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1 RootsHighway Mixed Bag #9 RootsHighway RootsHighway Mixed Bag Mixed Bag numero 9, maggio 2011 Lucinda Williams Lucinda Williams Lucinda Williams ”Blessed by rock’n’roll” ”Blessed by rock’n’roll” In questo numero: In questo numero: Calvin Russell (in memory) Calvin Russell (in memory) Iron & Wine Iron & Wine Paul Thorn Paul Thorn Robert Frank & Tom Waits Robert Frank & Tom Waits Black Joe Lewis Black Joe Lewis Israel Nash Gripka Israel Nash Gripka Pete Dexter Pete Dexter

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RootsHighway Mixed Bag #9

RootsHighwayRootsHighway

Mixed BagMixed Bag

numero 9, maggio 2011

Lucinda WilliamsLucinda WilliamsLucinda Williams ”Blessed by rock’n’roll””Blessed by rock’n’roll”

In questo numero:In questo numero:

Calvin Russell ( in memory)Calvin Russell ( in memory)

Iron & WineIron & Wine

Paul ThornPaul Thorn

Robert Frank & Tom WaitsRobert Frank & Tom Waits

Black Joe LewisBlack Joe Lewis

Israel Nash GripkaIsrael Nash Gripka

Pete DexterPete Dexter

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RootsHighway Mixed Bag #9

Cover story

Lucinda Williams “Blessed by Rock’n’roll” …..3

Speciale Mixed-bag (Articoli)

Iron & Wine “Boy with a Coin” …..6

Paul Thorn “Southern Fighter” …..8

Robert Frank, Micheal O’Brien & Tom Waits

“Come semi sulla terra arida” …..13

RootsHighway’s Pick Il disco in vetrina

Israel Nash Gripka “Barn Doors and Concrete Floors” …..15

Monthly Revelation gennaio - aprile 2011

Jason Isbell; Malcolm Holcombe; Social Distortion; Over

the Rhine; Wooden Wand; JT & The Clouds …..16

Second Hand Avvistati in questi mesi

Bocephus King; Sean Rowe; Amos Lee; The Baseball Pro-ject; North Mississippi Allstars; Ponderosa; Nicole Atkins; Cowboy Junkies; Buffalo Tom; Kasey Anderson; The Volebeats; Pj Harvey; J Mascis; Lucky Bones; Anna Calvi; Carly Jamison; The John Henrys; Bow Thayer; Tao See-

ger; Patrick Sweany; Alela Diane; Wade Lashley …..20

Made in Italy Cose di casa nostra

Green Like July “Four-Legged Fortune” Luca Milani “Sin Train”

Veronica Sbergia & The Red Wine Seerenaders …..34

BlackHighway Blues, soul & black culture

Black Joe Lewis “Scandalous” T Model Ford “Taledragger”

Mississippi Fred McDowell “Come and Found You Gone” …..36

ClassicHighway Best of, ristampe, classici

Nick Lowe “Labour of Lust” …..38

BooksHighway Le proposte sullo scaffale

Pete Dexter “Spooner” Philip Roth “L’umiliazione”

Victor Gischler “Notte di sangue a Coyote Crossing ” …..39

Americana Basic Tracks Archivi: ascolti essenziali

Over the Rhine “Drukard’s Prayer” …..41

Calvin Russell “Le Voyageur” …..10

SOMMARIOSOMMARIO

numero 9, maggio 2011

RootsHighway Mixed Bag

Trimestrale in PDF del web

magazine RootsHighway

www.rootshighway.it

Direzione e coordinamento:

Fabio Cerbone

Collaboratori e testi di:

Davide Albini, Antonio

Avalle, Paolo Baiotti,

Gianfranco Callieri, Fabio

Cerbone, Gianni Del Savio,

Marco Denti, Maurizio di

Marino, Edoardo Frassetto,

Matteo Fratti, Gabriele

Gatto, Nicola Gervasini,

Roberto Giuli, Stefano

Hourria, Emilio Mera, Luca

Muchetti, David Nieri, Marco

Poggio, Donata Ricci,

Gianuario Rivelli, Yuri

Susanna, Gianni Zuretti

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Cover Story Cover Story maggio 2011 maggio 2011 Lucinda Williams Lucinda Williams ”Blessed by Rock’n’roll””Blessed by Rock’n’roll”

A cura di Gianfranco Callieri

Lucinda Williams BlessedBlessed [Lost Highway/ Universal 2011]

Dio è morto, Marx è morto, il cor-po del miliardario saudita Osama Bin Laden giace (?) nelle profondi-tà dell'Oceano Indiano e la Costi-tuzione italiana viene strattonata senza pietà in nome del più ripu-gnante opportunismo. Ma a dirla tutta non se la spassano bene neppure i dischi, o meglio, i dischi intesi come contenitori di idee e suggestioni, in grado di trascende-re l'aspetto musicale; i dischi co-me li abbiamo grossomodo cono-sciuti dagli anni '60 alla fine del secolo scorso, frammenti anche fondamentali di un discorso più ampio, meglio articolato, sulla re-altà che li vedeva nascere, svanire o restare. Eh già, il pensiero che un disco possa esprimere qualcosa di incisivo e culturalmente rilevan-te sembra esser stato messo in soffitta con una certa fretta. Almeno così pare a me, dato che di album non dico qualifi-cati a intrecciare un dialogo con la

contemporaneità a prescin-dere dal fatto di suonare più o meno up to date o modaio-li, bensì capaci di offrire una propria visione del mondo, una lettura del presente e una connessione intima con l'attualità, faccio una fatica boia a scovarne. Questo strano tipo di afonia, biso-gnerà pur dirlo, ha colpito soprattutto il rock classico, quello dei grandi protagonisti della stagione a cavallo tra i '60 e i '70 e i loro discepoli delle generazioni successive: dal 2000 ad oggi, sono stati pochissimi i dischi che hanno evitato di rifugiarsi in qualche for-ma di arcaismo, tematico e strut-turale, utile magari per strizzare l'occhio al passato (e quindi creare una specie di rassicurazione apo-dittica rispetto agli orizzonti d'at-tesa degli ascoltatori più attempa-ti) ma ben poco adatto a fornire una chiave di lettura dei cambia-menti del mondo. Al di là di quel che possiate pensarne in termini di riuscita complessiva, forse sol-tanto gli ultimi album di John Mel-lencamp, Neil Young e Paul Simon si sono sottratti allo schema sopra descritto, cercando di soffiare un po' di domande e un po' di rischi all'interno di uno storytelling vec-chio come il mondo. Onore quindi a Lucinda Williams, oggi tra le pochissime artiste rock, se non l'unica, a rea-lizzare dischi al tempo stesso per-sonalissimi eppure calati anima e corpo nello spirito del tempo, nei mutamenti dolorosi della vita, nel-la radiografia di dubbi e domande che trasformano la dimensione individuale in catarsi pubblica e condivisa. Non parla di politica se non in senso lato, non indaga “grandi” tematiche sociali e per quanto riguarda i testi non esce, in genere, dalla dissezione impie-tosa dei rapporti sentimentali tra

uomini e donne: nondimeno, la si-gnora Williams riesce comunque nella non facile impresa di suonare icastica e urgente, immersa in un “qui e ora” che non si riesce a im-maginare diverso tanto è impregna-to degli umori della propria nazione, della propria gente, della propria comunità. Blessed, undicesimo album dell'artista in quasi 35 anni di carriera, assomiglia alla pagina stropicciata di un giornale di quelli che capitano in mano per caso, in modo fortuito e nonostante questo illuminante. Parla di un dono che benedice tutti, rendendo chiunque beato (appunto «blessed»): il dono della vita, inquadrato attraverso una spiritualità molto carnale e per niente religiosa, priva di astrazioni, di grandi concetti indeterminati, e altresì molto concreta, costellata da un rosario di suicidi, morti acciden-tali, sconfitte e rovine dalle quali scaturisce uno strepitoso attacca-mento al regalo della vita, alla pos-sibilità di sbagliare, piegarsi, sin-ghiozzare e, nonostante tutto, ri-sorgere ancora una volta. Per quanto la Williams non abbia mai utilizzato in maniera al-trettanto diffusa e pervasiva la ripe-tizione di alcune invocazioni, reite-rate come piccoli mantra in un ab-bandono che sta da qualche parte

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tra le trasfusioni cognitive di un Van Morrison, la macerazione e-motiva del blues e il più laico dei gospel, il suo uso degli aggettivi, come sempre molto vivido e “sudista”, risulta ancor più calei-doscopico e abbagliante che in passato (il florilegio di colori rap-presentato nella conclusiva Kiss

Like Your Kiss, che culmina nella descrizione di un autunno «colored in aubergine», dal color di melanzana, sembra strappato al misticismo romantico di William Blake), come se dalla bellezza sfiorita di una periferia, dal sangue versato su di un campo di batta-glia o dal ricordo lacerante di un amico scomparso possa ora e sempre fiorire un'esplosione di passioni e sentimenti dove «ogni momento diventa una celebrazio-ne» (Sweet Love). Celebrazione delle nostre fragilità e dei nostri riscatti, perché sarà pur vero che «ho cinquantasette anni ma potrei averne sette / visto che non sarò mai capace / di comprendere / l'esosità di quanto ho appena im-parato» (sono le parole di Copen-hagen, tenerissima pioggia folkie dedicata al manager Frank Callari, passato a miglior vita qualche an-no fa), è altrettanto vero che que-sta «esosità» («expensiveness» andrebbe tradotto con “vastità”, ma io preferisco così), questo di-spendio dell'anima nello stare al mondo, è quello di cui non possia-mo fare a meno se decidiamo di metterci in gioco. Il rischio – l'unico che val-ga la pena correre – è quello di ritrovarci benedetti, come tutti i soggetti, catturati nei sobborghi di Los Angeles, che nelle magnifiche foto a corredo di Blessed appaio-no con in mano un cartello recante scritto il titolo dell'album: donne e bambini, neri e cinesi, pensionati e ragazzini, studenti con lo zaino e giovanotti bohémien impegnati in una casta effusione, punk imberbi e stagionati motociclisti, indiani in abiti tradizionali e tassisti dal mu-so lungo, attempati ispanici di fronte a un trailer e adolescenti adornati da simboli pacifisti. È l'umanità cui Blessed si rivolge e che celebra, riservando un pensiero anche ai militari di stanza in Afghanistan e al suicida

Vic Chesnutt. Fino a questo mo-mento, ogni disco di Lucinda Wil-liams è stato un allontanamento, un'integrazione e una deviazione rispetto al predecessore: al disa-dorno country-blues dei selvatici Ramblin' (‘79) e Happy Woman

Blues (‘80) era succeduto il pop rock a tinte rootsy dell'omonimo Lucinda Williams (‘88), delizioso nella sua accessibilità e nella ricer-cata immediatezza; al folkeggiare di nuovo severo del malinconico Sweet Old World ('92) era suben-trato il roots-rock selvaggio e sguaiato del celebratissimo Car

Wheels On A Gravel Road ('98); i suoni liquidi e intimisti del colossa-le Essence (‘01) avevano aperto la strada allo sferzante, eterogeneo World Without Tears (‘03); il blu notturno, cinematografico e “ambient” del sublime West ('07) aveva conosciuto la trasfigurazio-ne deflagrante e rockinrollista di Little Honey ('08), che dell'album antecedente era, abbiamo scoper-to, una costola, un gemello irruen-to e scalpitante. Blessed, avvalendosi di un suono tanto trascinante quanto perfetto (nonché orchestrato con magistrale sensibilità mainstream da Eric Liljestrand, il marito Tom Overby e un Don Was assai meno compassato del solito), met-te insieme tutto quanto, articolan-do i diversi linguaggi con ampiezza di vedute sinora inedita: sicché, mentre gli amplificatori tornano a scaldarsi (e accade spesso), il blues serpeggia un po' dovunque e le ballate tra country e folk diven-tano oceani di impressionismo vi-

sionario, ecco che il country pro-rompe in irrefrenabili sermoni soul, le frustate rock ritrovano l'aggressi-vità stradaiola dei vecchi Stones, l'elettricità dei riff squarcia i telai acustici dei demos (li trovate nell'e-dizione limitata dell'album, doppia e indispensabile), i ricami della pedal-steel si trasformano in corrieri co-smici di introspezione e smarrimen-to. Da un lato, a scontornare il pro-filo rurale del suono, ci sono il som-mo Greg Leisz e Rami Jaffee (con ogni probabilità il miglior organo rock oggi disponibile sulla piazza), senza dimenticare l'insospettabile DJ Bonebrake (ex-batterista dei mai troppo elogiati X) e la delicatezza delle sue percussioni sulla citata Kiss Like Your Kiss; dall'altro, a so-stituire il fiammeggiante Doug Pet-tibone, è sopraggiunto Val McCal-lum, un chitarrista altrettanto piro-tecnico (ascoltatelo anche alla slide) che abbinato al rimbombare dei tamburi di Butch Norton scatena tuoni e fulmini, presto tracimanti in vera e propria tempesta allorché alla sei corde appare Elvis Costel-lo, qui impegnato a recitare il ruolo del solista tagliente e sanguinario. I brani dove spunta Costel-lo, cioé a dirsi il rock'n'soul aguzzo e fradicio di blues dell'iniziale But-tercup (un mid-tempo frastornante che non avrebbe sfigurato su Exile On Main Street), la micidiale fucila-ta di una Seeing Black da paradiso dei sensi e lo sconquassante cre-scendo di Convince Me, sono auten-tiche eruzioni di rock'n'roll interpre-tato come se dall'intensità del rapi-mento elettrico dipendesse la vita stessa dei musicisti, ma le

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temperature restano bollenti an-che nell'intensa professione di fe-de di The Awakening (con una fra-se, «renderò onore a chi è stato abbandonato / e non rimpiangerò la mia gioventù», che riassume come meglio non si potrebbe il clima emotivo, la compassione e la combattività che permeano l'intero album) e nella sensuale apoteosi rockista della title-track, che parte nella quiete di una strascicata honky-tonk ballad per detonare in un vortice di chitarre, assoli e pe-staggi ritmici. E anche quando i tempi rallentano, e al fantasma del Neil Young più indomabile si sotituiscono le figure di Joni Mi-tchell o Carole King (difficile non immaginarla abitare il paesaggio da West Coast di trent'anni fa del-la deliziosa I Don't Know How You're Living), i personaggi, le figure, le gallerie cromatiche e le sfumature del suono restano co-munque memorabili: dal funky memphisiano di Sweet Love al folk desolato di Soldier's Song, fino al notturno ululato bluesy di Born To Be Loved, non c'è una sola nota di queste canzoni che non sembri necessaria. Non c'è tunnel, si di-rebbe, dal quale non si possa usci-re, non una cicatrice che non pos-sa sparire, non un trauma che la musica non debba, in qualche mo-do, riassorbire. «Siamo stati bene-detti dall'uomo affamato / Che ci ha riempito d'amore», canta Lu-cinda Williams, «Benedetti dalla donna picchiata / Che non ha cer-cato vendetta». Benedetti, aggiungo, dalla donna di Lake Charles, la figlia del professor Miller Williams, che non ha mai smesso di mettere a nudo il proprio tormento e le proprie emozioni e che in questo modo ha trovato la colonna sonora più ac-cogliente per le nostre. In un certo senso, Blessed è, come diceva il James G. Ballard di Crash, «un'incoronazione di ferite», ma la sua forza sta tutta nella predispo-sizione a concepire, e a farci con-cepire, la benedizione di un altro domani.

Mrs. Williams discographyMrs. Williams discography Ramblin/ Happy Woman Blues Ramblin/ Happy Woman Blues (7) (Smithsonian Folkways 1979/1980) Gli esordi sono all’insegna della più asciutta tradizione country e blues sudista in cui la Williams è cresciuta. Un disco di traditio-nal per prendere le misure, quindi un esordio acerbo ma già rivelatore della passione che cova nelle sue ballate. Lucinda Williams Lucinda Williams (8) (Rough Trade 1988) Carriera complicatissima e un destino che sembra votato all’o-scurità. Un disco di materiale inedito dopo otto lunghi anni la rilancia con un country rock più corposo, grazie al sostegno di illuminati roots rockers come Jim Lauderdale e Gurf Morlix. Sweet Old World Sweet Old World (7.5) (Chameleon/ Elektra 1992) Disco più sofferto del precedente, ma che ne ricalca le coordina-te sonore, intriso di senso “tragico”, con riflessioni sul suicidio e l’esposizione dei sentimenti: Lucinda Williams è artista sincera come pochi e ne pagherà le conseguenze. Car Wheels on a Gravel Road Car Wheels on a Gravel Road (9) (Mercury 1998) Il capolavoro di una vita: disco essenziale per l’intero movimen-to Americana e per tutte le cantautrici a venire, un rock delle radici che suona sudista, sentimentale ma anche sporco e vera-ce. Gestazione complicata come sempre, ma da qui in poi l’arti-sta trova l’affermazione e la stabilità. Essence Essence (8) (Lost Highway 2001) Seguito più intimista di Car Wheels, ne ricalca comunque le ambientazioni virandole al crepuscolo. Disco ombroso e malin-conico, ma alla distanza il perfetto completamento di un perio-do d’oro per la Williams a livello artistico. World Without Tears World Without Tears (8.5) (Lost Highway 2003) Cambia la band, matura il suono: Lucinda Williams completa una grande trilogia suonando più schietta del solito e dando forma ad un rock affilato e passionale. Real Live Bleeding Fin-gers and Broken Guitar Strings ne è il manifesto. Live at the Fillmore Live at the Fillmore (8) (Lost Highway 2005) Doppio disco dal vivo che cattura “il momento” con il chitarri-sta Doug Pettibone: il sound si fa più duro e rock in alcuni frangenti e anche il vecchio repertorio cambia pelle. West West (7.5) (Lost Highway 2007) Disco lungo che riflette i cambiamenti personali nella vita dell’-artista: più contorto e allo stesso tempo libero dalle certezze musicali della Williams, vive di alti e bassi nella produzione, con momenti di pura confessione. Little Honey Little Honey (7) (Lost Highway 2008) Un ritorno all’essenza rock e Americana del passato: meno pre-tese e nell’insieme anche canzoni più prevedibili, ma ne guada-gna l’impatto generale. Un disco di passaggio prima del ritorno di fiamma. A cura di Fabio Cerbone

