the mmaking oof serge sergent pepper

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275 6,00 gennaio 2009 elettriche DEAN DIMEBAG ampli LANEY LC30 acustiche PAOLO GRASSI ampli RANDALL T2 mensile di cultura e tecnica chitarristica MENSILE - poste italiane spa sped. abb. post. d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1, dcb roma - anno XXIV - gennaio 2009 Serge PEPPER ESCLUSIVO Sergent PEPPER George Martin IN LIBRERIA TRADOTTO DA PAOLO SOMIGLI BLUES the making of

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Page 1: the mmaking oof Serge Sergent PEPPER

275

€ 6,00g

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2009

elettriche DEAN DIMEBAG • ampli LANEY LC30 • acustiche PAOLO GRASSI • ampli RANDALL T2

mensile di cultura e tecnica chitarristica

MENSILE - poste italiane spa sped. abb. post. d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1, dcb roma - anno XXIV - gennaio 2009

SergePEPPER

ESCLUSIVO

SergentPEPPER

GeorgeMartin

I N L I B R E R I A T R A D O T T O DA PA O L O S O M I G L I

BLUES

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Non è mai troppo tardi, recitava il titolo di unafortunatissima trasmissione televisiva deglianni sessanta, quando più della metà dellapopolazione italiana era praticamente analfabe-ta. E non è mai troppo tardi per parlare di Bea-

tles ancora oggi; salvo farlo sbigottiti per l’ennesima volta, sco-prendo in quella favola ormai lontana spunti incredibili diriflessione, che vanno in ogni direzione. L’occasione qui è deltutto particolare e decisamente rilevante: il libro scritto nel1993 da George Martin, che in Italia non era mai stato pubbli-cato. Fino ad oggi. Chi scrive questo articolo ha acquistato idiritti di traduzione di Summer of Love, The Making of Sgt.Pepper. È un libro particola-rissimo, non solo perché de-rivato dalle testimonianzedirette di chi davvero puòdire “C’ero anch’io”, ma per-ché è scritto con leggerezza,semplicità, intelligenza e a-more. C’è tanto da trovarcidentro, sul serio. Ne citeremoalcuni passi qua e là.George Martin è l’uomo cheè stato accanto e dentro i Bea-tles per otto lunghi anni, enon si è mai limitato a staredietro le quinte. Il suo appor-to è stato determinante nonsoltanto per loro, quanto perla musica pop in generale; efu solido e consistente, tantoda fargli guadagnare l’appel-lativo di quinto Beatle, chemai fu più meritato.

A qualcuno di noi, a migliaiadi noi, sarà capitato almenouna volta nella vita di pensa-re cosa sarebbe la musica og-gi, cosa saremmo noi stessioggi, se i Beatles non fosseromai esistiti. Non è un’argo-mentazione retorica, è pura realtà: i quattro ragazzini di Liver-pool hanno condizionato a livelli planetari le abitudini dei gio-vani del mondo intero, a partire dagli aspetti più banali per toc-care poi ogni atteggiamento sociale e musicale. E noi oggisiamo un po’ il risultato di tutto questo, ci portiamo appressoancora adesso le mille implicazioni di quello scenario che fucosì sconvolgente.Da un articolo del 1967:

L’intera faccia della Gran Bretagna si sta ricoprendo dipeli. Diciamo la verità: oggi non sei nessuno in questo paese se

non hai un centimetro di peli macchiati di nicotina che ti sporgo-no dal labbro superiore... Così succede a Sean Connery, TerenceStamp, Brian Epstein, Pete Townshend, Keith Richards... Se qual-cuno si chiedesse come mai sia spuntato all’improvviso tutto que-sto pelo sul labbro superiore dell’intera Inghilterra, la risposta èsemplice: i baffoni in stile messicano oggi sono diventati ‘in’. Esono ‘in’ perché George Harrison ha deciso di farseli crescere men-tre imparava a suonare il sitar in India... e se questo non bastas-se, anche gli altri Beatles se li sono fatti crescere. Da quando l’hosaputo, adesso me li sto facendo crescere anch’io.

(Christopher Ward, Daily Mirror)

L’importanza della musica deiBeatles, come si evince chiara-mente dal libro, non risiedetanto nelle singole abilitàstrumentali dei quattro ragaz-zi: si tratta invece di un calei-doscopio di intenzioni, sco-perte, esperimenti, coesione,magia, arrangiamenti, strut-turazione, competizione,inventiva, composizione. Inuna parola, il tutto nei Beatlesnon fu mai uguale alla sem-plice somma delle parti. Lechitarre nei loro dischi sono alservizio di un insieme chesupera ogni singolo apporto,e tutta la loro produzionediventa un affresco enorme esconvolgente che lasciaammutoliti. Inutile cercare atutti i costi il virtuosismo, iltecnicismo funambolico. Distraordinario e sconvolgentec’era invece sempre il risulta-to, raggiunto a volte conmezzi assolutamente di fortu-na. Così racconta GeorgeMartin nel libro:

Ogni volta che parlo delle tecniche di registrazionedella metà degli anni sessanta, mi sento come il barone VonRichthofen mentre descrive il triplano Fokker a un gruppo di pilo-ti del Concorde.

E ancora:

Condividevo perfettamente la frustrazione di John,perché anch’io ritenevo che dovessimo essere equipaggiati con piùnuovi e migliori strumenti. Potevo capire anche, comunque, cheall’epoca la EMI nelle sue produzioni ad Abbey Road non era

di paolo somigli/illustrazioni di paolo bernucci»cover story

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molto diversa da un’azienda come la Rolls Royce: un po’ tradizio-nale, ma comunque fornita di validissimi ingegneri.

Ma lo stesso Sir George ebbe un primo incontro piuttosto con-traddittorio con loro, ascoltò con un certo disinteresse malcelato la lacca che gli aveva portato Brian Epstein nel 1962, perfarglieli sentire:

La qualità della registrazione era orribile. Non solo, maquei Beatles, come si facevano chiamare, proponevano tutto unsusseguirsi di ballate che ormai sembravano datate anche a quel-l’epoca: cose tipo “Over The Rainbow”, o “Besame Mucho”,mischiate a qualche blues classico, tipo “Your Feet’s Too Big” diFats Waller. Cominciai a innervosirmi. [...] Però, un momento...Fra tutto quello sgraziato insieme di ballate sdolcinate, i compo-nenti del gruppo avevano aggiunto sul demo anche un paio dipezzi di loro composizione. Le canzoni che avevano scritto si inti-tolavano “Please Please Me” e “Love Me Do”.

Decise di convocarli quindi a Londra per un provino:

C’era qualcosa di particolare in loro comunque, a parte lamusica, come mi fu immediatamente chiaro non appena li ebbidavanti: l’ingrediente magico, il carisma. Trasudavano esuberanza.Facevano scintille mentre suonavano, e anche quando gli si parlavafaccia a faccia. Individualmente e collettivamente, erano quattroragazzi molto giovani dal fascino irriverente. Nessuno poteva resiste-re al loro calore, alla loro prontezza e alle loro battute brucianti.

