari business plan

premonitori, uno dei quali era l’idea di un servizio email per utenti privati, gratuito e finanziato dalla pubblicità:

l’idea alla base di Gmail e Yahoo Mail. DESCO avrebbe sviluppato quell’idea fondando un’azienda di nome

Juno, che si quotò in borsa nel 1999 e poco dopo si fuse con la rivale NetZero. Un’altra idea consisteva nel creare un nuovo servizio finanziario che permettesse agli utenti di Internet di

avere accesso a servizi di trading online. Nel 1995 Shaw la trasformò in una controllata di nome FarSight

Financial Services, antesignana di aziende come E-Trade. In seguito la vendette a Merrill Lynch. Shaw e Bezos discussero anche di un’altra idea. La battezzarono «everything store – il negozio che vende

tutto». Vari dirigenti DESCO dell’epoca ricordano che l’idea dell’«everything store» era semplice: un’azienda Internet

che fungesse da intermediario fra clienti e produttori, e vendesse quasi ogni categoria di prodotto in tutto il

mondo. Un elemento importante della visione originaria era che i clienti potessero lasciare valutazioni scritte dei

prodotti: una versione più egualitaria e attendibile delle vecchie recensioni dei fornitori nel catalogo

Montgomery Ward. Lo stesso Shaw espresse l’idea del negozio su Internet quando dichiarò al New York Times

Magazine nel 1999: «L’idea è sempre stata che qualcuno potesse trarne un profitto come intermediario. La

domanda cruciale è: chi sarà quest’intermediario?»8

Bezos trovò interessante che Shaw fosse certo dell’inevitabile ascesa di Internet e iniziò a studiarne lo

sviluppo. Un autore ed editore del Texas di nome John Quarterman aveva recentemente fondato Matrix

News, una newsletter mensile che parlava di Internet e delle sue possibilità commerciali. Nel numero di febbraio

del 1994 apparve una serie di cifre impressionanti. Per la prima volta Quarterman esaminava la crescita del

World Wide Web, che all’epoca aveva un anno di vita, e faceva osservare che la sua interfaccia semplice e

usabile attirava un pubblico molto più vasto rispetto ad altre tecnologie Internet. In un grafico mostrava che il

numero di byte – una serie di cifre binarie – trasmessi via Web era aumentato di un fattore 2057 tra gennaio

1993 e gennaio 1994. Un altro grafico mostrava che il numero di pacchetti – singole unità di dati – trasmessi via

Web era aumentato di un fattore 2560 nello stesso arco di tempo.9

Da questi dati Bezos dedusse che l’attività complessiva sul Web era aumentata, quell’anno, di un fattore

2300 circa: ovvero un incremento del 230.000 per cento. «Non è normale che una cosa cresca così in fretta»,

avrebbe dichiarato poi Bezos. «È davvero insolito, perciò mi sono messo a riflettere. Quale business plan poteva

essere sensato nel contesto di quella crescita?»10

(Nei primi anni di Amazon, Bezos amava dire che a spronarlo

all’azione era stato il tasso di crescita annua «del 2300 per cento» del Web. Il che ci offre un interessante

aneddoto storico: Amazon è nata da un errore di calcolo.) Bezos giunse alla conclusione che un vero «negozio per vendere di tutto» sarebbe stato poco praticabile,

almeno all’inizio; stilò quindi una lista di venti possibili categorie di prodotto, tra cui software, forniture per

ufficio, abbigliamento e musica. La categoria che gli parve più promettente furono i libri. Erano merce pura:

tutte le copie di un libro presenti nei diversi negozi erano uguali tra loro, quindi gli acquirenti sapevano sempre

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cosa aspettarsi. All’epoca esistevano due principali distributori di libri, Ingram e Baker and Taylor, quindi un

nuovo rivenditore non avrebbe dovuto contattare una per una le migliaia di case editrici. E soprattutto, in tutto il

mondo c’erano tre milioni di libri in catalogo, ovviamente molti più di quanti potesse contenerne una iperlibreria

delle catene Barnes & Noble o Borders. Se non poteva costruire subito un vero «everything store», Bezos poteva però catturarne l’essenza –

l’assortimento illimitato – in almeno una categoria di prodotto. «Con quell’enorme varietà di prodotti si poteva

costruire un negozio online che semplicemente non sarebbe potuto esistere altrimenti», racconta Bezos. «Si

poteva costruire un vero superstore con un assortimento completo: e i clienti tengono molto alla vastità

dell’assortimento.»11

Nei suoi uffici al quarantesimo piano del palazzo al civico 120 della Cinquantacinquesima Ovest, Bezos

faticava a contenere l’entusiasmo. Assieme al direttore del personale di DESCO, Charles Ardai, studiò alcune

delle prime librerie online, come Book Stacks Unlimited, che aveva sede a Cleveland in Ohio, e WordsWorth, a

Cambridge nel Massachusetts. Ardai conserva ancora la fattura di un acquisto compiuto per mettere alla prova

quei primi siti. Comprò una copia di Isaac Asimov’s Cyberdreams dal sito della libreria Future Fantasy di Palo

Alto, in California. Il libro costava 6,04 dollari. Quando gli arrivò, due settimane dopo, Ardai strappò la

confezione e mostrò il libro a Bezos: si era rovinato parecchio nel trasporto. Nessuno aveva ancora scoperto

come vendere efficacemente i libri via Internet. Bezos intuì un’enorme occasione da sfruttare. Bezos sapeva che la nuova iniziativa non sarebbe mai stata pienamente sua se l’avesse fatta crescere

dentro D. E. Shaw. All’inizio l’azienda controllava interamente Juno e FarSight, e Shaw era presidente di

entrambe. Se Bezos voleva essere un vero imprenditore, con una percentuale significativa dell’azienda da lui

creata e la possibilità di centrare gli stessi obiettivi finanziari raggiunti da imprenditori come il magnate della

pizza Frank Meeks, doveva lasciare la sua confortevole e redditizia casa a Wall Street. Quel che accadde di lì in poi è diventata una delle leggende fondative di Internet. Quella primavera, Bezos

disse a David Shaw che meditava di lasciare l’azienda per fondare una libreria online. Shaw lo invitò a fare una

passeggiata con lui. Vagarono per due ore a Central Park, parlando dell’azienda e dell’impulso imprenditoriale