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Iron & WineIron & Wine Boy with a Coin. Boy with a Coin. La trasfomazione di un folksinger

a cura di Fabio Cerbone

Il Sud rimane un’idea, un’immagi-ne, quasi una categoria dell’ani-ma, più che una concreta realtà della tradizione americana. Essere un musicista del sud ancora oggi significa allora dover sottostare ad alcune definizioni e preconcetti, un percorso che appare obbligato e costruisce un recinto attorno ad alcune esperienze artistiche. Sa-meal Beam, in arte Iron & Wine, vive in fondo sin dagli esordi una scissione con le sue radici, quell’u-niverso fatto di luoghi comuni e barriere che costantemente si è adoperato per abbattere. Impossi-bile infatti costringerlo ancora oggi nella raffigurazione di un presun-to “nuovo folk” americano, all’in-segna del recupero e della rilet-tura del passato: dal suono stracciato, spigoloso e fedele al linguaggio della bassa fedeltà che si svelava nell’esordio The

Creek Drank the Cradle (Sub Pop 2002) alle continue stratifi-cazioni di suoni e ritmi che ab-bondano nell’ultimo Kiss Each

Other Clean passa davvero una vita intera, un fiume di esperienze e coraggiosi strappi che sanciscono la crescita e l’ambizione del musicista. Lungo questo tragitto ogni sua mossa ha proceduto per acco-mulazione, come se stesse com-piendo un percorso inverso al soli-to clichè dell’artista indipendente: dallo scheletro delle canzoni, dai loro contorni non meglio definiti, registrati in una piccola stanza e lanciati al mondo in una bottiglia, alle strutture multiformi di una musica che resta folk per defini-zione, ma si dischiude ai muta-menti del mondo pop. Di qui l’im-pressione che i confini dei primi giorni, quando Iron & Wine, curio-so nome adocchiato per caso su una rivista in un superkmarket, si presentava come un altro discepo-lo della rivoluzione indie folk per-petrata dal maestro Will Oldham,

si siano ormai definitivamente di-latati. Curioso che Beam condivida con il citato Oldham segni esterio-ri, caratteristiche musicali e non solo: uomini del Sud, ragazzi na-scosti in barbe da vecchi pionieri, con un carico di misteri e tradizio-ni, ma dalle divergenze progressi-ve. Se l’atto di nascondersi dietro

u n o

pseudonimo evidenzia la timidezza, riflessa nel canto, nelle voci sussurrate e spezzate, se il tereno comune rivolta la lezione della folk music più primordiale, il viaggio di Beam ha preso subito una biforcazione verso l’ignoto, dove i temi dell’amore, della mor-te, di certa trascendenza, tipici effettivamente di gran parte dell’-american music, si risolvono in qualcosa di molto personale e mo-derno. Bonnie Prince Billy (ovvero l’alter ego evocato di Oldham) si è via via rappacificato con le radici, persino con la classicità country e bluegrass, affinando l’arte del son-gwriting e l’estetica di un certo suono, mentre Iron & Wine ha tentato le vie più impervie dove

sovrapporre il suo gusto musicale. Forse influenzato inconsapevolmen-te dalla sua formazione di studente d’arte all’Università della Virginia, quindi dall’esperienza come inse-gnante di storia del cinema a Mia-mi, si è aperto ad una visione musi-cale più complessa, lavorando sui colori della musica, sulla raffigura-zione, concependo un dipinto, sem-pre più corale vista la continua inte-razione con altri musicisti. Uno spostamento non solo musicale che lo ha condotto così dal nativo South Carolina all’attuale dimora di Austin, scegliendo tappe intermedie e collaborazioni che po-tessero spingere oltre il suo son-gwriting. Le demo acustiche che con una certa autarchia appaiono sui tavoli della Sub Pop agli inizi dello scorso decennio, rappresenta-no un mondo appartato: facile al tempo scomodare quel parallelo che non guardava oltre la superficie del suono. Dischi quasi ripetitivi e ab-bozzati The Creek Drank the Cradle e il naturale completamento con l’ep The Sea and the Rhythm: l’etichetta di Seattle vi rispecchia un sentire generazionale che scomoda tanto la fragilità acustica di Elliott Smith quanto la lezione lo-fi del Beck più acustico. Sarà l’incontro con Brain Deck, produttore e mu-sicista essenziale nel definire le co-ordinate delle propaggini del roots sound più moderno con Red Red Meat e Califone, nonchè la generale frequentazione di una Chicago al-l’insegna dello sperimentalismo, a far progredire subito quella fotogra-fia in bianco e nero di Iron & Wine, in qualcosa di corposo e definito. La cameretta di Sam Beam si apre così al mondo e Our Endless Numered

Days (Sub Pop, 2003) si rivela una tappa essenziale per comprendere il linguaggio folk americano di questi anni, tradizionalista nell’educazione, ma delicato, quasi etereo nella for-ma, schiudendosi anche alle prime trame ritmiche che covano nelle

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strutture di brani come Teeth in the Grass, On Your Wings, Cinder and Smoke. L’ossatura è ancora irrimediabilmente acustica, non si pensi, addirittura lanciata in trame blues come Free Until They Cut Me Down, ma annuncia una matura-zione repentina, introducendo Sam Beam nei territori di colleghi quali M Ward o Andrew Bird. Gioca un ruolo fondamen-tale l’abitudine di Iron & Wine a segnalare i balzi in avanti attra-verso la pubblicazione di Ep che simboleggiano l’istantanea del mo-mento. Mai come nella sua disco-grafia lavori in apparenza di rac-cordo come Woman King o In

the Reins (Sub Pop, 2005) rap-presentano a tutti gli effetti una conquista a livello compositivo.

L’introduzione di un suono più e-lettrico e soprattutto la collabora-zione nel secondo episodio con i Calexico (con tutte le gradazioni di ritmo e atmosfera che questi pos-sono offrire) sono i gradini che conducono a The Sheperd’s Dog

(Sub Pop, 2007). È l’opera dell’af-francamento, il coraggioso salto verso una canzone folk multiforme annunciata dall’apripista Pagan

Angel and a Borrowed Car e che si dipana presto negli intrecci vocali di White Tooth Man. Suoni compo-siti, chitarre che si accavallano a percussioni, organi, interferenze, Iron & Wine è guidato dall’intuito dell’inseparabile Brian Deck e dei suoi accoliti in un universo so-gnante che fa del folk una forma quanto mai malleabile: codici ed

espressioni tipiche del pop, dell’in-die rock, della canzone d’autore sembrano convivere senza barriere, legate casomai insieme da uno sti-molo ritmico evidente in House by the Sea, Wolves (Song of the She-

pherd's Dog), The Devil Never Sle-eps, brani che esaltano l’innamora-mento di Beam per certa tradizione blues africana, riuscendo nel mira-colo di unire un battito ancestrale a una modernità degli arrangiamenti. Una evoluzione sorprendente che assumerà sembianze ancora più precise e trascinanti dal vivo, luogo dove l’allargamento della band a otto elementi anticipa le spirali elet-triche del più recente lavoro.

Kiss Each other Clean [Sub Pop 2011]

Travolge come un fiume in piena questa nuova uscita discografica di Sam Bean, in arte Iron & Wine: capovolgimento di fronte totale (o quasi…) che spiazzerà non poco chi era già pronto a cristallizzare la musica del barbuto songwriter come l'ultima frontiera del neo-folk americano, ideale compendio di un'intera generazione di autori alla riscoperta delle bucoliche melodie a-custiche e della più ferrea tradizione. Tuttavia, per chi aveva già colto nelle sovrapposizioni sonore del solidissimo The Sheperd's Dog una maturazione costante rispetto agli esordi così timidi e scarni, non risulterà del tutto stra-niante trovarsi faccia a faccia con le stratificazioni ritmiche e il singolare "wall of sound" concepito con il produttore Brian Deck in Kiss Each other

Clean. Non è un caso che quest'ultimo abbia lavorato in sequenza con Red Red Meat e Califone, band capostipiti di una manipolazione intelligente del-l'elettronica al servizio della canzone folk rock più classica. Nella sarabanda di loop e sintetizzatori, di fiati, flauti, cori incantati e pulsazioni ai confini con il funk e il dub, Kiss Each Other Clean mantiene l'anima di un tempo, soltanto caricandola di una coraggiosa sperimentazione. Per qualcuno il rischio è che la voce di Iron & Wine, così caratteristica in quel suo fragile sussurro, si perda nel vortice dei suoni o ne esca persino distanziata, quasi non riuscisse ad amalgamarsi con tutto il re-sto. La sensazione è forte, eppure Sam beam non ha mai cantato così bene come in questa occasione, trasci-nando la sua delicata timbrica in una inedita dimensione: ci si accorge del cambio alla prima strofa di Walking Far from Home, rapimento pop che introduce un disco sorprendente per la sua confluenza di stimoli, là dove l'incanto dei Beach Boys (sempre loro, inevitabili in questi casi) si intreccia con il battito black di James Brown e Stevie Wonder, aggiornati da vent'anni di indie rock e magari persino da un rigurgito di docile psi-chedelia. Che si tratti di una vera e propria metamorfosi - anche pronta a impantanarsi e perdersi per strada a costo di salvaguardare la propria invettiva - lo capiamo dal sax di Me and Lazarus, dalle movenze sintetiche di Monkeys Uptown e dall'organo stridente che fende l'aria in Rabbit Will Run. È un salto nel vuoto e forse soltanto al prossimo giro potremmo realmente renderci conto delle inten-zioni di Iron & Wine: qui a volte pare trattenersi e cercare un momento di respiro nel passato prossimo della sua musica, tra la leggerezza di Half Moon e la soavità di una splendida ballata pianistica intitolata Brother in Love (ancora centrale il ruolo dei cori e tra gli altri di Sarah Simpson, letteralmente rapiti nel finale). Il finale però è liberatorio e votato all'ignoto: torna prepotenmente l'elemento black con Big Burned Hand, sovrappo-sizione di irresistibili ritmi funk blues, si placa l'animo con Glad Man Singing, quasi una moderna gita sulla West Coast, ma in chiusura tutto congiura nella sintesi impazzita di Your Fake Name Is Good Enough for Me, con un sax un po' free e una canzone letteralmente spaccata in due capitoli. Nella seconda parte si innalza una sorta di preghiera rock, una litania che sfiora i sette minuti...e se non è già la canzone dell'anno poco ci manca.

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Paul ThornPaul Thorn Southern Fighter: Southern Fighter: Dal ring ai palchi del rockn’roll

a cura di Davide Albini

Con una voce calda, nera, ricca di soul feeling e un retaggio da au-tentico ragazzo del sud, Paul Thorn non poteva certo finire i suoi giorni di gloria come pugile di seconda fascia. È lui stesso che ci racconta questa trasformazione in un piccolo documentario, a suo modo commovente e onesto, che è stato incluso per la prima volta nell’edizione europea (Blue Rose) del recente Pimps and Preachers. Il film di John Keane intitolato “Fellow Americans” risale ai primi anni Novanta e nelle intenzioni del cineasta ritrae storie e personaggi marginali dell’America provinciale, un viaggio tipicamente da “strade blu” che lo conduce fra gli altri anche ad incontrare Paul Thorn, giovane promessa del cantautora-to sudista ancora senza contratto discografico. Ha da poco abbando-nato la sua carriera di pugile, peso medio che dopo una serie di buoni incontri e il titolo regionale ottenu-to a Memphis, sfida il campione panamense Roberto Duran, so-prannominato “Manos de Piedra”. Alcune immagini sbiadite del match fanno da sfondo all’in-tervista davanti al portico di una baracca di Tupelo, casa di Thorn e dei suoi genitori dopo il trasferi-mento in tenera età dal Wisconsin. Paul ammette candidamente i suoi limiti: è stato un buon pugile, non un fuoriclasse e ringrazia in qual-che modo quel ko tecnico (comunque un vanto, vista la fa-ma dell’avversario) con Duran, che lo spinge ad abbracciare la sua seconda (e più duratura) pas-sione, la musica. Una bella confes-sione, che ci permette di appro-fondire meglio un curioso racconto che ha sempre accompagnato Thorn fin dagli esordi nel 1997 con Hammer and Nail. Debutta tardi, sulla trentina, scoperto dal disco-grafico e manager Miles Copeland, fratello di Stewart dei Police e fon-datore dell’etichetta IRS. Lo porta

ad un provino per la prestigiosa A&M, dopo averlo visto bazzicare diversi locali dalle parti di Mem-phis e Birmingham, profondo sud che penetra nel canto e negli ac-cordi di Paul Thorn. La sua musica è una calibrata miscela di bianco e nero, di rock stradaiolo e soul d’-annata, con naturali accenti blues e country, che lo rendono il tipico

prodotto di quella grande tradizio-ne culturale della cosidetta Bible Belt. Sono anni in cui un certo in-teresse per questo tipo di sonorità sta avendo i suoi “quindici minuti di notorietà” anche nelle major discografiche: le esperienze di Todd Snider, Anders Osborne o Terrell, personaggi che in alcuni punti potremmo facilmente acco-stare stiliticamente a Thorn, apro-no la strada al citato Hammer

and Nail. Purtroppo non verrà nota-to da nessuno, nonostante il buon lavoro negli studi californiani di Los Angeles fatto da Greg Wells e Bill Hinds, il secondo un chitarri-sta dal tocco affilato e decisamen-te southern che lo accompagnerà fino ai giorni nostri. Inesistente

nelle classifiche e eliminato dalle programmazioni radiofoniche, Paul Thorn torna presto nell’oscurità. La tenacia non gli manca e anche un briciolo di ironia: intitola la sua casa discografica indipendente Perpetual Obscurity e fa ritorno alle radici con i toni più crepuscolari e acustici di Ain’t Love Strange (1999), un album più blues nella concezione, che esalta meglio le qualità del son-gwriter. Da questo momento infatti Thorn diventa un musicista apprez-za t o an che d a i c o l l e g h i . Sfrutta le possibilità di una certa fama a livello regionale per intraprendere tour di spalla a nomi importanti. Nel corso degli anni a-vrà l’occasione di dividere il palco con vere e proprie pop star quali Sting e Toby Keith, ma anche di accompagnare personaggi più in linea con la sua formazione di musi-cista, tra cui John Prine, Robert Cray e Bonnie Raitt. A livello artisti-co è il terzo episodio, Mission

Temple Fireworks Stand (2002), che riesce a imporlo anche alle at-tenzioni del mondo Americana: un lavoro che bilancia finalmente con convinzione le diverse anime della sua musica, mediando fra il rocker e l’interprete soul, il folksinger sudi-sta e il romantico crooner, metten-do in mostra persino le sue qualità di illustratore (curerà spesso la gra-fica dei cd e venderà personalmen-te dal suo sito alcune opere). Sempre intriso di figure e storie fortemente legate alla terra sudista, siano esse vicende perso-nali o ritratti presi dalla strada, il disco introduce elementi gospel e r&b, esaltando le doti vocali scure e decisamente black dell’autore. E’ il suo piccolo capolavoro, potremmo azzardare, anche se lo stesso Paul Thorn dimostra di non voler sfrutta-re uno standard, provando anzi ad allargare ulteriormente la matrice nera tipica del suo sound. Il succes-sivo Are You With Me? (2004), purtoppo con una delle copertine

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più infelici che si ricordino, an-nuncia questo leggero slittamento, anche se nel complesso la produ-zione risulta troppo leccata: si percepisce una certa sensibilità soul d’annata, legata alla tradizio-ne Motown, così come elementi pop e naturalmente le radici sudi-ste, ma rispetto al suo colorato predecessore il disco si presenta come un momento di passaggio, irrisolto. Sarà A Long Way From

Tupelo (2008) - che torna ad a-vere un distribuzione internaziona-le e a farsi notare persino nelle classfiche indipendenti – a ripren-dere i fili dello stile di casa, con un suono più muscolare e rock ma senza rinunciare alla caratteristi-che proprie di questo figlio di Tu-pelo. Le sue radici operaie (ha la-vorato per diverso tempo come falegname e impagliatore in una

fabbrica locale), la sua attenzione verso storie marginali, lo dipingo-no facilmente come la classica fi-gura dell’eroe blue collar, anche se lontano dall’immaginario del rock urbano. La faccia segnata però e certo romanticismo sono un termi-ne di paragone sufficiente: A Long Way From Tupelo inoltre è un di-sco molto più personale fin dal titolo e sembra esporre Paul Thorn, più che in passato, nello sviluppo delle canzoni. Una grossa fetta del reper-torio contenuto nella parte di car-riera sin qui commentata lo trove-rete anche nel Dvd cui si accenna-va in apertura, edizione “deluxe” diciamo così che la Blue Rose offre nella stampa dell’ultimo Pimps

and Preachers. Il concerto della Paul Thorn band risale infatti al marzo del 2005 al Workplay di

Birmingham, Alabama. Si gioca in casa quindi e Thorn sa giostarsi bene fra ballate e southern rock d’assalto, con una band rodatissima e un chitarrista, Bill Hinds, che co-me si ricordava ha un tiro notevole e sa eslatare le tonalità bluesy delle canzoni. Peccato senz’altro non a-vere una testimonianza live che rispecchi più da vicino la realtà di Pimps and Preachers, disco di cui leggerete di seguito e che ha ripor-tato Thorn su livelli più che convin-centi, forse soltanto un gradino sot-to al celebrato Mission Temple Fire-

works Stand. A tutt’oggi sembra essere anche il migliore successo ottenuto in termini di vendite e visi-bilità, entrato persino in Top 100 di Billboard. Segno che Thorn non sa-rà mai una star, ovvio, ma che ci aveva visto giusto quel giorno a scendere dal ring...