E poi ecco la folgorazione per lui, e tale sarebbe stata successi-vamente anche per milioni di noi:

Poi suonarono “Love Me Do”. Nonostante fosse unacomposizione Lennon/McCartney, chiesi che fosse Paul a cantarecome solista, perché volevo che l’armonica di John si fondesse con

Dear Prudence (intro) White Album

Daniele Bazzani suona i Beatles:www.accordo.it/articles/2009/01/20170/suonare-i-beatles

EEsseemmppii mmuussiiccaalliiGli esempi scelti non riguardano Sgt. Pepper in parti-colare, vogliono solo essere una ‘piccola’ panoramicasulla chitarra nelle canzoni dei Beatles.

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la voce. Ovviamente John non avrebbe potuto cantare e suonareallo stesso tempo. Così Paul poteva invece cantare liberamente,mentre John gli faceva il controcanto con la sua voce particolar-mente tipica, nasale, spesso su una sola nota; e questo divenne ilmarchio riconoscibile del loro primo sound. Ed ecco che improvvi-samente una cosa mi colpì, dritta negli occhi: era un gruppo quel-lo che stavo ascoltando. Dovevo considerarli un gruppo e produr-li come gruppo. Quelle armonie così particolari, quella miscela disuoni così personale: ecco cosa avrebbe funzionato. Era questo cheavevo intuito confusamente dal demo. Non riuscivo a pensare anessun altro gruppo o suono simile nella musica pop, anche con-siderando le dozzine di dischi d’importazione americani che avevoascoltato fino a quel giorno.

Da allora la storia non conobbe un attimo di tregua: fu un cre-scendo sconvolgente, un susseguirsi continuo di tour e produ-zioni artistiche. E una cosa fu immediatamente evidente a tutti:eravamo sbalorditi di quello che accadeva con una velocità chenon conosceva limiti, ogni disco era semplicemente migliore diquello che l’aveva appena preceduto. Il più sconvolto di tuttiera, ovviamente George Martin, che man mano andava svilup-pando e affinando il suo apporto nei loro confronti. Nei pri-missimi tempi, il suo lavoro era quello tipico di un semplice eonesto produttore:

Quando arrivavano da me con una canzone, mi mette-vo a riflettere su come arrangiarla in modo che partisse nel modomigliore, avesse qualcosa di interessante nel mezzo, e finisse bene.In genere una canzone pop va costruita partendo da una strofainiziale, che generalmente non è particolarmente lunga, poi c’èbisogno di un inciso, di un assolo di chitarra, di un’altra strofa chesi ripete e di una conclusione. Una formula decisamente semplice,ma contavano su di me per realizzarla al meglio.

Ed ecco che ben presto il compito di George Martin cominciòad affinarsi e a diventare sempre più stretto e verticale. Non silimitava più ad indicare in che modo iniziare un pezzo e chiu-derlo per dargli più mordente, ma cominciò una fase di speri-mentazione che fu tanto empirica quanto splendida ed efficace.Sfruttando il suo passato di produttore di musica per comme-die e di sonorizzazioni, cominciò ad usare gli studi di AbbeyRoad come una sorta di giardino dei divertimenti, utilizzandotutto quello che aveva intorno in maniera assolutamente pococonvenzionale, guadagnandosi il rispetto, la sorpresa e l’ammi-razione dei quattro-ragazzi-quattro di Liverpool, insieme aiquali davvero giocò con tutto quello che c’era a portata dimano:

Col passare degli anni questa semplice formula divennesempre più inadeguata. “Rain” aveva bisogno di qualcosa di spe-ciale nella parte finale, che le desse una spinta verso l’alto; cosìpresi una delle strofe che John aveva cantato all’inizio, e la usai alcontrario, dopo essermi accertato che musicalmente avrebbe fun-zionato (la frase riprodotta al contrario stava bene sugli accordi)e che questa sarebbe stata una trovata intrigante. Feci la prova:suonava bene. Questo semplice rovesciamento della voce, insiemeal suono del tamboura, regalò alla canzone quella sorta di saporemistico, molto diverso da tutto quello che avevamo sperimentatoprima di allora. John andò fuori di testa quando l’ascoltò, e anchePaul: dopo quella volta volevano che registrassi tutto alla rovescia!

I nastri al contrario costituiscono probabilmente uno degliaspetti più conosciuti di un certo modo di lavorare in studio deiBeatles insieme a George Martin, che a quel punto sembravanotutti e cinque dei ragazzini felici di poter giocare liberamente,limitati soltanto dalle tecnologie dell’epoca. E di invenzioni cene furono a bizzeffe:

Per fissare in modo pratico le idee musicali che via viagli venivano, Paul aveva a casa un paio di registratori Brennell a

Drive My Car (intro) Rubber Soul

Eight Days A Week (intro) Beatles For Sale

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nastro. Scoprì che dopo aver rimosso la testina di cancellazione, eusando solo quella di registrazione, ogni suono che veniva regi-strato non veniva più cancellato durante una successiva registra-zione. Anzi, quel suono passando oltre la testina di ascolto venivaregistrato ancora, e ancora e ancora, fino a saturare il nastro. Se siriascoltava quel suono, si scopriva che non aveva più niente a chevedere con l’orginale da cui si era partiti (il che era mille volte piùdesiderabile, se eri un Beatle!). Paul costruì tutta una serie di‘loop’ di nastro fatti di questi piccoli eventi sonori divertenti, satu-ri, distorti. Lo raccontò agli altri, e così anche loro eliminarono letestine di cancellazione dai loro registratori, e si misero a sfornareloop di qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Poi cominciarono a por-tarmi tutti questi loop, come fanno i gatti che portano ai loropadroni i passerotti che hanno ucciso. Li ascoltai, li riprodussi adiverse velocità, avanti e indietro, a tre pollici e tre quarti al secon-do, a sette pollici e mezzo, a quindici, e iniziai a scegliere i miglio-ri. Dei trenta loop che mi portarono, ne scelsi sedici che mi piace-vano, ognuno della durata di circa sei secondi, per usarli in“Tomorrow Never Knows”.

Ai nostri giorni, in un’epoca fatta di pc casalinghi dove ancheun bambino può avere a disposizione molto ma molto di piùdell’intero potenziale tecnico disponibile a quell’epoca negliinteri studi di Abbey Road, tutto questo può sembrare incredi-bile. Eeppure è accaduto:

Quello che dovevo fare era trovare otto registratori, inmodo che ciascuno potesse riprodurre un loop. Quindi rivoltail’intera EMI. Entrai in ogni stanza dell’edificio di Abbey Roaddicendo a chiunque incontravo: “Ascoltami, mi serve un registra-tore e un uomo che gli stia accanto e che ci faccia girare sopra que-sto anello di nastro ininterrottamente. E per tenerlo bene contro latestina, il tecnico avrà bisogno di una matita, perché il nastro delsuo loop mantenga invariata la giusta tensione”. All’epoca i regi-stratori erano dei grandi, enormi BTR3. Una volta sistemati in unposto, non potevano più essere spostati tanto facilmente. Quindiad Abbey Road ci ritrovammo con tecnici in camice bianco adogni piano dell’edificio, ognuno davanti al proprio BTR3, con unamatita piazzata dentro a un piccolo anello di nastro. Il suono diogni loop veniva quindi fatto passare attraverso il sistema dicablaggi interno di Abbey Road che attraversava muri e pavimen-ti, usciva da questi, scendeva giù fin dentro il nostro studio, e allafine arrivava al nostro banco di missaggio. Tirando su un fader, sipoteva ascoltare un particolare loop girare all’infinito, mantenutoa velocità costante da un uomo in camice bianco situato a diversipiani di distanza da dove eravamo noi, che faceva suonare in con-tinuazione la sua cacofonia. Davvero alta tecnologia! Per missarele cose, quindi, tutto ciò che dovevamo fare era spostare ogni faderal momento preciso, e usare il pan-pot del banco di missaggio permuovere quel suono particolare all’interno dello ‘spazio’ (cioèdisporlo dove meglio ci piaceva all’interno del panorama stereo,da destra a sinistra). Ci stavamo divertendo tutti quanti. “Unattimo,” dissi. “Perché non missiamo insieme tutta la canzone,tutti allo stesso tempo?” Fu ciò che facemmo. Paul aveva un paiodi fader con cui giocare, Ringo e Gorge anche, io mi occupavo delpanning stereo e li avvertivo se esageravano, ed ecco spiegato comeottenemmo il nostro mélange di suoni strani e meravigliosi che si