di Jeff. Shaw disse di capire la motivazione di Bezos e di condividerla, perché aveva fatto la stessa cosa quando

aveva lasciato Morgan Stanley. Osservò anche che D. E. Shaw stava crescendo rapidamente e che Bezos aveva

già un ottimo impiego. Gli disse che c’era il rischio che la sua nuova azienda si ritrovasse in competizione con la

vecchia. Bezos accettò di rifletterci per qualche giorno. Durante quel periodo di riflessione sul futuro, Bezos e sua moglie stavano registrando videointerviste a

vari membri della famiglia di MacKenzie, per un progetto di storia orale, e avevano appena intervistato il nonno

ottantenne di lei, che in famiglia era chiamato Granyan. Così, la riflessione sui momenti cruciali della vita era

tra i pensieri di Bezos quando ideò quello che definisce il «framework di minimizzazione dei rimpianti», che gli

servì per decidere il passo successivo della sua carriera. «Quando sei immerso in una situazione, rischi di lasciarti confondere dai dettagli», avrebbe dichiarato

qualche anno dopo. «Sapevo, per esempio, che a ottant’anni non mi sarei mai chiesto perché me ne fossi andato

da Wall Street a metà del 1994, nel peggior momento possibile dell’anno, rinunciando al bonus. Quel tipo di

cosa non ti turba, quando hai ottant’anni. Allo stesso tempo, sapevo che probabilmente mi sarei pentito di non

aver partecipato a quella cosa chiamata Internet, che prometteva di rivoluzionare il mondo. Quando iniziai a

rifletterci in quei termini... fu semplicissimo prendere la decisione.»12

I genitori di Bezos, Mike e Jackie, si avvicinavano alla fine di un soggiorno di tre anni a Bogotà, in

Colombia, dove Mike lavorava per Exxon come ingegnere petrolifero, quando ricevettero la telefonata. «Vuoi

vendere libri via Internet? In che senso?» fu la loro prima reazione, racconta Mike Bezos. Avevano usato il

servizio online Prodigy per tenersi in contatto con i familiari e per organizzare la festa di fidanzamento di Jeff e

MacKenzie, quindi a innervosirli non era la scarsa familiarità con la tecnologia, ma vedere il loro talentuoso

figlio che lasciava un impiego ben retribuito a Wall Street per inseguire un’idea apparentemente folle. Jackie

Bezos consigliò a suo figlio di occuparsi della nuova azienda di sera e nei fine settimana. «No, le cose stanno

cambiando in fretta», rispose Bezos. «Devo muovermi in fretta.» Così Jeff Bezos iniziò a pianificare il suo viaggio. Organizzò una festa nel suo appartamento dell’Upper West

Side per guardare l’ultimo episodio di Star Trek: The Next Generation. Poi prese un aereo per Santa Cruz, in

California, per incontrare due programmatori esperti che gli erano stati presentati da Peter Laventhol, il primo

dipendente di David Shaw. Mentre mangiavano pancake al mirtillo nell’Old Sash Mill Café di Santa Cruz,

Bezos riuscì a suscitare interesse in uno dei due, un veterano delle startup di nome Shel Kaphan. Bezos «era

animato dal mio stesso entusiasmo per ciò che stava succedendo con Internet», racconta Kaphan. Cercarono

insieme un ufficio a Santa Cruz, ma in seguito Bezos venne a sapere di una sentenza della Corte Suprema che

nel 1992 aveva rovesciato una precedente decisione secondo cui i rivenditori non dovevano richiedere il

pagamento dell’imposta sulle vendite negli Stati in cui non avevano una presenza fisica. Perciò, solitamente le

aziende di vendita per corrispondenza evitavano di aprire sedi in Stati popolosi come la California e New York:

e così avrebbe fatto anche Bezos.

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Tornato a New York, Bezos informò i colleghi che avrebbe dato le dimissioni da D. E. Shaw. Una sera

uscì a bere qualcosa con Jeff Holden, un neolaureato della University of Illinois at Urbana-Champaign che

aveva collaborato con lui al progetto sul terzo mercato. Erano buoni amici. Holden veniva da Rochester Hills,

nel Michigan, e da ragazzo era stato un hacker con il nome di battaglia di Nova: la sua specialità era rimuovere

la protezione del copyright dal software. Era appassionato di pattinaggio sui Rollerblade ed era molto loquace:

era dotato di una parlantina così sciolta che Bezos commentava scherzosamente: «Holden mi ha insegnato ad

ascoltare più in fretta». Quel giorno sedettero uno di fronte all’altro al Virgil’s, un ristorante-barbecue sulla Quarantaquattresima

strada. Bezos voleva chiamare la nuova azienda Cadabra Inc., ma non ne era ancora convinto fino in fondo.

Holden stilò una lista di alternative, coprendo entrambe le facciate di un foglio di quaderno. Il nome che piacque

di più a Bezos era MakeItSo.com («Proceda!»), il celebre tormentone del capitano Picard in Star Trek. Tra una birra e l’altra, Holden disse a Bezos che voleva lavorare con lui. Ma Bezos era preoccupato: il suo

contratto con D. E. Shaw stipulava che, se avesse lasciato l’azienda, non avrebbe potuto assumere dipendenti

DESCO per almeno due anni. David Shaw non era una persona che Bezos volesse inimicarsi. «Sei appena

laureato, hai dei debiti da pagare. E il mio progetto è rischioso», disse Bezos. «Resta qui. Accumula un po’ di

quote societarie, e teniamoci in contatto.» Pochi giorni dopo, Bezos e MacKenzie impacchettarono tutto ciò che avevano in casa e dissero ai

traslocatori di mettersi in viaggio verso l’altro capo del Paese: avrebbero telefonato loro il giorno dopo per

comunicare la destinazione esatta. Presero un aereo per Fort Worth, in Texas, e ottennero in prestito dal padre di

Bezos una Chevrolet Blazer del 1988. Con quella partirono in direzione nordovest; sul sedile del passeggero