Pimps and Preachers [Perpetual Obscurity/ Blue Rose 2011 Cd+Dvd]

Nella colorita raffigurazione di copertina - uno scorcio di umanità sudista dipinto dallo stesso Paul Thorn - un piccolo ragazzino con un tamburello in mano cerca riparo sotto le grandi braccia del padre, un predicatore della chiesa pentecostale, ma nello stesso tempo con lo sguardo si rivolge dall'al-tro lato della strada, verso un uomo con più segreti e più diavoli in corpo, un protettore contorniato dalle sue prostitute. È un immagine suggestiva che racchiude il titolo stesso del sesto album del rocker di Tupelo, Mississip-pi: Pimps and Preachers, come dire "paradiso e inferno", i due poli di at-trazione verso cui la vita di Paul Thorn è stata trascinata. Album dal forte connotato autobiografico (il padre era davvero un predicatore, mentre lo zio, guarda caso, ha avuto un passato controverso da "magnaccia"), rimette in carreggiata Thorn, dopo un paio di episodi più sfuocati o semplicemente meno irruenti nel far esplodere le sue robuste radici southern. Qui torniamo dunque alla sarabanda di ballate soul, heartland rock e ritmi swamp che avevano così colpito il nostro immaginario nel delizioso afrresco di Mission Temple Fireworks Stand, anche in quel caso un disco ispirato fortemente dall'immaginario e dalla cultura sudista. In Pimps and Preachers Paul Thorn confer-ma la sua unicità di songwriter attento ai luoghi oscuri (e con una etichetta denominata Perpetual Obscurity non poteva essere altrimenti…) dell'anima (le confessioni di Tequila Is Good For the heart), alle storie margi-nali (l'amore disperato di una donna in Love Scar, la commovente Buckskin Jones), agli stessi cenni biografici personali che in I Dont' Like Half the Folks I Love diventano una scusa per stemperare l'atmosfera con una discreta dose di ironia. Una ricetta già diffusamente sfrutatta in passato, questo è vero, eppure sempre valida nella sua semplicità di scrittura: confermando il team artistico con Bill Maddox (co-autore di diversi brani) e sospinto dalle chitarre di un'altra vecchia conoscenza, Bill Hinds, Thorn ha gioco facile nel mettere in mostra una volta di più la sua voce annerita e soulful, l'arma migliore non c'è dubbio, ritrovando anche la via per un rock stradaiolo ammiccante che in You're Not The Only One e Nona Lisa scova due potenziali singoli per le charts Americana. Pimps and Preachers va oltre però e mischia bene le sue carte, raccogliendo pezzi di puro southern rock (il riff squadrato e trascinante di Weeds in My Roses), ritmi più appiccicosi e funky con la stessa title track, umide ballate rootsy con Ray Ann's Shoes, acustica e solcata dal suono di un violino, e buone "contraffazioni" del John Hiatt più ruspante (You Might Be Wrong), dando l'impressione di rappresentare un buon riassunto di una carriera sin qui fin troppo ignorata dal pubblico, ammettendo implicitamente che le vi-gnette e le parabole sudiste di questo ex pugile dal passato burrascoso sono la vera linfa per vivacizzare il suo songwriting. Bentornato. (Fabio Cerbone)

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Calvin RussellCalvin Russell Le VoyageurLe Voyageur ...un ricordo

a cura di Nicola Gervasini

“Sono nato dalla parte sbagliata

delle rotaie, con sempre qualcuno

che m’insegue, sempre sulla lista

nera per qualcosa” (Behind The 8

Ball)

Appare evidente come ben pochi giornalisti si siano occupati di Cal-vin Russell, perché a ben guar-dare, nei vent’anni e poco più di carriera che il destino gli ha concesso, nessuno è riuscito mai a scavare veramente nel suo passato. Ormai è tardi per chiedersi cosa abbia realmente combinato nei primi quarant’-anni della sua vita questo co-wboy di Austin, lo scorso 3 aprile infatti il solito maledetto cancro si è portato i suoi se-greti nella tomba, e oggi sia-mo qui a tributargli questo mesto saluto. Ricordiamocelo allora così Russell, secondo una biografia che sa più di leg-genda che di realtà, che lo vuole già chitarrista in una band (i Cavemen) nel 1961 a soli 13 anni, e poi girova-go per gli Stati Uniti su una Harley Davidson per lungo tempo, fin quando le crona-che lo attestano galeotto nelle pri-gioni del New Mexico nell’inverno del 1985. 24 anni di buco biografi-co in cui magari ci ha preso tutti in giro e ha in verità fatto l’impiegato delle poste o l’esattore delle tasse, perché in qualche modo avrà pure tirato a campare quest’uomo, e ci sarebbe anche da chiedersi come mai ad Austin nessuno gli abbia mai dato credito anche quando poi per quattro anni ha cercato un contratto discografico e ha rotto le scatole a tutti per poter aprire i concerti di Townes Van Zandt. Invece i tedeschi della Blue Rose nel 1989 gli hanno creduto subito e gli hanno pubblicato senza bat-ter ciglio il primo disco, presentan-dolo a tutti come l’outlaw definiti-vo, l’avanzo di galera che gli anni 70 non hanno avuto l’occasione di scoprire. Era simpatico anche per questo Calvin Russell, perché a 40 anni aveva il viso scavato di chi ne

aveva già viste di tutti i colori, perché era il tipico texano che probabilmente s’ispirava più agli spaghetti western che alla vera moda della sua terra per presen-tarsi al pubblico, e perché, comun-que sia, era solo un avanzo di ma-gazzino della bella e sfortunata scena del nuovo roots-rock di Au-stin di fine anni 80. Quando uscì A Crack in

Time nel 1990 in

Italia, come in Euro-pa, non potevamo credere che gli americani neanche volessero di-stribuire un disco così perfetta-mente yankee, in cui il mito ame-ricano del fuorilegge on the road era così perfettamente spiegato in chiare e dirette parole. Aveva il dono della semplicità Calvin Rus-sell, andava dritto al concetto, “parlava come la gente comune” direbbe qualcuno, soprattutto quando prendeva le distanze dal-l’incomprensibile mondo politico americano. Ma soprattutto aveva la capacità di azzeccare le metafo-re per illustrare la propria poetica dell’insuccesso, come quella del-l’uomo nato a ridosso della palla numero 8 del biliardo descritta in Behind The 8 Ball, vale a dire quella sfortunata posizione in cui è matematicamente impossibile non fare mosse sbagliate. L’ineluttabi-

lità del destino avverso alla gente comune resta la tematica su cui ha costruito una carriera, con nessuna concessione alla speranza, anche quando in Crossroads ammetterà che le possibilità di fare la mossa giusta ci sarebbero, perché capita di finire ad un crocicchio e dover scegliere tra strade che portano alla libertà o al paradiso, ma anche in quel caso il fato beffardo le rende perfettamente uguali a quelle che

portano al dolore, al sacrificio o alla vergogna, lasciando nessuna chance di una scel-ta consapevole e ottime probabilità di sbagliare stra-da. In questa sorta di ver-sione rock della legge di Murphy c’era comunque sempre un nemico con cui prendersela, ed erano i “loro” del potere, quelli che cerca-vano di controllarlo (Big Bro-ther), quelli che si potevano combattere solo a colpi di rock and roll (All We Got Is Rock And Roll), quelli che non potevano comunque capirlo e salvarlo dai suoi demoni inter-ni (Nothin’ Can Save Me) In ogni caso nei suoi testi c’era sempre quel fiero autocompiacimento dell’uomo alternativo, sempre “contro”,

contento di fare della propria vita disgraziata un mito da raccontare (A Crack In Time, My Way e This Is My Life è il trittico che nel primo album ci presenta il personaggio in questi termini). A Crack In Time

(> 8.5), nonostante qualche pecca produttiva, resta ancora oggi un disco perfetto anche per la sua grande varietà, un mix di southern-rock (con Living At The End Of The Gun si sfora in piena zona ZZTop), cantautorato (appare Nothin’ di To-wnes Van Zandt, e non resterà l’u-nico omaggio reso al maestro), country di Nashville (Moments). L’Europa applaudì convinta, l’America restò sorda, allora la Blue Rose insistette, confermando la squadra capitanata dal produttore Joe Gracy e forte di un chitarrista rumoroso e giustamente poco at-tento ai particolari come Gary

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Craft, e pubblicando il sorprenden-te Sounds From The Fourth

World (1991) (8.5) Logica prose-cuzione del primo lavoro, il disco gode di un sound più definito e di una distribuzione più capillare, stavolta anche in terra patria, e anche se parlare di successo resta sempre un eufemismo, è comun-que con questo disco che il nome di Calvin Russell comincia a circo-lare nei salotti buoni della musica rock. D’altronde quando si azzecca una canzone come Crossroads, 7 minuti acustici di pura filosofia da strada, si potrebbe anche evitare di azzeccare il resto, ma tra que-ste dieci canzoni comparivano una Last Night di Rich Minus da ap-plausi, rock trascinanti come May Be Someday o le sue solite riuscite metafore della sfiga umana (One Meat Ball). Tra graffiate politiche (Rockin The Republicans dichiara senza mezzi termini la propria non-parte) e ballate romantiche (Baby I Love You è semplice e perfetta), il disco non presentava in verità nessuna novità rispetto al predecessore, anzi già forse evi-denziava qualche cartuccia legger-mente bagnata, ma Russell rap-presentò in quel momento il sogno europeo di poter avere un mito di frontiera come quello americano all’indomani degli anni 80 che co-nosciamo e poco prima dei de-pressi anni 90. L’America continuò a non applaudire, ma almeno ad Austin i colleghi si accorsero di lui, è per produrre Soldier (1992) (7) si fece avanti nientemeno che Jim Dickinson, che non cambiò la band di base (ci aggiunse solo il mandolino del figlio Luther), e probabilmente questo fu il suo errore. Nel tentativo di razionaliz-zare il suono veemente e sporco dei primi due dischi, Dickinson tentò infatti di alzare le chitarre acustiche, con il risultato che il suono né uscì poco incisivo, per non dire loffio. Si aggiunga il fatto che, in mancanza di una nuova Crossroads, il songwriting di Rus-sell cominciò ad evidenziare i pro-pri limiti, sebbene poi nel prose-guo della sua carriera egli dimo-

strerà di amare molto brani come la title-track, Rats & Roaches o This Is Your World, che finiranno spesso nelle scalette dei suoi con-certi. Soldier però non ottiene il successo sperato, e Russell decide allora di provare a cambiare i gio-catori del team. Dream Of The Dog (7.5) esce nel 1995 con la produzione di Mike Stewart, fratello del grande songwriter John Stewart e produt-tore di opere di successo come Piano Man di Billy Joel. Ma la sua scelta fu solo una delle condizioni poste dal chitarrista Jon Dee Gra-ham, che aveva conosciuto Ste-wart perché produttore del primo mitico disco dei suoi True Belie-vers, band omaggiata anche in questo album con la ripresa di So Blue (About You), uno scarto del mai pubblicato secondo disco della band. La presenza di Graham pesa sul disco nel bene e nel male, è in grado di nascondere qualche pec-ca compositiva o qualche cover non proprio adatta alle sue corde (It’s My Life degli Animals), diven-ta protagonista assoluta nella sel-vaggia All We Got Is Rock And

Roll, ma alla fine non cambia l’economia del risultato. Dream Of The Dog è un buon disco, ma a quel punto a seguirlo era-vamo già rimasti in pochi fedeli adepti. Il capitolo finale della nostra storia arriva nel 1997, quando Russell ci riprova con Jim Dickinson e assolda niente-meno che Chuck Prophet per quello che risulterà essere il suo disco migliore come suono. Peccato che Calvin Russell (1997) (7) disco registrato a Memphis e formalmente perfet-to, finisse per evidenziare come non mai la perdita della mano del Russell scrittore, e alla fin del disco si finisce per ricordare più volentieri le due cover (il solito Townes Van Zandt di Mr Mudd And Mr. Gold e una sor-prendente Desperation degli Steppenwolf). Resta comunque l’ultimo disco del nostro consiglia-bile per chi voglia recuperare la sua storia, ma da qui in poi ci sia-mo tutti fermati.

La carriera di Russell è continuata con persistente successo solo in Francia, dove persino dischi davve-ro bruttini o inutili come Sam

(1999) (5.5), Rebel Radio (2002) (6) o In Spite Of It All (2005) (5) hanno continuato ad avere un se-guito. Ultimamente lo stavamo len-tamente riabbracciando, perché Dawg Eat Dawg (6.5) del 2009 la buttava sul blues e la mossa non sembrava neanche così sbagliata (ci aveva provato anche il precedente Unrepentant (5) ma con esiti im-barazzanti), e perché il più recente live Contrabendo (7.5) ha fatto in tempo a ricordarci che l’uomo sarà magari stato un fanfarone, ma ci sapeva comunque fare. Per cui addio Calvin, un giorno forse andremo tutti ad Au-stin a spiegare ai texani che cosa si sono persi non dandoti troppa retta. Oppure continueremo così, felici di considerarti “cosa nostra”, con la stessa strafottente sicumera che solo i francesi sanno avere quando decidono di avere ragione.

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Calvin RussellCalvin Russell Contrabendo [XIII Bis records 2010]

Ritorno in grande stile per Calvin Russell, con un doppio album live, più dvd, che ben documenta la doppia anima artistica del no-stro, mostrandone sia il lato più elettrico sia quello più acustico e intimista. I due dischetti audio vertono entrambi sul lato più elet-trico e riportano un concer-to del 2007 in Francia, a Parigi per la precisione, dove il nostro è ormai di casa. Inizio al fulmicotone con una Are you Ready assolutamente devastante, che mette ben in mostra quale sarà il trend della serata. Semplicemente strepitosa è la successiva Free in Freedom, che dal vivo acquista in vigore ed intensità. Trattamento "on stage" che giova alla quasi totalità dei brani presenta-ti, testimonianza di quanto il nostro sia a suo agio sul-le sporche e polverose assi di un palcoscenico. Supportato da una band compatta e tecnicamen-te ineccepibile, Russell interpreta le proprie composizioni in maniera superlativa, grazie anche alla sua voce roca e segnata dalle tante difficoltà di una vita passata sem-pre dalla parte scura della strada. Di stampo prettamente blues è la dissacrante Don't Want to Go to Heaven, tutta giocata sul'uso dello slide e sugli ottimi interventi al piano elettrico di Markus Bom-mer. Midnite Man è invece una notturna country ballad, con anco-ra il piano protagonista che ben colora la sofferta interpretazione vocale del nostro. Wild Wild West di chiara impostazione hookeriana per andamento e intenzione, ci riporta in ambito blues, virato al rock, tra pause e ripartenze per uno dei brani più trascinanti della serata. A Different people spetta invece il compito di chiudere il pri-mo disco, spandendo nuova ener-gia rock su di un pubblico in esta-tica partecipazione. Energia che pervade anche il secondo dischet-to, con una The More I Know dai forti sapori rock'n'roll. Il vero picco emotivo della serata si raggiunge con la bellissi-ma Crossroad: incipit per sola vo-ce e chitarra alle quali si aggiun-

gono in crescendo gli altri stru-menti. Behind the 8 Ball, un altro dei suoi cavalli di battaglia vede la partecipazione alla chitarra di Paul Personne, che aiuta a ren-dere ancora più compatto l'im-pianto musicale del brano. Ritmi rallentati invece per Soldier, uno dei tanti capolavori usciti dalla penna del musicista di Austin, pic-

cola gemma antimilitarista. Accol-ta da una vera e propria ovazione, Russell ne da un'interpretazione sofferta, ma nello stesso tempo quasi rabbiosa. Il nostro omaggia poi l'immenso Townes Van Zandt riproponendo un'adrenalinica Ain't Leaving Your Love. Rat and Roa-ches è forse uno dei miei brani preferiti di Russell e la versione qui proposta ne accresce ulterior-mente il valore. Un blues tinto di rock, terreno ideale per le chitar-re, libere di destreggiarsi in liquidi assoli, ben coadiuvate dal sempre ottimo Bommer al piano e da una metronomica sezione ritmica, che entra in sordina per poi esplodere nel finale. Degna chiusura della serata è I Want to Change the World, autentica manifestazione di intenti da parte del nostro, che si dimostra una volta di più uno dei più grandi rocker attualmente in circolazione. Attestato che viene ribadi-to anche dal dvd, vera e propria chicca per tutti gli appassionati del musicista di Austin. La versione video, infatti, oltre a riproporre per intero il concerto di Parigi, an-che se con alcuni brani in scaletta invertiti, offre anche la testimo-nianza di un concerto acustico te-

nuto sempre in terra francese, per l a prec i s ione a Issy-Les-Moulineaux, nel 2009. Se la parte video prettamente elettrica è l'idea-le compendio visivo a quanto de-scritto precedentemente, il concerto unplugged ha il merito di mostrarci il lato più cantautorale della musica russelliana. Accompagnato per l'oc-casione da Manu Lanvin alla chi-

tarra acustica e alle per-cussioni e da tal Nikko alla chitarra elettrica e percussioni, Russell ri-propone alcuni dei suoi brani più famosi come le sempre splendide, e già citate, Soldier, Behind the 8 ball e Rats and ro-aches, che in versione acustica acquistano ulte-riore fascino. Pur essendo prettamente unplugged, la performance è comun-que trascinante e grinto-sa come ben si evince da l l ' ep i ca L i ke a Revolution. Atmosfere blues si respirano in Te-xas Blues Again, dove alle chitarre acustiche si aggiunge un sapiente uso delle percussioni e

dell'armonica. Di tutto altro stampo invece Rolling Wheel, dove i nostri rockeggiano alla grande così come in Freighted Train, uno dei momenti più alti della serata. Finale gigione-sco del nostro che si lancia in spas-sosi passi di danza nella conclusiva Too Old to Grow Up Now. Suggello del dvd è inoltre un documentario/intervista di sette minuti. Un live Contrabendo, alta-mente consigliato a tutti gli appas-sionati di Calvin Russell, e ideale primo passo nel mondo del rocker di Austin per degli eventuali neofiti. (Marco Poggio)

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Come semi sulla terra aridaCome semi sulla terra arida Da “Gli Americani” di Robert FrankDa “Gli Americani” di Robert Frank

all’Hard Ground di Michael O’Brienall’Hard Ground di Michael O’Brien a cura di Matteo Fratti

Quando un uomo con la mac-china fotografica incontra un uomo con la penna…

Non ha mai visto sé stesso co-me poeta, Tom Waits. - "La poesia è un mondo molto peri-coloso, non mi piace l'idea di essere marchiato come poeta piuttosto che musicista" - a-vrebbe con fessa to ne l 1975. Eppure, Seeds On Hard Ground voleva essere un lungo racconto in poesia, come sono i suoi testi quando non hanno la musica. E Seeds On Hard Ground è diventata la stessa pubblicazione editoriale dell’ar-tista, tempo fa limitata alle mille copie, che la sua casa discografica Anti ha ristampa-to, ancora all’inizio di quest’an-no. Ma “i semi” che non sboc-ciano “su un terreno ari-do”(“seeds on hard ground”, appunto) come nella parabola evangelica del seminatore (Matteo 13,1-23, Marco 4,1-20 e Luca 8,4-15), fioriscono rigo-gliosamente allorché li piantia-mo su di un suolo fertile. Così, le stesse parole di Tom Waits, in quel libro i cui

proventi pare volessero essere devoluti alla cau-sa dei senzatetto (in par-ticolare ad alcune asso-ciazioni come la Redwo-od Empire Food Bank, S o n oma C o u n t y ’ s Homeless Referral Servi-ces o il Family Support Center gestito da enti caritatevoli cattolici) bril-lano di un’altra luce, dal momento in cui guardia-mo in faccia alla realtà di cui parlano, ritroviamo i volti scavati da mille feri-te di una vita ai margini che ci raccontano, vedia-mo i ritratti artistici e d e c a d e n t i c o m e flashback in bianco e ne-ro rubati al ricordo di chi ce ne ha detto. Ecco allora che estratti da Seeds sono proprio le dida-scalie d’autore che l’Università del Texas ha pubblicato stavol-ta solo con il titolo di Hard

Ground, monumentale tomo fotografico e galleria per im-magini di anime perdute, sguardi carichi di umanità e disperazione che incrociano

n e l l ’ e l egan t e edizione della University of Texas Press la fotocamera (e la firma) di Mi-chael O’ Brien, fotografo free-lance e collabo-ratore di Life, National Geo-graphic, Esquire e, con gli ultimi dischi, anche di Tom Waits. Un’-ode all’America che non ha vo-ce, “battuta e beata” avrebbe

detto Jack Kerouac, che nean-che a farlo apposta fece proprio un’operazione simile quando con la sua introduzione fece parlare il mondo di uno dei testi fotografici oggi tra i più impor-tanti del Novecento, The Ame-

ricans di Robert Frank (in Ita-lia “Gli Americani”, Contrasto 2008). Il fotografo svizzero di origini ebraiche se n’era andato negli Stati Uniti dopo la guerra mondiale e si era fatto conosce-re coi suoi lavori in giro per il mondo, ottenendo un finanzia-mento artistico dalla Guggen-heim Memorial Foundation per un reportage sulla vita quotidia-na degli americani in giro per gli States. Solo pochi anni dopo la stesura degli appunti che diven-nero l’On The Road di Jack Ke-rouac quindi, il viaggio di Frank nel 1955 raccolse migliaia di immagini in due anni e con un percorso quasi dello stesso tipo: un’automobile, la strada e una fotocamera invece della penna.