Got To Get You Into My Life (frase) Revolver

I Want You (intro) Abbey Road

Michelle (intro) Rubber Soul

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sentono su “Tomorrow Never Knows”. Geoff Emerick teneva unocchio ai V-meter dei quadranti per essere sicuro che nessunofacesse qualcosa di sbagliato. Dopo un po’ ne avemmo abbastan-za degli otto loop che stavamo usando, li togliemmo dagli ottoregistratori, e al loro posto ci mettemmo gli altri otto, usandoli peril resto della canzone.

Inutile dire che all’ascoltatore dell’epoca tutto questo modo diprocedere era assolutamente sconosciuto e invisibile; e provatead ascoltare oggi “Tomorrow Never Knows” e vi sorprenderetedell’impatto sconvolgente e modernissimo che ha ancora.Provate poi ad immaginarvi l’effetto che poteva fare a chi l’a-scoltava all’epoca, dopo avere appena comprato il disco. E tutto

questo ad appena tre anni di distanza da “Please Please Me”.Pazzesco, no? Durante la realizzazione di “Strawberry FieldsForever”, inizialmente prevista per Sgt. Pepper, vennero fattediverse take del pezzo. A John piacevano in particolare la n. 7 ela 20, totalmente diverse fra loro sia per intenzione che pervelocità di esecuzione...

John, sempre idealista e completamente privo del mini-mo senso pratico, mi disse: “Mi piacciono tutte e due. Perché nonle uniamo? Potresti iniziare con la versione 7 e attaccarci versometà la 20, per ottenere un finale grandioso”. “Geniale!” replicai.“Ci sono solo un paio di problemi nella tua soluzione: le due ver-sioni sono in tonalità completamente diverse, un intero tono didifferenza; e anche le velocità non sono uguali. A parte questo, cheproblema c’è?”. John sorrise al mio sarcasmo, con il tono pazientedi un adulto che cerca di calmare un bimbo. “Bene, George”, dissebrevemente, “sono certo che saprai trovare la soluzione, vero?”dopodiché girò i tacchi e se ne andò. Alzai gli occhi verso GeoffEmerick e sospirai. [...] Non c’era alcun modo per riuscire adunire le due take fra di loro. A meno che... a meno che... Visto chela traccia 20, quella frenetica, era veloce, molto più veloce, potevoforse provare a rallentare il nastro. Il che tra l’altro non avrebbesignificato solo diminuire il tempo, ma anche la tonalità. Avrebbefunzionato? Era un bel problema abbassarla di un intero tono...quasi il 12%; ma valeva comunque la pena di provare. Abbiamoquindi chiamato la nostra incredibile squadra tecnica, che si pre-sentò trascinando in studio un’enorme specie di lavatrice delledimensioni di un dinosauro: il ‘variatore di frequenza’. Quellaspecie di mostro a valvole, una creatura di Ken Townshend, ilnostro capo ingegnere, e della sua allegra squadra di tecnici, unavolta alimentato elettricamente poteva forzare su o giù la corren-te alternata ai due estremi dei regolari cinquanta cicli al secondo.Non chiedetemi in che modo potesse farlo, non ne ho idea. Quelloche posso dire è che si surriscaldava spaventosamente e avrebbepotuto esplodere in una miriade di scintille se la si fosse forzatatroppo. Ma era tutto quello che avevamo. L’attaccammo alla cor-rente. Cercammo un punto nella canzone dove ci fosse un cambiodi atmosfera tale da poterci permettere di nascondere al megliol’editing del secolo, il punto di giunzione fra le due parti. Lo tro-vammo a un minuto esatto dall’inizio del brano.

Un altro esempio di manipolazione creativa è relativo alla rea-lizzazione di “For The Benefit of Mr. Kite”. John voleva a tutti icosti qualcosa che gli facesse “sentire l’odore della segatura diun circo”, e al povero George Martin toccò scervellarsi per tra-durre quell’idea in realtà. Ci ragionò notti intere, e poi deciseche avrebbe potuto usare il suono di una calliope, quell’enormeorgano a vapore tipico delle feste di paese. Impossibile portar-ne uno negli studi. Frugò allora in ogni archivio della EMI, escovò dei dischi di marce militari suonate con quello strumen-to. Così com’erano, risultavano inutilizzabili. Ed ecco comerisolse brillantemente il problema:

Riascoltai tutte le registrazioni di marce militari equant’altro avevo trovato, e trasferii tutto su un singolo nastro. Eora serviva un lampo di genio. Alla fine mi venne un’idea. Scelsiuna porzione di quel nastro, lunga due minuti. Poi andai da Geoff

She Loves You (raccordo tra le strofe)

Till There Was You (assolo) With The Beatles

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Emerick, che a quel punto era diventato molto più di un semplicetecnico al mio servizio per quell’album straordinario: era diventa-to il mio complice. “Geoff,” gli dissi, “qui ci serve qualcosa di spe-ciale; voglio che tu tagli questo nastro in pezzetti più o meno diuna quarantina di centimetri l’uno.” Geoff cercò le sue forbici einiziò a tagliuzzare. In un batter d’occhio ci trovammo davanti aduna piccola montagna di frammenti di nastro, tanti piccoli vermiammucchiati sul pavimento ai nostri piedi. “Ora,” dissi, “prendi-li tutti, e falli volare per aria!” Mi guardò. Naturalmente pensavache fossi diventato matto. Fu un momento incredibile; pezzi dinastro piovevano dal cielo in tutta la sala regia. [...] “Ora, racco-glili, incollali di nuovo insieme, e non pensare a cosa stai facendo,”dissi a Geoff. [...] In questo modo particolare ottenemmo comerisultato una sorta di patchwork costituito da tante parti diversedella registrazione originale dell’organo a vapore, tutte in seg-menti che duravano circa un secondo: tanti suoni spezzettati cheturbinavano intorno a noi. Riascoltati, formavano un ammassocaotico di suoni: era impossibile riconoscere i brani da cui eranostati estrapolati; ma si trattava indubitabilmente di un organo avapore. Perfetto! Ecco l’atmosfera che stavamo cercando. John eraentusiasta del risultato.

