tracce e spunti bonaventuriani laudato si’1

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Antonianum XCI (2016) 819-857 TRACCE E SPUNTI BONAVENTURIANI NELLA LAUDATO SI’ 1 Summary: In proposing an “integral ecology”, Pope Francis refers specifically to Francis of Assisi, but also in a way to his “disciple,” Bonaventure, mentioned four times in the Encycli- cal: It is also thanks to the conceptual mediation accomplished by the Doctor Seraphicus, that the “St. Francis intuition” is shown to be uitful and is not reducible to “irrational romanticism”. e purpose of this study is to gain a deeper understanding of the importance of the four explicit references to Bonaventure found in the Encyclical and to suggest other pertinent Bonaventurian themes, in particular: “pietas”; the theory of the three worlds (major, minor, archetype); nature as a creature; the various types and directions of pro- gress; restatement (vs reductionism); recognition as gratitude; relationality (vs. relativi- sm); the good kind of caring and the bad one (“studiositas” vs. “curiositas”). Sommario: Nella proposta di “ecologia integrale”, Papa Francesco si richiama specifica- mente a Francesco d’Assisi, ma in qualche modo anche al suo “discepolo” Bonaventura, citato quattro volte nell’enciclica: anche grazie alla mediazione concettuale operata da 1 D’ora in poi LS. I testi bonaventuriani sono citati secondo l’edizione di Quarac- chi [Sancti Bonaventurae Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902 (in 10 volumi); le collazioni in Hexaëmeron sono citate per la prima recensione dalla editio maior; per la seconda recensione da Sancti Bonaventurae Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, edidit F. Delorme, Ad Claras Aquas 1934] con le se- guenti abbreviazioni (in ordine alfabetico): Brev – Breviloquium; Don – Collationes de septem donis Spiritus Sancti; Hex – Collationes in Hexaëmeron; HexD – Collationes in Hexaëmeron (reportatio edita da Delorme); InEccle – In Ecclesiasten; InIo – In Evan- gelium Ioannis; Itin – Itinerarium mentis in Deum; LegMa – Legenda maior; MyTrin Quaestiones disputatae de Mysterio Trinitatis; Parab – De Regno Dei descripto in para- bolis; Perf Ev – Quaestiones disputatae de perfectione evangelica; Red – De reductione ar- tium ad theologiam; Sent – Commentaria in Sententiarum libros; Solil – Soliloquium; TribQu – De tribus quaestionibus; TriVia – De triplici via. Le sequenza di numeri dopo la sigla indica le partizioni progressive del testo (i prologhi sono segnalati dallo zero). Le traduzioni italiane dei testi bonaventuriani sono mie. Le fonti non bonaventuriane comunemente note vengono semplicemente menzionate. Ringrazio Barbara Faes de Mottoni per l’invito a occuparmi di questo studio; Pavel Rebernik per i suggerimenti nel taglio da dare alla ricerca; e in modo particolare Andrea Fazio e Stefano Mecci per l’aiuto redazionale nella stesura del contributo.

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Page 1: TRACCE E SPUNTI BONAVENTURIANI LAUDATO SI’1

Antonianum XCI (2016) 819-857

TRACCE E SPUNTI BONAVENTURIANI NELLA LAUDATO SI’1

Summary: In proposing an “integral ecology”, Pope Francis refers specifically to Francis of Assisi, but also in a way to his “disciple,” Bonaventure, mentioned four times in the Encycli-cal: It is also thanks to the conceptual mediation accomplished by the Doctor Seraphicus, that the “St. Francis intuition” is shown to be fruitful and is not reducible to “irrational romanticism”. The purpose of this study is to gain a deeper understanding of the importance of the four explicit references to Bonaventure found in the Encyclical and to suggest other pertinent Bonaventurian themes, in particular: “pietas”; the theory of the three worlds (major, minor, archetype); nature as a creature; the various types and directions of pro-gress; restatement (vs reductionism); recognition as gratitude; relationality (vs. relativi-sm); the good kind of caring and the bad one (“studiositas” vs. “curiositas”).

Sommario: Nella proposta di “ecologia integrale”, Papa Francesco si richiama specifica-mente a Francesco d’Assisi, ma in qualche modo anche al suo “discepolo” Bonaventura, citato quattro volte nell’enciclica: anche grazie alla mediazione concettuale operata da

1 D’ora in poi LS. I testi bonaventuriani sono citati secondo l’edizione di Quarac-chi [Sancti Bonaventurae Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902 (in 10 volumi); le collazioni in Hexaëmeron sono citate per la prima recensione dalla editio maior; per la seconda recensione da Sancti Bonaventurae Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, edidit F. Delorme, Ad Claras Aquas 1934] con le se-guenti abbreviazioni (in ordine alfabetico): Brev – Breviloquium; Don – Collationes de septem donis Spiritus Sancti; Hex – Collationes in Hexaëmeron; HexD – Collationes in Hexaëmeron (reportatio edita da Delorme); InEccle – In Ecclesiasten; InIo – In Evan-gelium Ioannis; Itin – Itinerarium mentis in Deum; LegMa – Legenda maior; MyTrin – Quaestiones disputatae de Mysterio Trinitatis; Parab – De Regno Dei descripto in para-bolis; PerfEv – Quaestiones disputatae de perfectione evangelica; Red – De reductione ar-tium ad theologiam; Sent – Commentaria in Sententiarum libros; Solil – Soliloquium; TribQu – De tribus quaestionibus; TriVia – De triplici via. Le sequenza di numeri dopo la sigla indica le partizioni progressive del testo (i prologhi sono segnalati dallo zero). Le traduzioni italiane dei testi bonaventuriani sono mie. Le fonti non bonaventuriane comunemente note vengono semplicemente menzionate. Ringrazio Barbara Faes de Mottoni per l’invito a occuparmi di questo studio; Pavel Rebernik per i suggerimenti nel taglio da dare alla ricerca; e in modo particolare Andrea Fazio e Stefano Mecci per l’aiuto redazionale nella stesura del contributo.

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quest’ultimo, l’intuizione sanfrancescana si rivela feconda e non riducibile a “romanti-cismo irrazionale”. Lo scopo del presente studio è di approfondire la portata delle quattro tracce esplicite bonaventuriane citate nell’enciclica e di suggerire altri spunti bonaventu-riani pertinenti: in particolare, la “pietas”; la teoria dei tre mondi (maggiore, minore, archetipo); la natura come creatura e la sua leggibilità; i vari tipi e sensi di progresso; la riconduzione (vs riduzionismo); il riconoscimento come riconoscenza; la relazionalità (vs relativismo); la buona e la cattiva cura (“studiositas” vs “curiositas”).

Ispirazione “francescana” e mediazione concettuale “bonaventuria-na” nella ecologia integrale della Laudato si’

“Creatus sum: creati nihil a me alienum puto”.

Questo motto, parafrasi del più celebre motto dell’umanesimo clas-sico, formulato da Terenzio, potrebbe essere la sintesi dell’umanesimo propugnato da Papa Francesco nella sua enciclica Laudato Si’2: il proe-mio dell’enciclica, dopo aver introdotto il cantico delle creature di San Francesco, e in particolare il verso «Laudato si’, mi’ Signore, per sora no-stra matre terra, la quale ne sustenta et governa...», enuncia questo assio-ma programmatico: «niente di questo mondo ci risulta indifferente»3.

2 Cf. LS 141: «Ma nello stesso tempo diventa attuale la necessità impellente dell’umanesimo, che fa appello ai diversi saperi, anche quello economico, per una vi-sione più integrale e integrante. Oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con sé stessa, che genera un determinato modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente». Il “nuovo umanesimo” era stato così tratteggiato da Papa France-sco: «Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio» [Discorso al V Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015]. Un ottimo commento all’enciclica è cf. J.I. Kureethadam, I dieci comanda-menti verdi dalla “Laudato si’”, LDC, Leumann 2016.

3 LS 3. Si noti che qui Papa Francesco usa la parola “indifferente” nel senso nega-tivo oggi più comune, e non nel senso positivo ignaziano. Per il “disinteresse” cattivo, cf. LS 14, 91 e 117; per l’“indifferenza” cattiva e la “globalizzazione dell’indifferenza” cf. LS 14, 45, 52, 232 e 246. Papa Francesco sembra far leva sul paradosso di un “in-teressamento disinteressato”. Come infatti per Ignazio di Loyola l’indifferenza si con-notava positivamente, perché significa la vera libertà della volontà nei confronti dei suoi oggetti, così, similmente, per il Papa oggi si connota postivamente l’atteggiamento

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In che senso e su quali basi si può asserire questa solidarietà inter-creaturale, che esige un impegno di salvaguardia del creato? Papa Fran-cesco, che pure si riferisce all’ampia riflessione contemporanea sull’eco-logia, mette il suo progetto sotto l’ispirazione del santo di cui ha preso il nome, Francesco d’Assisi, ma anche del suo successore e biografo, San Bonaventura, citato quattro volte.

L’enciclica Laudato Si’ è dedicata alla “cura della casa comune”: così Papa Francesco riconduce anche grazie all’etimologia la problematica ecologica alla metafora (come nel primo capitolo della Genesi) di mondo come casa per l’uomo. A tale scopo richiama il messaggio biblico chia-mandolo “Vangelo della creazione”, utilizzando cioè il termine “Vange-lo” in un senso lato e per lui familiare 4: la teologia della creazione quindi non è solo il rimpianto per un’armonia perduta, ma l’annuncio di una bellezza ancora presente e possibile.

L’enciclica risulta articolata in un proemio, dedicato alla figura ispiratri-ce di Francesco d’Assisi, e sei capitoli, raggruppabili in tre sezioni, abbastanza corrispondenti al noto trinomio di “vedere, giudicare, agire”5: così nel primo capitolo si descrive il problema ambientale dal punto di vista umano; nel se-condo e terzo lo si valuta alla luce della Parola di Dio (rispettivamente come dovrebbe e potrebbe essere il mondo e perché invece si degrada); negli ultimi tre si propongono tre linee possibili di intervento pastorale, ossia una nuova concezione di ecologia, il dialogo a vari livelli sulle problematiche ecologiche e infine e soprattutto l’educazione a una spiritualità ecologica.

Il centro della proposta del Papa sta in un’ecologia a suo dire “inte-grale”. Per lui tale aggettivo è di grande importanza6: esso sottintende

disinteressato, in quanto caratterizzato dalla “limitazione degli interessi immediati”, ossia dalla gratuità. Da notare anche che accanto allo “scarto” (cattivo), che è lo spreco consumistico [cf. LS 16 e passim] l’enciclica, sebbene con altre parole, esalta al contra-rio un atteggiamento di dispendio disinteressato che possiamo definire come lo scarto (buono) della gratuità del dono [cf. LS 16 e passim]. Questa distinzione può essere arricchita dal confronto con l’interpretazione bonaventuriana dell’unzione di Betania [cf. InIo 12.3-13].

4 Così ad esempio aveva parlato, in Evangelii Gaudium, di “gioia del Vangelo” e successivamente, in Amoris Laetitia, di un “Vangelo della famiglia”.

5 Cf. Kureethadam, I dieci comandamenti verdi dalla “Laudato si’”, cit., che però propone una diversa ripartizione dei capitoli nelle tre componenti del trinomio.

6 Ad esempio lo si ritrova nella denominazione del nuovo Dicastero della Santa Sede dedicato al “servizio dello sviluppo umano integrale”, istituito il 17 agosto 2016

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che la dimensione naturale si apra a una dimensione culturale, sociale e ideale e che comunque ogni dimensione immanente trovi compimento pieno solo nella dimensione trascendente e sovrannaturale, gratuita, de-rivante cioè dal libero dono di Dio. Questa integralità va intesa non nel senso di un integralismo religioso, ma alla luce della celebre esortazione rivolta da Papa Francesco (parlando ai suoi confratelli gesuiti) a essere persone «dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore»7.