Bezos digitava proiezioni del fatturato su un foglio Excel, numeri che in seguito si sarebbero dimostrati molto

lontani dalla realtà. Non trovarono posto in un albergo della catena Motel 6 a Shamrock, in Texas, così si

accontentarono di un motel lungo la strada, il Rambler.13

Quando MacKenzie vide la stanza, decise di non

togliersi le scarpe. Il giorno dopo si fermarono al Grand Canyon e guardarono sorgere il sole. Lui aveva

trentun’anni, lei ventiquattro, e insieme stavano scrivendo un un racconto di storia imprenditoriale che sarebbe

rimasto scolpito nell’immaginazione collettiva di milioni di utenti Internet e di speranzosi fondatori di startup. Passò più di un anno prima che Jeff Holden avesse di nuovo notizie del suo amico. Bezos si era stabilito a

Seattle, e mandò a Holden un’email contenente il link a un sito, che ora si chiamava Amazon.com. Il sito era

spartano, composto quasi solo da testo. Holden acquistò alcuni libri e lasciò alcuni feedback. Passò un altro

anno, e infine, alcuni mesi dopo la scadenza della clausola contenuta nel contratto con David Shaw, il telefono

di Holden squillò. Era Bezos. «Il momento è arrivato. Funzionerà.»

______________________________ 2. Jeff Bezos, discorso al Lake Forest College, 26 febbraio 1998. 3. Leibovich, The New Imperialists, p. 84. 4. Rebecca Johnson, «MacKenzie Bezos: Writer, Mother of Four, and High-Profile Wife», Vogue, 20 febbraio

2013. 5. Ecco la preveggente descrizione offerta da Bezos dell’opportunità del terzo mercato a Investment Dealers’

Digest il 15 novembre 1993: «Volevamo qualcosa che differenziasse il nostro prodotto. Pensiamo che i clienti

desiderino fare tutto il loro shopping in un unico negozio.» 6. Michael Peltz, «The Power of Six», Institutional Investor (marzo 2009). «David Shaw considerava D. E.

Shaw “essenzialmente come un laboratorio di ricerca che, inoltre, compiva investimenti; e non come una società

finanziaria in cui, inoltre, alcuni dipendenti giocavano con le equazioni”.» 7. Leibovich, The New Imperialists, p. 85. 8. Peter de Jonge, «Riding the Perilous Waters of Amazon.com», New York Times Magazine, 14 marzo 1999. 9. John Quarterman, Matrix News. 10. Intervista a Jeff Bezos, Academy of Achievement, 4 maggio 2001. 11. Jeff Bezos, discorso al Lake Forest College, 26 febbraio 1998. 12. Jeff Bezos, discorso al Commonwealth Club of California, 27 luglio 1998. 13. Jeff Bezos, discorso all’American Association of Publishers, 18 marzo 1999.

Il Libro di Bezos

Messaggio pubblicato su Usenet, il 21 agosto 1994: Startup ben capitalizzata cerca sviluppatori C/C++/Unix di grande talento, che la aiutino a diventare una

pioniera del commercio via Internet. È richiesta esperienza nella progettazione e sviluppo di sistemi estesi e

complessi (ma gestibili), e il candidato ideale sarà quello in grado di farlo in circa un terzo del tempo che la

maggior parte degli esperti ritengono possibile. È richiesto un diploma di laurea, una laurea specialistica o un

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dottorato in Informatica o titolo equipollente. Ottime capacità comunicative sono essenziali. Una conoscenza

approfondita dei server Web e dell’HTML costituisce titolo preferenziale ma non è indispensabile.

Aspettatevi colleghi di talento, motivati, energici e interessanti. Il candidato dovrà essere disposto a trasferirsi

nella zona di Seattle (contribuiremo ai costi del trasferimento).

Il compenso includerà una significativa partecipazione azionaria.

Inviare CV e lettera di accompagnamento a Jeff Bezos.

Indirizzo postale:

Cadabra, Inc.

10704 N.E. 28th St.

Bellevue, WA 98004

La ricerca è da intendersi rivolta ad ambosessi.

«È più facile inventare il futuro che prevederlo.»

Alan Kay

Capirono subito che serviva un nome migliore. Le allusioni magiche di Cadabra Inc. erano troppo poco

riconoscibili, come fece osservare il primo avvocato di Bezos, Todd Tarbert, dopo la registrazione del marchio

nello Stato di Washington nel luglio 1994; e al telefono il nome suonava troppo simile a «cadaver». Così, alla

fine di quell’estate, dopo aver preso in affitto un ranch con tre camere da letto nel sobborgo di Bellevue a est di

Seattle, Bezos e MacKenzie iniziarono a fare brainstorming. Gli archivi di Internet mostrano che in quel periodo

i due registrarono i domini Awake.com, Browse.com eBookmall.com. Bezos valutò anche il nome Aard.com,

una parola olandese, per piazzarsi in cima all’ordine alfabetico degli elenchi di siti. Bezos e sua moglie si affezionarono anche a un’altra possibilità: Relentless. com (implacabile). Gli amici

lo trovavano un po’ sinistro, ma qualcosa in quel nome doveva aver accattivato Bezos: registrò il dominio a

settembre 1994 e lo conserva ancor oggi. Visitando Relentless.com si viene reindirizzati ad Amazon. Bezos scelse di fondare l’azienda a Seattle perché quella città aveva la reputazione di uno hub tecnologico

e perché lo Stato di Washington era relativamente poco popoloso (rispetto a California, New York e Texas),

perciò Amazon avrebbe dovuto chiedere il pagamento dell’imposta statale sulle vendite solo a una piccola

percentuale di clienti. Era ancora una zona periferica, più nota per il grunge rock che per l’imprenditoria, ma

Microsoft stava crescendo nella vicina Redmond e l’Università di Washington sfornava un flusso costante di

laureati in informatica. Seattle era inoltre vicina a uno dei due grandi distributori di libri: Ingram aveva un

magazzino a sei ore di macchina da lì, a Roseburg, in Oregon. E l’imprenditore locale Nick Hanauer, che viveva

da quelle parti e che Bezos aveva conosciuto di recente tramite un amico, gli consigliò Seattle. In seguito

Hanauer avrebbe presentato Bezos a importanti investitori. Quell’autunno Shel Kaphan arrivò da Santa Cruz con un camion pieno di effetti personali e si unì

ufficialmente a Bezos e sua moglie come dipendente fondatore di Amazon e responsabile tecnico. Kaphan era

cresciuto nella Bay Area di San Francisco e, da ragazzo entusiasta dei computer, aveva esplorato ARPANET, il

predecessore di Internet sviluppato dal Dipartimento della Difesa americano. Al liceo Kaphan aveva conosciuto