È strano pensarci oggi, ma a quell’epoca la musica, quella ‘pop’,era fatta da ragazzi. Non c’era spazio per i ‘grandi’. Qualsiasitrentenne sembrava già vecchio e da seppellire. Oggi è tuttomolto diverso, l’età media di chi suona in tour si è alzataenormemente, e non è strano godersi tranquillamente iconcerti di musicisti di vecchio pelo, stempiati e con la pan-cia grossa come quella di un pensionato. Allora invece lamusica era fatta da ragazzi e per i ragazzi. Una sorta di com-plicità giovanile che favoriva il riconoscimento dei suoiappartenenti e contribuiva a tenere sempre più alto ildistacco e la reazione nei confronti delle autorità, inizial-mente quella dei genitori, e poi quella di un establishmentche pareva a tutti ormai vecchio e stantio. Deve essere statopiuttosto strano avere superato la trentina, come accadeva aGeorge Martin quando li incontrò la prima volta, ed avere ache fare con quei quattro teppisti di Liverpool, in un perio-do che di lì a poco sarebbe esploso nelle contraddizionimulticolori e psichedeliche dell’estate del 1967.

Era l’Estate dell’Amore. I B52 delle forze aeree statuni-tensi ogni giorno riversavano 800 tonnellate di bombe sulVietnam del Nord, le Guardie Rosse cinesi tenevano l’intera Cinaper la gola, e il popolo Ibo del Biafra moriva di fame, quando nonveniva massacrato. Ma dal mio ufficio, negli studi di Abbey Roadnella zona ovest di Londra, vedevo soltanto migliaia di personeche parlavano esclusivamente di Pace e di Amore. Si emarginava-no dalla società, si facevano crescere i capelli, si dipingevano ilcorpo, si reinventavano il sesso. Contemplavano l’eventualità difare una rivoluzione, e i propri ombelichi. Avevano i Fiori, che perloro rappresentavano il Potere. Avevano erba e acido, ottimismo eentusiasmo. Avevano gli happening, i be-in e i love-in. Avevanol’idealismo, l’energia, i soldi e la giovinezza. E avevano ancheun’altra cosa. Avevano la musica. Le buone vibrazioni continua-vano ad arrivare da Hendrix, dagli Who, da Jagger, da JanisJoplin, da Dylan, dai Beach Boys, dai Doors e dalla Tamla

Motown. Negli appartamenti e nei monolocali, negli accampa-menti hippie e nei parchi, nelle baracche, negli attici e negliappartamenti, nelle case di tutto il mondo si ascoltava musica. DaRio a Rimini, da Dallas a Gibuti, milioni di persone accendevanola radio e ascoltavano musica. Il primo giugno del 1967 tuttaquella gente ha ascoltato lo squillo di tromba più forte, il suonopiù alto e chiaro di un’intera generazione. Era l’album più scon-

Fixing A Hole (assolo) Sgt. Pepper

Sgt. Pepper (intro)

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volgente dei Beatles. La Hippie Symphony N. 1. Il suo titolo eraSgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Era arrivata, finalmen-te, l’estate: The Summer of Love.

Mantenersi giovani era l’imperativo assoluto per i Beatles, comedimostra in qualche modo “When I’m Sixty-Four”. Al momento diregistrare quella canzone, George Martin aveva 41 anni.

La canzone di Paul mi riportava alla mente ricordivivissimi della mia infanzia. Ricordo bene le idee strambe che avevoa cinque anni. Da bambino superai addirittura la visione di Paul,convinto com’ero che crescere dovesse essere di per sé una specie difavola. Non potevo accettare l’idea che i bambini si sarebbero vera-mente un giorno trasformati in persone grandi. Guardavo i mieinonni, e pensavo che quelle strane forme di vita non avevano nientea che spartire con le gioie della vita come io l’intendevo.Ricordo mia nonna come una gigantesca piramide di carne umana;non che ne abbia in realtà mai intravisto neanche un pezzetto, dalmomento che si vestiva invariabilmente con una specie di enormetenda nera che la copriva dalla testa ai piedi. Avrà pesato qualcosacome 140 chili. Non le ho mai visto i piedi e spesso da bambino pen-savo che probabilmente non li avesse. Forse si muoveva su piccolicarri armati, come uno dei Daleks nel film Doctor Who.

Un periodo quindi intenso, denso di fermenti, si avvertiva l’ariadi un grande cambiamento; George Martin, gentleman inglese dieducazione tradizionale e di grande senso della misura, si è ritro-

vato tutto ad un tratto nelcentro esatto di un ciclonedi portata incommensura-bile. Ecco cosa racconta SirGeorge nell’introduzionescritta appositamente per lanostra edizione italiana:

I giovani di tutto ilmondo scoprirono che nonerano più costretti aduniformarsi allo stile di vitadei propri genitori. Il FlowerPower indicava la strada daseguire, e tutti capirono cheera possibile scrollarsi didosso gli ultimi rigurgitidell’epoca vittoriana pienadi bacchettoni e di ipocrisiesessuali. La terribile minac-cia dell’Aids era ancora di làda venire. Ma a dire laverità, personalmente ditutto questo non mi accorsiminimamente: ero troppoindaffarato.

La sperimentazione nonera limitata soltanto al-l’ambito musicale; veniva

portata avanti anche nei confronti degli stati di coscienza...

Una volta che mi sentivo un po’ giù, John mi mise qual-cosa in mano. “Ecco qua, George,” mi disse. “Questa farà meravi-glie per te.” Guardai la mano, e vidi una piccola capsula, comequelle che si prendono per un raffreddore o per un’influenza. Latenni e poi la mostrai a Norman Cowan, il mio medico. “Cos’èquesta, Norman?” gli chiesi. La guardò spaventato. “Dio mio, Ge-orge,” disse sconvolto, “dove l’hai presa? Per carità, non usarlamai. Anzi, dalla a me, adesso...” A tutt’oggi non so proprio di chesi trattasse. Forse mi sono perso qualcosa.

Uno dei capolavori di Sgt. Pepper è “A Day in the Life”. Ed èanche uno dei capolavori personali di Sir George, che scrissequella parte così d’avanguardia del famoso crescendo d’orche-stra in mezzo a tutto il resto. La realizzazione venne filmata indiretta, con gli studi di Abbey Road pieni di una folla tintin-nante e multicolore...

I Beatles volevano organizzare un grande party, quindiinvitarono alcuni dei loro amici, più o meno una quarantina,inclusi Mick Jagger, Marianne Faithfull, Patty Harrison, BrianJones, Simon Posthuma e Marijke Koger del gruppo di creativichiamato The Fool, e Graham Nash; ognuno di loro indossavasvolazzanti abiti multicolori, pantaloni a zampa d’elefante arighe, panciotti dai colori scintillanti, vistose sciarpe di seta, colla-nine di perline, braccialetti, ciondoli, spillette e campanelli. [...]

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Tutta questa gente si muoveva per lo studio accendendo girando-le e facendo bolle di sapone attraverso piccole pipe. C’era un odoreparticolarmente strano e pungente nell’aria, ma poteva ancheessere soltanto quello dei bastoncini d’incenso che bruciavanodappertutto... Fu un vero e proprio happening. Non appena laregistrazione incominciò, pregai i figli dei fiori di sedersi vicinoalle pareti e stare tranquilli; e, da bravi bambini, lo fecero!L’invenzione di quel crescendo orgasmico dell’orchestra non avevaprecedenti nella storia della musica pop, o rock. I Beatles si eranotrovati con un buco di 24 battute da riempire all’interno del pezzo.

I Beatles e George Martin volevano riempirle con qualcosa chefosse fenomenale, sconvolgente.