Fin dal proemio dell’enciclica, Papa Francesco addita in Francesco d’Assisi «l’esempio per eccellenza per la cura di ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità»8.

È a questo punto che si inserisce però il ruolo mediatore di Bona-ventura, che viene citato non solo in quanto biografo di Francesco, ma anche come suo “discepolo” (affermazione forte, dato che Bonaventura è entrato nell’Ordine dopo la morte di Francesco, divenendone il settimo successore come ministro generale) 9. Tenendo presente che nell’encicli-ca Bonaventura è citato un’altra volta come biografo di Francesco e altre due volte invece come teologo, già in questa prima citazione si evidenzia il senso della mediazione bonaventuriana.

Infatti, per tratteggiare l’esempio di San Francesco che si rapportava fraternamente a tutte le creature, il Papa cita prima la narrazione di Tom-maso da Celano e poi quella di Bonaventura: mentre però Tommaso da Celano si limitava a riportare che Francesco «invitava» anche le creatu-re irragionevoli

«a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione», invece Bonaven-tura interpretava lo stesso comportamento in chiave teologica: «conside-rando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella» [Legenda Maior, VIII, 6: FF 1145].

Solo a questo punto, il Papa conclude:

con il motu proprio Humanam Progressionem.7 Cf. Omelia del 3 gennaio 2014 nella Chiesa del Gesù di Roma. 8 LS 10. 9 LS 11.

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Questa convinzione non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale10.

In altre parole, le intuizioni dimostrano la loro autentica profon-dità quando possono stimolare la formulazione di concetti in grado di contenerle ed esprimerle e ispirare i comportamenti. In effetti il ruolo di Bonaventura fu proprio quello di tradurre la spiritualità francescana non solo in una solida visione teologica (proseguendo la strada già avviata da Antonio da Padova e poi dai primi maestri dell’Ordine), ma anche in una stabile organizzazione istituzionale. Occorre che dal semplice amo-re si passi allo studio, che è per così dire una forma consapevole di amore.

Possiamo forse trarne questa ipotesi di lavoro: i teologi odierni de-vono rapportarsi a questa enciclica e alle intuizioni di spiritualità eco-logica ivi contenute come Bonaventura si rapportò a Francesco e così elaborare una trama concettuale per una nuova teologia ecologica.

Lo scopo di questo contributo è di approfondire, alla luce dei te-sti bonaventuriani, la portata di queste quattro tracce bonaventuriane esplicite e di svilupparne (al di là della lettera sia dell’enciclica di Papa Francesco, sia dell’opera di Bonaventura, ma comunque nello spirito di entrambi) alcune suggestioni che possano contribuire a elaborare una più ricca teologia ecologica.

Prima traccia bonaventuriana: la “pietas” come radice dell’incrocio tra interdipendenza creaturale e umanità

Nel proemio dell’enciclica, come abbiamo detto, il Papa tratteggia la figura ispiratrice di Francesco attraverso la mediazione teologica di Bonaventura. Proviamo ora a leggerne il passo nella sua interezza, evi-denziandone il concetto centrale, ossia la “pietas” con tutte le sue impli-cazioni teoriche e pratiche:

La […] testimonianza <di Francesco> ci mostra anche che l’ecologia integrale richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’u-mano. Così come succede quando ci innamoriamo di una persona, ogni volta che Francesco guardava il sole, la luna, gli animali più piccoli, la sua

10 LS 11.

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reazione era cantare, coinvolgendo nella sua lode tutte le altre creature. Egli entrava in comunicazione con tutto il creato, e predicava persino ai fiori e «li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione» [Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco, XXIX, 81: FF 460]. La sua reazione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico, perché per lui qualsiasi creatura era una sorella, uni-ta a lui con vincoli di affetto. Per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto ciò che esiste. Il suo discepolo san Bonaventura narrava che lui, «considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora mag-giore e chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella» [Legenda Maior, VIII, 6: FF 1145]. Questa convinzione non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale, perché influisce sulle scelte che determinano il nostro comportamento. Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del domina-tore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio. D’altra parte, san Francesco, fedele alla Scrittura, ci propone di ricon-oscere la natura come uno splendido libro nel quale Dio ci parla e ci trasmette qualcosa della sua bellezza e della sua bontà: «Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore» (Sap 13,5) e «la sua eterna potenza e divinità vengono con-template e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rm 1,20). Per questo <Francesco> chiedeva che nel convento si lasciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le avrebbe ammirate potessero elevare il pensiero a Dio, autore di tanta bellezza. Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode11.

11 LS 11.

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Come avevamo già anticipato, se ne ricava questa proporzione: Bo-naventura sta a Francesco come la riflessione seconda sta all’intuizione o ispirazione originale. Il testo latino della Legenda maior recita:

Consideratione quoque primae originis omnium abundantiore pietate repletus, creaturas quantumlibet parvas fratris vel sororis appellabat no-minibus, pro eo quod sciebat ea unum secum habere principium12.

Occorre considerare che la Legenda è una biografia di Francesco organizzata perlopiù in ordine non diacronico, ma sincronico e siste-matico, tratteggiando cioè gli atteggiamenti caratteristici di Francesco. In questo caso, si sta parlando della pietas di Francesco grazie alla quale anche le creature irrazionali si disponevano bene a lui.

La “pietas”

Per Bonaventura la pietas è quell’atteggiamento, dono dello Spirito Santo, per cui la creatura ragionevole e libera torna alla propria origine, ossia a Dio Padre:

Naturalmente qualunque cosa tende alla propria origine: la pietra dall’alto verso il basso, e il fuoco verso l’alto, e i fiumi corrono al mare, l’albero continua la radice e le altre cose hanno continuità con la radice. Deiforme [conforme a Dio] è la creatura dotata di ragione, la quale può ritornare verso la propria origine attraverso la memoria, l’intelligenza e la volontà, e non è pia, se non si fonda di nuovo sulla propria origine. Perciò dico che la pietà non è niente altro che un pio sentimento, un pio affetto e una pia familiarità nei confronti della pia, prima e suprema origine13.

Sebbene ogni creatura debba tornare a Dio, solo l’umanità ha la ca-pacità di farlo consapevolmente e liberamente: il ruolo dell’umanità ri-mane quindi centrale, poiché è solo l’uomo a poter e dover essere “pio” e a diventare così “deiforme”.

In altre parole la pietà è l’atteggiamento filiale che rivolgendosi a Dio come Padre nella preghiera può scoprire gli altri esseri umani e in

12 LegMa 8.6. 13 Don 3.5.

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generale tutte le creature come fratelli e sorelle. Dunque, l’umanità, inse-rita in queste trame relazionali con le altre creature, non può porsi come dominatrice e sfruttatrice del creato; d’altra parte, in quanto dotata di ragione, che le permette di ricondurre tutto a Dio, mantiene un ruolo fondamentale nel creato.

Infatti occorre distinguere nel mondo un duplice ordine di even-ti e di cause: l’“ordine soltanto fatto” (ossia quello delle cause naturali, che, per dirla in termini odierni, agiscono solo in quanto “reagiscono”), e l’“ordine fatto e fattivo” (ossia quello dei soggetti umani, i quali in quanto corpi reagiscono come gli altri corpi naturali, ma in quanto do-tati di volontà libera, agiscono propriamente; cioè, come direbbe Kant, iniziando a loro volta una serie causale)14. La capacità causale umana è chiamata dai teologi “industria” (soprattutto nel senso della componen-te umana attiva della vita ascetica, ossia il “darsi da fare”, pur nel primato della componente passiva, ossia della recettività nei confronti della gra-zia). Proprio in virtù della capacità causale umana, il mondo naturale, costituito di “cose”, si dilata sviluppando quello che potremmo definire un “mondo nel mondo” (un po’ come, per Popper, a partire dal “mondo 1” si sviluppa il “mondo 2”): quello del linguaggio (letteralmente, “dei discorsi”) e quello delle istituzioni (letteralmente, “dei costumi”)15.

Perciò solo l’umanità può attingere alla consapevolezza della supre-ma e comune origine di tutte le cose, intesa non semplicemente come inizio, ma come “principio costantemente dominante” (come Heideg-ger tradurrebbe l’“archè”), che fonda dunque la rete comunionale di in-terdipendenza ordinata tra le creature.

Anzi, il cristianesimo stesso è per Bonaventura (che attinge a Paolo) “il mistero della pietà”16, ossia della figliolanza in Cristo. E la suprema regola della teologia cristiana sarà dunque “altissimamente e piissima-mente sentire di Dio”17.

È proprio dall’esercizio di questa pietà che per Bonaventura si può passare all’esercizio del dono di scienza e di quello di fortezza, ossia a una nuova modalità di conoscenza e azione. “Scientia ex pietate”: questo po-

14 Parab 43. 15 Hex 4.2-5.16 Cf. Don 3.6 (che cita 1Tm 2,1).17 Cf. Don 3.5.

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trebbe essere il motto della teologia bonaventuriana18; similmente, “actio ex pietate”: questo potrebbe essere il motto della teologia ecologica svi-luppata bonaventurianamente dalla Laudato Si’.

La fraternità è possibile solo se c’è una paternità e maternità: è per que-sto che ogni tentativo di stabilire relazioni fraterne nella società e in generale nel creato senza un devoto riferimento all’Origine è destinato a fallire19.

Vari tipi di “considerazione” fino alla visione integrale o “contuizione”

Ma il passo bonaventuriano della Legenda faceva riferimento anche alla consideratio, termine tecnico del vocabolario bonaventuriano per intendere lo sguardo della mente. Alla luce di altri testi 20, possiamo di-stinguere questa “considerazione” generale in tre diversi sguardi specia-li: la considerazione in senso stretto, o “considerazione scienziale”, degli oggetti conosciuti; la riflessione del soggetto conoscente su sé stesso e la speculazione verso altri soggetti; la contemplazione sapienziale del Prin-cipio stesso dell’essere e del conoscere, in vari gradi fino alla “contuizio-ne” di Lui nel mondo. La stessa teologia può essere studiata come una considerazione dei misteri di Dio nella storia, oppure come una ascesa al riconoscimento di Dio a partire dal mondo. L’espressione latina “con-tuitio” è estremamente forte: non è infatti possibile all’uomo in questa vita intuire direttamente Dio, ma semmai intuirlo come il necessario fondamento del mondo contingente, percepito in qualche modo (come direbbe Wittgenstein alla fine del Tractatus) “come un tutto”, e quindi come qualcosa di “misterioso”.

Meraviglia e umiltà, sobrietà e austerità, cura e spontaneità

Ecco perché per Bonaventura è necessaria la meraviglia e a poco vale l’“investigazione senza ammirazione” e “l’industria senza la pietà”21. Ora,

18 La “regula ex pietate” è individuata come l’assioma fondamentale della teolo-gia bonaventuriana da J.-G. Bougerol, Introduction à l’étude de Saint Bonaventure, Desclée, Tournai 1961; trad. it.: Introduzione a S. Bonaventura, LIEF, Vicenza 1988.

19 Cf. A.M. Baggio, Il principio dimenticato: la fraternità nella riflessione politolo-gica contemporanea, Città Nuova, Roma 2007.

20 Cf. Hex 4.3-5; 5.23-31. 21 Cf. Itin 0.4.

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Bonaventura per industria intendeva in generale la capacità umana di sviluppare il dato naturale, in particolare nella vita morale ed ascetica. Ma possiamo allargare questa considerazione a tutta l’attività (anche economica e tecnica) dell’umanità (come nel senso moderno della paro-la “industria”) e così ritornare all’enciclica: lo sviluppo umano che non tenga conto della interdipendenza tra creature è controproducente.