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Non è un caso che quando Frank mostrò a Kerouac le foto in un incontro, stavolta si, ca-suale e fuori da un locale, pro-prio quest’ultimo si fosse offer-to per scrivergli qualcosa. - “Non avevo mai pensato che fosse possibile fissare tutto questo sulla pellicola e ancora meno che le parole potessero descriverne la meravigliosa complessità visiva” – suggerirà infatti Jack nella bella intro che poi avvolgerà di prosa beat l’-altra faccia del Sogno america-no, in quelle foto di un’America al cambiamento (ma forse poi non molto cambiata), tra grat-tacieli riflessi in una pozzan-ghera e pompe di benzina in mezzo al deserto, e un lungo, lunghissimo nastro d’asfalto come il rotolo su cui proprio il re dei beats gettò il suo ro-manzo. E se la gestazione edi-toriale di The Americans non fu così travagliata come quella di Sulla Strada, entrambi sa-ranno pubblicati solo a un anno di distanza l’uno dall’altro, questo nel 1957 (ma riveduto e corretto e a sette anni dalla stesura originale) e quello nel 1958 (ma a Parigi qual

Les Americains, ap-punto, e solo un anno più tardi nell’edizione americana). Poi, se anche Waits si scher-misce dall’essere poe-ta, non fa altro che adottare quel grande manifesto poetico e popolare che fu di Wo-ody Guthrie, alle paro-le: - “non sono niente di più o di meno che

un fotografo senza macchina fotografica. Perciò voglio chia-mare voi il poeta e voi il can-tante, perché voi leggerete queste righe con una voce che ha più musica della mia”. Ma nel mentre in cui pensiamo a quale altro grande connubio ne sarebbe potuto nascere se an-che Guthrie, hobo di Okemah, avesse potuto incontrare un altro grande fotografo, il bino-mio Waits e O’Brien non può non ricordarci Jack Kerouac, Robert Frank (il cui bianco e nero impressionerà pure la pel-licola per il disco capolavoro degli Stones, Exile On Main Street) e i loro Americani. Quelli probabilmente oggi nelle pose di Hard

Ground, forse lontani da quel-l’America ad una svolta (ma magari nemmeno), estrapolati dal loro contesto (a eccezione della toccante storia di John Madden), ma la cui esistenza si legge pur sempre negli sguardi ai quali si addicono, ancora profetiche, le parole di Jack Kerouac: - “le facce non pro-clamano opinioni, non espri-mono critiche, dicono solo: <così siamo nella vita vera e se non ti piace non lo voglio sapere perché vivo la mia vita a modo mio e che Dio ci bene-dica tutti, forse>…<se ce lo meritiamo>… . Come semi, nient’altro che semi, sulla terra arida.

Michael O’BrienMichael O’BrienMichael O’Brien Tom WaitsTom WaitsTom Waits Hard Ground pp.184 (illustrato) (University of Texas Press, 2011) Robert FrankRobert FrankRobert Frank Gli Americani pp. 180 (illustrato) (Contrasto, 2008)

Le foto orginali di Robert Frank poi riprese sulla copertina di Exile on a Main Street

Strada 285 New Mexico (© Robert Frank)

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RootsHighway’s PickRootsHighway’s Pick Il disco in vetrina

Israel Nash GripkaIsrael Nash Gripka Barn Doors and Concrete Floors [Israel Nash Gripka 2011]

Lo scarto è evidente, racchiuso in una cover che sa-luta definitivamente i grattacieli della metropoli, gli stessi che facevano da sfondo al suo esordio, per immegere oggi Israel Nash Gripka in una prover-biale wilderness americana, nel placido mistero delle Catskills Mountain, parecchie miglia al di fuori dall'e-nergia d'asfalto di New York. Barn

Doors and Concrete Floors, sia chiaro, non è altro che la prosecu-zione delle promesse racchiuse in New York Town, crescita auspicata di una voce che adesso possiamo finalmente considerare una certez-za del rock'n'roll d'autore, là dove ballate agresti e profumi folk si intrecciano alle pulsioni di un soli-dissimo rocker urbano. È nata una stella si era soliti vaneggiare un tempo: noi cercheremo di essere più concreti e parsimoniosi nello sprecare parole al vento, ma è pur vero che Barn Doors and Concrete Floors inaugura un percorso, quanto duraturo lo veri-ficheremo, entusiasmante per chi ancora cerca voci dal grande nulla americano. Gripka, originario del Midwest e attirato come un satellite dalla forza gravitazionale elettrica della grande città, ha avuto l'intuizione di tornare ideal-mente a casa, mettendo in piedi la sua personale "Big Pink": un vecchio granaio nella zona delle Ca-stkills, un produttore e un fonico (rispettivamente Steve Shelley dei Sonic Youth e Ted Young) aperti alle sue richieste e abbastanza folli da assecondarlo, quindi una piccola cerchia di musicisti che sapessero risaltare la tensione emotiva che naturalmente sgor-ga dalle sue canzoni. Non cadiamo distanti insomma dal sound rotondo di New York Town, ma nell'insieme tutto si presenta semplicemente più uniforme e con-centrato sull'obiettivo finale: è ancora un disco infar-cito di tempi medi e di ballate roots rock con l'anima ferita, dove il grido di Fool's Gold e la carica stradaio-la di Lousiana, la malinconia pastorale di Drown e Sunset Regret, gli stridori desertici di Goodby Ghost aggiornano la lezione del mentore artistico, Ryan Adams, senza apparire più solamente ossequiose imitazioni. Che ci fosse del talento genuino, una

qualche forza espressiva anche in quel canto appros-simativo, era chiaro fin dal debutto, ma strada facen-do Israel Nash Gripka ha spezzato non poco le cate-ne che lo legavano alle direttive di Gold e Cold Ro-ses, dischi che prima o poi dovremo imparare a rico-noscere come classici moderni del cantautorato USA, per allestire un'opera in crescendo. Ha trovato la sua voce insomma, e il tono con cui imprime la rotta in Four Winds o pare incana-lare l'intera energia della band in Baltimore non la-scia spazio ai dubbi. La qualità che colpisce in Barn

Doors and Concrete Floors è pro-prio la progressione del lavoro di squadra, come se le capacità dei singoli, a stretto contatto in que-sta catapecchia riadattata a stu-dio di registrazione, abbiano con-solidato l'intesa fra tutti i parteci-panti: Jason Crosby (hammond e piano), Joey McClellan (chitarre) e Aaron McClelland (basso) dei The Fieros, Rich Hinman (steel), Eric Swanson e Brendon Anthony (fiddle, mandolino e banjo), sen-za particolari curriculum da sfog-giare, hanno colto il senso dei

versi di Gripka e egli stesso sembra averne giovato. Avrà ancora un senso precario in qualche interpreta-zione, ma fa parte di quel grado di asprezza che ap-partiene al personaggio: di certo Barn Doors and

Concrete Floors è un album che cresce sulla distan-za, che non spreca tutto e subito ma anzi trova i tempi giusti per maturare. In Black and Blue ad e-sempio e nell'eco di una chitarra tutta riverberi, o nella desolazione acustica di Bellwether Ballad, fino a montare come una piena nel trascinante finale di An-tebellum, sentimento ed elettricità che si abbracciano di pari passo, fiammante colpo di coda che chiude un grande album (Fabio Cerbone)

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Monthly revelationsMonthly revelations gennaio - aprile 2011

Jason Isbell & The 400 UnitJason Isbell & The 400 Unit Here We Rest [Blue Rose 2011]

Scegliendo di intitolare il nuovo disco con il primo motto dello sta-to dell'Alabama, pronunciato nel 1842 dal procuratore generale Alexander Beaufort Meek, Jason Isbell sembra essere sceso defini-tivamente a patti con la sua storia, con quelle radici musicali che han-no formato l'autore e il chitarrista in quel di Muscle Shoals e Floren-ce, comunità conosciute nel mon-do per essere il cuore pulsante della rivoluzione rhythm'n'blues e country soul. Di questi linguaggi, e di una naturale propensione al suono Americana più tradizionale, è intriso Here We Rest, lavoro che pare concludere un entusia-smante percorso di maturazione, lo stesso che ha condotto Isbell dai primi timidi approcci di Sirens of the Ditch, l'album del coraggio-so distacco dall'avventura con i Drive-By Truckers, alla autorevo-lezza con la quale domina oggi il suo songwriting. Confermato il sodalizio con The 400 Unit (Derry deBorja, pia-no, Browan Lollar, chitarre, Chad Gamble, tamburi, Jimbo Hart, bas-so) combo dal gusto sudista spe-ziato ed elegante a seconda delle necessità, Here We Rest trasforma il cammino del recente passato in qualcosa di più personale: è un disco infatti più contenuto negli umori, spesso adagiato su sonorità acustiche e rootsy, dando spazio a malinconiche ballate dove il mar-chio soul della terra dell'Alabama si intreccia con le fondamenta bianche del musicista, compene-trando elementi country, folk e naturalmente sobbalzi elettrici. Un bilanciamento perfetto che si com-

bina con il tocco melodico dell'in-terprete e soprattutto il tenore delle liriche, oggi più che mai volte alla riflessione e all'inquietudine: il tono dark di questi racconti - che hai suoi poli di attrazione nella commovente apertura di Alabama Pines, attraversata da un palpabile senso di solitudine, e nel finale di Tour of Duty, storia di un ritorno a casa dell'ennesimo soldato chia-mato a servire dalla patria - è fi-glio di una tradizione che lo avvici-na ai vecchi compagni dei Drive-By Truckers. In questa occasione però Jason Isbell supera le ombre del passato e diventa più credibile del vago omaggio southern soul offerto da Patterson Hood e soci in Go-Go Boots: sentitevi nel caso la leggiadria di We've Met e la fragile dolcezza in Save It For Sunday, storie di ordinaria esclusione, con-fessioni che Isbell ha colto ascol-tando gli effetti della crisi in mezzo alla sua gente, traducendola in una forma di ballata mai così equi-librata. Il cuore soul di Here We Rest è qui da sentire e non ci sono concorrenti che tengano: Heart On a String rispesca persino una vec-chia hit della reginetta Candi Sta-ton dandole un vestito sgargiante, degno della tradizione di casa Mu-scle Shoals, mentre Never Could Believe concede un po' di corda al calore delle chitarre slide, ferman-dosi dalle parti dei Little Feat più infervorati. Rappresentano gli epi-sodi più "roventi" del disco, insie-me alla sola forza southern rock di Go It Alone (che conserva però l'accento agrodolce dell'interpre-te), poiché oggi l'intento di Isbell sembra essere quello di placare la rabbia e mettersi all'ascolto: sol-tanto così si spiegano gli umori country rurali di Codeine, oppure una esangue Daisy Mae per sola voce e acustica, e ancora la citata Tour of Duty, che abbassa il sipa-rio con un docile sussultare del mandolino in chiave roots, riman-dando alle recenti collaborazioni di Isbell con Justin Townes Earle. Mostrando di saper dominare con onestà e persino una certa parsi-monia di suoni e parole la sua vi-cenda di uomo e musicista, Jason Isbell reclama finalmente un posto

d'onore tra le voci della provincia rock americana. (Fabio Cerbone)

Malcolm HolcombeMalcolm Holcombe To Drink the Rain [Music Road 2011]

La prima volta che vidi Malcolm Holcombe dal vivo rimasi impres-sionato per la carica e l'intensità che era in grado di comunicare la sua musica, la sua voce roca e pie-na di dolore, la sua chitarra acusti-ca e il suo inconfondibile picking: piegato su se stesso, occhi chiusi è lui che impersona la vera anima del blues acustico, quello primordiale figlio di Mississippi John Hurt o Fred McDowell. "Bere la pioggia" in sen-so di liberazione dal pesante fardel-lo della disintossicazione, "bere la pioggia" per cancellare gli sbagli del passato e per sentirsi finalmente libero. Come scrive Rolling Stone: "la sua musica va al di là del folk è una sorta di blues in motion che raggiunge tutti gli angoli del cuore". To Drink The Rain (con artwork dello stesso Malcolm) è il suo otta-vo album in studio dopo il prece-dente For The Mission Baby e viene inciso per la Music Road (condotta da Jimmy La Fave) dopo aver rim-balzato tra un'etichetta e l'altra. E' stato prodotto dall'amico Jared Tyler (anche al dobro) e registrato in single take in soli tre giorni in compagnia di un superbo combo di musicisti texani e di Nashville: Dave Roe (che ha fatto parte dell'ultima band di Johnny Cash) al basso, il fiddler Luke Bulla e il mai troppo intrusivo drummer Bobby Kallus. E proprio Johnny Cash e i suoi American Recording sembrano essere il punto di riferimento per il sentimento e il suono che è in gra-do di trasmettere l'intero album.

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Un suono raccolto, acustico come se la sua voce fosse accompagna-ta da una Jug Band degli anni '30. One Leg At Time inizia danzereccia come un rag-time stomp blues che non può non farti muovere, con il fiddle in prima linea ad accompa-gnare il picking di Holcombe. Si respira aria di casa con Mountains Of Home, un country waltz rurale da pelle d'oca con un andamento lento che ricorda le ultime cose di Levon Helm. Si continua con il folk blues stradaiolo da vero Hobo di Behind The Number One per pas-sare al bluegrass della bellissima Down in The Woods, che ti tra-sporta nella pace della natura dei Monti Appalachiani. Becky's Blech è una struggente porch song con il dobro e il violino in bella evidenza.

E' il ritratto di una persona con un cuore speciale, fragile, non suo e Malcolm la canta con tutta la forza che possiede. Those Who Wander e Where I don't Belong sono due talkin' blues diretti e schietti nello stile tipico di Holcombe. A Mighty City è una ballad con inflessioni jazz perfettamente eseguita da tutta la band al seguito, mentre Reckon Wind è puro folk, acustico e malinconico come solo Woody Guthrie era capace di fare. Nella title track Malcolm dimostra tutto il suo talento e ma-estria al fingerpicking con tratti che raggiungono l'intensità della Freedom di Richie Havens (Woodstock era, ricordate?). Co-mes The Blues è scarna e cruda come un blues del Delta, eseguita

in solitario, mentre la finale One Man Singin è l'epitaffio di un viag-gio che ci ha condotto dentro l'ani-ma di una persona ormai libera da ogni carico. La sua rimane una voce che non può mentire, che è stata messa a dura prova dagli eventi della vita e che l'ha quasi condotto sul ciglio della strada dannata di Hank Williams. Malcolm ha invece combattuto come un guerriero e quest'album, da sentire tutto d'un fiato, ne è la coraggiosa riprova.(Emilio Mera)

Social DistortionSocial Distortion Hard Times and Nursery Rhymes [Epitaph 2011]