Tutto quello che potevamo fare per stabilire cosa dovesseessere fatto in quelle ventiquattro battute era istruire ogni musicista adiniziare suonando la nota più bassa del proprio strumento (più pianoche poteva!), spiegando soltanto che doveva finire al termine dellaventiquattresima battuta suonando contemporaneamente la nota piùalta che avesse a disposizione, con gran volume. L’unica cosa che pote-vo scrivere sulla partitura erano dei marker di riferimento lungo il

PPer molti è stato il più bel disco deiBeatles, per alcuni il più significativoerappresentativo, altri lo reputano il

più innovativo, per altri ancora è semplice-mente l’ottavo disco dei Fab Four.L’ambiguità dei testi, i nonsense, le allusio-ni alle droghe, i giochetti sulla presuntamorte di Paul McCartney, l’uso imponentedell’orchestra, le canzoni legate l’una all’al-tra fanno però di Sgt.Pepper’s Lonely HeartsClub Band l’album più discusso e analizza-to da pubblico e critica. Abbandonato ilprogetto iniziale di una carrellata di canzo-ni ispirate dai ricordi d’infanzia e dalleatmosfere legate a Liverpool, a McCartneyvenne l’idea di simulare che i Beatles fos-sero una band immaginaria e che l’interoalbum risultasse come uno spettacolo dalvivo.Per questa ragione Sgt Pepper è ancheritenuto il primo album concept della pop-music, ma in realtà potrebbe essere consi-derato, senza sminuirne il valore, semplice-mente come una raccolta di splendidecanzoni, non essendo sostanzialmentelegate da un particolare filo conduttore.Comunque la mettiamo è oggettivamenteinnegabile l’importanza di quest’opera siaper il suo significato nella storia dei Beatlessia ingenerale nello sviluppo di quel perio-do. Sgt. Pepper rappresenta per molti l’ulti-mo vero lavoro corale in cui traspare unaunivocità di intenti, l’evoluzione naturaledelle esperienze precedenti; in seguito,forse anche in conseguenza della tragicamorte di Epstein, i Beatles perdono di coe-sione, le quattro personalità cominciano adivergere per varie ragioni e spesso suc-cessivamente si ha l’impressione che ilgruppo assecondi come accompagnatoreil Beatle di turno.Nel quadro storico delperiodo l’album rappresenta la fine del

beat e la conferma di nuovi filoni musicalicome la psichedelia e un certo rock sinfo-nico a volte di gusto discutibile. Com’eragià successo in precedenza, i Beatles dava-no il via con importanti innovazioni pretta-mente musicali o tecniche a nuovi orizzon-ti espressivi. Ma mentre altri gruppi suqueste novità fondavano per anni il lorosound, i Beatles al contrario usavano leinnovazioni da loro stessi sperimentatecon grande leggerezza e solamente comemezzo espressivo. E così, inaspettatamen-te, alla complessità del suono del ‘67,face-va seguito, per esempio, la semplicità delWhite Album. Sgt. Pepper fu anche unmodello per quanto riguarda l’utilizzazio-ne delle allora limitate tecniche di registra-

zione. Nel giugno del ‘67 la signorina die-tro al banco del negozio di dischi nei pres-si di Piazzale Flaminio a Roma mi chiese:“Lo vuoi mono o stereo?”.Balbettandoespressi la mia indecisione. “Hai due alto-parlanti - fece lei - o uno solo?”. In casa c’erada poco una fonovaligia con altoparlanti, equindi risposi: “Due”. Se potessi tornareindietro ai miei quattordici anni, sapendoche il missaggio al quale parteciparono iquattro Beatles era quello mono, risponde-rei:“Uno”.

MMaarrccoo SSeerrssaallee

da Chitarre 257, luglio 2007

Ma cos’era mai questo Sgt. PEPPER?

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percorso: le ventiquattro battute vacanti sarebbero durate moltissimo,circa quaranta secondi, e i musicisti erano tenuti a procedere gradual-mente salendo molto, molto lentamente, e il più dolcemente possibile.Gli archi non avrebbero dovuto suonare note precise, dovevano solomuovere i loro archetti in un lentissimo crescendo. I legni e alcuni otto-ni erano invece costretti a suonare note distinte, ma alcuni degli stru-mentisti potevano usare le labbra piuttosto che la lingua, per ottenereun lieve legato tra una nota e la successiva. Sulla partitura, quindi,scrissi ad ogni inizio di battuta su quale nota ogni musicista avrebbedovuto approssimativamente trovarsi, una sorta di segnali messi infila lungo una strada musicale. Quando venne il momento di regi-strare, chiamai le battute man mano che scorrevano, cosicché i musi-cisti fossero consapevoli che se erano a battuta sei, ad esempio, dove-vano trovarsi su un La bemolle, o su un’altra nota precisa. Dopo averconsegnato la partitura ad ognuno di essi, spiegai come dovevano suo-narla. Le istruzioni che detti loro, comunque, li sconvolsero e li feceroirrigidire. Ci trovavamo in presenza di un’orchestra di prim’ordine,abituata ad essere diretta da maestri che li avevano sempre fatti suo-nare come un’unica entità coesa. Io invece stavo spiegando che la cosaessenziale in questo caso era proprio evitare di suonare come il com-pagno che avevano a fianco! “Se sentite il musicista accanto a voi”,dissi, “e scoprite che tutti e due state suonando la stessa nota, vuol direche state suonando la nota sbagliata. Voglio che ognuno vada perconto proprio e ignori tutto ciò che gli succede accanto; badate soltan-to al vostro suono”. Risero: metà di loro pensò che eravamo completa-mente pazzi, e l’altra metà che il risultato sarebbe stato una musicadavvero stridente.

Il libro ovviamente non si limita a parlare di Sgt. Pepper. Sono fre-quenti le digressioni a ritroso o in avanti su tutta la produzione deiBeatles; bisogna pensare che George Martin ha seguito da vicinoogni accadimento, anche al di fuori degli studi di registrazione,come quando seguì insieme a Brian Epstein i Beatles in uno dei lorotour americani:

Prima del loro concerto al Red Rocks Stadium a Denver,nel Colorado, Brian e io salimmo su uno dei giganteschi tralicci delleluci che sormontavano il palco. Da quella nostra postazione privile-giata, che garantiva una visuale a volo d’uccello, l’auditorium si apri-va davanti a noi come un vasto anfiteatro naturale. Un brivido freddomi attraversò lo stomaco. Guardai verso Brian. Dall’espressione sullasua faccia capii che tutti e due avevamo avuto lo stesso pensiero: da lì,un cecchino poteva colpire chiunque di loro senza il minimo problema.

Vivere a stretto contatto con i Beatles e lavorare giorno e notte conloro non deve essere stata un’esperienza semplice per Martin: il suocompito era capire cosa avevano in testa e tradurlo in realtà. Piùsemplice con Paul che con John...

Anche John ha sempre avuto un’idea molto precisa di ciòche voleva fare di una canzone; ne aveva spesso un’immagine moltochiara in testa, però non sempre riusciva a capire come metterla inpratica. Paul invece aveva le idee molto più articolate riguardo a quel-lo che voleva, era molto più centrato sul pezzo. John si limitava a dirmiche tipo di stato d’animo cercava per la sua canzone, mentre Paulinvece mi spiegava che in una certa canzone aveva bisogno, ad esem-pio, di un violoncello piuttosto che di una tromba. Dopodiché, a cose

finite, John magari non si sentiva soddisfatto perché il risultato finalenon corrispondeva a ciò che aveva in mente all’inizio.