Stewart Brand, scrittore e attivista della controcultura, e l’estate dopo il diploma aveva trovato lavoro al Whole

Earth Catalog, l’influente guida di Brand agli strumenti e ai libri sul nuovo Illuminismo dell’era

dell’informazione. Con lunghi capelli da hippie e una folta barba, Kaphan lavorava al Whole Earth Truck Store

di Brand a Menlo Park, una biblioteca mobile che funzionava da servizio educativo itinerante. Si occupava della

contabilità e degli abbonamenti e impacchettava libri e cataloghi da spedire ai clienti. Dopo una laurea in matematica e dopo aver lavorato in modo discontinuo per dieci anni alla University of

California at Santa Cruz, Kaphan fu impiegato in un certo numero di aziende della Bay Area, tra cui la

sfortunata Kaleida Labs, joint venture Apple-IBM che sviluppava software per la riproduzione di contenuti

multimediali sui personal computer. Gli amici intuivano nella sua espressione sempre sofferta la delusione

provata per quelle esperienze. Quando arrivò a Seattle, Kaphan, com’era tipico del suo carattere, nutriva forti

dubbi sulle possibilità di successo della giovane startup. Iniziò subito a preoccuparsi del nome dell’azienda. «Un

tempo facevo parte di una piccola società di consulenze, il Symmetry Group, e al telefono la gente capiva

sempre Cemetery [cimitero]», racconta Kaphan. «Quando sentii parlare di Cadaver Inc., mi dissi: Oh no, non di

nuovo!» Ma Kaphan (che nel frattempo si era tagliato barba e capelli, si andava stempiando e aveva passato i

quarant’anni) trovò stimolante l’idea che Amazon potesse usare il Web per tradurre in realtà la visione del

Whole Earth Catalog e rendere disponibili in tutto il mondo la cultura e gli strumenti informativi. All’inizio Kaphan immaginò di dover scrivere del codice e che poi sarebbe tornato a Santa Cruz per

lavorare a distanza, quindi lasciò a casa metà della sua roba e si fermò per qualche giorno a Bellevue da Bezos e

MacKenzie mentre cercava una casa in affitto. Aprirono bottega nell’ex garage di Bezos, uno spazio chiuso

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senza isolamento termico e con una grossa stufa rotonda di ghisa nera al centro. Bezos costruì le prime due

scrivanie con porte di legno chiaro comprate da Home Depot per sessanta dollari: un atto che in Amazon

sarebbe diventato una leggenda di proporzioni quasi bibliche, come quella di Noè che costruisce l’arca. Alla fine

di settembre Bezos andò in auto a Portland, in Oregon, per frequentare un corso di quattro giorni sulla vendita di

libri sponsorizzato dalla American Booksellers Association, un sindacato di librai indipendenti. Nel seminario si

parlò di argomenti come la selezione dell’assortimento iniziale e la gestione del magazzino.14

Nel frattempo

Kaphan iniziò a cercare computer e database e imparò a progettare un sito: all’epoca, su Internet, ogni cosa

andava costruita da zero. Il tutto con un budget limitato: all’inizio Bezos finanziò personalmente l’azienda con

diecimila dollari in contanti, e nei successivi sedici mesi raccolse altri 84.000 dollari in prestiti senza interessi,

come testimoniano i documenti pubblici. Il contratto di Kaphan gli richiedeva di impegnarsi ad acquistare 5000

dollari in azioni al momento dell’ingresso in azienda. Rifiutò l’opzione di comprare altri 20.000 dollari in

azioni, perché aveva già accettato un dimezzamento dello stipendio per lavorare nella startup e avrebbe

guadagnato solo 64.000 dollari l’anno, come Bezos. «Sembrava tutto molto vago, in quella fase», racconta

Kaphan, che si considera cofondatore di Amazon. «Non c’era molto, a parte un tizio con una risata squillante

che costruiva tavoli con le porte nel suo ex garage, come mi aveva visto fare nel mio studio nella casa di Santa

Cruz. Correvo un grande rischio trasferendomi e accettando uno stipendio più basso; e quindi, pur avendo un

po’ di risparmi, non me la sentivo di investire più di quella cifra.» All’inizio del 1995 i genitori di Bezos, Jackie e Mike Bezos, investirono 100.000 dollari in Amazon. Il

datore di lavoro di Mike, Exxon, aveva coperto gran parte delle spese correnti della coppia quando Mike

lavorava in Norvegia, Colombia e Venezuela, quindi i due avevano messo da parte parecchi risparmi ed erano

disposti a spenderne una buona parte per il figlio maggiore. «Abbiamo visto il business plan, ma non ci abbiamo

capito molto», ricorda Mike Bezos. «Suonerà sdolcinato, ma volevamo scommettere su Jeff.» Bezos spiegò ai

genitori che c’era il 70 per cento di probabilità di perdere tutti i soldi. «Voglio che siate consapevoli dei rischi,

perché se fallisco voglio poter tornare lo stesso a casa per la festa del Ringraziamento.» Amazon era un’azienda familiare anche in un altro senso. MacKenzie, aspirante scrittrice, divenne la

prima contabile dell’azienda; gestiva l’amministrazione, staccava gli assegni e aiutava nella selezione del

personale. Per le pause caffè e le riunioni, i dipendenti andavano in una vicina libreria Barnes and Noble: un

paradosso che in seguito Bezos ha menzionato spesso nei discorsi e nelle interviste. Almeno all’inizio, non erano stakanovisti. Kaphan ricorda di essersi presentato alla casa di Bellevue una

mattina presto, a ottobre, e Bezos gli disse che avrebbero preso tutti il giorno libero per andare a fare trekking.