Ecco anche perché ridurre la considerazione del mondo a una sem-plice considerazione oggettuale finisce per cosificarlo e manipolarlo in-debitamente. In questo modo Bonaventura può anche porre una diffe-renza tra scienza e sapienza: queste infatti si differenziano non tanto nei contenuti quanto nel modo di esercitare lo sguardo della mente (la stessa teologia infatti può essere scienza e sapienza). Inevitabilmente la scienza cosifica ciò che studia, assimilandolo al conoscente, mentre la sapienza assimila il conoscente al conosciuto. In fondo è la distinzione propo-sta nel Piccolo Principe tra conoscenza delle cifre, tipica dell’intelligenza adulta, e conoscenza dell’essenziale, tipica del “bambino”.

L’enciclica denuncia il pericolo insito in una considerazione solo oggettuale del mondo, che inevitabilmente diviene dominio dispotico. Non a caso per Bonaventura la porta della sapienza (ossia di una con-siderazione integrale della realtà con lo sguardo al Principio) è l’umil-tà: infatti solo il sapiente coglie la “nihilitas” di tutto ciò che esiste nel mondo (ossia la “nullità” degli enti, nel senso che sono creati dal nulla, esistendo per una libera scelta di Dio); e solo l’umile coglie teoricamente e praticamente la propria nullità, o meglio che tutto ciò che ha lo ha ri-cevuto 22. Da questa umiltà per Bonaventura derivano un diverso uso dei beni (“povertà” evangelica, ossia deliberatamente assunta come consiglio evangelico), un diverso uso della sessualità (“castità”, sia nella modalità del matrimonio, che del celibato o della vedovanza) e infine un diverso uso della propria libertà (“obbedienza” evangelica nei confronti dell’au-torità della Chiesa ed eventualmente di una regola di vita religiosa)23.

In effetti questo sembra essere il cuore teologico della spiritualità e della regola francescana: vivere secondo la forma del santo Vangelo senza nulla di proprio, quindi rendendo a Dio ogni bene. È interessante che secondo i biografi Francesco chiamasse “buono” solo Dio, applicando la

22 Cf. PerfEv 1 co. 23 Cf. PerfEv 2-4.

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famosa risposta di Gesù al giovane ricco; ma anche Bonaventura, sebbe-ne attraverso una trama concettuale risalente al neoplatonismo cristiano e non solo, dice che il nome supremo di Dio sia appunto Bene24.

Ma questo è anche il senso, per l’enciclica, della connessione di tre atteggiamenti: “la sobrietà e la cura” (ossia un retto rapporto con sé stessi e con le altre persone e cose), scaturenti dalla consapevolezza della comu-ne origine di tutto, e la specifica “povertà” o “austerità di San Francesco”, che arriva a cogliere che questa origine è “tutto il Bene”, ossia che Dio solo è essenziale. Ritornando al testo che stavamo commentando, la “pie-tà” come fondamento della interdipendenza fraterna delle creature vie-ne correlata con il riferimento alla più generale idea biblica del mondo come libro (di cui tratteremo in seguito). A tal fine vengono prevedibil-mente citate due classiche auctoritates bibliche (dal libro della Sapienza e dalla Lettera ai Romani).

Non deve passare inosservato, infine, il richiamo al volere di Fran-cesco di coltivare la natura, a patto di lasciarla anche crescere spontanea-mente. Il mistero di Dio quindi si rivela solo se l’azione umana non soffo-ca attraverso schemi rigidi e programmi esaustivi la rigogliosità della na-tura: anche quest’idea trova (come vedremo) un indiretto riscontro nella dottrina bonaventuriana delle “figure artificiali” (ossia strutture imposte dalla tecnica) che non possono sostituire però le “forme naturali”25.

Cura buona e cura cattiva (“curiositas” vs “studiositas”)

Viceversa, la cura fine a sé stessa delle creature diviene “curiositas”, fonte di ogni male e istinto dominatore 26. Discutendo sul peccato di Lu-cifero (di cui dovremo riparlare in seguito), Bonaventura si chiede quale sia il primo peccato, origine di tutti gli altri, e prende in considerazione l’odio, l’invidia, la superbia (presunzione, ambizione), la curiosità e di-stingue una cura buona e una cattiva:

Son due gli elementi per cui una considerazione sia detta “curiosa”, cioè l’attenzione di cura e la privazione di utilità. Perciò se il diavolo da tutte le cose che aveva guardato, avesse scelto il proprio bene, riferendo quelle cose

24 Cf. Itin 5.2 e 6.1. 25 Cf. Red 2 e 11-14. 26 Cf. Hex1.8-9, 1.17, 19.8-15.

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alla gloria di Dio, quella considerazione non sarebbe da definire né colpev-ole né curiosa. Che dunque sia stata “curiosa”, fu perché non aveva scelto il proprio bene, ma era incorso nel male dell’ambizione e della presunzione; e così in primo luogo la ragione del <suo> peccato fu nella presunzione […]27.

Anche in altre pagine Bonaventura oppone a quella cura che pos-siamo definire cattiva (perché unita a presunzione, invidia e odio) e che costituisce un vizio (quello di curiositas), una cura che invece è buona, una curiosità positiva, che Bonaventura chiama piuttosto “studiositas”28.

Intermezzo: suggestioni bonaventuriane su Natura, bene comune, beni comuni, casa comune, decorso, sfera

Apriamo una parentesi. Appurato il legame fra l’enciclica e il pensiero bonaventuriano, non dobbiamo però dimenticare che profondamente di-versi sono i rispettivi contesti, vocabolari, problemi. Occorre quindi adottare alcune accortezze e fornire alcune precisazioni. Ad esempio, l’enciclica dice:

Per la tradizione giudeo-cristiana, dire “creazione” è più che dire natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato. La natura viene spesso intesa come un sistema che si analizza, si comprende e si gestisce, ma la creazione può essere compresa solo come un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall’amore che ci convoca ad una comunione universale 29.

Ebbene, per Bonaventura “natura” è appunto sinonimo di “creatura”.

Natura come comunità ontologica

Proviamo quindi a riassumere alcune considerazioni lessicografiche sulla portata concettuale dei termini ‘natura’, ‘mundus’, ‘universus’ e affi-ni, nel vocabolario di Bonaventura30.

27 Sent 2.5.1.1 co e ad 6-7.28 Questa virtù, tipica soprattutto dei domenicani, fu da Bonaventura tradotta

anche in termini francescani: cf. Hex 1.8-9; 1.17; 19.1.27; TribQu 6-7 e 10-12. 29 LS 76. 30 Cf. A. Di Maio, Il vocabolario bonaventuriano per la Natura, in Miscellanea

Francescana, 88 (1988), p. 301-356; La dottrina bonaventuriana sulla Natura, ibid.,

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Tracce e spunti bonaventuriani nella Laudato si’ 831

Mentre per il lettore moderno il termine designa la sola natura fisica o il mondo dei viventi, per Bonaventura il lemma ‘natura’ (e analoga-mente l’aggettivo ‘naturalis’ che ne deriva) significherà cose diverse se la opponiamo a ‘persona’, o a ‘voluntas’, o ad ‘ars’, o a ‘gratia’: nel primo caso (dicendo ad esempio che in Dio c’è un’unica natura in tre persone), ‘na-tura’ significherà “comunanza ontologica” o “essenza”; nel secondo caso, ‘natura’ indicherà il campo di ciò che è condizionato ontologicamente o fisicamente, in opposizione al campo della libertà; nel terzo caso, ‘na-tura’ indicherà (all’interno del campo di tutto ciò che è condizionato fisicamente) l’insieme degli esseri viventi e non viventi che si producono e riproducono da sé, in opposizione al campo della produzione umana; infine, nel quarto caso, ‘natura’ indicherà il fondamento che l’uomo ha per creazione, ‘gratia’ invece ciò che gli è gratuitamente “superadditum”, e quindi “non dovuto” nell’ordine di creazione.

Ebbene, ‘natura’ ha come significato primo e più generale la nozione di ontologicamente comunicabile (ogni caratteristica o “qualità identifica-tiva” che possa esser comune a più soggetti o che possa essere comunicata da un soggetto a un altro). In questo senso, ‘natura’ è sempre opponibile a ‘res’ (intesa come soggetto ontologico incomunicabile, ossia irripetibi-le e compiuto) e in particolare a ‘persona’ (intesa come res di natura spi-rituale): così è soprattutto in Dio, la cui natura è comune alle tre divine persone. La natura così intesa è determinata almeno implicitamente da un aggettivo che ne esprime la “misura” ontologica; Bonaventura ne di-stingue fondamentalmente tre: la ‘natura divina’, la ‘natura spiritualis’, la ‘natura corporea’; menziona inoltre la ‘natura humana’ (in cui sono unite le due nature spirituale e corporea). Ad esempio, ‘natura humana’ signi-fica sia la “qualità” costitutiva che fa di un soggetto un essere umano, sia l’uomo concreto ma in generale (ossia non questo o quello), sia l’insieme collettivo di tutti gli uomini. Quindi, quando il termine ‘natura’ è usato in senso estensionale è perlopiù sinonimo di ‘genus’ o ‘species’; quando invece è usato in senso intenzionale, è quasi sinonimo di ‘essentia’31.

A volte poi il termine ‘natura’ è usato assolutamente e globalmente per intendere l’insieme della creazione; si riferisce così a tutto il reale

89 (1989), p. 335-392; La concezione bonaventuriana della Natura quale potenziale oggetto di Comunicazione, ibid., 90 (1990), p. 61-116.

31 Cf. Sent 3.5.2.2 ad sc 4; Hex 8.9.

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finito; più raramente si riferisce proprio al mondo fisico ed è sinonimo di ‘mundus’32. Si tenga presente che il significato che Bonaventura dà al termine ‘materia’ è diverso da quello tommasiano e moderno: essa indica non solo la materia in senso stretto (che Bonaventura chiama materia corporea), ma ogni potenzialità anche spirituale, come nell’anima uma-na e nelle creature angeliche. La natura corporea e quella spirituale pre-se globalmente insieme costituiscono la natura creata (spesso chiamata semplicemente ‘natura’, in senso sinonimo di ‘creatura’, ossia di Creato).

Insomma, tutto ciò che esiste o è Dio o promana da Dio; e ciò che pro-mana da Dio «o è natura o è grazia o è gloria»; e poiché per natura si inten-de non solo ciò che è innato ma anche ciò che da esso è prodotto, «tutto ciò che esiste o è dalla natura, o dalla ragione o dalla volontà» 33: ossia, a partire dal mondo delle “cose”, anche quello del linguaggio e dei costumi.

La natura e il suo centro: cosmocentrismo, antropocentrismo, teocentrismo o cristocentrismo?

L’enciclica da una parte stigmatizza l’antropocentrismo eccessivo e de-viato 34 che, fraintendendo e tradendo l’affidamento del creato all’umanità, è alla base della crisi ecologica; d’altra parte, non disconosce il ruolo centrale dell’umanità nell’universo. Bonaventura ha da dirci qualcosa al riguardo?

Nel Commento alle Sentenze, egli si chiede quale sia il principale fine delle realtà create, se la divina gloria o la nostra utilità; dopo ampia di-scussione conclude che è

per la sua gloria, non però per aumentarla, ma per manifestarla e co-municarla: nella cui manifestazione e partecipazione consiste la somma utilità della creatura, cioè la sua glorificazione o beatificazione35.

Bonaventura distingue due sensi di natura: «o della natura in quan-to mancante o in quanto perfetta»:

32 Cf. Hex 10.7; 1.19; 3.24; Itin 2.2: ma altro è il «maior mundus» (il macroco-smo, ossia l’universo fisico), altro invece il «minor mundus».