Sgombrato il campo da ogni equivoco, i Social Distortion nella versione aggiornata al 2011 sono una ro-ck'n'roll band che insegue la stella polare di un suono classico, mainstream rock da strada e soprattutto da barricata che si colora persino di influssi sudisti (provate con California (Hustle and Flow) e la sua coralità da Sud bollente, dove pare di sentire addirittura i Georgia Satellites!), uscendo allo scoperto con l'album più "addomesticato" e tradizionale della loro travagliata carriera. Non lo si prenda però per un presunto, impro-ponibile tradimento, ne tanto meno per una caduta di stile: soltanto i sordi potevano ancora pensare di rele-gare la creatura del delinquente Mike Ness (è rimasto soltanto lui a fare da timoniere, con una line up nuovamente rivoluzionata e l'ingresso del giovane David Hidalgo Jr. - proprio il figlio di… - alla batteria) nella pantomima di una punk band californiana. In Hard Times And Nursery Rhymes scorre la passione e l'ico-nografia che da sempre cova sotto le ceneri delle chitarre spianate: ci sono ancora le setlle polari di Hank Williams (soprattutto lui, grazie an-che alla versione tesa e tagliente di Alone and Forsaken) e Johnny Cash, ci sono l'America della periferia e l'immaginario dei perdenti di ogni lati-tudine, ci sono i teppisti e i ribelli senza causa tanto cari a Ness (e lui ne è il primo testimone), c'è soprattutto un rock'n'roll che sa parlare la lin-gua della strada (Can't Take It with You, entusiasmante a dir poco nella sua voce punk soul) senza apparire per forza di cose banale e rimastica-to. Certamente Hard Times And Nursery Rhymes non ha l'impatto fronta-le, veemente di White Light White Heat White Trash, ne tanto meno rag-giunge la magnifica sintesi di quel Sex, Love and Rock'n'roll, che a tut-t'oggi sembra ancora il loro punto di maturazione più invidiabile, eppure ripercorrendo i temi cari alla poetica un po' eversiva e "malavitosa" di Mike Ness, si prende gioco di se stesso, conducendo i Social Distortion in quella terra di nessuno (oggi più che mai) dove il rock'n'roll ha ancora voglia di suonare plateale, chiassoso e romantico. D'altronde come potrebbe essere altrimenti per un disco che apre le danze con uno strumentale tuonante e minaccioso intitolato Road Zombie. Siamo ancora in viaggio dunque e il bello dei Social Distortion è proprio l'idea che si rimettano in carreggiata soltanto quando hanno veramente qualcosa da dire e da dimostrare: un lavoro ogni sei/ sette anni, anche di più, mai per "essere presenti", semmai per risvegliare le coscienze di chi li ha sempre visti come una nota scomoda, duri e puri anche nella loro ingenuità. E la copertina degna di John Steinbeck è la migliore istantanea della band in questo 2011: vecchia America un po' malandata, da nuova depressione, rivista però con il gain dell'amplificatore girato sul 10, come se le Dust Bowls di Woody Guthrie potessero improvvisamente infondersi di elettricità, tanto da fa nascere, letteralmente, Diamond in the Rough, o da ricordare, appunto, i "tempi duri" in Bakersfield. Prendere o lasciare, i Social Distortion sono sempre gli stes-si in fondo, e una nota di Gimme That Sweet and Lowdown o della riottosa Machine Gun Blues basta e avan-za per farceli amare anche in questa veste più saggia. Still Alive insomma, come canta Ness nel finale: e se lo dice lui, che ne ha viste passare di cotte e di crude sotto i suoi occhi, possiamo fidarci. (Fabio Cerbone)

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Over the RhineOver the Rhine The Long Surrender [Great Speckled Bird 2011]

Segno dei tempi musicali che stia-mo vivendo - in totale subbuglio, anche un po' barbari, ma se non altro imprevedibili - il nuovo lavo-ro degli Over The Rhine ha dovu-to pazientemente raccogliere il soccorso (soprattutto economico, si intende) dei molti fan per vede-re la luce. Un destino infame che una band di questa levatura non meriterebbe certamente, ma che alla fine sembra essersi presa la rivincita, sfoderando quella indi-pendenza artistica necessaria per librare ogni pulsione compositiva. The Long Surrender è infatti l'esito miracoloso di un impegno negli studi casalinghi di Joe Henry, produttore e deus ex machina di questa raccolta singo-lare nella stessa carriera degli O-ver The Rhine: album di ambiente folk ed eleganza pop jazz, di e-splosioni gospel e sinuose ritmi-che, ruba i segreti migliori della recente arte di Henry e li applica alla bellezza cristallina delle melo-die del piano di Linford Detweiler, ma soprattutto alla carica senti-mentale della voce di Karin Ber-gquist, vera e propria regina delle registrazioni. È lei più che mai al centro di queste canzoni, accentuata nel-la trascinante passione interpreta-tiva - quella che già avevamo im-parato a conoscere in piccoli dischi di culto quali Ohio o Drunkard's Prayer - eppure oggi esaltata dalle tonalità notturne e soffuse che Henry ha saputo costruire insieme ad un manipolo di fidatissimi mu-sicisti: con la sezione ritmica in mano a Jay Bellerose e David Piltch, qualche rintocco di tromba e gli abbellimenti degli strumenti a corda di Greg Leisz siamo letteral-mente catapultati in paradiso. Canzoni trascendenti, anche nelle tematiche dei testi, toni malinconi-ci, paesaggi dell'anima che si ri-versano in una sequenza di ballate

con dettagli minuziosi: la musica degli Over the Rhine non cambia pelle ma senz'altro si fa più auste-ra e raffinata, forse abbandonando quella matrice folk di partenza per cui furono frettolosamente catalo-gati al fianco degli amici Cowboy Junkies, ma nel contempo parten-do dalle certezze di The Laugh Of Recognition, un ponte lanciato verso il passato per non spiazzare in partenza, muovendosi nella ce-lestiale spirale di Rave On o fra il guanto jazzy di Soon. Karin Ber-gquist, come anticipato, è la stella incontrastata, la voce per eccel-lenza: delicata, stentorea, addo-mesticata e imprevedibile negli scoppi di intensa passione, sfugge fra inaspettati alti e bassi seguen-do le curve dei brani. Se il delicato tocco piani-stico del compagno Detweiler la tiene per mano in Sharpest Blade e la trasporta in paradiso attraver-so il pathos incredibile di Infamous Love Songs, Henry e la band in-nalzano intorno a lei una casa ac-cogliente dove ogni nota acquista un senso che possa, grazie a po-chissime pennellate, condurre al centro dell'intepretazione. Sugge-stive le gradazioni spiritual che abbelliscono una "tragica" Only God Can Save Us Now, più sangiu-gne e sensuali quelle che uniscono black music e un coro in odore di soul in The King Knows How, nel-l'insieme l'anima "nera" del disco che converge infine in quelle balla-te, sospese fra pop e jazz da ore tarde, qui rappresentate dalla lun-ga All My Favorite People e dalla malinconica There's A Bluebird In My Heart, quest'ultima fortemente marchiata dal gusto di Joe Henry. Non si pensi tuttavia che la perso-nalità degi Over the Rhine si an-nulli totalmente nella produzione o fra i contributi dei collaboratori: la dolcissima carezza di Oh Yeah By The Way è tutta farina del loro sacco, mentre la filastrocca acusti-ca di Undamned chiama in causa l'ospite Lucinda Williams in un rimpallo di voci e sofferenza che la,bisce i territori della canzone Americana. The Long Surrender risulta così non come una devia-zione dalla strada principale degli Over the Rhine, semmai come una paziente ricostruzione del loro stile e certamente come il loro album più definito in termini di suono. (Fabio Cerbone)

Wooden WandWooden Wand Death SeatDeath Seat [Young God 2010]

Provateci voi, a stare dietro all'iper-trofia produttiva di James Jackson Toth. L'erratica creatività di questo (ex?) freak che bagnava i propri lucidi deliri folk nell'acido dei Vani-shing Voice sembrava essersi ac-quietata con l'approdo a una major e l'uscita del primo (nonché unico, per ora) disco a suo nome. Waiting in Vain ci era piaciuto tanto, lo con-fessiamo: scoprire che le sue can-zoni stavano in piedi anche appese a un folk-rock diretto e moderna-mente tradizionale, era stata una delle sorprese più gradite del 2008. Non tutti hanno apprezzato, però. E così - una storia già vista - la Ryko-disc ha rescisso il contratto, la band lo ha abbandonato a metà del tour, sua moglie se n'è andata. Per non farsi mancare nulla, è poi arrivato anche un arresto per guida perico-losa. Come esito immediato di quel-l'annus horribilis, Toth è tornato quindi a nascondersi dietro la pristi-na identità di Wooden Wand, fa-cendo uscire nel 2009 due dischi (il minimo sindacale, per lui: una col-lezione di demo rifiutati dalla Ryko-disc e una raccolta di outtakes inci-se tra il 2002 e il 2007). A tirarlo fuori da un destino - già segnato e già vissuto - di bas-sa fedeltà e autoproduzioni, è arri-vato Michael Gira (Swans e Angels of Light; scopritore, ricordiamolo, di Devendra Banhart e Akron/Family). Il boss della Young God gli ha chia-mato intorno alcuni musicisti in sin-tonia con le sue visioni: William Tyler (Silver Jews, Lambchop), Col-leen Kinsella e Caleb Mulkerin dei Fire on Fire, Grasshopper (Mercury Rev), e altri. Ne è venuto fuori quello che potremmo chiamare il disco "country" di Wooden Wand. Le ballate di Toth si nutrono dei chiaroscuri tormentati di Johnny Cash (Death Seat, Sleepwalking After Midnight) dell'imagerie biblica del Dylan post-elettrico (The Mountain, I Made You), persino

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dello humour disperato di Townes Van Zandt (Tiny Confessions). Una coltre acustica, intima e tiepida, si srotola ipnoticamente per 42 mi-nuti, avvolgendo in un'atmosfera "pastorale" la narrazione della li-nea d'ombra di un'America irredi-mibile, perduta tra un Hotel Bar ("A hotel bar in the sky/Where even your honesty is full of white lies") e i travestiti di Mr. Mowse ("All the trannies in DC know ju-do/Don't you dare snicker at them"). Sono canzoni che rumina-no con pacatezza i soliti accordi, lasciando uno spiraglio aperto al soffio di un'armonica (Until Wrong Looks Right), intarsi di organo e piano (The Arc), il lamento di una chitarra elettrica (Servant to Blues), mandolini, pedal steel, riverberi e armonie spettrali. Le liriche di Toth sono, al solito, sor-prendenti (in Bobby canta: "He painted his house the colour of skin/So if the situation called for it he could blend in"): contiguo all'u-niverso di Jeffrey Lee Pierce (Gun Club) o a quello di David Eugene Edwards dei Sixteen Horsepower (ma meno claustrofobico), il mon-do che tratteggiano è quello dell'e-terna rappresentazione di un con-flitto irrisolvibile. Bene e male, dannazione e redenzione, follia e normalità: aggiungete pure altre dicotomie a piacere… Può sembrare una cosa strana da dire, a chi continua a pubblicare mediamente una trenti-na di canzoni nuove ogni anno, ma lo diciamo comunque: "Bentornato". (Yuri Susanna)

JT & The CloudsJT & The Clouds Caledonia [Dishrag 2010]

Adorabile lezione di quel tipico "melting pot" musicale americano, Caledonia riporta a galla con pre-potenza una formazione che ave-vamo colpevolmente dimenticato per strada, perdendo il secondo capitolo - The City's Hot Yeah the

City's Hot nel 2007 - di un percor-so artistico molto originale in quel di Chicago. Prendendo a prestito l'anima nera della città, le sue ra-dici blues ma soprattutto soul, spostandosi idealmente un poco più a sud e imbarcando la passio-ne della tradizione rhythm'n'blues di casa Stax, Jt & The Clouds uniscono il calore e il meticciato sudista di Memphis con il freddo della loro Chicago, provando ad applicare la sensibilità di musicisti di area indie rock alle fondamenta della black music. Non poteva es-sere altrimenti vista la loro prove-nienza geografica, ma al di fuori dei luoghi comuni non è in verità così scontato trovare un giovane songwriter - Jeremy "JT" Lin-dsay, voce e istrione della band, alle spalle anche un lavoro solista con lo pseudonimo JT NERO - e una congrega di musicisti al segui-to, che rovistano spunti e ispira-zione in quel crogiuolo di sonorità regionali, pur non rinegando la loro educazione rock alternativa. Se già il loro debutto, Deli-lah, ci aveva sorpreso per la com-plessità delle influenze e la non facile catalogazione del gruppo (generalmente sempre un ottimo segnale di autonomia...), Caledo-nia è la dimostrazione di una ma-turità, di una padronanza di stili e melodie che non lascia dubbi sulle qualità delle loro canzoni: si respi-ra un'aria esuberante e solare che contamina il soul rock della band, passando dalla giocosa apertura con Fever Dream e Funeral alla stesura di piccoli scherzi pop (Low July) fino all'esplosione di autentici momenti rock (la stessa Caledo-nia, ballata rock che sogna in grande e si fa epica al passo giu-sto). Conquista tuttavia la sempli-cità delle composizioni, seppure avvolta in una coperta elegante che sa giostrarsi nella storia del soul degli anni '60: Lindsey è un personaggio singolare, che nella voce rauca e squillante mette in-sieme tradizoni all'apparenza di-stanti come il folk bianco e il soul nero. Mezzo storyteller e mezzo discepolo di Curtis Mayfield e Sam Cooke, pur senza toccarne - sia chiaro - l'intensità dell'interpreta-zione, spinge la band (essenziali Dan Abu-Absi alle chitarre, Chris Neal ai fiati e tastiere e Mike Au-gust alle percussioni) nella direzio-ne di un dolcissimo blue eyed soul (I Have Heard Words, toccante come un piccolo classico dimenti-

cato), salvo scartare nelle acque limacciose dello swamp rock (How It Runs, da qualche parte fra Cree-dence e Tony Joe White), farsi viva-ce nel falsetto di Playin' Dozens e persino impiastricciarsi di ritmi ca-raibici grazie all'irresistibile Grow Your Flowers. Le gradazioni, la tes-situra stessa delle canzoni di Cale-

donia fanno la differenza, senza architettare chissà quali particolari invenzioni: c'è soltanto un accen-tuato gusto ritmico, un uso colorito delle voci (che esplode nel finale molto spirituale di Nobody Wants to be Alone Nobody Wants to Die) e il talento raro di suonare unici pur nella loro semplicità. La dura ricer-ca del disco 8sperando in una immi-nente visibilità, che meriterebbeo) vale la spesa, come si suol dire.(Fabio Cerbone)

Jeremy “JT” Lindsay Voce e autore dei JT & The Clouds

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Bocephus KingBocephus King Willie Dixon God Damn! [Tonic 2011]

Risorgimento! È scontato - lo so - usare questa parola nel giorno in cui si celebrano i 150 anni dal giorno in cui, nel 1861, Vittorio Emanuele proclamò il Regno d'Ita-lia. Ma passare il 17 marzo ascol-tando Willie Dixon God Damn!, ritorno a sorpresa del canadese Bocephus King (al secolo Jamie Perry) dopo sette anni di latitanza del mercato discografico, è stato lo stesso un gran bel modo di fe-steggiare. In fondo, sempre di rinascita, di rinnovamento si trat-ta. Lo sa anche l'interessato, oggi ripulito da tutte le droghe e gli eccessi che ne avevano accidenta-to il percorso artistico e umano: l'iniziale The Beast You Are, difatti, non è altro che un'umile ammis-sione di colpe, peccati e debolezze ("Parli come San Francesco, ma non riesci a mollare quella buona merda", con ovvio riferimento al-l'eroina), enunciata con la serenità e lo stupito candore di chi, aven-done passate di tutti i colori, si scopre determinato a sopravvivere e riesce infine a guardare indietro, con un pizzico di umana tolleran-za, all'infinità di errori commessi, alla lotta quotidiana "con le bestie che siamo". Bocephus King si guarda alle spalle, com'è inevitabile che sia, e guarda avanti, confezionan-do un disco che, senza raggiunge-re i livelli del folgorante A Small Good Thing (1998) che lo fece conoscere alle nostre latitudini, può essere considerato la tradu-zione riuscita e coerente del feb-brile disordine creativo riversato senza alcuna disciplina nell'irrisol-

to All Children Believe In Heaven: un disco organico e intenso, impe-gnativo (più di un'ora di musica) ed appassionato. Willie Dixon God Damn! formula il proprio omaggio all'arte che rischia, e di riflesso agli artisti capaci di rischiare qual-siasi cosa (come la Nina Simone che in Your Great Big Beautiful Heart viene ringraziata per tutto il "sangue" irrorato nella sua musi-ca), attraverso un'atmosfera con-fessionale mai debordante nel nar-cisismo o nel compiacimento del reduce. "Tutta la poesia medio-cre", diceva Oscar Wilde, "è since-ra", ma estrarre una valida opera-zione estetica dalla radiografia di demoni e sconfitte personali è im-presa (difficilissima) che Bocephus King affronta con strepitosa ispira-zione. Dal folk-rock rutilante di The Myth Of Philadelphia al deli-zioso affresco dixieland di una So Many Hells il cui finale, in una splendida intersezione tra gospel e una babele linguistica di voci, risa-te di bambini e squillare di pedal-steel, esprime un mondo intero di serenità interiore, ogni minuto di Willie Dixon God Damn! suona prezioso e magnetico. Stupendo è il panorama acustico di una The Epiphany Of The Saints dove la sei corde sembra affidata al tocco liri-co e virtuoso di Pierre Bensusan (e sono ballate come questa a ricor-darci quanto debba, il flow malin-conico e folkie di Bocephus, al mi-glior Van Morrison), ma meritano almeno una citazione anche i ritmi sudafricani di The Job, l'incantevo-le fragranza melodica dell'up-tempo per fiati della lunga Ba-stards, la cantilena western di Just As Long As You Arrive, il contrab-basso jazzy dell'incalzante That's Not Love, la scenografia percussi-va (compare persino una darbuka) dell'esplosiva title-track. Willie Dixon God Damn! è qualcosa in più di un (ottimo) di-sco, qualcosa in più di una (graditissima) ricomparsa: il suo trasporto e la sua densità di con-tenuti rappresentano l'esempio probante di come si possano tra-sformare il vuoto, il malessere degli anni sbagliati, gli errori e gli orrori, senza peraltro rinnegarli o

ignorarli, in rinnovata certezza. Per-ché anche in fondo al buio più fitto e angosciante, dopotutto, si può tornare a guardar le stelle. (Gianfranco Callieri)

Sean RoweSean Rowe Magic [Anti 2011]

C'è ancora spazio per qualche storia a lieto fine in questo pazzo mondo musicale: così può capitare di in-ciampare in un disco "magico" (in tutti i sensi) e scoprire che ha una storia lunga e travagliata alle spal-le, che si è fatto largo con la sola forza delle sue canzoni e che dopo una sorta di rodaggio ai margini, si è spinto sino ai tavoli di una delle etichette più coraggiose per la mu-sica d'autore di questi anni, la Anti. Questa è la vicenda di Sean Rowe e di Magic, album concepito fra il 2008 e il 2009 in una soffitta sopra il vecchio ristorante italiano del nonno, nella anonima cittadina di Troy, stato di New York, pubblicato nel 2010 in totale indipendenza e oggi sbucato dal nulla per spargere il nome e la voce di Rowe ad un pubblico più vasto. Un miracolo? Non è il caso, anche perché ne ab-biamo viste passare troppe per ce-dere a facili entusiasmi. Certo è che l'alchimia di Magic non lascia indif-ferenti: non può non colpire quella voce baritonale densa e misteriosa, che a qualcuno potrebbe facilmente ricordare il Mark Lanegan più a-sciutto e folkie; non può allo stesso tempo passare inosservata l'econo-mia dei suoni che rende tuttavia tutto perfetto nelle misurate colla-borazioni (soprattutto Troy Pohl fra chitarre, piano, synth e organi e poche voci femminili di contorno). Chiamatelo folk se vi con-viene, ma il flusso di emozioni