Martin ha sempre tentato di coinvolgerli il più possibile, sfruttan-do i talenti straordinari di John e Paul, tentando di interessarli ascenari meno abituali per loro, come la musica classica, facendoascoltare ad esempio Debussy a John. Paul sembrava più ricettivoin questo senso...

Una volta Paul venne da me e disse: “Ho ascoltatoBeethoven, George.” “Ottimo, Paul,” risposi. Incurante della miarisposta laconica, continuò: “Ho scoperto il suo segreto. Sai, l’attaccodella Quinta: tutte note all’unisono. Non ci sono accordi. Tutti suona-no la stessa nota!” “È proprio così, Paul.” “Ma è fantastico!” si entu-siasmò,“È un effetto incredibile!”“Naturalmente,” risposi. “Tutta l’or-chestra parla con un’unica voce. Ecco dov’è il genio: bom bom bombo-om! La maggior parte della gente che la sente non si rende contoche c’è tutta un’orchestra che suona contemporaneamente le stesseidentiche note.” [...] A quell’epoca ripetevo spesso ai ragazzi: “Cercatedi pensare ‘sinfonicamente’; organizzate i vostri temi in modo che pos-sano essere trasposti in più tonalità; servitevi del contrappunto; cerca-te di fare in modo di affiancare le canzoni fra loro in modo che ognu-na possa quadagnare qualcosa in più anche da quella che la prece-de. Sono tutte cose che funzionano.” Ma John non voleva ascoltare:“Tutto questo per me non ha niente a che vedere col rock’n’roll,George,” mi disse. “L’unica cosa che serve per fare una buona can-zone è il groove del rock’n’roll.” Paul invece era perfettamente d’ac-cordo con quel ragionamento sulla ‘sinfonia continua’, se possodefinirla così, che avevamo tenuto presente nella realizzazione diPepper. Ecco perché Abbey Road presenta due facciate ben distin-te; una era quella che voleva John, con canzoni assolutamentedistinte come “Come Together”, “Something”, ma anche “Octopus’sGarden”; e l’altra con un lavoro molto più continuo ed integrato daparte mia e di Paul, nello stile di Pepper: “Because”, “You NeverGive Me Your Money”, “Sun King”, e così via. La sequenza di“Golden Slumbers”, alla fine del disco, rimane una delle cose chepreferisco.

Nell’incontrare ed intervistare George Martin, l’estate scorsa,abbiamo avuto i brividi. Un uomo semplice, tranquillo, infi-nitamente dedito al suo lavoro che continua a svolgere anco-ra oggi insieme al figlio Giles. Un uomo dallo sguardo chiaroe trasparente, la cui vita è cambiata insieme a quella di queiquattro ragazzi, e parallelamente al cambiamento subito dalmondo intero. Era lì con loro, giorno dopo giorno e nottedopo notte. Che fortuna. Grazie di tutto, Sir George.

So di essere stato molto fortunato. Sono stato un uomoprivilegiato, perché ho potuto lavorare con alcuni dei miglioricompositori e scrittori, musicisti e arrangiatori, cantanti e attoridel mondo. I più bravi si danno totalmente, dal profondo delcuore, e lo fanno senza clamore. Ma tra tutti, nessuno ha maineanche lontanamente eguagliato il genio di quei quattro teena-gers che ho incontrato più di trent’anni fa. Erano davvero favolo-si. Nella mia vita, li ho amati tutti.

p.s.

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Sir George, lei ha fatto un lavoro straordinario con i Beatles.Ne è certamente consapevole. E questo suo libro che ho trale mani è semplicemente grande, non solo perché è stato lei

a scriverlo, ma soprattutto perché all’epoca avevamo tutti biso-gno di una sua testimonianza diretta. Ho tentato di contattarlaper anni, dopo aver letto il libro nel 1993. Ma lei è un uomo che èdifficile da raggiungere, ha un management che semplicementedice di no a chiunque chieda di incontrarla…Eh già, ne ho sempre avuto bisogno. Mi fa da cerbero, il cane daguardia mitologico dell’inferno…Le dicevo di quanto sia grande questo suo libro. Dopo averlo lettoin versione originale ho passato mesi a cercarne una versione ita-liana nelle librerie. Niente da fare. Sbigottito, mi sono dovutoarrendere: semplicemente non esisteva. Mi è venuto in mente ditradurlo io stesso in italiano.Ha pensato a come tradurre il titolo?Lasciandolo esattamente così com’è: Summer of Love; se lei èd’accordo, naturalmente.Mi pare perfetto. Immagino che il pubblico italiano non avrà pro-blemi a capire cosa significa.Direi proprio di no. I ragazzi di oggi sanno tutto di quel periodo.Si rende conto dell’importanza che hanno i Beatles ancora oggi?Ho due figli, di nove e quindici anni: tutti e due vanno pazzi perqualsiasi disco dei Beatles. Come ha potuto mettere in piedi, SirGeorge, tutto quello che è accaduto in quegli anni? Come è statopossibile? Insomma, come ha fatto a fare tutto quello che ha fatto?E come avrei potuto non farlo? Ho fatto semplicemente quello chedovevo; mi sono sempre rimboccato le maniche quando dovevolavorare, e così è stato anche con i Beatles. Quando li ho visti e ascol-tati la prima volta, non ero convinto che la loro musica fosse davve-ro buona, ma sono stato catturato immediatamente dal loro fascinoe dal loro carisma, e ho capito che sarebbero diventati delle star; fuuna sensazione fortissima, che mi convinse ad ingaggiarli. Crebberobene, incredibilmente bene, e lo fecero assai velocemente; comequando pianti un seme in una serra e lo vedi nascere, e crescere, efiorire. E alla fine il loro albero divenne più grande del mio.I Beatles erano straordinari; ma non c’è il minimo dubbio che leiabbia avuto un ruolo decisivo nel far combaciare tutte le cose, nelfare dei Beatles quello che poi sono diventati, e che sono ancoraoggi. Un piccolo aneddoto personale, semplice ma esemplificati-vo: quando ero un bambino di nove anni, privo di qualsiasi fre-quenza con la musica, mi capitò di ascoltare “Please Please Me”,che qualcuno aveva messo sul piatto. Là dentro ci sentii il sole,