«Il tempo stava cambiando e le giornate si accorciavano», racconta Kaphan. «Eravamo in quella zona da poco e

non la conoscevamo ancora.» Bezos, MacKenzie e Kaphan percorsero in auto centoquindici chilometri fino al

monte Rainier e trascorsero la giornata a passeggiare sulla neve del maestoso vulcano che nelle giornate limpide

domina il panorama di Seattle. Più tardi, quell’autunno, assunsero Paul Davis, un programmatore inglese che aveva fatto parte dello staff

del Dipartimento di ingegneria informatica dell’Università di Washington. I colleghi di Davis erano così scettici

sul suo trasferimento in una libreria online non ancora aperta che organizzarono una colletta, raccogliendo pochi

dollari in un barattolo di caffè, per aiutarlo nel caso l’avventura finisse male. Davis raggiunse Kaphan e Bezos

nel garage, dove lavorò su server SPARCstation di Sun Microsystems, macchine che somigliavano a cartoni da

pizza e consumavano così tanta energia da far saltare ripetutamente l’elettricità in tutta la casa. Alla fine

dovettero far passare prolunghe arancioni da altre stanze per collegare i computer a circuiti diversi, rendendo

impossibile l’uso di un asciugacapelli o di un aspirapolvere in casa.15

«All’inizio non traboccavamo di quell’energia che solitamente si associa a una startup», ricorda Davis,

che ogni giorno andava a Bellevue in bicicletta con un paio di calzini in Gore-Tex sopra i pantaloni. «Eravamo

una pre-startup. C’eravamo solo io, Shel e Jeff in un ufficio, seduti intorno a un tavolo a stabilire come dividerci

il lavoro di programmazione.» Si prefiggevano di creare una libreria online migliore di quelle esistenti, per esempio Books.com, il sito

della libreria Book Stacks Unlimited di Cleveland. «Sembra assurdo, ma prima di tutto dovevamo capire come

fare meglio di quegli altri tizi», racconta Davis. «C’era già concorrenza. Jeff non aveva avuto un’idea del tutto

inedita.» In quel periodo l’azienda si chiamava ancora Cadabra, provvisoriamente. Ma a fine ottobre del 1994

Bezos sfogliò la lettera A del dizionario ed ebbe una rivelazione vedendo la parola Amazon. Il Rio delle

Amazzoni, il fiume più lungo della Terra; la libreria più grande della Terra.16

Una mattina entrò nel garage e

comunicò ai colleghi il nuovo nome dell’azienda. Registrò il nuovo dominio il 1° novembre 1994, e sembrava

non curarsi dell’opinione degli altri. «Non solo è il fiume più lungo del mondo, ma il secondo in classifica è

staccato di parecchio. Il Rio delle Amazzoni straccia tutti i concorrenti», spiega Bezos. Il garage di Bellevue sarebbe diventato il simbolo romantico della nascita di Amazon – gli esordi modesti tipici

di aziende leggendarie come Apple e Hewlett-Packard – ma l’azienda ebbe sede lì solo per pochi mesi. Mentre

Kaphan e Davis sviluppavano una primitiva versione beta del sito, Bezos iniziò a pensare di assumere altri

dipendenti; e per farlo doveva trovare una sede dall’aria professionale. Quella primavera si trasferirono in un

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piccolo ufficio sopra un negozio Color Tile nel quartiere industriale SoDo (a sud dello stadio Kingdome), vicino

al centro di Seattle. Amazon aprì il suo primo magazzino ufficiale in una parte del seminterrato di quel palazzo:

una stanza senza finestre di sessanta metri quadri che in passato era servita da sala prove per una band e aveva

ancora le parole Sonic Jungle scritte con la vernice spray su una porta dipinta di nero. Poco dopo Bezos e

MacKenzie lasciarono la casa di Bellevue e, nel tentativo di reimmergersi nell’energia cosmopolita della

vecchia vita a New York, si trasferirono in un appartamento di 270 metri quadri in Vine Street a Seattle, nel

quartiere alla moda di Belltown. Nella primavera del 1995, Bezos e Kaphan inviarono il link del sito in versione beta a qualche decina di

amici, parenti ed ex colleghi. Il sito era spartano, composto quasi solo da testo e adatto ai rudimentali browser e

alle lente connessioni dell’epoca. «Un milione di titoli, prezzi bassi ogni giorno», annunciava in testo azzurro e

sottolineato quella prima home page. Accanto c’era il logo, dall’aria amatoriale: una grande A su uno sfondo blu

marmorizzato con il disegno di un fiume che serpeggiava dentro e fuori dalla lettera. Il sito non era molto

invitante per chi fosse abituato a scartabellare tra gli scaffali di librerie e biblioteche. «Ricordo di aver pensato

che pochi clienti avrebbero apprezzato una cosa del genere», ricorda Susan Benson, il cui marito Eric era un ex

collega di Kaphan. Sarebbero diventati due dei primi dipendenti di Amazon. Kaphan invitò un ex collega, John Wainwright, a provare il servizio; e a Wainwright spetta l’onore di aver

fatto il primissimo acquisto: Concetti fluidi e analogie creative di Douglas Hofstadter, un libro di argomento

scientifico. Il suo account Amazon testimonia ancora la data di quell’ordine inaugurale: il 3 aprile 1995. Oggi

nel campus di Amazon a Seattle c’è un edificio intitolato a Wainwright. Il sito non era bello a vedersi, ma Kaphan e Davis avevano costruito molto in quei pochi mesi. C’era un

carrello virtuale, un metodo sicuro per comunicare il numero della carta di credito attraverso il browser, e un

rudimentale motore di ricerca che consultava i CD Rom «Books in Print», un catalogo dei libri in commercio

pubblicato da R. R. Bowker, il fornitore dei codici identificativi ISBN per i libri stampati negli Stati Uniti.

Kaphan e Davis svilupparono anche un sistema che permetteva agli utenti dei primi servizi online, come

Prodigy e AOL, di ottenere informazioni sui libri e inoltrare ordini via email, ma non fu mai implementato. Agli albori del Web, in un’epoca in cui gli strumenti erano primitivi e le tecniche erano in evoluzione

costante, quelle erano funzionalità all’avanguardia. Lo stesso standard HTML, la lingua franca del Web, aveva

appena cinque anni di vita, e i linguaggi moderni come JavaScript e Ajax dovevano ancora nascere. I primi

programmatori di Amazon scrivevano codice in Linguaggio C, e decisero di caricare il sito e il catalogo dei libri

in un database Oracle regolarmente in commercio, che ben presto avrebbe dovuto sopportare volumi di traffico

mai visti prima. Ogni nuovo ordine, in quei primi mesi, dava un brivido di gioia ai dipendenti Amazon. Quando un cliente

portava a termine un acquisto, sui computer di Amazon trillava una campanella: e tutti in ufficio si radunavano