33 Hex 8.13 e 4.5. 34 Cf. LS 68-69; 115-121. 35 Sent 2.1b.2.1 co.

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la natura mancante si ricurva in sé; perciò desidera il proprio bene e dunque il proprio comodo. La natura perfetta invece è elevata in alto per amore di carità desidera molto più (oltre ogni misura) la gloria di Dio piuttosto che l’utilità propria36.

Come si vedrà, tutte queste finalità della natura si troveranno unifi-cate in Cristo, il quale divenne (metaforicamente) «centro della natura nell’incarnazione»37.

Quindi, né cosmocentrismo, né antropocentrismo, né teocentrismo, ma cristocentrismo: ecco perché una concezione meramente utilitaristi-ca della natura fisica è da rigettare. Potremmo oggi quasi dire che come per Kant la persona va trattata mai solo come mezzo ma anche come fine in sé, in un’ottica bonaventuriana anche le cose naturali e gli altri viventi possono essere usati dall’umanità per la propria utilità ma non utilitari-sticamente. Questa dottrina può ben supportare l’ecologia integrale di Papa Francesco che mentre propugna il rispetto proporzionato per tutte le realtà naturali, non arriva agli estremi di un certo ecologismo radicale che nega all’umanità ogni possibile utilizzo delle realtà viventi.

Casa comune

Per quanto riguarda il mondo come “casa comune” dell’uomo e di tutti gli enti naturali e in particolare viventi e gli altri animali, occorre considerare il commento bonaventuriano al primo capitolo della Gene-si 38: Dio infatti organizza il creato prima distinguendone gli ambienti, poi “arredandoli”, così come si fa con una casa.

Esseri umani e altri animali

L’enciclica fonda sullo sguardo benevolo di Francesco verso gli ani-mali e in generale i viventi una certa etica ecologica, che saggiamente

36 Sent 2.1b.2.1 ad 2.37 Hex 1.20. 38 Cf. in particolare Sent 2.15.2.1 ad 5: «animalia sua vita habitationem hominis

decorant et ornant»: cf. anche Brev 2.2-5. Cf. E. Cuttini, La responsabilità dell’uomo di fronte al mondo creato: le radici del problema nel pensiero di Bonaventura, relazione al convegno “La scuola teologica francescana del secolo XIII”, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma, 7-8 aprile 2016.

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non si esplica in una dichiarazione dei “diritti degli animali” (come alcu-ni esponenti di un ecologismo estremo propongono), ma semmai in una dichiarazione dei doveri umani verso i propri simili (presenti e posteri) e indirettamente tutti gli altri viventi, abitatori della casa comune.

Lo stesso Francesco, pur attento alla cura dei viventi, era ben lonta-no dagli eccessi di un “animalismo radicale” 39. Bonaventura poi è meno attento di Francesco alla problematica degli altri animali, tuttavia ci offre qualche spunto interessante: così, commentando il famoso passo dell’Ec-clesiaste sulla “non superiorità” degli esseri umani sugli altri animali, Bo-naventura da una parte ammette che tanto gli esseri umani quanto gli animali irrazionali vengono dalla terra e alla terra ritornano, intendendo per terra la “materia creata”; d’altra parte, ribadisce la diversità umana e interpreta l’affermazione dell’Ecclesiaste secondo cui gli esseri umani non sono superiori alle bestie e che comune è la loro sorte dicendo che «l’Ecclesiaste non nega né dubita» dell’immortalità dell’anima creduta per fede, ma «dice che questo è difficile da dimostrare»  40. Inoltre, a proposito del ciclo di vita e morte degli altri viventi e animali, Bonaven-tura dice che Dio aveva previsto già nel progetto creativo originale tale alternanza di generazioni, che però nella situazione edenica si sarebbe svolta serenamente, come la successione di sillabe in un canto, che avreb-be allietato l’uomo41.

39 Lo stesso Francesco aveva disposto che, qualora il Natale capitasse di venerdì, non si osservasse l’astinenza penitenziale dalle carni, ma che, per modo di dire, persino le mura del convento rimanessero impregnate del profumo della carne [cf. Tommaso da Celano, Vita seconda, 151].

40 InEccle 3.19 e questioni annesse. 41 «Ad illud quod obiicitur, quod homine stante, non debuerunt fieri animalia

mortalia; dicendum, quod sicut animalia sua vita habitationem hominis decorant et ornant, sic etiam morte sua ex successione faciunt ad universi decorationem. Et sicut animalia se invicem iuvantia sunt ratio sapientiae excogitandae, sic etiam animalia sese offendentia et de carnibus aliorum animalium nutrimentum sumentia; quia illa cor-ruptio aërem hominis non inficeret, qui eius odoratum offenderet, sed potius quadam successione et ordine, dum animalia sibi succederent, universum decorarent, tanquam pulcherrimum carmen, in quo syllaba succedit syllabae. Similiter, dum bestia aliud ani-mal comedendo occideret, in hominis habitatione discordiam non faceret, sed potius occasionem eruditionis homini praeberet» [Sent 2.15.2.1 ad 5].

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Bene comune e beni comuni

Nell’enciclica si utilizzano due diversi concetti di bene comune. Il primo è più tradizionale e intende il bene comune come il fine della co-munità umana 42. Il secondo concetto, moderno, è quello di “beni comu-ni”, come il clima o l’acqua o l’aria, ossia quegli elementi naturali necessa-ri alla sopravvivenza dell’umanità e dello stesso ecosistema43.

In Bonaventura troviamo in realtà solo il concetto di bene comune come fine della comunità umana: tuttavia poiché secondo lui tale bene va distinto in un bene esteriore o naturale, un bene interiore o civile e un bene superiore o spirituale, e che il bene esteriore, affidato al lavoro manuale, consiste nella trasformazione della natura corporea, possiamo ricavarne un possibile spunto per passare dall’idea di bene comune come fine all’idea di beni materiali comuni44.

La sfera infinita (vs la sfera centrata) e la risoluzione piena

L’enciclica fa professione di olismo, attraverso il principio secondo cui “il tutto è superiore alla parte” 45. Tale principio può trovare ulteriori spunti fondativi nel concetto bonaventuriano di resolutio plena 46: seb-bene le scienze risolvano la complessità risalendo a princìpi ed elementi parziali o “semipieni”, la sapienza deve puntare alla pienezza.

Non si capirebbe poi l’attenzione dell’enciclica alla mondialità pre-scindendo dal principio del primato delle periferie sul centro. A tale pro-posito, Papa Francesco afferma spesso che al modello della sfera (tutta perfettamente centrata) va preferito quello del poliedro irregolare  47. Questo però vale solo per la sfera e per il poliedro finiti. Probabilmente Papa Francesco avrebbe cambiato metafora se avesse conosciuto quella, bellissima e fatta propria da Bonaventura, della sfera infinita, il cui cen-

42 Cf. LS 156: «L’ecologia integrale è inseparabile dalla nozione di bene comune, un principio che svolge un ruolo centrale e unificante nell’etica sociale».

43 Cf. LS 23. 44 Cf. PerfEv 2.1 e 2.3 co; Hex 5. Nella situazione di “natura creata” in origine tutti i beni

erano comuni; solo come rimedio al peccato nella situazione di “natura corrotta” è necessaria la distinzione delle proprietà dei beni, che però va almeno tendenzialmente superata.

45 LS 141; cf. Evangelii Gaudium, 237. 46 Cf. Itin 3.3; Sent 1.28 ad db 1; Hex 11.10. 47 Cf. Evangelii Gaudium, 236.

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tro è dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo 48. In Dio infatti, e alla luce di Dio, tutto è centrale!

Decorso del mondo e progresso buono e cattivo

Già Papa Benedetto XVI aveva notato come, a differenza degli altri teologi del suo tempo, Bonaventura abbia volentieri accettato il carattere progressivo della storia, in un equilibrio che evitò sia l’utopismo anarchi-co (dei gioachimiti), sia il conservatorismo (dei maestri secolari avversari dei mendicanti): per lui, «le opere di Cristo non vengono meno, ma progrediscono» 49.

Ebbene, Papa Francesco utilizza costantemente un concetto teolo-gico di “progresso”: non importa a che punto si è (staticamente), ma in che direzione (dinamicamente) si sta andando. Questo principio è alla base sia della sua proposta di conversione pastorale (ad esempio nella reintegrazione ecclesiale di persone in condizioni irregolari), sia della sua proposta ecologica (non un rifiuto della tecnica, ma un’idea di pro-gresso integrale). Bonaventura potrebbe offrire spunti interessanti per corroborare questa intuizione: per lui la storia e la stessa filosofia sono una “via”; così lo stesso modo di filosofare, adottato dai filosofi greci an-tichi era per lui opportuno e ben direzionato; ma adottato dai suoi con-temporanei cristiani sarebbe stato un “volersi fermare” o “un cadere nel buio” e un “tornare indietro nella schiavitù d’Egitto”50.

Grido dei poveri e grido della terrra

L’enciclica, sviluppando alcune suggestioni bibliche, accosta il “gri-do dei poveri” e il “grido della terra”51. La teologia di Bonaventura per la verità è un po’ carente da questo punto di vista (la sua riflessione sulla povertà mette al centro la virtù della povertà assunta liberamente e non la condizione dei poveri di fatto), tuttavia presenta alcuni spunti che oggi potrebbero tornare interessanti: il suo Itinerarium (subito dopo il

48 Itin 5.8 (tale sfera è metafora di Dio): la metafora è già presente nel Liber XXIV philosophorum [2] e nelle Regulae Theologicae [7] di Alano di Lilla.

49 TribQu 13. Cf. Benedetto XVI, Udienza generale del 10 marzo 2010. 50 Cf. HexD 0.1.15-16; Itin 1.9; Hex 1.9, 17.25, 19.12. 51 Cf. LS 49. Cf. Gb 31,34 e 34,38; Sal 33,7.

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prologo) inizia con questa significativa ed enigmatica espressione: «in-cipit speculatio pauperis in deserto» (inizia la riflessione – attraverso lo specchio della mente – del povero nel deserto). Se non si è poveri, non si può desiderare di tornare a Dio.

Seconda traccia bonaventuriana: la “Reductio” come “riconduzio-ne” (vs “riduzione”)

La seconda citazione esplicita di Bonaventura (sempre dalla Legen-da Maior, ossia in quanto biografo e interprete di San Francesco) è nel capitolo dedicato al “Vangelo della Creazione”:

I racconti della creazione nel libro della Genesi contengono, nel loro linguaggio simbolico e narrativo, profondi insegnamenti sull’esistenza umana e la sua realtà storica. Questi racconti suggeriscono che l’esisten-za umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra. Secondo la Bibbia, queste tre relazioni vitali sono rotte, non solo fuori, ma anche dentro di noi. Questa rottura è il peccato. L’armonia tra il Creatore, l’u-manità e tutto il creato è stata distrutta per avere noi preteso di prendere il posto di Dio, rifiutando di riconoscerci come creature limitate. Que-sto fatto ha distorto anche la natura del mandato di soggiogare la terra (cf. Gen 1,28) e di coltivarla e custodirla (cf. Gen 2,15). Come risulta-to, la relazione originariamente armonica tra essere umano e natura si è trasformata in un conflitto (cf. Gen 3,17-19). Per questo è significativo che l’armonia che san Francesco d’Assisi viveva con tutte le creature sia stata interpretata come una guarigione di tale rottura. San Bonaventura disse che attraverso la riconciliazione universale con tutte le creature in qualche modo Francesco era riportato allo stato di innocenza originaria. [cf. Legenda Maior, VIII, 1: FF 1134]. Lungi da quel modello, oggi il peccato si manifesta con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili, negli attacchi contro la natura52.