Second HandSecond Hand avvistati in questi mesi

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che finisce nelle canzoni di Sean Rowe possiede un afflato che è figlio tanto del soul quanto del rock'n'roll più oscuro e tormenta-to. Lui stesso cita Van Morrison, qualcuno ci ha aggiunto sull'adesi-vo in copertina Al Green e Gil Scott Heron, ma sono trovate che fanno più male che bene. Qui pare solamente di avere a che fare con un songwriter di prima classe, che misura parole, suoni e immagini, mettendo a frutto la sua passione per la wilderness americana, per il paesaggio e i suoi segreti (Rowe afferma a più riprese il suo legame con la storia dei nativi americani) in frasi che sono alternativamente spine nel fianco o dolci confessio-ni, così nude nei pensieri espressi, eppure sempre distinte da un velo di ambiguità. L'alternanza si esplicita anche in un gioco fra luci e ombre, per cui le melodie si possono spa-lancare alla delicata fragranza soul di Surprise o al crescendo emozio-nale di Wet (senza eresie, ma nel finale non sembra proprio di senti-re il Bono dei tempi "sacri" di Un-forgettable Fire?); virare alla reli-giosità di American e The Walker, palesemente ispirate, più o meno consapevolmente poco importa, alla austerità di un Leonard Co-hen; infine cadere nelle ombre di Old Black Dodge, ballata folk irre-quieta e sghemba che ricorda Ho-we Gleb e il deserto dei Giant sand, o della lascivia blues di Wrong Side of the Bed, numero elettrico che bene si accompagna alla nervosa Jonathan. Sono questi ultimi rari esempi di una inquietu-dine rock che cova sotto le ceneri malinconiche di Sean Rowe e per-ché no, una scommessa aperta per il suo futuro, una via di uscita che potrebbe regalare ulteriori suggestioni. Nel frattempo Magic, la sua misteriosa delicatezza (Night e il dialogo fra padre e figlio che racconta), la rarefazione con la quale distende i suoi versi (The Long Haul) sono già una bellissima realtà. (Fabio Cerbone)

Amos LeeAmos Lee

Mission Bell [Blue Note 2011]

Davanti ad Amos Lee probabilmente Mi-chelangelo avrebbe perso la pazienza e avrebbe urlato anche a lui il suo celeberri-mo "perchè non parli?!", martellata sul ginocchio inclusa. Meno espressivo di una statua di Mosè, ma certo non meno di bel-la presenza, Lee è uno di quegli artisti che non sai mai quanto odiare o amare. Lo ami per la perfezione sonora, per lo stile rigoroso che unisce soul bianco e folk alla

James Taylor, lo odi per l'eccessivo formalismo delle sue composizioni, e per quel non lasciarsi mai andare e non concedere mai nulla di più delle sue canzoni. Non si pretende certo che uno con il suo stile si met-ta a contorcersi sul palco come un Iggy Pop, ma a volte un po' di com-posta ironia alla Lyle Lovett avrebbe sicuramente giovato alla sua arte, piuttosto che alla sua seriosa immagine. Avviluppato nella sua timidez-za, non sappiamo quanto atteggiata, Lee aveva anche perso qualche punto presso i critici all'indomani di un terzo album che ha venduto pure bene negli States (ventinovesimo posto in Billboard, vette che alla maggior parte degli artisti a noi cari sono proibite), ma che ha lasciato freddi i fans più fedeli. Giusto quindi prendersi una pausa di riflessione, se poi i risulta-ti sono quelli presentati in Mission Bell, che lasciamo a voi il compito di decidere se sia il suo album migliore, ma con certezza vi diciamo che comunque se la gioca per il titolo. Si parte bene fin dalle frequentazioni scelte, su tutte la produzione affidata al Calexico Joey Burns, eviden-tissima ad esempio nel blues desertico di Out Of The Cold (brano che coinvolge anche Pieta Brown). E poi una serie di collaborazioni che son-dano il mondo indie (in Violin fanno capolino i vocalizzi di Sam Beam), amicizie rodate (in Stay With Me ancora una volta appare la bella Pri-scilla Ahn), nomi altisonanti per le nostre lande (Lucinda Williams lo aiuta a irruvidire la paludosa Clear Blues Sky), pezzi da 90 (il Willie Nelson che appare nella ripresa finale di El Camino) o storici session man (il batterista James Gadson, uno che ha suonato con il gotha della black music degli anni 70, lo aiuta in Jesus, qualcosa di più di una sem-plice gospel-song, nonché uno di quei momenti in cui ti sembra che anche per lui sia possibile perdere le staffe). Non tutto gira alla perfezione comunque, quella che ai tempi del vinile sarebbe stata la prima parte affonda colpi senza sbagliarne uno, con Windows Are Rolled Down e Flower a dimostrare che anche da solo il ragazzo sa come confezionare la canzone giusta. Nella seconda parte però torna un po' quella cattiva abitudine di accontentarsi e non concedersi mai troppo che lo porta a brani meno importanti come Lear-ned A Lot e Cup Of Sorrow. La produzione di Burns fa la differenza, anche se forse lui avrebbe bisogno di uno di quei produttori stronzi e debordanti che gli facciano tirar fuori le unghie a difesa della sua inte-grità stilistica, e forse avremmo finalmente il suo vero grande disco, Ma anche così, comunque, non ci lamentiamo. (Nicola Gervasini)

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The Baseball ProjectThe Baseball Project Volume 2: High and Inside [Blue Rose 2011]

Ci hanno preso gusto e d'altronde il successo del primo volume - so-no finiti anche su Sports Illustra-ted - aveva in qualche modo anti-cipato la mossa vincente del pro-getto The Baseball Project, sor-ta di congiura delle migliori menti del rock'n'roll americano degli ulti-mi trent'anni. Impossibile forse cogliere fino in fondo ogni detta-glio di passione che traspare nei racconti del gruppo, anche perché il legame strettissimo di queste storie con il baseball implica un interesse per i giocatori, le maglie e le squadre del campionato della World Series, che al pubblico ita-liano possono apparire distanti. Resta evidentemente il dato musi-cale, ma anche una curiosità che non può non essere soddisfatta leggendo in controluce la saga di molte vite qui dentro narrate. High and Inside si inoltra infatti, addirittura con più efficacia rispet-to al suo predecessore, nella de-scrizione delle carriere a volte tra-giche, altre vincenti di personaggi per buona parte a noi sconosciuti come Reggie Jackson, Roger Cle-mens, Mark Fidrych o Carl Mays, quest'ultimo capace di spedire al creatore con un lancio l'unico gio-catore morto direttamente durante una partita della major league. Ancora una volta le detta-gliate note introduttive ai brani aiutano a decifrare questa mappa, portandoci in un mondo affasci-nante: Steve Wynn e Scott McCaughey si confermano i prin-cipali timonieri, sia in qualità di autori sia di interpreti, anche se un cameo vocale di Linda Pitmon (titolare ovviamente di batteria e percussioni) compare in Fair Wea-ther Fans e un numero più consi-stente di ospiti rende il Volume 2 una sorta di opera corale. Comple-tata la line up di base con il basso e la dodici corde di Peter Buck (REM), infatti, sono le presenze di

Craig Finn degli Hold Steady (suo l'inno per gli amati Minnesota Twins nella ruvida tirata elettrica di Don't Call Them Twinkies), e ancora, fra i tanti, di Ben Gibbard (Death Cab for the Cutie), Ira Ka-plan (Yo La Tengo), Chris Funk (Decemberists, sue molte parti di banjo, dobro e lap steel) e Steve Berlin (sax indispensabile per la citata Fair Weather Fans e in The Straw that Stors the Drink, suo l'organetto farfisa a colorare la caramella sixties di Chin Music) a trasformare High and Inside nel-l'occasione giusta per consolidare amicizie artistiche e magari avva-lorare alcune certezze. Prima fra tutte quella che un certo mondo "indie", special-mente nato a cavallo fra gli anni '80 e '90, continua a sentirsi debi-tore di quel crogiuolo di suoni si-xties, garage rock e psichedelia che ne ha sancito una parte della sua fortuna. The Baseball Project sembrano firmare un patto con il diavolo e conservare quella imma-colata passione: 1976 è una balla-ta "Steve Wynn" all'ennesima po-tenza, la nervosa Panda and the Freak e il pop variopinto di Ichiro Goes to the Moon esercizi dello stile sixties di McCaughey, Bu-ckner's Bolero (dedicata allo sfor-tunato Bill Buckner) una rilettura da country cosmico, Pete Rose way un delizioso quadretto tra jingle jangle byrdsiano e roots che probabilmente molto deve a Peter Buck, Tony (Boston's Chosen One) una danza tzigana a tempo rock che finisce nel lato oscuro del son-gwriting di Wynn. Nulla da recrimi-nare sull'esito finale: forse non di prima scelta, è pur sempre un ide-ale compendio al primo volume, un piacevole calderone musicale in c u i l a s c i a r s i c u l l a r e . (Fabio Cerbone)

North Mississippi AllstarsNorth Mississippi Allstars Keys to the Kingdom [Songs of the South 2011]

La morte di Jim Dickinson nel 2009 ha lasciato un grande e incolmabile vuoto nella vita dei due figli Luther e Cody. Keys to the Kingdom è il loro primo album dopo la sua dipar-tita ed è un omaggio sentito alla sua vita e ha ciò che ci ha lasciato. Nell'album c'e ancora l'impronta e il ricordo del padre e la frase "produced FOR Jim Dickinson" che adorna la back sleeve, rende omag-gio al suo genio come produttore mentre le "haunting" code di piano (da parte del grande Spooner Ol-dham) rendono omaggio a Mr. Di-ckinson come pianista. Quattro giorni dopo il suo funerale Luther, con i suoi Sons of Mudboy, decise di entrare in studio e registrare in o-nore al padre il bellissimo Onward & Upward. E proprio quell'album in-fluenza il suono e gli umori di que-sto loro ottavo album. Gli Allstars suonano con ardore tirando fuori dal profondo della loro anima tutto il loro dolore, lasciando da parte la spregiudicatezza hard rock del pre-cedente lavoro (Hernando del 200-8) con un album personale, intimo e maturo. La loro è una celebrazio-ne della Vita di fronte alla morte e non un album triste (Luther ha avu-

to anche la sua prima figlia 3 mesi dopo la morte di Jim), questo è il loro "miglior al-bum country, blues e M i s s i s s i p p i R ' n Roll" (nelle parole di Luther). Registrato nello Zebra Ranch (la loro Electric Church fondato da Jim) con l'amico Chris Chew al basso, si ha la sensa-zione di tornare a quel suono e a quella atmosfera carica che fu di Exile on Main Street con amici e

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e sessionmen a collaborare per una raccolta che sfiora il capolavo-ro. This A'Way da un calcio al pas-sato e apre le porte al loro tipico stomp blues sound del profondo Sud con la tagliente chitarra di Luther ad intessere trame ed as-soli seguito dal preciso drumming di Cody. Jumpercable Blues è puro RnR mentre The Meeting è uno swampy gospel blues trascinante e carico di adrenalina con un suono quasi funky che entra nelle budel-la, con la brava Mavis Staples in grande spolvero a regalarci attimi di grande intensità in duo con Lu-ther. How I Wish My Train Would Come è una ballad mid-tempo ric-ca di spiritualità e suonata con il cuore in mano dai due fratelli (con un riff che rimanda alla premiata ditta Jagger/Richard) mentre il potente battito della batteria apre Hear The Hills, un brano elettrifi-cato e introspettivo scritto da Lu-ther che ricorda Jim con il "Rest in Peace" che riecheggia nelle orec-chie e le colline che chiamano il suo nome. Un intermezzo e il bra-no riparte con la sua melodia an-gelica e con le note di quel piano come se fosse proprio lui, lì pre-sente in studio ad accompagnare i due amati figli. La versione di Stuck Inside The mobile With the Memphis blues (già nel loro album del 2007 Songs of The South ripresero Ma-sters of War di Dylan) è stravolta e più bluesy rispetto all'originale, in puro Mississippi style, mentre Let It Roll è il loro canto di dolore, un gospel sanguigno scandito dal ritmo di un piano e dalla slide e qui riproposta (apriva Upward & Unward) in una versione più rit-mata. Ry Cooder presta la sua slide nella bellissima Ain't No Gra-ve, un vero inno alla vita e non poteva mancare all'appello un al-tro amico dei Dickinson, Alvin Youngblood Hart (già nei South Memphis String Band e forse uno dei migliori esponenti del Delta Blues ai giorni nostri) che con quel suo vocione bluesy arricchisce la tradizionale Ol'Cannonball, una bellissima old timey ballad. Non solo malinconia ma anche rabbia viene fuori nel vodoo blues New Orleans Walkin' Dead con Alvin indemoniato all'armonica o nel blues elettrico di Ain't None O'Mi-ne, di matrice Zeppeliana, con Cody che si da un bel da fare nel far pulsare la sua batteria. La con-sapevolezza che c'e' un'altra vita dopo la morte è evidente nella

conclusiva e gioiosa Jellyrollin All Over Heaven che ci lascia ancora una volta con il suono del piano accompagnato da quello delle ci-cale. Questo è American gospel, questa è soul music o semplice-mente é il loro miglior album dal-l'esordio. Così prendete una sedia (preferibilmente a dondolo) versa-tevi un po' di whisky nel bicchiere e come diceva il buon Jim "It's a good time to listen to the blues"; se veramente non digerite questo suono c'e qualcosa che non va. Ancora grande musica dal profon-do Sud. (Emilio Mera)

PonderosaPonderosa Moonlight Revival [New West 2011]

Fedeli alla linea Mason-Dixon del rock ma con una punta di moder-nità, soprattutto rispettosi delle loro origini, i Ponderosa potreb-bero essere la next big thing del rinascimento sudista che in questi anni ha già portato a galla una miriade di discepoli e seguaci, per anni anscosti nelle cantine. Origi-nari di Atlanta, Georgia, come i fratelli Robinson (Black Crowes) della prima era mettono insieme riff plateali di marca Stones-Faces e mainstream rock americano cre-sciuto sulla strada, non disprez-zando però qualche incursione in territori che lambiscono l'alternati-ve country più morbido e persino una vena pop nell'utilizzo delle voci. Hanno insomma le carte in regola per conquistare pubblici diversi, oppure potrebbero essere condannati dalla scelta di non prendere una posizione netta. Le band che assecondano il loro estro in realtà ci sono sempre piaciute e i Ponderosa, tenendo ben saldi i piedi nel rock'n'roll più classico e fuori moda, si meritano tutto il sostegno possibile per un esordio che farà concorrenza ai vari Bla-ckberry Smoke, Cross Canadian

Ragweed e alla numerosa compa-gnia del Red Dirt. Rispetto a questi ultimi sfo-derano però un sound (di mezzo c'è il produttore Joe Chicarelli, vec-chia volpe dell'alternative rock) me-no stereotipato o forse soltanto una freschezaa che il debutto può anco-ra garantire: Old Gin Road è il solito rantolo boogie sudista a cui però la voce impastata di rauco soul di Ka-len Nash offre la marcia in più e lo scatto in avanti arriva nelle succes-siva I Don't Mind, esplosione di chi-tarre e rock da strada maestra che mette insieme i "Corvi" della Geor-gia con il Tom Petty più elettrico. I poli di attrazione della band sono chiarissimi: Kris Sampson (chitarra solista), Jonathan Hall (basso) e John Dance (tastiere), a quali si aggiunge la batteria di Darren Dodd, sono figli della bandiera con-federata del rock, ma arrivando nel 2011 sul proscenio si concedono un efficace riassunto che sappia incor-porare la danzante ballata country Pistolier e quella in odore di West Coast e Eagles Penniless, il pop rock più romantico in Little Runa-way (un potenziale nuovo singolo) e quello più virato alla malinconia e al tormento in Girl I've Ever Seen, il garage selvaggio di Revolution e persino le trame heavy della con-clusiva Devil On My Shoulder. Mettono in fila una galleria di romanticismi e fughe che sono la quintessenza del genere: non brilla-no certo per le liriche, accodate al c l i c hè de l rock ' n ' ro l l p i ù "fuorilegge", ma da queste parti si chiedono anima e sudore, accordi sferzanti e passione, la stessa che pare avere convinto non solo la New West a metterli sotto contrat-to, ma persino il pubblico del presti-gioso South by Southwest di Austin, luogo dove hanno fatto faville nella scorsa edizione. Facile pensarlo al primo attacco di chitarre e organo in Pretty People, trascinante sou-thern swamp al testosterone o all'a-scolto di quel basso corpulento che introduce il soul rock tutta trepidan-te passione di Hold On You, vero tour de force per la voce di Nash che ci trascina nella terra. Una pro-messa da mettere in conto fra le nuove leve rock tradizionaliste a-mericane. (Fabio Cerbone)

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Nicole AtkinsNicole Atkins Mondo Amore [Proper 2011]