per vedere se qualcuno di loro conosceva l’acquirente. (Nel giro di poche settimane la campanella iniziò a

suonare così spesso che si dovette disattivare il sistema.) A quel punto Amazon ordinava il libro a uno dei due

principali distributori pagando il prezzo standard all’ingrosso, pari al 50 per cento del prezzo di copertina. C’era ancora ben poco di scientifico nei metodi di distribuzione di Amazon. All’inizio l’azienda non

teneva un inventario: quando un cliente comprava un libro Amazon lo ordinava, il libro arrivava nel giro di

qualche giorno e Amazon lo immagazzinava nel seminterrato e poi lo spediva al cliente. Ci voleva in media una

settimana per evadere un ordine, e per i titoli più rari potevano volerci diverse settimane o più di un mese. Già allora Amazon otteneva un profitto molto basso sulla maggior parte delle vendite. Offriva fino al 40

per cento di sconto sui bestseller e sui libri inseriti in Spotlight, una funzionalità che ogni giorno presentava

titoli diversi, e il 10 per cento di sconto su altri titoli; le spese di spedizione partivano da 3,95 dollari per ordini

composti da un solo libro. Una delle prime difficoltà fu che i distributori imponevano ai rivenditori di ordinare un minimo di dieci

libri alla volta. Amazon non aveva ancora un volume di vendite sufficiente, e a Bezos piace raccontare come

risolse quel problema. «Abbiamo trovato una scappatoia. I loro sistemi erano programmati in modo tale da non

imporre di ricevere dieci libri, ma solo di ordinarne dieci. Perciò abbiamo scovato un rarissimo libro sui licheni,

che era presente nel loro catalogo ma era esaurito; e abbiamo iniziato a ordinare il libro che volevamo più nove

copie del libro sui licheni. Loro ci spedivano il libro che ci serviva e un biglietto con scritto: «Ci dispiace,

abbiamo terminato il libro sui licheni.»17

All’inizio di giugno Kaphan inserì una funzionalità di recensione, che aveva ideato e programmato in un

solo weekend. Bezos era convinto che su Amazon.com dovessero esserci più recensioni scritte dagli utenti

rispetto a qualsiasi altro sito: così i clienti sarebbero stati meno invogliati a frequentare altre librerie online.

Avevano discusso del rischio che quei contenuti generati dagli utenti, e non filtrati, potessero creare problemi

all’azienda; Bezos decise di monitorare attentamente le recensioni in cerca di materiale offensivo, anziché di

leggerle tutte prima di approvarne la pubblicazione. I dipendenti e i loro amici stilarono personalmente molte delle prime recensioni. Lo stesso Kaphan prese

da uno scaffale un libro destinato a un cliente, un memoir cinese intitolato Bitter Winds: A Memoir of My Years

in China’s Gulag. Lo lesse da cima a fondo e scrisse una delle prime recensioni.

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Naturalmente c’erano anche recensioni negative. Anni dopo, in un discorso, Bezos ha ricordato di aver

ricevuto una lettera infuriata da un dirigente di una casa editrice, secondo il quale Bezos non capiva che il suo

mestiere era vendere i libri, non stroncarli. «Avevamo idee molto diverse», racconta Bezos. «Quando ho letto

quella lettera ho pensato: noi non guadagniamo vendendo cose, guadagniamo quando aiutiamo i clienti a

prendere decisioni d’acquisto.»18

Il 16 luglio 1995 il sito andò online e divenne visibile a tutti gli utenti del Web. Man mano che si diffondeva il

passaparola, il piccolo team di Amazon si accorse di aver aperto una strana finestra sul comportamento umano.

Gli early adopter di Internet ordinavano manuali di informatica, raccolte delle strisce a fumetti

di Dilbert, manuali per riparare antichi strumenti musicali... e guide al sesso. (Il bestseller su Amazon in quel

primo anno fu How to Set Up and Maintain a World Wide Web Site: The Guide for Information

Providers [Come costruire e gestire un sito Web. Guida per i provider informatici], di Lincoln D. Stein.) Tra i clienti c’erano soldati americani di stanza all’estero e una persona in Ohio che scrisse dicendo di

abitare a cinquanta miglia dalla libreria più vicina, e che Amazon.com era un dono del cielo. Qualcuno ordinò

un libro di Carl Sagan dall’Osservatorio europeo meridionale in Cile – per testare il servizio, evidentemente – e

dopo averlo ricevuto inoltrò un secondo ordine richiedendo varie decine di copie dello stesso libro. Amazon

stava iniziando a sperimentare uno dei primi esempi di «coda lunga»: il grande numero di oggetti rari che

interessano a un numero relativamente basso di persone. Un giorno Paul Davis esaminò lo strambo assortimento

di libri ammassati sugli scaffali del seminterrato e con un sospiro lo definì «la libreria più piccola e più eclettica

del mondo». Nessuno era stato ancora assunto per imballare i libri; quando il volume di vendita aumentò e l’azienda

restò indietro con le spedizioni Bezos, Kaphan e gli altri iniziarono a scendere nel seminterrato ogni sera per

preparare i pacchi. Il giorno dopo Bezos, MacKenzie o un dipendente portavano le scatole al corriere UPS o

all’ufficio postale. Il lavoro di imballaggio era complesso e poteva protrarsi fino a tarda notte. I dipendenti assemblavano gli

ordini sul pavimento, avvolgendo i libri in un cartone autoadesivo che si incollava su se stesso ma non su altri

materiali. Quell’estate Nicholas Lovejoy, un ex dipendente di D. E. Shaw che aveva lasciato il fondo hedge per

insegnare matematica nei licei di Seattle, entrò in azienda part-time e diede l’ovvio suggerimento di portare nel

magazzino altri tavoli su cui imballare i libri. Questo piccolo aneddoto entrò rapidamente nel catalogo dei

jeffismi, e veniva ancora ripetuto vent’anni dopo: «Pensai che fosse l’idea più brillante che avessi mai sentito in

vita mia», ha detto Bezos in un discorso; ed evidentemente trovava la storia ancora molto divertente, perché l’ha

accompagnata con una sonora risata delle sue.19

Bezos incaricò Lovejoy di assisterlo nella selezione del personale, e gli chiese di portargli le persone più

intelligenti che conosceva: come David Shaw, anche Bezos voleva dipendenti con un quoziente intellettivo