Il passo espone quattro punti: una teoria delle tre relazioni in cui l’umanità è inserita per creazione; la rottura di queste relazioni per il peccato; la condizione di natura decaduta o corrotta da questo peccato;

52 LS 66.

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la possibilità di un recupero della condizione originaria. In particolare quest’ultimo punto è illustrato nuovamente con l’esempio di Francesco d’Assisi che abbiamo già esaminato.

Q uattro atteggiamenti, tre relazioni

Ebbene nel testo originale, Bonaventura dice:

Ipsum per devotionem sursum agebat in Deum, per compassionem transfor-mabat in Christum, per condescentionem inclinabat ad proximum et per universalem conciliationem ad singula refigurabat ad innocentiae statum53.

Vengono distinti quattro atteggiamenti con i rispettivi atti che svi-luppano quattro fondamentali relazioni: la devozione (che suscita la “sursumazione” verso Dio, cioè l’agire e il condursi verso l’alto), la com-passione (che realizza la trasformazione in Cristo, ossia la cristificazio-ne), la condiscendenza (che spinge ad abbassarsi verso le necessità del prossimo, ossia degli altri esseri umani) e la conciliazione universale (che riporta ogni cosa allo stato di innocenza, ossia allo stato originario della creazione senza il peccato). Sviluppando il linguaggio bonaventuriano, potremmo definire queste quattro relazioni costitutive come supra nos, ossia verso la trascendenza di Dio; intra nos, ossia verso il sé più profon-do, che è un sé in Cristo; inter nos, nella comunità che Bonaventura chia-ma “gerarchia”, ossia ordinamento interpersonale deiformante per cono-scenza e amore; infra nos, ossia verso tutte le realtà corporee e sensibili 54.

In questa luce, il passo bonaventuriano della Legenda Maior non è semplicemente un rimando biografico a San Francesco, ma implica una

53 LegMa 8.1. Corsivo mio.54 Nel De Reductione Bonaventura distingue quattro dimensioni: infra, extra, intra

e supra (rispettivamente riferite alle forme naturali della percezione, alle figure artificia-li della tecnica, alla verità naturale delle scienze filosofiche e alla verità sovrannaturale della teologia); nell’Itinerarium le riduce a tre, ossia extra, intra e supra, ma include nell’interiorità la dimensione intersoggettiva, che nel quarto capitolo assume la forma di “gerarchizzazione”, cioè di inserimento in Cristo. Che il Cristo sia profondamente dentro di noi è trattato invece nello splendido sermone secondo nella terza domenica di Avvento (Medius vestrum stetit, quem vos nescitis). Il tema della conciliazione uni-versale non solo con le realtà inferiori ma in tutta la realtà è considerata la tematica centrale della stessa teologia secondo Hex 1.37-38.

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raffinata trama concettuale che può supportare tutto il progetto teolo-gico dell’enciclica e che quindi dovremo analizzare alla luce della teoria bonaventuriana dei tre mondi.

Francesco tra Vecchio e Nuovo Adamo

Inoltre l’esempio di Francesco che si rapporta armonicamente alle creature irrazionali risponde a un topos agiografico: quello dell’uomo tornato come Adamo nel paradiso terrestre. L’idea teologica è che quan-do l’umanità obbedisce pienamente a Dio, tutto il creato gli obbedisce. La conseguenza che l’enciclica ne trae è che, sebbene ormai l’ordine della natura risulti indipendente dalla semplice volontà umana, tuttavia le col-pe umane contro l’ordine divino nella società e verso la natura produr-ranno una qualche ribellione della natura all’uomo (tale dottrina va però presa con molta cautela: infatti, come dice Gesù del cieco nato, “né lui né i suoi ne hanno colpa”).

In dialogo critico con il gioachimismo dell’ala spirituale dell’ordine minoritico del suo tempo, Bonaventura vede in Francesco l’“alter Chri-stus”, il prototipo di una evoluzione dell’umanità 55. La stessa perfezione di vita, attraverso la libera assunzione dei consigli evangelici e quindi di mezzi concreti per esercitare le virtù di umiltà, povertà, castità e obbe-dienza, consente all’umanità di andare oltre a quei “rimedi” al peccato, che erano estranei al progetto creativo originario ma che si sono resi ne-cessari quasi come mali minori, nella “natura decaduta” (ad esempio la proprietà privata, la struttura coercitiva dello stato)56.

Triangolo relazionale e triplice mondo

Il triangolo relazionale evocato dall’enciclica può meglio esser com-preso alla luce della teoria bonaventuriana dei tre mondi: il mondo mag-giore (esteriore) o macrocosmo, il microcosmo (interiore) o microcosmo (a cui andrebbe aggiunto il mondo sociale e comuntiario) e il mondo archetipo (superiore) che potremmo chiamare per analogia archeocosmo.

55 Cf. LegMa 0 e Itin 0. 56 Cf. PerfEv 1; 2.1; 4.1-2.

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Nel latino medievale, mundus (come in greco kósmos) indica ciò che è ordinato, armonico, pulito. Come aggettivo è traducibile con puro. So-stantivato e al maschile indica la totalità ordinata delle cose. Tre però sono i mondi distinti da Bonaventura. Innanzitutto, il così detto mondo maggiore (macrocosmo), totalità dei corpi naturali, ossia della natura corporea; poi il mondo minore o microcosmo, che è l’uomo stesso, in duplice senso: quanto all’anima, fondamentalmente, che è “in qualche modo ogni cosa”, e all’interno del quale viene rappresentato lo stesso ma-crocosmo; ma anche quanto al corpo, che è come un universo in minia-tura; e infine il mondo archetipo (che noi, con un neologismo impron-tato a vocaboli analoghi bonaventuriani, possiamo chiamare archeoco-smo), ossia la dimensione dei valori trascendenti e ideali partecipati nei precedenti due mondi57. Sebbene il microcosmo rappresenti soprattutto il mondo dell’interiorità soggettiva, ad esso si può connettere (svilup-pando spunti sparsi nei testi bonaventuriani) quello dell’intersoggettivi-tà, culturale e sociale 58.

Questa triade bonaventuriana ha nel pensiero successivo interessan-ti paralleli (che sono, tranne in Cusano, totalmente indipendenti): in

57 Bonaventura usa varie locuzioni: «totus sensibilis mundus» [Itin 2.4], «maior mundus» e «minor mundus» [Itin 2.2], «machina mundana» [Brev 0.3.3], «tota machina mundi», «creatura mundi», «universitas machinae mundialis», «univer-sa machina mundi» [Brev 2.1 e 2.3]. In un testo molto noto e studiato [Hex 16.9], Bonaventura distingue tre mondi: il “maior mundus” o (come chiamato altrove) ma-crocosmo; il “minor mundus” o (come chiamato altrove) microcosmo; e quello che potremmo chiamare archeocosmo (“mundus archetypus”), in cui risiede il principio, il medio e il fine di tutto (che solo il teologo cristiano [cf. Hex 1.12] identifica rispetti-vamente, per appropriazione, con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e a cui quindi si riferiscono [secondo Itin 5-6] i due “nomi” di Essere e Bene, che sono rispettivamente la manifestazione di Dio come è ad extra (Uno e creatore), e a noi rivelato nell’Antico Testamento (e parzialmente nella filosofia), e come è in sé (Amore trinitario), e a noi rivelato nel Nuovo Testamento. ‘Mundus’ ha un significato più ampio rispetto a ciò che il mondo è per noi (che coinciderebbe piuttosto con il macrocosmo). Il mondo come realtà sperimentata da noi (e quindi creata) è espresso dal sintagma ‘Machina universi’ o ‘machina mundialis’ [così in Brev 0].

58 Hex 4.2-5. Significativamente, la “machina mundana” è messa in relazione con la “Ecclesia” [in Brev 0.3.3]. Possiamo dunque provare a esplicitare il pensiero bonaventu-riano distinguendo un decorso del macrocosmo e un decorso del microcosmo in senso sia sociale (la Chiesa e, indirettamente, quella che noi chiamiamo società), sia individuale.

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Cusano corrisponde a Dio, Universo e Cristo; in Kant alle tre idee di Dio, anima e mondo; in Hegel a Idea, Natura e Spirito; in Popper ai mondi 1, 2 e 3; in Penrose (nella Strada per la Realtà) ai tre Mondi fisico, mentale e ideale.

La tesi fondamentale di Bonaventura è che questi tre mondi, attra-verso l’unione delle tre nature corporea, spirituale e divina, trovino com-pimento e perfezione nella persona di Cristo:

Non può esserci suprema e nobilissima perfezione nell’universo, a meno che la natura <corporea>, in cui sono le “ragioni seminali” <del-le cose>, e la natura <spirituale>, in cui sono le “ragioni intellettuali” <delle cose>, e la natura <divina>, in cui sono le “ragioni ideali” <delle cose>, concorrano insieme nell’unità di una persona: il che è avvenuto nell’incarnazione del Figlio di Dio59.

Egli pertanto costituisce la scala che unisce tutta la realtà:

Questo è dunque il cammino di tre giorni nel deserto [«in solitu-dine»]; questa è la triplice illuminazione dell’unico giorno […], ossia quella vespertina, quella mattutina e quella meridiana; questo riguarda la triplice esistenza delle cose, secondo cui fu detto “sia fatto”, “fece” e “fu fatto”; questo anche riguarda la triplice natura [«substantia»] in Cristo che è la nostra scala, cioè corporale, spirituale e divina 60.

La dottrina della triplice esistenza delle cose, desunta dalla esegesi agostiniana dei tre verbi che illustrano la creazione nel primo capitolo della Genesi, comporta che ogni “cosa” (intesa come cosa naturale di questo mondo), oltre ad esistere empiricamente e quanto alle proprie strutture fisiche in un momento del tempo e in un luogo dello spazio nella propria specie e nel proprio genere e quindi nella materia, ha una qualche preesistenza trascendentale (per usare una terminologia moder-na) quanto alle sue strutture intelligibili e matematiche in ogni men-te creata, e soprattutto una preesistenza trascendente, quanto alle sue strutture ideali e metafisiche nella Mente del divino Artefice. Insomma,

59 Red 20. 60 Itin 1.3. Il cammino dei tre giorni nel deserto è quello richiesto da Dio a Mosè e

da Mosè al Faraone in Es 3,18. Il triplice fare divino nella creazione richiama Gen 1,3, nella tradizionale interpretazione agostiniana.

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una cosa materiale non è solo una cosa. Non saperla considerare in que-sta triplice dimensione significa, per dirla con Hegel (in Fede e Sapere), «ridurre il bosco sacro a legna», oppure, per dirla con Biffi, lettore di Pinocchio, fare come maestro Ciliegia, che non seppe vedere nel legno di Pinocchio altro che un ciocco di legno.

Ebbene, questa triplice esistenza delle cose si traduce in una triplice manifestazione veritativa che quindi può essere colta da una triplice fase della conoscenza; d’altra parte è anche possibile fermarsi ad una cono-scenza superficiale e decadere. A questo punto, non tutto però è perduto: è ancora possibile intraprendere un Esodo di liberazione, simboleggiato dal cammino di tre giorni nel deserto, che Mosè aveva annunciato al Fa-raone. Tale Esodo non può essere compiuto però senza una via o meglio una nuova scala che rimpiazzi quella “spezzatasi” con il peccato 61: essa è in realtà lo stesso Cristo, che riunisce le tre nature, corporea, spirituale e divina nell’unità della propria persona. Gesù stesso, nel Vangelo di Gio-vanni, si era presentato simbolicamente come la vera scala di Giacobbe su cui gli angeli salgono e scendono: tema, questo, molto caro allo stesso Francesco, così devoto a Santa Maria degli Angeli, a cui per l’appunto la Porziuncola è dedicata62.