Non sappiamo quanti se ne ram-mentino, ma Nicole Atkins quat-tro anni fa ha spedito una cartoli-na da Neptune City, amena locali-tà costiera a uno sputo da Asbury Park, in cui confessava il suo amo-re per il pop orchestrale d'antan (ah, i bei tempi del Brill Building, ha sospirato allora qualche recen-sore), i girl group di Phil Spector e i melodrammi di Roy Orbison. Senza nascondere un penchant per la surreale America di provin-cia di David Lynch. Applausi gene-rali, apparizioni al David Letter-man Show, uno spot per la Ameri-can Express. Poi, la strada verso la gloria si è fatta impervia, qual-cosa si è messo di traverso. Nel 2009 venivano annunciati i prepa-rativi per un nuovo disco ma l'im-provvisa rescissione del contratto con la Columbia ne ha procrastina-to la realizzazione di molti mesi. Mondo Amore, prodotto da Phil Palazzolo (tecnico del suono di New Pornographers e Okkervil Ri-ver), vede la luce per una label indipendente - seppure distribuita dalla Sony (Proper in Europa), co-me la Razor & Tie - con un nuovo mood e una nuova backing band, i Black Sea. L'aria si è fatta decisa-mente noir, partendo dalle liriche - il disco inizia con i segnali di morte di Vultures, che descrive "avvoltoi che arrivano in cerchio, pesanti come pietra, e si prendono tutto ciò che riescono, finché di te non restano che sporcizia e ossa". An-che la musica è cambiata, ha in-troiettato umori rock-blues (My Baby Don't Lie, distorta e sensua-le), accenti psichedelici (un po' dappertutto: ascoltate This is for Love, ovvero i Jefferson Airplane aggiornati al nuovo secolo) e dark (You Come to Me suona quasi co-me un omaggio a Siouxsie Sioux). Una propensione genericamente più rock (per il roll, invece, c'è

ancora da aspettare), che suonerà nuova a chi ha in testa le orche-strazioni da musical di Broadway del disco precedente. La novità più evidente è nel ruolo della chitarra elettrica, strumento da cui molte delle nuove canzoni si fanno vo-lentieri condurre per mano. C'è l'impronta di Robert Harrison, ex-frontman dei Cotton Mather, band di culto del power pop dei '90, qui co-autore di parte delle musiche. Non è un'inversione di 180 gradi, comunque: alcuni episodi mostrano ancora una forte traccia "cinematografica" (Hotel Plaster, il duetto con Jim James in War is Hell, il climax della conclusiva The Tower) e gli arrangiamenti orche-strali, pur se asciugati, meno per-vasivi, sono sempre presenti. Spuntano anche nuove tentazioni sixties-pop, come nel passo Mo-town di Cry Cry Cry e nelle atmo-sfere western (Lee Hazlewood do-cet) di You Were the Devil. In ge-nerale, la musica conserva una sua natura stratificata, anche se meno sofisticata. A prima vista meno ambizioso, più diretto e vi-scerale, non di meno quest'album allarga le prospettive della Atkins, aprendo le porte di un mondo (d'amore? di fatto le canzoni ne lamentano soprattutto la mancan-za, o il tradimento...) in cui Stevie Nicks e Grace Slick convivono con Nancy Sinatra e, forse, anche Patti Smith. Mentre tutti festeggiano il ritorno di PJ Harvey, sarebbe un peccato se nessuno si accorgesse di questa rinnovata rockeuse con lo sguardo da gatta e l'ugola da tigre. (Yuri Susanna)

Nicole Atkins

Cowboy JunkiesCowboy Junkies The Nomad Series Volume 2 Demons [Proper 2011]

Ad essere severi, la storia dei Co-wboy Junkies sarebbe potuta an-che finire 15 anni fa, all'indomani di Lay It Down, l'ultimo loro disco ad aver avuto eco e seguito anche al di fuori della stretta cerchia di fans. Era la prima fase della loro carriera (detta "del periodo d'oro"), quella in cui poteva capitare che dell'uscita di The Caution Horses nel 1990 se ne occupasse persino Tv Sorrisi e Can-zoni, ma erano anche tempi in cui la fabbrica dei fratelli Margo e Mi-chael Timmins sfornava brani me-morabili e cover sempre necessarie, mentre ad un certo punto tutto si è perso in una debolezza compositiva crescente e in una miriade di rilet-ture e outtakes-record davvero solo per appassionati. La fase 2 della loro carriera (detta "dell'assestamento") li ha visti comunque saggiamente pro-durre solo 4 album di originali in 15 anni, ed è per questo che l'anno scorso avevamo accolto l'inizio della fase 3 (detta "dell'autoproduzione coatta") con un certo rammarico,

visto che il programma prevede una serie di uscite a raffica "only for fans", denominate "The Nomad Series", che già nel concetto rinunciano non solo all'ormai perso appunta-mento con la storia, ma anche alla razionale gestione della propria arte che dovrebbe por-tare chiunque ad evitare di in-flazionare il proprio mercato. Il volume 1 di suddetta serie (Renmin Park) aveva con-fermato i timori, con una serie di brani senza spina dorsale, ed è per questo che suscitava po-co entusiasmo l'uscita di questo Demons, sorta di monografia dedicata a Vic Chesnutt, che sulla carta rappresenta l'enne-sima occasione per sciorinare

cover fatte in serie sulla formula

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Buffalo TomBuffalo Tom Skins [Scrawny records 2011]

Eccoli di nuovo i bostoniani Buffalo Tom: questa volta non abbiamo dovuto attendere altri nove anni prima di avere loro notizie, così come era accaduto per il penultimo lavoro, quel Three Easy Pieces (2007) che aveva rivelato confortanti segni di ripresa, pur non decretando la definitiva uscita dalle sacche della crisi artistica che aveva avviluppato la band di Bill Janovitz. Le pastoie legate alla incapacità del gruppo di tagliare il cordone ombelicale con la musica di J. Mascis e i Dinosauri e una certa generale stanchezza nel-lo stare insieme, avevano spinto Janovitz a tentare tre sortite soliste, tra il 1997 ed il 2001, che non avevano lasciato significative tracce del loro pas-saggio, ma che forse sono servite a ridare energia e convincimento per la discreta reunion di cui sopra si accennava. Ora, dopo poco più di tre anni da quell'episodio, ritroviamo i Buffalo Tom che inseriscono il turbo per progre-dire ulteriormente, comportandosi così come il buon vino da invecchiamen-to, che con il passare degli anni perde l'aggressività dei tannini per diventare più vellutato e bevibile, ma sen-za per questo lasciare sul campo carattere e complessità, al contrario esaltandone le qualità. Questa, in sintesi, è la caratteristica di Skins, un disco di tredici canzoni, prodotto dall'amico Paul Q Kolderie (già con loro per il capolavoro Let me Come Over del 1992) destinato ad entrare tra i classici dei Buffalo Tom, forse potremo considerarlo uno dei migliori se sapremo prendere atto che il tempo passa per tutti, musicisti e fan, per cui certe ruvidezze, come pure la rabbia generata dalla giovane età, che un tempo tutti noi ricercavamo nella musica e apprezzavamo, ora si sono parzialmente acquietate. E proprio per questo motivo i contenuti musicali, che ce li avevano fatti amare, si manifestano ancora ma sotto forme più arroton-date. Nel disco ritroviamo intatta la grande abilità di Bill nello scrivere melodie che si scolpiscono immediata-mente nella nostra mente come lo splendido singolo Arise, Watch e forse ancor più in Down, inoltre la sua voce calda ed energetica e il suo chitarrismo strepitoso che s'impenna in accelerazioni epiche sono solo il sub-strato su cui poggiano la ritmica rotonda e rutilante costituita dal basso di Chris Colbourn e il drumming dal tipico incedere "rimbalzante" di Tom Maginnis. Non mancano gli episodi più folk come la delicata Don't Forget Me cantata in duetto con Tanya Don-nelly (Throwing Muses) caratterizzata da un mandolino assassino a indicare la direzione della melodia. Con-ferma assoluta, se ne avevamo bisogno, sono anche i cori che nell'accoppiata vocale Bill/Chris sono di prege-volissima fattura e costituiscono uno dei punti di forza delle esecuzioni. Dal lotto delle canzoni spuntano anche ballatone "gonfie" come Miss Barren Brooks, quasi Pettyana, come pure la veloce e chitarristica Lost Week End ma anche brani evocativi tra cui la notevole e lenta Paper Knife, con echi che stanno tra il Robbie Rober-tson solista con Lanois e The Band. Si segnala anche The Kids Just Sleep, bella, elettrica, acida, con riff chi-tarristici alla Stones. Ma, credete, non c'è una canzone fuori posto. Possiamo affermare che i Buffalo Tom so-no tornati in gran spolvero e, crediamo, per restare a lungo: Skins è il disco della riconciliazione su cui poggia il futuro e la voglia di fare musica di questi tre straordinari musicisti. (Gianni Zuretti)

"prendi un brano qualsiasi e ipno-tizzalo con la voce di Margo che fa sempre scena". Ebbene, e con immensa gioia e la grande sorpresa tipica di chi proprio non ci sperava più, che nel lettore ci troviamo il disco dei Cowboy Junkies più riuscito dai tempi in cui erano ancora in grado di scrivere brani come Common Disaster. A favore di questo bel disco hanno giocato due fattori: il primo è che nel songbook dello scomparso Chesnutt c'è tutto quel materiale di prim'ordine che da soli i Timmins non riescono più a produrre, secondo che in questo caso la voce di Margo non si limita a dare la versione stralunata di classici con altro ritmo e verve, ma affonda in una materia che già in origine teneva un ritmo blando

e depresso, per cui il valore ag-giunto è la grazia in più rispetto allo sgraziato e sofferto vocalizzo di Vic. Nascono così Flirted With You All My Life, West Of Rome, Strange Language e l'incredibile Wrong Piano che apre lo show, senza dubbio tra le registrazioni migliori che i Junkies abbiano mai fatto, con la chitarra sempre aci-dula di Michael che trova spesso nelle tastiere di Joby Baker uno splendido e inaspettato contralta-re. Visto che Chesnutt era il classi-co artista sfortunato che piaceva quasi più ai colleghi che al pubbli-co, di tributi per lui ne verranno altri, ma che non saranno meglio di questo è già una certezza. (Nicola Gervasini)

Micheal Timmins (Cowboy Junkies)

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The VolebeatsThe Volebeats The Volebeats [Rainbow Quartz 2010]

Incredibilmente relegati nel più totale anonimato, The Volebeats sono uno dei misteri meglio custo-diti dell'alternative country ameri-cano, anzi potremmo quasi azzar-dare che siano la band più misco-nosciuta del genere: ebbene si, questi ragazzi sono in strada dal 1989, anno del loro esordio Ain't No Joke, militanza scrupolosa nelle fila di un genere che hanno sensi-bilmente contribuito a edificare. Potremmo a tutti gli effetti consi-derarli compagni di cordata degli Uncle Tupelo, anche se il quintetto di Detroit, Michigan, ha sempre prediletto l'ala più tradizionalista e nostalgica del genere, richiamando nelle sue armonie vocali e nel gio-co di cristalline chitarre la lezione dei Byrds e di certa scuola country rock californiana, magari con l'ag-giunta di un elemento british pop non indifferente. Sta di fatto che in più di vent'anni di carriera la band di Jeff Oakes e Matthew Smith, di fatto i timonieri del gruppo, ha dovuto sempre lavora-re nelle retrovie, guadagnandosi magari la stima dei colleghi più blasonati (di loro un tempo Ryan Adams disse "The best American Band"), ma lasciando tracce spar-se e confuse in dischi quali The Sky and the Ocean o il desertico, sperimentale Solitude. L'omonimo lavoro targato 2010, ma solo oggi distribuito con una certa capillarità in Europa, è fin dal titolo un tentativo di riassu-mere questa avventura nell'om-bra, con il definitivo "doppio al-bum" capace di cogliere e amplia-re ogni sfumatura del loro sound. Diciannove canzoni, quasi settanta minuti di musica: se c'è un difetto da riscontrare in The Volebeats è forse proprio la sua esagerata pro-lissità, caratteristica che non giova all'attenzione dell'ascoltatore e forse neppure alla qualità innega-bile di buona parte del materiale.

Di fatto però, escluse le curiosità di un paio di cover insospettabili (See You Tonight firmata da Gene Simmons dei Kiss e la più classica This Is Where I Belong dei Kinks), questa raccolta assume davvero la dimensione di un bignami dell'arte Volebeats: voci morbide, armoniz-zazioni pop e chitarre jingle jangle che si adattano all'introspezione delle liriche, dando sfogo ad un counry rock rigorosamente analo-gico (registrato su un otto piste in una vecchia casa a pochi passi dagli studi storici della Motown) che raramente alza un grido, ma preferisce accarezzare in We Don't Like to Forget, farsi romantico in Me and You, esplodere in incante-voli filastrocche pop con Things People Say, diventare rarefatto e impalpabile con Dream Come True La pedal steel dell'elemen-to aggiunto Ryan Gimbert è li a ricordarci la radice country dei Volebeats (You're Wrong la più rurale), anche se è difficile non riconoscere nel loro esplicito revival una ricerca quasi maniaca-le sulle ambientazioni che furono della british invasion, poi filtrate sotto pelle in certa psichedelia ca-liforniana, anche di seconda gene-razione (si pensi alla prima espe-rienza del Paisley underground, lato più morbido): Walk There, la sbarazzina I Can tell, una What You've Been Saying che sembra uscita da qualche outtake di Turn Turn Turn dei Byrds sono nell'in-sieme testimonianze di questa appartenenza, anche ingenua se volete, fuori tempo massimo cer-tamente, eppure sintomo di una band che lavora con dedizione. (Fabio Cerbone)

The Volebeats

Kasey Anderson Kasey Anderson

& The Honkies& The Honkies Heart of a Dog [Red River 2011]

Fino a ieri Kasey Anderson, can-tautore dello stato di Washington, era il classico folksinger nè carne né pesce, sempre dignitoso ma mai memorabile, che continuava a li-cenziare una serie di dischi incapaci di svettare dal mucchio nonostante le cure di uno specialista del calibro di Eric Roscoe Ambel, ex Del Lords. Tra folk e ballate elettriche troppo uguali ad altre il rischio concreto era di abbruttirsi in un limbo esizia-le per uno ambizioso e dotato di un discreto talento come lui. Bisognava abbandonare vecchie certezze che cominciavano a creparsi e rimetter-si in discussione. Ed ecco che un anno dopo Nowhere Nights, Ander-son ha resettato tutto, ha defilato il suo ego (come dimostrato dall’inte-stazione condivisa del disco) e si è messo nelle mani di una nuova band che lo ha catapultato nel sound rinnovato e potenziato, final-mente convincente, in diversi mo-menti addirittura esaltante che per-mea l’album. Infatti se Heart of a

Dog (citazione da Bulgakov) risulta uno smash vincente, gran parte del

merito va ascritto agli Honkies, jam band costituita ad hoc e la-sciata libera di scorazzare nella sala di registrazione come un cavallo imbizzarrito. Su tutto domina la chi-tarra pirotecnica di Andrew McKeag (Presidents of the USA, ma anche Long Winters e Super-suckers nel suo curriculum ven-tennale), uno che, per dirla col cinema, ruba la scena all'attore protagonista, ma non sono da meno il puntuale basso di Eric Corson e il perfetto drumming di

Mike Musburger. Non c’è da sor-prendersi dunque, che gli Honkies si esaltino davvero nei brani meno controllati come The Wrong Light (un bluesaccio elettrico laido e ip-notico trascinato da un riff memo-rabile), Mercy (scatenato party

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stonesiano con spruzzate di funk e incroci pericolosi tra chitarre e fiati nel finale), Sirens and thunder (sfrenato blue collar con organo e feedback che si rincorrono), My Baby is a Wrecking Ball, Revisio-nist History Blues (sarabanda mi-rabilmente sgangherata che, tra Dylan e Tom Waits, lancia a tratti addirittura lampi di Paisley Under-ground), ma soprattutto nell’irresi-stibile andazzo di Kasey Anderso-n’s dream (titolo autocelebrativo o omaggio al freewheelin’ Bob Dylan?), sogno che puzza di zolfo, autentica perla lanciata in orbita (pardon, negli inferi) da chitarra e basso che sferragliano sopra e sotto il canto scazzato di Ander-son. Nel solco di un roots scal-pitante e comunque ispirato si col-locano invece Exit Ghost e la con-clusiva Save it for Later, mentre i brani più rallentati, quelli che ri-mandano maggiormente al Kasey Anderson pre Honkies, finiscono per diventare dei necessari break messi lì per rifiatare tra un bacca-nale e l’altro. Certo non si tratta di riempitivi nemmeno in questo ca-so, perché Your Side of Town e My Blues, My Love sono due accorati slow alla Matthew Ryan che non sfigurano affatto in mezzo al ben di dio di cui sopra. Se si tratti di una svolta nella carriera sin qui non luccicante di Kasey Anderson non è dato sapersi e neanche ci interessa più di tanto; per ora He-art of a Dog è già tanta roba, uno di quei sempre più rari dischi in cui il piacere palpabile di chi ha suonato (talvolta in coda ai brani si odono le risate di compiacimen-to della band, sottolineate dallo stesso Anderson) si specchia nel godimento di chi ascolta. E di go-dimento in questa bella sorpresa di inizio anno ce n’è parecchio. Garantito. (Gianuario Rivelli)

PJ HarveyPJ Harvey Let England Shake [Island 2011]

Forse l'avevamo data per morta troppo presto. Certo che gli ultimi due dischi (che anche qui non era-no parsi affatto all'altezza) aveva-no fatto pensare decisamente al peggio. Eppure anche il primo a-scolto di questo Let England

Shake non era stato affatto inco-raggiante, soprattutto per chi non riesce ancora oggi a staccarsi dal-l'immagine della Harvey come una rocker con un terzo di Nick Cave, un terzo di Patti Smith ed un terzo dei Nirvana. PJ è cambiata, c'è poco da fare, non è più la sfaccia-ta venticinquenne di To Bring you My Love, ha ormai raggiunto e superato la quarantina e qualcosa in lei è profondamente mutato. Si era capito già dai lavori precedenti che la Harvey da allora in poi si sarebbe mossa su territori decisa-mente più introspettivi e lontani dai grovigli elettrici del passato. E in questo senso, Let England Shake è il diretto discendente di White Chalk ed A Woman and a Man Walked By. Tuttavia, a poco a poco la matassa sembra sbrogliarsi. Biso-gna andare avanti con gli ascolti per permettere a questo disco di farsi largo nella sua essenza. Non siamo di fronte ad un'opera facile, né immediata. Però siamo pure lontani anni luce dal tedio incipien-

te delle ultime due prove disco-grafiche. Let En-gland Shake è un disco caleidosco-pico, personalissi-mo, cerebrale, introverso e a volte pure fasti-dioso, eppure è un lavoro di una lucida originalità e di una persona-lità artistica spic-catissima. I rug-giti elettrici (che

pure non sono del tutto spariti) la-sciano qui posto ad un canto etereo e talvolta misteriosamente vicino alla nenia, senza essere per questo disturbante. Le sventagliate blues lasciano il posto ad un'indole folkish (prettamente britannica) che tutta-via sembra aver subito un tratta-mento a base di centrifuga. Spesso è l'autoharp a sostituire la chitarra come strumento portante delle can-zoni, mentre qua e là spuntano fuo-ri ora sezioni fiati ora corni da cac-cia che danno alle canzoni un aura senza tempo. Ma sono proprio le canzoni a differenziare questo nuo-vo disco dalle ultime produzioni. La Harvey pare essersi liberata da quei fantasmi che offuscavano le pagine di White Chalk, soprattutto da un punto di vista lirico, e sembra aver qui intrapreso uno sforzo compositi-vo notevole. Andrebbe letto al contrario, Let England Shake. Infatti, la spi-golosità e la complessità sia melodi-ca che armonica dei primi pezzi si va mano a mano stemperando, in una sorta di anticlimax, per giunge-re alla (quasi) orecchiabilità ed im-mediatezza dei brani finali, la corale The Colour of the Earth, in cui ri-compare la voce di John Parish, la sghemba Written on the Forhead, dove nel bel mezzo di un'atmosfera sospesa fanno capolino perfino sbuffi reggae e la dolce Hanging in the Wire, forse il pezzo più "pop" mai scritto dalla Harvey (per quanto pop sui generis). Altrove, come in Bitter branches o nella splendida In the Dark Places, sembra far capoli-no la vecchia Polly Jean, più elettri-ca e sfacciata, ma sono solo episodi isolati. Perfino quell'acutissimo fal-setto che degli album passati pare-va infinitamente disturbante, trova qui in On a Battleship Hill, uno dei pezzi più difficili e più intensi del disco, la sua ragion d'essere. Biso-gna aver pazienza con questo disco, tuttavia, pur nel suo essere sghem-bo e, a volte, autoindulgente, Let England Shake potrebbe col tempo rivelarsi il vero capolavoro della maturità di PJ Harvey. (Gabriele Gatto)