l’energia, la vita. Una sensazione fortissima, e inspiegabile. Chediavolo c’era là dentro di così fuori dall’ordinario? Perché unbambino avrebbe dovuto smettere di colpo di fare qualsiasi cosastesse facendo, per mettersi invece ad ascoltare sbigottito? Tu sai il perché.Negli anni mi è capitato di parlare con molte persone e scoprireche hanno avuto quella mia stessa identica esperienza. Ed ora mitrovo qui, con l’uomo che ha reso tutto questo possibile. GeorgeMartin. Mi sono sempre chiesto quale sia stato il suo apportoreale su ogni pezzo dei Beatles. Ad esempio, è stato lei a dire aGeorge Harrison di fare quella magnifica discesa di sedicesimi suHelp!, tra una strofa e l’altra? Andremmo troppo indietro nel tempo per riuscire a ricostruireoggi con precisione chi fece cosa. Sono costretto a mantenermi suun piano molto generale. Quando cominciammo a registrare, leloro canzoni erano molto primitive, molto semplici, ben poco…cerebrali. Era bubble gum music, e io ero quello che doveva dare unacoerenza al tutto; era questa la mia responsabilità, mettere a postole cose, mettere ordine: per ogni canzone dovevo trovare un’intro-duzione che fosse buona, decidere quante strofe dovevano esserci,dove inserire l’inciso, in che punto aggiungere un assolo di chitar-ra oppure di armonica, e infine in quale modo chiudere il pezzo.Prendi “Can’t Buy Me Love”: quando me la fecero sentire iniziavacosì… [canticchia:” I’ll buy you a diamond ring, my friend”] e iodissi : “No, facciamola cominciare diversamente: prendiamo l’inci-so e mettiamolo davanti a tutto; ma tagliamolo, facciamolo piùcorto…” In questo modo riuscimmo a ottenere un’introduzioneestremamente accattivante per le orecchie dei dee-jay dell’epoca.Era questo il mio lavoro, non dovevo scrivere niente, non compo-nevo niente. Prendevo quello che mi portavano, e lo adattavo per-ché diventasse più vendibile, più immediato.Questo almeno era quanto succedeva i primi tempi. Poi immagi-no che le cose siano divenute più complesse…Siamo stati insieme quasi dieci anni e col tempo la loro musica èdiventata sempre più sofisticata e incredibilmente brillante; a quelpunto il mio lavoro consistette nel capire quello che avevano inmente, e quindi tradurlo in qualcosa di reale, qualcosa che la gentepotesse apprezzare immediatamente. John Lennon, per esempio,scriveva le cose che sentiva dentro di sé, che suonavano fantastichenella sua testa; ma quando cominciava a buttarle giù non gli pare-vano più così belle. Voleva a tutti i costi realizzarle come le sentivadentro, ma non ci riusciva mai. Non riusciva a spiegarle, a entrarenel dettaglio, a specificare esattamente cosa voleva, cosa aveva in

intervista a

George MartinGeorge Martin, l’uomo che è stato accanto e dentro i Beatles per otto lunghi anni e il cui apporto è

stato determinante non soltanto per loro, ma per la musica pop in generale, è qui davanti a noi che

ci racconta...

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mente; ed ecco che il mio lavoro era quindi riuscire ad entrare nellasua testa per scoprire con precisione quello che ci teneva dentro. Enon era un lavoro facile, perché John si presentava da me con cosecome “Strawberry Fields”, che è una canzone molto complicata, e iodovevo trovare il giusto sound che stava cercando. Oppure mi face-va ascoltare canzoni come “Being For The Benefit of Mr. Kite”: quiil compito era ancora più difficile, perché dovevo trovare il giustotappeto di sottofondo che doveva suggerire un’atmosfera precisa;mi disse, in quel caso: “Quando faremo questa canzone voglio sen-tire l’odore della segatura del circo”. Un po’ complicato, no? E piùavanti poi, quando lavoravamo su canzoni veramente fuori dalcomune, che so, penso a “I Am The Walrus”, venne da me a farme-la sentire con la chitarra e gli chiesi: “Come vuoi farla questa can-zone, John?”, e lui mi rispose “Mah, non lo so. Potresti magari pro-vare con dei fiati, degli strumenti a corda, qualche violoncello…” eio gli risposi “Ok, sediamoci qui insieme e vediamo cosa riusciamoa tirarne fuori”, ma lui rispose “No, questo è il tuo lavoro”. E se neandò. E ce ne volle di lavoro, dovetti scrivere una partitura orche-strale che pensavo potesse funzionare e che speravo a John sarebbepiaciuta. Quando ci ritrovammo nel grande studio di Abbey Roadgli feci sentire cosa avevo preparato. Avevo ingaggiato un coro per-ché facessero un po’ di cose strane, buffe, tipo esclamazioni, risate,rumori di sottofondo; e quando John sentì il risultato insiemeall’accompagnamento orchestrale si mise a ridere, trovò la cosamolto divertente, insomma gli piacque molto…“I Am The Walrus” è una canzone strana, sognante, magica; hauna particolarità fuori del comune: non ha alcun accordo mino-re, sono tutti maggiori. Eppure non lo si direbbe mai, dall’atmo-sfera inquietante che ne risulta… Le canzoni di John erano basate soprattutto sulle parole e sullemelodie, che spesso risultavano assai monocordi, quasi monotone,una singola frase melodica basata su un unico paio di note ripetu-te ossessivamente [canticchia: “I am here as you are here…”]; ma erail movimento dell’armonia sottostante, i cambi di accordo, a darsignificato e movimento alla voce, e rendere interessantissima lamelodia. Tante delle sue canzoni erano costruite in quel modo.Lennon, commentando alcuni pezzi di Paul, mi disse una volta chea volte aveva poco rispetto, diciamo così, per alcune sue canzoniscritte evidentemente per il gusto popolare come “Michelle” o “TheLong and Winding Road”, con musica orecchiabile e testi pocoimpegnativi, canzoni che ti ricordavi facilmente. John mi disse “Ionon mi faccio illusioni sulle mie canzoni, non mi aspetto certo dientrare in un bar in Spagna e scoprire che qualcuno sta cantic-chiando ‘I Am the Walrus’.” A quei tempi John era alquanto orgo-glioso e non suonava le canzoni di Paul che trovava troppo poppy,non si sedeva mai a suonare “Yesterday” o “Ticket to Ride”.Ci sono stati dei periodi ben precisi nella vita musicale deiBeatles che si riconoscono facilmente: la fase iniziale con pezzimolto immediati ed essenziali, tanto pop e molto rock’n’roll; epoi il periodo centrale, intorno a Rubber Soul, così bello e proli-fico, fino al terzo periodo, quello sperimentale, da Revolver inpoi… ha mai pensato di scrivere un libro su ognuno di essi?No, no, assolutamente, non riesco ad immaginarmi niente di piùnoioso. Non mi piace analizzare i tempi andati, preferisco lasciarlofare ad altri; che si facciano le loro opinioni, io preferisco parteci-pare alle cose. Per la verità credo che non scriverò più nulla, la gentemi giudicherà per il mio lavoro.