Considerando che la persona del Verbo è unita come “persona me-dia” nella natura divina alle persone del Padre e dello Spirito, ne risul-ta che questa scala assume la forma francescana del Tau, ossia la “croce intelligibile”63.

Ora, mentre il legame tra le cose naturali con le rispettive ragioni seminali, intelligibili e ideali può essere colto anche filosoficamente, il motivo fondamentale di tale legame, ossia l’incarnazione del Verbo e la redenzione da lui operata, è appunto l’oggetto della fede cristiana. Da notare anche che Bonaventura ha una posizione intermedia, tra Tomma-so e Duns Scoto, sul motivo dell’incarnazione: essa è di fatto motivata dalla volontà divina di riparare il peccato umano, ma ha anche una valen-

61 Cf. Itin 4.2.62 Cf. B. Faes de Mottoni, San Bonaventura e la Scala di Giacobbe, Bibliopolis,

Napoli 1995, p. 36-37. 63 Cf. Hex 1.14; per la “croce intelligibile”, cf. Di Maio, La divisione bonaventu-

riana delle scienze. Un’applicazione della lessicografia all’ermeneutica testuale, in Grego-rianum, 81 (2000), p. 101-136 e p. 331-351.

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za di compimento ontologico del creato. Per questo fornisce una chiave di lettura, che oggi, per dirla con Ricoeur, “dà da pensare” al filosofo.

Il ciclo compiuto e interrotto. Esodo e Contro-Esodo

È interessante che l’ecologia moderna usi i concetti di “ciclo” e “rici-clo”, che presentano alcune analogie con il concetto bonaventuriano (e già dionisiano) di “circolo intelligibile”, secondo cui tutte le cose venute da Dio devono, mediante Cristo, tornare a Dio:

Il Verbo esprime il Padre e le cose che per Lui furono fatte, ma soprattut-to ci conduce all’unità del Padre che ci raduna, e sotto questo aspetto è albero della vita, perché per lui ritorniamo e siamo ravvivati alla sorgente stessa della vita. Se però ci tratteniamo nella conoscenza esperienziale delle cose, investigando più di quanto ci sia concesso, scivoliamo via dal-la vera contemplazione e gustiamo come Lucifero il frutto proibito della scienza del bene e del male. Se infatti Lucifero, nel contemplare quella verità, fosse risalito dalla conoscenza della creatura all’unità del Padre, dalla sera avrebbe fatto mattina e avrebbe avuto giorno. Ma poichè cadde nella compiacente brama di grandezza, perse la luce del giorno. E così fece Adamo. Questo Verbo è il medio che produce il sapere, cioè la verità che è albero di vita. L’altra verità invece è occasione di morte, quando si è travolti nell’amore della bellezza della creatura. Per mezzo della prima verità tutti devono ritornare: e come il Figlio disse “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre”, così tutti dicano: “Signore, uscii da te Sommo, vengo a te sommo, per te sommo”. Questo è il medio che riconduce il metafisico. E questa è tutta la nostra metafisica: dell’emanazione, dell’esemplarità e del compimento. Cioè essere illuminati mediante raggi spirituali ed es-sere ricondotti al sommo e sarai così vero metafisico 64.

Bonaventura in questo testo rielabora alla luce di una metafisica cristiana (tratta dal vangelo di Giovanni) formulata con terminologia neoplatonica (emanazione e compimento) intesa comunque in senso creazionista, un aspetto centrale della spiritualità di Francesco, il quale nei suoi scritti più volte intende la povertà evangelica come un “riferire tutto a Dio”, rendere a Dio, non trattenere nulla per sé.

64 Hex 1.17. Sul circolo, cf. TriVia (3)5; Hex 1.24; Solil 0.2; Red 7, Hex 1.17 e 3.32.

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Alla luce di Agostino, Bonaventura intende l’espressione del primo capitolo della Genesi “e fu sera e fu mattina” come il passaggio richiesto alla conoscenza angelica. Coloro che hanno compiuto questo passaggio sono stati confermati in grazia e gloria; gli altri sono decaduti con Lucife-ro. Così rivolgersi alle creature è un bene nella conoscenza sperimentale, ma volerci restare è diabolico. Il peccato di Adamo, ossia dell’umanità, è una ripetizione, benché non altrettanto definitiva, del peccato luciferino.

Per tornare all’enciclica, la crisi ecologica quindi nasce da una crisi di mentalità, di conoscenza. Si tratta di non vedere più le cose nel loro circolo vitale.

“Reductio” buona vs riduzione “riduzionistica”

A differenza della riduzione nel senso dell’Aufhebung hegeliana, che è assorbimento e toglimento nel superamento, e di quella nel senso del riduzionismo moderno, che è una riduzione del complesso alle sue parti e del mentale al materiale, la reductio bonaventuriana andrebbe tradotta piuttosto come riconduzione, per cui nulla si perde della ricchezza con-creta del molteplice; inoltre a differenza della riduzione neoplatonica, che è una reductio ad unum, la reductio bonaventuriana non è ad unum, ma ad trinitatem, ossia a una comunione interpersonale in cui il mas-simo dell’unità si concilia con il massimo della distinzione e l’Assoluto rispetta e salva la singola creatura65.

Tutto il mondo è una macchina ben congegnata e funzionante66, ma poi ci sono le macchine costruite dagli uomini mediante la tecnica, ossia quelle che Bonaventura chiama arti meccaniche. Con una falsa ma significativa eti-mologia, Ugo di San Vittore considerava le arti meccaniche come derivanti da “moechus”, e quindi come arti adulterine, ritenendo che esse tradiscano la verità per l’utilità; riallacciandosi a questa concezione, ma con una nuova prospettiva, Bonaventura concede che le tecniche possano “degenerare”, ma anche che esse possano essere in qualche modo ricondotte alla teologia67.

65 Cf. Red 8-26. 66 Cf. Brev 0.3.3. 67 Red 2 e 11-14.

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Terza traccia bonaventuriana: il riconoscimento come riconoscenza

La terza traccia bonaventuriana si trova alla fine dell’enciclica, nell’ul-timo capitolo dedicato alla proposta di una spiritualità ecologica. Nella se-zione del capitolo dedicata specificamente al ruolo dei segni sacramentali e del riposo celebrativo nella educazione a una tale spiritualità, viene detto:

L’ideale non è solo passare dall’esteriorità all’interiorità per scoprire l’a-zione di Dio nell’anima, ma anche arrivare a incontrarlo in tutte le cose, come insegnava san Bonaventura: «La contemplazione è tanto più ele-vata quanto più l’uomo sente in sé l’effetto della grazia divina o quanto più sa riconoscere Dio nelle altre creature» [In II Sent., 23, 2, 3]68.

Contemplazione

Il contesto da cui è tratta la citazione bonaventuriana è complessissi-mo e riguarda la conoscenza di Adamo in stato di innocenza, ossia se fosse la stessa conoscenza che si avrà in gloria. Senza addentrarci nella serrata disquisizione bonaventuriana sulla contemplazione 69, ci basti dire che Bo-naventura distingue quattro modi di conoscere Dio: per fede, per contem-plazione, per apparizione e per aperta visione. Poiché però «tutto ciò che si conosce, si conosce per qualcosa di presente», allora se si basa su un che di presente in altri (la auctoritas), allora si tratta di conoscenza per fede; se invece si basa su qualcosa di presente in me, allora bisogna distinguere tre casi in cui Dio si rende presente in me: o mediante un proprio effetto, come nel caso della contemplazione, o mediante un proprio segno, come nel caso della apparizione, o in sé stesso, come nel caso dell’aperta visione. Ebbene quanto alla contemplazione Bonaventura dice:

Tanto est eminentior quanto effectum divinae gratiae magis sentit in se homo vel quanto etiam melius scit considerare Deum in exterioribus creaturis70.

68 LS 233. 69 Cf. Faes de Mottoni, La conoscenza di Dio di Adamo innocente nell’In II Sen-

tentiarum d. 23, a. 2 q. 3 di Bonaventura, “Archivum franciscanum historicum” vol. 91 (1998), p. 3-32; cf. anche in generale Ead., Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali, SISMEL, Firenze 2007, p. 17-48.

70 Sent 2.23.2.3 co.

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Traducendo letteralmente:

Tanto più elevata è la contemplazione quanto più l’uomo sente in sé l’effetto della grazia divina o quanto anche meglio sa considerare Dio nelle creature esteriori.

Dunque, c’è un effetto divino, riconoscibile dal vero contemplativo non solo dentro di sé (perché riconosce come effetto dell’azione divina le realtà della grazia), ma anche fuori di sé (perché riconosce come effetto dell’azione divina anche le cose corporali)71. Si capisce che Bonaventura pensi appunto a San Francesco.

Insomma, la capacità di vedere Dio in ogni creatura anche materiale è tipica non della mera considerazione scienziale e neppure di una meta-fisica semplicemente razionale: essa richiede infatti uno sguardo creden-te e contemplativo. Infatti,

Questa sapienza è stata manifestata […] e tuttavia noi non la troviamo, così come un profano che è analfabeta e possiede un libro non si cura di esso. Così anche noi 72.

A questo punto potrebbe sembrare impossibile un’ecologia integra-le al di fuori della mistica o almeno della fede. Tuttavia Bonaventura dice che il macrocosmo può essere colto in maniera più completa con uno sguardo contemplativo (“aspectus contemplantis”: letteralmente, sguardo di chi contempla, cioè di un mistico come Francesco), ma anche con un semplice sguardo credente (“aspectus fidelis”), e finalmente, anche se in maniera minore, con uno sguardo davvero filosofico (“aspectus ra-tiocinabiliter investigantis”) 73. Il primo sguardo coglie nel mondo este-riore l’impronta di Dio trino (“vestigium”): si tratta di un richiamo per assenza; ciò che manca al mondo, ossia il suo essere da altro, secondo altro e per altro, rimanda all’Origine, all’Esemplare e al Fine. Il secondo sguardo coglie il decorso del mondo attraverso la storia della salvezza riassunta dalla Sacra Scrittura. Il terzo sguardo coglie la scalarità delle re-

71 Così nella quarta visione trattata nelle Collationes in Hexaëmeron, l’anima solle-vata per contemplazione vede in sé la gerarchizzazione operata dalla grazia.

72 Cf. Hex 2.20.73 Cf. Itin 1.10-13 e Hex 1.12.

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altà mondane, di cui tutte hanno essere, molte anche vivere e solo quelle ragionevole hanno anche il pensare: questo fa aprire la mente alla possi-bilità di una ulteriorità.

Tuttavia, dice Bonaventura, sebbene ogni metafisico possa arrivare a concepire Dio quale Origine prima, Esemplare mediatore e Fine ultimo di ogni cosa, senza la fede è impossibile vedere in queste tre caratteristi-che le appropriazioni del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo74.

In questa luce, l’impegno per la casa comune può accomunare tutta l’umanità e i cristiani possono contribuire con alcune suggestioni tratte dalla loro fede; tuttavia allo sguardo della fede in Cristo il mondo appa-rirà in un ulteriore orizzonte di senso.

Riconoscenza

Abbiamo già trattato la problematica del mancato riconoscimento ossia nel fermarsi a uno sguardo vespertino sulle cose o a una conside-razione oggettivante, senza andare a una riflessione sul soggetto e a una contemplazione del principio. Ora possiamo concentrarci su come vada inteso questo riconoscimento.