elevato. Lovejoy portò quattro ex compagni di studi del Reed College, tra i quali Laurel Canan, un carpentiere

ventiquattrenne che voleva riprendere gli studi e specializzarsi nell’opera di Chaucer (non accadde mai). Canan

li aiutò a costruire i tavoli per impacchettare i libri, e quando entrò formalmente in azienda fu incaricato di

dirigere il magazzino. (Il proprietario dell’edificio aveva finalmente permesso ad Amazon di espandersi oltre la

stanza con la scritta Sonic Jungle e di occupare l’intero seminterrato.) Una delle prime cose che Canan fece

dopo essere stato assunto fu rinunciare al caffè. «Non puoi fare un lavoro del genere sotto caffeina. Devi farlo

sotto carboidrati.» Era un team eclettico che operava in circostanze insolite e in un ambiente complesso: insieme fecero i

primi timidi passi in quel fiume esotico chiamato Internet, e con grande sorpresa di tutti furono trascinati via

dalla corrente. La prima settimana dopo il lancio ufficiale ricevettero ordini per 12.000 dollari e spedirono 846

dollari di libri, come racconta Eric Dillon, uno dei primi investitori. La settimana successiva ricevettero ordini

per 14.000 dollari e ne spedirono per 7000. Insomma, fin dall’inizio dovettero lottare contro il tempo. Una settimana dopo il lancio, David Filo, un dottorando di Stanford, scrisse loro un’email per chiedere se

volevano apparire su un sito di nome Yahoo, che raccoglieva pagine interessanti scovate sul Web. All’epoca

Yahoo era uno dei siti più trafficati ed era l’home page di molti dei primi utenti di Internet. Naturalmente Bezos

e i suoi dipendenti avevano sentito parlare di Yahoo, e quella sera si sedettero a mangiare cibo cinese e a cercare

di capire se erano pronti per un’ondata di nuovi clienti, essendo già sommersi dagli ordini. Kaphan pensava che

fosse come «cercare di bere un sorso da un idrante dei pompieri».20

Ma decisero di farlo comunque e a un mese

dal lancio avevano venduto libri in tutti i cinquanta Stati e in quarantacinque nazioni estere.21

Ogni giorno il numero di ordini aumentava, e i tentacoli del caos – che sarebbe rimasto l’antagonista

perenne dell’azienda negli anni successivi – iniziarono a stringersi intorno alla giovane startup. Bezos ribadì che

Amazon doveva avere una policy di restituzione a trenta giorni, ma non c’era un sistema efficace di gestione dei

resi; l’azienda aveva una linea di credito ma sforava sempre il fido, e ogni volta MacKenzie doveva raggiungere

a piedi la vicina filiale della banca e staccare un assegno per riaprire il conto. Tom Schonhoff, che entrò in

azienda quell’estate dopo la laurea in informatica all’Università di Washington, ricorda che ogni mattina Bezos

portava un caffelatte in ufficio e si sedeva alla sua scrivania disordinata. Un giorno, il giovane CEO prese la

tazza sbagliata e bevve un sorso di latte vecchio di una settimana. Passò il resto della giornata a ripetere che

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temeva di dover andare in ospedale. Tutti lavoravano fino a tardi, faticando per tenersi in pari, e non dormivano

abbastanza. Il 9 agosto 1995 Netscape Communications, l’azienda nata dal pionieristico browser Mozilla, si quotò in borsa.

Il primo giorno le azioni salirono dal prezzo iniziale di 28 dollari a 75, e il mondo si accorse davvero che era

nato il World Wide Web. Mentre lui e i suoi dipendenti lavoravano fino a tarda sera, Bezos non smetteva mai di pensare a come

raccogliere nuovi finanziamenti. Quell’estate la famiglia Bezos, attingendo al trust della famiglia Gise (la

famiglia d’origine di Jackie), investì in Amazon altri 145.000 dollari.22

Ma l’azienda non poteva continuare ad

assumere personale e a crescere solo grazie ai risparmi di famiglia. Quell’estate Nick Hanauer – un uomo

estroverso che era una vera istituzione nella comunità imprenditoriale di Seattle, dove suo padre aveva fondato

una fortunata azienda produttrice di cuscini – aiutò Bezos a indire riunioni per sollecitare finanziamenti. Trovò

sessanta potenziali investitori: puntava a chiedere cinquantamila dollari a ciascuno sperando di raccoglierne un

milione.23

Durante le riunioni Bezos presentò un’immagine quantomeno ambigua del futuro di Amazon. All’epoca

l’azienda aveva un capitale di circa 139.000 dollari, 69.000 dei quali in liquidità. Aveva perso 52.000 dollari nel

1994 e ne avrebbe persi altri 300.000 quell’anno. A fronte di quegli esordi poco promettenti, Bezos avrebbe detto agli investitori che prevedeva 74 milioni

di dollari di fatturato entro il 2000 se le cose fossero andate moderatamente bene, e 114 milioni se fossero

andate molto meglio del previsto. (Fatturato netto effettivo del 2000: 1,64 miliardi di dollari.) Bezos prevedeva

inoltre che l’azienda sarebbe stata lievemente in attivo (perdite nette nel 2000: 1,4 miliardi). Voleva far valutare

la neonata azienda sei milioni di dollari: una valutazione aggressiva, di cui non si vedevano le motivazioni. E

disse agli investitori la stessa cosa che aveva detto ai suoi genitori: l’azienda aveva il 70 per cento di probabilità

di fallire. Gli investitori non potevano saperlo, ma avevano di fronte l’occasione di una vita. Quel ragazzo motivato

ed eloquente parlava con convinzione di come Internet avrebbe potuto offrire un’esperienza di shopping più

comoda rispetto ai grandi megastore in cui i commessi si disinteressavano dei clienti. Disse che l’azienda si

prefiggeva di personalizzare il sito per ogni acquirente, sulla base dei suoi acquisti precedenti. E profetizzò un

futuro che doveva sembrare incredibile: un giorno tutti avremmo usato Internet ad alta velocità, anziché con i

rumorosi modem dial-up, e l’infinito spazio disponibile sugli scaffali del Web avrebbe permesso di realizzare il

sogno dell’ «everything store»: un punto vendita con assortimento infinito. Bezos iniziò il giro di finanziamenti a Mercer Island, nella casa di Eric Dillon, un broker alto e biondo