In questo libro si ha l’impressione che Paul fosse molto vicino a lei,come mentalità e intuito musicale. Parlavate lo stesso linguaggio… La gente ha sempre pensato che io fossi più vicino a Paul, ma ilprimo fu John. In due parole, Paul è un musicista costante, incre-dibile, perfetto, suona il piano, la chitarra, il basso, la batteria,canta, scrive, e quando lavoravamo insieme lui sapeva sempre esat-tamente cosa voleva. Quando discutevamo parlavamo la stessa lin-gua, è vero, e per me era più facile avere a che fare con lui, mentrecon John era come cercare di tirare fuori una lumaca dal suoguscio, era difficile, e anche quando avevo fatto il mio lavoro nonero mai sicuro se gli sarebbe mai piaciuto.A John è sempre piaciuto quello che faceva? In un vostro incon-tro successivo allo scioglimento del gruppo John le disse che tuttidischi dei Beatles per lui erano… spazzatura.Non intendeva esattamente questo. Ha detto che avrebbe volutoregistrare nuovamente in altro modo tutto quello che avevamofatto insieme, ma non disse mai che quello che era stato fatto era dabuttare. Pensava che avrebbe potuto farlo meglio. Ma John era fattocosì, perché dentro la sua testa tutto era sempre migliore dellarealtà, e credo che non sia mai stato soddisfatto di nessuna dellecose che ha fatto. Non era un uomo pratico, e quando aveva a chefare con i suoni reali, si smarriva, perché non riusciva a far comba-ciare la realtà con i progetti che aveva in testa.Nelle canzoni di John sono spesso presenti delle anomalie ritmi-che, dei tempi o metri irregolari, come capita per i dieci quarti di“Good Morning”…Succedeva spesso, è vero. Ma anche Paul lo faceva, nonostante Johnfosse più portato per queste cose, perché non vedeva il motivo percui dovesse aggiungere una battuta o un movimento in più per farsembrare tutto pulito o regolare. Non gli importava niente, facevatutto nel modo in cui si sentiva al momento. Non ha mai accettatocompromessi nella sua vita e nella sua musica, era assolutamentespontaneo, e se a una battuta di quattro quarti seguiva una battutadi tre, era tutto naturale per lui. Tutto qui.Nel libro lei parla non solo dei Beatles ma anche delle sue espe-rienze personali di vita, dei suoi nonni, ad esempio, e lo fa inmaniera molto toccante. È una parte molto bella del libro, latestimonianza di uomo che si trovò a vivere con intensità tempicosì diversi da quelli della propria giovinezza. Lei era molto piùgrande di loro.Sì, sedici anni e mezzo, ma non sono mai stato un padre per iBeatles, ero piuttosto una specie di fratello maggiore.E quindi, da fratello maggiore, ha vissuto intensamente queitempi di grandi cambiamenti culturali nei quali si è trovato adessere coinvolto così profondamente. Era l’epoca dei primi hip-pies, una stagione fatta di sex & drugs & rock’n’roll. Doveva sem-brarle tutto così lontano da lei…È vero, stavo per dirlo. Ma a quell’epoca ero troppo occupato perrendermene conto. Io e Judy ci sposammo nel ’66, che fu un annoparticolarmente importante per i Beatles e per il mondo intero, enel ’67 nacque Lucie, la nostra prima figlia.Una vera figlia dell’Estate dell’Amore.Sì, a quei tempi la vita era davvero frenetica, ma io ero perenne-mente chiuso dentro Abbey Road. E può immaginare che avevomolta voglia e poco tempo di stare con Judy e Lucie; ma Judy for-tunatamente era molto comprensiva, aveva lavorato con me e capi-va che dovevo passare ore e ore nello studio.

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Veniste in Italia, all’epoca…Sì, sulla costa. Genova, la Liguria. Magnifico.I Beatles sono sempre stati molto solari, pieni di luce e di positi-vità. Mio figlio di nove anni la mattina si sveglia e canticchia “TheNight Before”; io ho ancora la pelle d’oca ogni volta che sento“From Me To You”. Qual è il segreto dietro tutto questo, il segre-to che lei non ci vuole rivelare, per il quale continuano a fare que-st’effetto a chiunque, anche a distanza di tanti anni?Non c’è nessun segreto, la risposta è tutta nella musica, nella loromusica. Il segreto dei Beatles è che si tramandano di generazione ingenerazione. Quando incontrai i Beatles per loro ero già un vec-chio, avevo superato la trentina. I miei figli quando furono un po’più grandi non sapevano ancora niente di loro. Lucie, la nostra pri-mogenita, quando andava a scuola da piccola era una fan dei BayCity Rollers, un gruppo scozzese, e una volta tornando a casa disseche a scuola qualcuno le aveva detto che io avevo fatto un disco conun gruppo che si chiamava The Beatles, e mi chiese se erano bravi.Glielo confermai, spiegandole che erano molto bravi, e lei disse chenon potevano però essere bravi come i Bay City Rollers; non avevaproprio idea di chi fossero. Più tardi li ha scoperti anche lei e daallora divennero il suo gruppo preferito. Ogni nuova generazioneprima o poi scopre i Beatles ed impara ad amarli. Nella metà diquesto secolo ci continuerà a essere gente che scoprirà i Beatles, esaranno i loro idoli.Ci può dire cosa è cambiato tecnicamente da Norman Smith, ilprimo fonico dei Beatles, al successivo, Geoff Emerick?Il progresso tecnologico dal 1960 in avanti si è evoluto in misuraimpressionante. Fu incredibile. Quando iniziammo a registrare coni Beatles incidevamo in mono, su nastri da un quarto di pollice,perché in quei giorni la stereofonia era usata solo per la musicaclassica, certo non per la musica pop. Un giorno presi una macchi-na stereo e la utilizzai registrando separatamente le due tracce; suuna misi le parti ritmiche e sull’altra il resto. Potevo quindi inseguito sistemare i livelli separatamente, cosa che mi rendeva tuttopiù semplice, altrimenti tutto sarebbe sembrato una trasmissioneradio e le voci eccessivamente fisse, rigide. Questa è stata la primaforma di registrazione multitraccia. Il passo successivo fu la regi-strazione su quattro tracce: una cosa assolutamente fantastica. Sunastri da un pollice. E questo tipo di registrazione è andata avantiper molto tempo. Sgt. Pepper venne registrato su quattro tracce; ealla fine avemmo le otto tracce. Il White Album fu in parte inciso suotto tracce e il resto su quattro. Le otto tracce furono un passo inavanti importante per i Beatles, perché ci impose molta disciplina,bisognava stare molto attenti a cosa si faceva. Dovevo programma-re con molta attenzione cosa avrei inciso su ogni pista, perché poiin fase di missaggio bisognava che tutto si amalgamasse alla perfe-zione, specialmente in stereo.Recentemente abbiamo realizzato l’album Love, al quale ha colla-borato mio figlio Giles che ha avuto il non facile compito di tra-sformare tutto il materiale originale in formato digitale. Ad uncerto punto gli ho chiesto di estrarre alcune singole parti di batte-ria su cui volevo lavorare, e lui ridendo mi ha spiegato che non erapossibile, perché all’epoca avevo inciso il basso insieme alla batte-ria, sulla stessa traccia. Mi ero dimenticato di come avevamo dovu-to lavorare in quei giorni: avevamo enormi limitazioni; ma tuttosommato devo dire che ce la siamo cavata egregiamente.Alla fine, quando i Beatles non c’erano più, arrivò il sistema di regi-

strazione multitraccia, le trentadue piste, poi sessantaquattro, per lequali io usavo due macchine da trentadue collegate fra loro. Oggiinvece si registra solo in digitale e di conseguenza uno può avere tuttele tracce che vuole, è un modo totalmente diverso di procedere.E del surround cosa ne pensa?Ah, amo il surround, è una tecnica favolosa, ti coinvolge totalmen-te nella musica, ti ritrovi al centro del suono. All’epoca delle regi-strazioni mono o stereo, per sfondare, l’unico sistema era avere unpezzo veramente forte, che colpisse, che avesse un gran punch. Conil surround tutto questo è possibile, ti sembra di stare dentro lo stu-dio. E con l’album Love abbiamo vinto un grammy per il surround.Love is all around… È stato come dipingere un quadro fatto disuoni, usando come tavolozza dei colori le canzoni dei Beatles.Ancora una volta “to play”, suonare, ha coinciso con “to play”, gio-care. È sempre stato così con i Beatles. Avete giocato molto, voicinque.Verissimo.Vorrebbe cambiare qualcosa di questo libro?No. Riflette lo spirito del tempo, ne è una testimonianza vera ediretta. Credo sia costruito piuttosto bene e penso che resista per-fettamente all’incalzare degli anni. Sono convinto che ne farai unabuona traduzione.Su questo non c’è dubbio, Sir George. We Can Work It Out.

Paolo Somigli

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