Alcuni studiosi avevano già messo in luce il carattere “donativo” del pensiero francescano75. Già il pensiero platonico si era posto come una filosofia del riconoscimento: nel Menone l’apparente circolo vizioso se-condo cui non sarebbe stato possibile cercare né ciò che si sa né ciò che non si sa, veniva risolto con la supposizione di una preconoscenza oscura o obliata della verità: di conseguenza conoscere sarebbe riconoscere. Ari-stotele aveva mostrato come una preconoscenza sia possibile senza do-ver supporre la preesistenza dell’anima, ma dai primi princìpi; Agostino aveva mostrato come le verità eterne potessero essere attinte nei meandri costitutivi della memoria, non appresi dall’esterno, ma dal “Maestro che insegna dentro”. In questa linea Bonaventura sviluppa una teoria del ri-conoscimento di Dio nel macrocosmo, nel microcosmo e in quegli attri-buti partecipati che sono il riflesso dell’archeocosmo. Riconoscere Dio nelle sue vestigia o nella sua immagine o nei suoi nomi significa. Nella

74 Cf. Hex 1.12-13. 75 Cf. O. Todisco, Il dono dell’essere. Sentieri inesplorati del Medioevo francescano,

Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p. 193 e passim.

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logica dell’Itinerarium riconoscere che ogni cosa è dono di Dio e risul-tato della sua autocomunicazione. Ecco perché l’atteggiamento umano deve essere di recettività e gratitudine: come Daniele si possono avere (grandi) rivelazioni solo se si hanno (grandi) desideri 76.

Filosofia necessaria ma impossibile e “luxuriata ratio” 77

Per Bonaventura fin dall’antichità la filosofia è stata una ricerca di sapienza che ha però prodotto soltanto scienze. “Bene fecero i filosofi a promettere la sapienza, e la verità li traeva”; ma non sapevano che non avrebbero potuto conseguirla. L’idea è molto suggestiva: a causa dell’im-pulso a una sapienza integrale, ossia a motivo del desiderio di verità e felicità o (per dirla oggi) di pienezza di senso, si mette in moto la ricerca umana e produce le varie scienze; esse però non soddisfano la sete da cui erano nate. È un po’ quello che anche Wittgenstein diceva alla fine del Tractatus: “Quand’anche tutte le domande scientifiche avessero tro-vato risposta, l’enigma del senso del mondo non sarebbe neppure stato sfiorato”. D’altra parte le scienze possono ripiegarsi su sé stesse (autore-ferenzialmente, direbbe Papa Francesco): Bonaventura parla addirittura di una “luxuriata ratio”, ossia di una ragione per così dire prostituita 78. Come esempi di ragione prostituita, Bonaventura cita i seguenti: i me-tafisici pretesero di dimostrare l’eternità del mondo; i matematici prete-sero di determinare le occulte influenze e i segreti del cuore; i naturalisti pretesero di sostituirsi con la tecnica alla natura… Proviamo a riattualiz-zare: oggi il peccato ecologico nasce dal misconoscimento della preca-rietà del mondo e dalla presunzione della inesauribilità delle sue risorse, dalla assolutizzazione del potere previsionale delle scienze e soprattutto dall’abuso del potere della tecnica.

76 Cf. Itin 0.3-4. 77 Cf. Hex 5.21-22. 78 Interessante è la somiglianza con quanto, in modo più intransigente, dirà Lute-

ro. Debbo la suggestione a C. Pandolfi.

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Quarta traccia: la leggibilità del mondo e il “relazionismo” (vs “re-lativismo”)

La quarta traccia bonaventuriana dell’enciclica è la più complessa e si trova quasi alla fine del capitolo finale, in una vera ricapitolazione (e fondazione) trinitaria della proposta di una spiritualità ecologica:

Per i cristiani, credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria. San Bonaventura arrivò ad affermare che l’essere umano, pri-ma del peccato, poteva scoprire come ogni creatura «testimonia che Dio è trino». Il riflesso della Trinità si poteva riconoscere nella natura «quando né quel libro era oscuro per l’uomo, né l’occhio dell’uomo si era intorbidato» [Quaest. disp. de Myst. Trinitatis, 1, 2, concl.]. Il santo francescano ci insegna che ogni creatura porta in sé una struttura propriamente trinitaria, così reale che potrebbe essere spontaneamente contemplata se lo sguardo dell’essere umano non fosse limitato, oscuro e fragile. In questo modo ci indica la sfida di provare a leggere la realtà in chiave trinitaria. Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mon-do, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni79.

Relazionismo e Trinitarizzazione (“hierarchizatio”)

Prima di addentrarci nella complessa citazione bonaventuriana, oc-corre inserirla nel contesto dell’enciclica.

Papa Francesco che, dando seguito alla denuncia già ampiamente svolta da Benedetto XVI nei confronti del relativismo dottrinale, stig-matizza il “relativismo pratico” 80 alla base di un “antropocentrismo de-viato” e quindi della degenerazione ecologica, sembra quindi opporgli una diversa visione che potremmo definire “relazionismo”, fondata sulla dottrina cristiana delle persone divine come relazioni sussistenti.

Ebbene, anche se l’enciclica non lo menziona, Bonaventura ha trat-tato a fondo la “trinitarizzazione” dell’essere umano, chiamandola “ge-rarchizzazione”: Cristo, essendo media persona nella Trinità (persona intermedia tra il Padre, principio non da principio, e lo Spirito Santo)

79 LS 239-240. 80 Cf. LS 122-123; EG 80.

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e medio esemplare di tutto il creato (in quanto “Verbo per cui tutto fu fatto”) e persona assumente la natura spirituale e corporea (in quanto Verbo incarnato), è “gerarca” non solo nella gerarchia sovraceleste tri-nitaria, ma anche nella gerarchia angelica ed ecclesiastica ed è principio ordinatore deiformante attraverso scienza e azione di tutti i soggetti spi-rituali; in altre parole, è grazie a lui che si può costruire una comunità intersoggettiva nella Chiesa 81. Possiamo addirittura ipotizzare che tale dottrina bonaventuriana sia la reinterpretazione teologica della missione sanfrancescana di “riparare la Chiesa in rovina” a partire dalla ricostru-zione dell’edificio delle virtù nell’anima 82. Questa idea profondamente teologica può comunque fornire un modello per la costruzione di una società ordinata come una comunità.

Il mondo come libro e testimonianza della Trinità

Per fondare questa visione, viene inserita una citazione bonaventu-riana tratta dalle questioni disputate sul mistero della Trinità: nella prima questione, distinta in due articoli, Bonaventura si chiede se “che Dio sia” e “che Dio sia trino” siano verità rispettivamente indubitabile e credi-bile. La prima tesi riguarda anche la filosofia e quella che Bonaventura chiamava legge naturale. La seconda tesi invece è quella caratteristica del cristianesimo. Bonaventura mostra che il dogma trinitario sia credibi-le perché ammetterlo per fede è “congruo, dovuto e degno”. A tale sco-po Bonaventura invoca una triplice testimonianza che ci “conduce per mano” a crederlo: si tratta della testimonianza offerta dal triplice libro della Creatura, della Scrittura e della Vita.

Altri passi ci illustrano in che senso tutto il creato sia un libro e tut-tavia abbisogna di un secondo libro: il mondo (e la sua storia) più preci-samente è come un carme, ossia come un componimento poetico musi-cato: ebbene, tale carme è troppo lungo perché lo si possa ben intendere dal principio alla fine; ecco perché Dio ne ha provvisto un compendio

81 Cf. Hex 3; 20-23; cf. anche Itin 0 e 4. Bonaventura interpreta così a modo suo, sul-la scia di Ugo di San Vittore, la dottrina dionisiana della gerarchia celeste ed ecclesiastica.

82 Cf. Di Maio, Vita spirituale e riflessione filosofico-teologica: Bonaventura e il paradigma francescano e antoniano della riedificazione mediante le virtù, in Revista Por-tuguesa de Filosofia, 64 (2008), p. 73-103.

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nel libro della Scrittura  83. Riproponendo oggi questa considerazione, possiamo dire che il mondo è leggibile solo se interpretato in una “nar-razione”. Ebbene, se (come diceva Lyotard a proposito della Condizione postmoderna) oggi sono proprio le “grandi narrazioni” moderne a essere andate in crisi (ma anche ad aver causato la crisi ecologica), l’enciclica ci richiama forse, sulle tracce di Bonaventura, a ritentare una narrazione, questa volta sapienziale e condivisa, del mondo come casa comune.

Le vicissitudini della metafora del libro applicata al mondo sono ampiamente note  84. Già la Bibbia ebraica aveva stabilito (ad esempio nelle due sezioni del Salmo 18) un parallelismo tra mondo naturale e Torah. Il prologo di Giovanni aveva definito come l’unico Verbo di Dio fosse sia ciò per cui tutto è stato creato e dunque la luce che illumina ogni uomo, sia colui che si è fatto uomo, rivelando Dio come Padre a coloro i quali credono in Lui. Bonaventura distingue così una triplice funzione del Verbo: in quanto increato è il modello (la causa esemplare) di tutto il mondo creato (sia quanto alla natura corporea, sia quanto alla natura spirituale); in quanto Verbo incarnato è ciò di cui parla tutta la scrittura (Cristo stesso è il libro; la Scrittura è il compendio della manifestazione di Dio nella storia del mondo). Il Verbo ispirato fa sì che i misteri stes-si siano iscritti per fede nel cuore dei credenti. Tutto questo costituirà quel duplice libro che secondo l’Apocalisse sarà aperto al Giudizio: ossia il libro della vita, cioè il progetto divino realizzato, e il libro della co-scienza di ciascuno. Già il Libro della creatura, o della Natura, offre una testimonianza efficace, il Libro della Scrittura è però più efficace e solo il Libro della Vita (che può essere colto in anticipo nella vita mistica) efficacissimo.

Il libro della creatura offre una doppia testimonianza, quella del-la natura corporea, che della trinità è vestigio, e quello della natura o creatura intellettuale, che della trinità è immagine. Il vestigio è, per così dire, una presenza per assenza: come nelle impronte lasciate da chi cammina sulla neve o sulla sabbia, la presenza di Dio è manifestata proprio da un’assenza. Così in effetti, ogni creatura ha modo, specie e

83 Cf. Brev 0.2.4-6 e Hex 2.17. Cf. Di Maio, Il problema della storia in Bonaven-tura, in Doctor Seraphicus, 64 (2016).

84 Cf. H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Suhrkamp, Frankfurt 1981; trad. it.: La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna 2009.

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ordine in quanto è “da altro, secondo altro e per altro”85. Oltre a ciò, la creatura dotata d’intelletto presenta memoria, intelligenza e volon-tà. In entrambi i casi noi possiamo notare una struttura triadica sia degli oggetti, sia dei soggetti e supporre che tale struttura triadica si trovi fontalmente nel Principio primo (anche Kant e Peirce notarono questa struttura triadica, ma la attribuirono alla struttura della mente; il teologo cristiano invece la riconosce nella mente come riflesso del mistero di Dio).

D’altra parte tale libro della natura è poco leggibile per via dell’an-nebbiamento della vista intellettuale umana a causa del peccato. Così il filosofo può sì arrivare con la sola ragione a supporre in Dio la causa originante, il medio esemplante e il fine compiente, ma non è in grado di riconoscervi la Trinità tripersonale del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Per dirla oggi, può arrivare forse a sapere che ci sia un Dio, ma non a sapere chi sia, cioè a conoscerlo personalmente.