molto amico di Hanauer. «Mi conquistò subito», racconta Dillon. «Era convinto di compiere una specie di

missione divina, e che prima o poi i soldi sarebbero arrivati. La vera incognita era: quell’uomo sapeva gestire

un’azienda? Non potevamo darlo per scontato. Naturalmente, un paio d’anni dopo mi sono detto: accidenti,

abbiamo scommesso sul cavallo vincente!» Bezos parlò anche con Bob Gelfond, un ex collega in D. E. Shaw. Gelfond chiese consiglio al suo scettico

padre, un uomo con una lunga carriera nell’editoria libraria e che aveva faticosamente tentato di convincere la

sua azienda a usare i personal computer. Suo padre sconsigliò l’investimento, ma Gelfond aveva visto Bezos

lavorare bene nel mondo degli hedge fund e decise di scommettere ugualmente sull’amico. «Un conto è avere

una buona idea, ma fidarsi che una persona sappia tradurla in pratica è tutt’altro paio di maniche», racconta. Molti altri dissero di no a Bezos. Hanauer e sua madre investirono, ma uno dei fratelli e il padre

rifiutarono. Tom Alberg, ex dirigente di McCaw Cellular, incontrò Bezos e rimase dubbioso perché amava

aggirarsi tra gli scaffali delle librerie. Ma qualche giorno dopo, quando non riuscì a trovare un libro di business

per suo figlio nella libreria di quartiere, cambiò idea e decise di investire. L’avvocato che aveva parlato

dell’affare ad Alberg invitò Bezos a tenere un discorso davanti a un gruppo di investitori che si incontravano

regolarmente all’elegante Rainier Club di Seattle; ma decise di non investire personalmente perché la

valutazione gli sembrava troppo alta. In seguito Bezos dichiarò alla rivista online della Wharton School: «Abbiamo ricevuto le solite risposte,

da parte di persone benintenzionate ma che in sostanza non credevano al business plan; semplicemente, non

pensavano che avrebbe funzionato.»24

Tra i fattori che destavano preoccupazione c’era la profezia di un

investitore, che dichiarò: «Se avrete successo, vi servirà un magazzino grande come la Biblioteca del

Congresso.» Todd Tarbert, il primo legale di Amazon, tira un gran sospiro quando ricorda il momento in cui dovette

decidere se sostenere personalmente l’azienda. Per la prima volta nella sua carriera voleva investire nell’azienda

di un cliente, e si assicurò un permesso scritto dall’Ordine degli avvocati dello Stato di Washington. Parlò anche

con suo padre della possibilità di ipotecare la fattoria che possedevano insieme. Ma poi il figlio di Tarbert

nacque prematuro, lui prese un mese di permesso dal lavoro e finì per non staccare mai quell’assegno da

cinquantamila dollari. Al ritorno di Tarbert, Bezos aveva già raccolto il milione di dollari desiderato, alla

valutazione leggermente più bassa di cinque milioni.

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Un giorno, alla fine del 1997, dopo l’Ipo di Amazon, Tarbert stava giocando a golf con suo padre. «Hai

presente quell’azienda, Amazon, che si è appena quotata?» chiese il padre. «Era di quella, che parlavamo?

Com’è andata a finire, poi?» «Sì, papà. È meglio se non te lo dico», rispose Tarbert. «Be’, quanto varrebbe oggi quell’investimento?» domandò il padre. «Almeno qualche milione.»

Alla fine di quell’estate, Nicholas Lovejoy disse a Bezos che voleva passare da un impiego part-time al tempo

pieno. Con sua sorpresa, il suo ex collega in D. E. Shaw rifiutò. Lovejoy lavorava solo trentacinque ore alla

settimana, giocava a ultimate frisbee, andava in kayak e usciva con la sua ragazza; mentre Bezos immaginava

per Amazon una cultura aziendale diversa, in cui i dipendenti lavoravano instancabilmente per costruire

un’azienda solida e aumentare il valore delle azioni in loro possesso. Lovejoy cercò di convincerlo, dicendosi

pronto a firmare per sessanta ore alla settimana come tutti gli altri, ma Bezos fu irremovibile. Gli chiese persino

di trovargli qualcuno da assumere a tempo pieno, un gesto che sembrò particolarmente crudele. Alla fine

Lovejoy gli consegnò una pila di curriculum, con il suo in cima. Fece appello anche a MacKenzie, Kaphan e

Davis, che riuscirono a far cambiare idea al capo. Negli anni successivi Lovejoy avrebbe svolto tutta una serie di

differenti mansioni in Amazon: programmò, scrisse recensioni, portò pacchi all’ufficio postale, e infine approdò

alla contabilità. Bezos pensava che il segreto del successo di Amazon fosse assumere solo i migliori. Per anni tenne

personalmente tutti i colloqui e chiese ai candidati la loro media dei voti al college. «Ogni persona che

assumiamo deve alzare l’asticella per la persona successiva, in modo che il patrimonio complessivo di talenti

tenda ad aumentare», dice: un jeffismo ricorrente. Questo approccio provocava molti attriti. Man mano che

cresceva, Amazon aveva sempre più bisogno di nuova forza lavoro e i primi dipendenti raccomandavano gli

amici, spesso bravi quanto loro. Bezos interrogava i candidati con le stesse domande assurde che si usavano un

tempo in D. E. Shaw, come: «Quante stazioni di servizio ci sono negli Stati Uniti?» Era un test per valutare il

modo in cui il candidato ragionava; Bezos non voleva la risposta giusta, ma che il candidato desse prova di

creatività ideando un sistema per arrivare alla soluzione. E se i candidati commettevano l’errore di dire che

volevano un equilibrio armonico tra lavoro e tempo libero, Bezos li scartava. Paul Davis era incredulo. Amazon all’epoca offriva circa sessantamila dollari l’anno di stipendio, stock

option di dubbio valore, un misero piano di assicurazione sanitaria con alti livelli di franchigia e ritmi di lavoro

sempre più frenetici. «Gli chiedevamo: come pensi di riuscire ad attrarre gente così brava in un’azienda che non

genera ricavi e non prevede di generarne?» ricorda Davis. «Non capisco quale sia il selling point della tua

proposta!»

Fine dell'estratto Kindle.

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