Ecco la necessità di un secondo libro, quello della Scrittura, che è più efficace se e solo se accolto come proveniente da divina rivelazio-ne. In maniera implicita e oscura nell’Antico Testamento e in maniera chiara ed esplicita nel Nuovo, il mistero trinitario è asserito come rive-lato, ed è per questo che il fedele è tenuto a crederlo. Tuttavia, poiché non tutti obbediscono al Vangelo, viene fornita la testimonianza (ossia l’esperienza spirituale) del Libro della Vita, che sebbene destinato a essere aperto pienamente “in Patria”, tuttavia è in qualche modo “sbir-ciato” “in via”, poiché illumina l’essere umano per il concorso del lume “indito” e del lume “infuso”. Per lume indito, cioè già implicito nella creazione, il Libro della Vita comanda alla ragione di “sentire altissi-mamente e piissimamente” di Dio: altissimamente, perché è il primo principio, piissimamente perché da Lui provengono tutte le cose. “E in questo concordano Cristiani, Giudei e Musulmani”. Inoltre per lume infuso, ossia per l’esperienza della grazia, comanda al cuore del creden-te che di Dio occorra anche sentire che generi il Figlio e spiri lo Spirito Santo: ossia che sia una comunione di amore. Per questo “la fede nella Trinità è sia fondamento che radice del culto divino e di tutta la reli-gione cristiana”.

85 Cf. Parab 43 e Hex 1.12.

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“Verbum increatum” (o Senso preesistente) vs primato dell’Azione (o nich-ilismo di senso)

È ben nota l’opposizione tra due visioni del mondo in quel mito fondativo della nostra contemporaneità che è Faust, nella descrizione che ne fece Goethe. Egli oppone alla visione fondata sull’incipit del Pro-logo giovanneo, ossia “In principio era il Verbo” (che in termini filosofici odierni possiamo intendere come “Senso della Vita”), un’altra visione secondo cui invece “In principio è l’Azione”. Nel primo caso, il Senso della Vita c’è, ci precede, in qualche modo si manifesta e va scoperto; nel secondo caso, invece, il Senso della Vita manca (come dirà poi Nietzsche a più riprese) e va dato, come risultato della nostra azione. Le due visioni corrispondono a quelle che Jacobi (nella sua celebre Lettera a Fichte) op-porrà come “Fede” (non solo cristiana) e “Nichilismo”. Non a caso, pro-prio coerentemente con questa seconda visione, Mefistofele si presenterà a Faust come una particella di quella forza che pur volendo sempre il male opera invece sempre il bene. Infatti, in questa visione, il male non è veramente male: sarebbe piuttosto il motore che manda avanti la storia. Ma allora perché il male non ci appare normale?

Di fronte allo scandalo non normalizzabile del male, dunque, anco-ra oggi possiamo e dobbiamo riproporre una visione del mondo che si basi invece sull’antecedenza del Senso della Vita. In questo, Bonaventu-ra, con la sua dottrina del triplice Verbo (increato, incarnato e ispirato) è davvero attuale86.

Sapienza: cristiana o anche umana?

Se però questa visione trinitaria del reale è tipicamente cristiana, com’è possibile proporla anche come mezzo di dialogo con tutta l’umanità impegnata nella cura della casa comune? Acutamente l’enciclica dice che

la vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale87.

86 Cf. Hex 3. 87 LS 47.

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Ebbene, per Bonaventura la Sapienza (in senso teologico) ha quattro forme o gradi: quella uniforme è la legge di Dio insita in ogni coscienza e ragione, da cui derivano i precetti morali; quella multiforme è la legge di Dio espressa con molti sensi nella sacra Scrittura; quella onniforme è la riconoscibilità di Dio in ogni sua creatura; quella nulliforme è la vera sapienza mistica e cristiana, ineffabile88.

Un passo bonaventuriano cruciale ma assente nell’enciclica: il Cri-sto centro di natura (fisica)

Prima di concludere, sarebbe il caso di confrontarci con un testo bo-naventuriano cruciale per la tematica del mondo, ma non citato dall’en-ciclica. Attraverso questo passo possiamo renderci meglio conto della “attualità” e “inattualità” di Bonaventura: inattualità, perché egli è un autore medievale, e come tale va letto, senza forzature anacronistiche; attualità, perché comunque “dà da pensare” al filosofo e teologo di oggi.

Il testo in questione è tratto dalla trattazione del Cristo centro di tutte le scienze (in questo caso, della scienza naturale):

Il secondo medio o centro è quello di natura, validissimo per diffusione virtuale, che rientra nella considerazione del fisico, il quale considera ciò che è mutevole e la generazione (ossia ogni trasformazione) secon-do l’influenza dei corpi celesti sugli elementi, e l’ordinamento degli ele-menti alla forma della mescolanza, e della forma della mescolanza alla forma della complessione, e della forma della complessione all’anima vegetativa e di essa alla sensitiva e di essa alla razionale, e quivi è il fine. Il fisico poi considera un duplice medio o centro, cioè del mondo mag-giore e del mondo minore. Il centro del mondo maggiore è il sole, il centro del minore è il cuore. Il sole infatti è nel mezzo tra i pianeti, e secondo il suo spostamento nell’eclittica avvengono le generazioni, e il fisico coglie la regolarità della generazione. Fra tutti i pianeti poi il sole è quello di mag-gior diffusione. Dal cuore similmente vi è una diffusione, checché ne dica-no i medici. Infatti lo spirito vitale da esso si diffonde mediante le arterie; lo spirito poi animale mediante i nervi, sebbene riceva compimento nel cervello; lo spirito poi naturale dal medesimo cuore è diffuso mediante le vene, sebbene si compia o si completi nel fegato.

88 Cf. Hex 2.8 e passim.

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Questo medio o centro fu Cristo nell’incarnazione; per cui si dice in Giovanni: “In mezzo a voi stette uno che non conoscete” […].La Scrittura a volte dice Cristo medio, a volte capo. Viene detto capo, perché da lui fluiscono tutti i sensi e i moti spirituali e i carismi delle gra-zie. Questo poi influisce in quanto è unito alle membra. Infatti il capo di Cristo è Dio, in quanto cioè è Dio; ma capo dell’uomo è Cristo, in quanto Dio e uomo. Egli diffonde dunque lo Spirito Santo nelle mem-bra della Chiesa a lui unite, non separate89.

Qualche spiegazione è però necessaria per intendere la cosmologia bonaventuriana. Egli, come quasi tutti gli antichi e i medievali, ritiene che la terra sia immobile al centro di un universo limitato nello spazio, circondata da sette pianeti, di cui il sole sarebbe il quarto, occupando cioè l’orbita mediana. Proprio per questo, e per il suo maggiore splendo-re, il sole avrebbe la massima influenza in tutte le trasformazioni mon-dane. In particolare l’orbita apparentemente obliqua del sole durante l’anno è alla base del ciclo delle stagioni e quindi delle trasformazioni biologiche più evidenti agli occhi degli osservatori ingenui. Similmente nel corpo umano la vitalità sembra trasmessa tramite i vasi cavi del corpo in tutte le membra. Si ricordi che per la medicina galenica i vasi non conducevano il sangue e gli altri fluidi, ma i cosiddetti spiriti (cioè i soffi) vitali, animali e naturali90.

Prescindendo dalle erronee teorie scientifiche, troviamo spunti an-cora attuali. Vi è innanzitutto una corrispondenza fra corpo umano e universo, microcosmo e macrocosmo. In altri testi, normalmente Bona-ventura intende il microcosmo solo dal punto di vista spirituale, ma qui acutamente intende tutto l’essere umano. Non che si debba cercare una corrispondenza puntuale tra elementi cosmici e biologici (idea, per altro discutibile, molto presente nelle attuali mode del New Age), ma nell’i-dea che ci debba essere un approccio olistico. Altro spunto interessante è quello secondo cui tutto influisce su tutto. Infine è notevole il paragone tra il Corpo umano e l’intero Universo e tra essi e la Chiesa (che meta-foricamente è Corpo e Cosmo). In tal modo, il cristocentrismo delle let-tere paoline agli Efesini e ai Colossesi viene suggerito come modello per

89 Hex 1.18-20. 90 In qualche modo questa teoria degli spiriti ha fornito a Ignazio di Loyola una

metafora ulteriore con cui intendere il tema già paolino del discernimento degli spiriti.

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pensare non solo la Chiesa, ma per l’intero cosmo: una suggestione che può sostanziare l’insistenza che l’enciclica ha per una ecologia integrale, ossia non solo della Natura, ma anche della Cultura e della Società.

Conclusione: con Francesco (e Bonaventura) verso un progresso vero

Proviamo a riepilogare le tesi bonaventuriane che, opportunamente riprese oggi, potrebbero ben supportare l’elaborazione di una riflessione ecologica, filosofica e teologica, “integrale” nel senso della Laudato Si’.

Ci sono tre mondi, quello naturale, quello umano e quello delle ragioni ideali; il mondo esterno è come un libro, il cui compendio in parole è la Scrittura, e il cui senso pieno è lo stesso Cristo. Il mondo esteriore è addirittura paragonato a un bellissimo carme, la cui armonia non esclude la limitatezza delle durate delle singole note, ossia, fuor di metafora, il susseguirsi di nascite e morti.

La natura creata corporea è concepita come una grande casa, che Dio costituisce distinguendone i diversi ambienti e arredandoli. L’abita-tore finale di tale casa è l’uomo, che ne prende possesso, ma come inqui-lino e custode.

L’uomo è all’incrocio fra due ordini di cause: l’ordine solo fatto, ossia il divenire materiale, e l’ordine fattivo, ossia il divenire innescato dalla libertà.

Da questo incrocio deriva la possibilità della cosiddetta industria, ma anche del peccato. L’industria è la capacità di migliorare e sviluppare le potenzialità naturali. Nella natura non ci sono solo nature, ma anche discorsi e costumi, ossia trasformazioni della natura per via di ragione e volontà. Si “crea” così un mondo nel mondo: il mondo del linguaggio e delle istituzioni, e un mondo peculiare che è quello artificiale.

Se il mondo naturale è organizzato per forme naturali (che oggi pos-siamo ripensare come le strutture chimiche e genetiche, non a caso espri-mibili con formule), il mondo artificiale è organizzato tramite figure, cioè strutture matematiche e meccaniche.

Da qui l’idea di macchina: tutto il mondo è una macchina ben congegnata e funzionante, ma poi ci sono le macchine costruite dagli uomini mediante la tecnica, che può però o “degenerare” (diventando da “mecanica” a “moecanica”, cioè adulterina), oppure “ricondotte” alla pienezza della teologia. Questa visione, certamente lontana dall’orizzon-te della modernità in cui ancora ci muoviamo, ci deve però far riflette-

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re sul rischio di fermarci a una visione baconiana (per cui “scientia est potentia”) e faustiana (per cui “in principio è l’azione”), che sembrano fare dell’utilità l’unico criterio dell’attività. Occorre piuttosto una visio-ne appunto integrale che possa dare all’agire dell’umanità nel mondo un carattere davvero umano.

D’altra parte, se l’uomo è un ente naturale, come potrà, agendo, de-generare, ossia andare contro natura? Lo può fare perché la sua libertà lo chiama non solo ad agire, ma a provvedere. La volontà libera quindi può danneggiare la natura (non solo il cosmo, ma la stessa struttura ontologica umana), che quindi ne risulta ripiegata su di sé (“incurvata”, “corrotta” e “decaduta”). È come rimedio a tale ripiegamento egoistico su di sé che sono stati assunte dall’umanità forme di subordinazione economica, sociale e politica, che gradualmente e volontariamente po-tranno e dovranno essere almeno in parte superate grazie al progressi-vo affinamento dell’umanità. La vita religiosa anticipa profeticamente questo progresso.

Dunque, tra la Scilla del “cinico” realismo e la Cariddi dell’“utopico” idealismo, Papa Francesco ci addita (sulle orme di Francesco d’Assisi, guardato bonaventurianamente come “guida”) la strada di un “profeti-co” progresso di realizzazione dell’ideale, portato avanti dai credenti in Cristo, ma condivisibile almeno in parte da tutta l’umanità.

Andrea Di MaioPontificia Università Gregoriana

Facoltà di FilosofiaPiazza della Pilotta, 4

00187 Roma