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J MascisJ Mascis Several Shades of Why [Sub Pop 2011]

Non sorprende trovare J Mascis in veste solista, "distrazione" che più volte ha coltivato nella sua carrie-ra (per non tacere di una buona fetta della stessa avventura con i Dinosaur Jr., praticamente gestiti in totale autarchia per diversi an-ni), semmai colpisce la natura stessa di Several Shades of

Why, disco che per la prima volta mostra davvero un certo grado di autonomia da tutto il resto. Se infatti il diversivo a nome The Fog restava chiuso nel recinto del ro-ck'n'roll, in definitiva non così di-stante dagli stessi "Dinosauri"; se inoltre il primo tentativo folk con Martin + Me (ormai il lontano 199-6) aveva più che altro il carattere di un abbozzo, oggi le trame si sono fatte più precise, intuendo la direzione del musicista. Il che non significa affatto che J Mascis si presenti sotto una luce nuova: sotto le ceneri covano lo stesso autore di sempre e anche gli stessi amori musicali, i punti di riferi-mento (da un certo folk psichede-lico all'indie rock più rabbuiato, e naturalmente Neil Young a benedi-re il tutto), i richiami hanno una loro importanza centrale nell'evo-care un percorso artistico che dura ormai da una trentina d'anni. Several Shades of Why però non ha semplicemente "levato la spina", perché all'anda-mento pigro e alla voce strozzata che dettano la linea di queste bal-late si sono aggiunti spazi, idee, suoni più articolati del previsto. Non colpiscono subito, tanto è ve-ro che si è portati a leggere fra la sceneggiatura di brani come Listen to Me e Not Enough semplicemen-te una versione folkie della sua principale band di riferimento: qui tuttavia, a lungo andare, escono allo scoperto dinamiche più malle-abili, anche per merito dei musici-sti coinvolti. Nessuno si ritaglia il ruolo di prima donna, servendo la canzone e il suo mood generale,

per così dire, ma è altrettanto im-possibile non riconoscere una for-malità, una compiutezza quasi inedita per Mascis in episodi come la stessa Several Shades of Why e Make It Right. Giocano a suo favo-re, come anticipato, gli interventi di Suzanne Thorpe al flauto, So-phie Trudeau al violino, degli amici Pall Jenkins (Black Heart Proces-sion) al piano e di un importante sparring partner chitarristico come Kurt Vile. Ciascuno dentro un quadro preciso sembra accompa-gnare l'attore principale, che mu-gugna meno del solito e si lascia trascinare in duetti (Where Are You), scovando linee acustiche di disarmante semplicità (Too Deep), riflesse anche nel carattere dei testi. Certo non rinuncia qualche volta a fare imbizzarrire la sua inseparabile compagna elettrica: nella coda finale di Is It Done o fra gli scrosci in sottofondo alla vi-brante chiusura di What Happened si avverte il fremito di un irriduci-bile ragazzo cresciuto dentro un muro di feedback, oggi forse sol-tanto più rappacificato. L'età, si sa, porta saggezza, ma non ne-cessariamente appagamento. (Fabio Cerbone)

Lucky BonesLucky Bones Together We Are All Alone [Lucky Bones 2011]

Lucky Bones è la nuova band di Eamonn O'Connor, giovane can-tautore irlandese con una gran passione per il suono americano. Non a caso questo nuovo disco è stato registrato a Bastrop, un pic-colo paese nei dintorni di Austin, una città che attrae sempre più artisti in cerca di una patria. Il nostro era impegnato in una spe-cie di "never-ending tour" tra Eu-ropa e Stati Uniti, una scelta co-raggiosa per un esordiente, quan-do in Kansas ha incontrato Ste-phen Ceresia, produttore che lo ha portato in Texas e in cinque setti-mane gli ha fatto registrare Toge-

ther We Are All Alone. Il risulta-to comunque non è quello che ci si

potrebbe aspettare: infatti non ci troviamo di fronte a canzoni country o imparentate con la musi-ca texana, bensì Eamonn persegue il suo concetto di rock e Ceresia lo asseconda fornendogli un supporto tecnico e professionale nonchè pre-ziosi consigli in fase di arrangia-menti. Al ritorno in patria Eamonn ha assemblato una band, Lucky Bones per l'appunto, composta da alcuni dei migliori musicisti dubline-si della scena. Uno di questi, il chi-tarrista Billy Morley, già avvezzo alla musica a stelle e strisce, aven-do collaborato anche con Troy Cam-pbell, ex-leader dei Loose Dia-monds. Eamonn aveva bisogno di un gruppo con cui girare dal vivo e che approciasse le sue canzoni con un sensibilità europea senza com-promettere l'idea musicale che ave-va in testa. C'è da scommettere che con i Lucky Bones riuscirà a rag-giungere il suo obiettivo. Questo è un disco fresco e vibrante. A dire il vero non è un esordio, in quanto Eamonn ha registrato a suo nome anche l'ep Yellow Street Man, accla-mato dalla critica inglese, purtroppo passato inosservato dal pubblico. Già con Together We Are All Alone, il brano che da il titolo all'album, ci troviamo di fronte a un cantautore compiuto e maturo e stupisce la grande facilità nel saper scrivere canzoni che si assimilano già dai primi ascolti. Eamonn ha uno spe-ciale talento per la melodia, una merce rara che speriamo sia in gra-do di coltivare. Anche il suono è molto cu-rato, molto più elettrico e rock ri-spetto agli esordi acustici di Ea-monn, che si atteggiava a moderno troubador armato di chitarra e ar-monica. Le radici irlandesi si respi-rano nella bella ballata dal passo epico Magnificent Mistake e nella conclusiva Alice, una canzone not-turna dal respiro profondo, in cui Eamonn torna alla formula in solita-ria con la chitarra. Together We Are All Alone è veramente una sorpre-sa, un disco completo che ci fa sco-prire un nuovo autore su cui scom-mettere per il futuro. (Edoardo Frassetto)

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Anna CalviAnna Calvi Anna Calvi [Domino 2011]

Troppo facile definire, come tanta critica ha fatto in questi giorni, Anna Calvi come l'ultima epigona di PJ Harvey. Certo, la strada di questa giovane inglese (ma di evi-dentissime origini italiane) altro non è che il proseguimento di quella già tracciata a suo tempo da Patti Smith e Siouxsie Sioux prima e dalla Harvey stessa poi. Però in Anna Calvi c'è un qualcosa di stranamente peculiare. Dietro ad un fisico minuto, ad un viso da ragazzina e ad un look da diva anni trenta (perché, si sa, di que-sti tempi il burlesque fa molto co-ol) c'è un che di sensuale e con-turbante, un'attitudine che mischia assieme il blues più disperato, la malinconia di Edith Piaf e le ten-sioni superne di Jeff Buckley. C'è poi una tecnica chitarristica fuori dal comune, che dà un tocco ca-ratteristico a tutti i dieci brani del disco. C'è infine una sorta di in-quietudine che aleggia per tutto il disco, una sorta di florilegio di presagi apocalittici rari da trovare nel disco di una musicista di soli 21 anni. Insomma, tutte le carat-teristiche per centrare il bersaglio al primo colpo. E così, la Domino, una delle etichette indipendenti più attente e rispettate del panorama musicale, non si è fatta sfuggire l'occasione e ha subito preso al volo la Calvi, affiancandole un pro-duttore di garanzia come Rob El-lis, già con PJ Harvey, Marianne Faithfull, Ute Lemper e Scott Wal-ker. E a ben guardare, frammenti di questi artisti balenano continua-mente nei solchi del disco, cata-pultando l'ascoltatore dentro ad un'esperienza allo stesso tempo carnale e celeste, sospesa fra de-siderio e cadute. Questi, in effetti, sono i temi delle canzoni di Anna Calvi, davanti alle quali è facile rimanere spaventati, "come d'al-tronde succede di fronte alle cose grandi della vita", per citare Nick

Cave, un altro nome più volte ac-costato alla giovane anglo-italiana. Il disco inizia con lo spet-trale strumentale Rider to the sea, un piccolo showcase delle capacità chitarristiche della piccola musici-sta londinese, per deviare poi su canzoni più costruite ed articolate, dalle vaghe reminiscenze teatrali (e qui torna il paragone con Ute Lemper), tra le quali spiccano la scura Desire, introdotta da un sof-fio di harmonium e che si trasfor-ma mano a mano in un tourbillon elettrico e drammatico, The Devil, una canzone che avrebbe potuto scrivere il povero Jeff Buckley se un fiume non se lo fosse portato via in una notte di maggio (ma questa è un'altra storia), l'ipnotica I'll be your man, in cui emerge l'anima più blues della Calvi e, soprattutto, la folgorante First we kiss, dal travolgente crescendo con tanto di archi finali. Dato l'ot-timo esordio, ora rimane da vede-re se la Calvi saprà crescere, gua-dagnando in personalità (che già non le manca, intendiamoci) e riuscendo a ripetersi su questi li-velli. Si dice che il tempo è galan-tuomo: staremo a vedere se Anna Calvi saprà approfittarne. (Gabriele Gatto)

Carly JamisonCarly Jamison Everything Happens for a Reason [Desktop recordings 2011]

Si abbassano le luci, il rumore del pubblico aumenta, sale sul palco Carly Jamison: una voce roca e profonda ma anche dolce e soulful ti avvolge, chitarre taglienti e spa-rate al massimo ti fanno sobbalza-re, sapori soul e gospel ma soprat-tutto tanto sano e genuino rock'n roll ti entrano in profondità per non abbandonarti facilmente. E-

verything Happens For A Rea-

son è un disco che brucia di pas-sione come i cerini riportati in co-pertina, che ti faranno stare sve-glio e soprattutto che ti faranno ballare dall'inizio alla fine. In pos-

sesso di una voce molto intensa e anche molto sexy, che può acco-starsi a quelle di Patti Smith e Linda Perry, Carly Jamison è una songwri-ter proveniente da New York. Dopo aver scritto diverse canzoni e averle pubblicate su internet senza nessu-na pretesa, il produttore Tres Sas-ser (conosciuto per il lavoro con Will Hoge) si mette in contatto con lei per una possibile collaborazione, ma Carly rifiuta l'offerta non aven-do nessun desiderio di cantare o di finire in uno studio di registrazione. Dopo un anno, quando la sua vita non stava girando per il verso giu-sto, Tres ci ritenta rinviandole u-n'altra offerta e Carly trovandosi in un momento "wrong", non ha potu-to rifiutare, prendendo l'occasione al volo. Prodotto nei True Tone Stu-dio di Nashville la raccolta vede la presenza di uno stuolo di musicisti di prim'ordine a cominciare da Dan Baird che, con il suo inconfondibile stile e i suoi riff, mette il suo mar-chio di fabbrica sull'intero album, quindi da Keith Brogdon (Cheap Trick) alla batteria, dallo stesso Tres Sasser al basso e da David Henry (Steve Earle, Cowboy Jun-kies) al violino. Carly comincia a farsi spa-zio sul palco con l'opener Bring It On: un riff inconfondibile di chitarra e i cori delle brave Olivia Mack e Joslyn Ford (una presenza costante in tutta la raccolta) danno al brano un sapore southern tanto caro all'ex Satellites, mentre l'intreccio elettro-acustico di Doubt ci trasporta in territori soul carichi di energia come capitava nell' omonimo disco delle Mother Station. Ask Me If I Give a Shit è un bel pezzo tirato, una sorta di waltz elettrico con una potente sezione ritmica che fanno muovere gli stivali sul dance floor. Dopo la tempesta dei primi tre brani torna un po' di calma con The One With You, ballad notturna introdotta dal violino e scandita dal ritmo preciso della batteria. Un gran bel pezzo che arriva direttamente al cuore. The Hills Of Jericho (un po-tenziale hit) e Self-Consumed suo-nano come ballate d'altri tempi con accenti country e gospel, arricchita dalle voci delle brave coriste. No Control Anymore sembra, ad un primo ascolto, un brano degli Sta-tus Quo che poi si converte in una canzone carica di pathos ed ener-gia, con la superba voce di Carly a tenerti per mano. Look Where It's Coming è bluesata e festaiola men-tre This Big Old Bottle è rock'n'roll primordiale alla maniera di Eddie

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Cochran. Carly è anche capace di farti piangere con la conclusiva Dreaming ballata acustica tenera e romantica di una bellezza disar-mante. Aprite le porte e spegnete e luci; una bomba a ciel sereno illuminerà i vostri cuori e Carly Jamison sarà capace di mostrarvi il giusto cammino da seguire, quello del vero Rock' n Roll. (Emilio Mera)

The John HenrysThe John Henrys White Linen [9LB records 2010]

Un piccolo disco, una bella lezione di rock americano: dal Canada, come insegna una tradizione che di questi tempi si fa sempre più protagonista. The John Henrys sono cinque ragazzi di Ottawa, Ontario, al terzo capitolo (il debut-to nel 2004, il disco che li ha im-posti a livello nazionale, Sweet as the Grain, nel 2008) di una carrie-ra che guarda oltre il confine, là dove il grande freddo dei laghi canadesi si incontra con il Midwest americano e la mitologia di un ro-ck'n'roll pensato per la strada si ammanta del suono delle radici. Roots rock, ancora lui, ma con qualche canzone oltre la media, citazioni e richiami che non sono un punto debole ma la carta geo-grafica di una orgogliosa apparte-nenza. Brani semplici, mainstream nel cuore e nell'anima e con un briciolo di poesia country e tocchi agresti nel sound, White Linen è uno di quesi dischi che quasi ti "imbarazzano", per la sua totale dipendenza da un passato ingom-brante, ma poi finisci per ascoltare fino alla noia. Perché? Il senso di collettività forse, la qualità del songwriting certamente, la coesio-ne, lo scintillare delle chitarre e un calcio nel sedere alle regole dell'o-riginalità: Little One parte come una sintensi del migliore Tom Petty d'annata, nel ritornello si insinua persino la melodia di Even the Losers. Saresti pronto ad una bella reprimenda per questi ragaz-

zi che copiano senza ritegno: poi arriva Edge of december e capisci che la lezione l'hanno imparata a memoria, ma sanno anche rielabo-larla a modo loro. The John Henrys sono in fondo tipi incoscienti, tanto da ru-bare il loro nome alla leggenda folk dello spaccapietre nero, colui che sconfisse la trivella a vapore rimettendoci la propria vita. Di leggenda e narrazione si colorano anche le composizioni di Ray Sa-batin Jr. (chitarre e mandolino, il più pettyano e "pop" della banda, nonché autore principale), Steve Tatone (piano, organo, pedal steel) e Doug Gouthro (chitarre, banjo), i nomi che ricorrono più spesso in calce ai brani, con una formazione completata dal basso di Darryl Quinlan e dalla batteria di Geoff Ward. Il primo dei tre fa la parte del padrone ed è anche quello con le frecce più appuntite, sfoderando in Cold Chill una murder ballad d'atmosfera che scoppia in un bel finale chitarristi-co, oppure inventandosi adorabili omaggi alla Band nella title track e rispolverando un country rock ro-mantico con Good Man. Steve Tatone vira vero il twang sound di Stars Align, l'unica cantata in prima persona, mentre il jingle jangle di Peace of Mind e il rock agreste di Dawson City (altro tributo alle dinamiche della Band, magari rilette con il suono dell'al-ternative country di oggi) optano per la voce più carezzevole dello stesso Sabatin, il quale in Hit the Floor gioca con tutto il gruppo a fare il Neil Young della situazione, al fianco i Crazy Horse natural-mente. Gouthro infine si prende il merito di chiudere la raccolta con il bozzetto acustico di Patriot Song, ballata che scoperchia una storia di battaglia e orgoglio del 1838 fra i rivoluzionari americani e l'esercito britannico a Prescott,

Ontario…dobbiamo forse scomodare ancora la penna di Robbie Rober-tson?. (Fabio Cerbone)

Bow Thayer & Perfect Bow Thayer & Perfect

TrainwreckTrainwreck Bottom of the Sky [Tweed River 2011]

I dipinti in copertina e all'interno della confezione ad opera di Alexis Mollomo, artista di Portland, Ore-gon, richiamano in parte un'Ameri-ca minacciosa, dall'atmosfera vaga-mente ispirata al racconto di Cor-mac McCarthy "La Strada". C'è un tornado che incombe sul piccolo trailer e il padre cerca rifugio con il figlio dalla tempesta. Bottom of

the Sky sembrerebbe avere tutte le carte in regola per entrare nel novero di quei dischi da America profonda e misteriosa, ma la musi-ca di Bow Thayer e dei suoi Per-fect Trainwreck gode di una libertà di movimento maggiore rispetto all'immancabile immaginario da congrega alternative country. Ci sono elementi vistosi che rimandano al genere, non fosse altro per l'utilizzo massiccio di ban-jo e mandolino da parte del leader, ma il quintetto si sposta di buon grado dalle ambientazioni rurali di certo rock provinciale verso tenta-zioni da jam band e un suono elet-trico più moderno, tutto in presa diretta o quasi nello studio di regi-strazione. I punti di riferimento da

una parte sembra-no essere il Neil Young della metà dei 70, così come l'esperienza di The Band, affetto ri-cambiato anche dal dato che Bottom of the Sky sia stato registrato come il precedente Shoo-ting Arrow at the Moon negli studi di Levon Helm a Woo-dstock; dall'altra, come anticipato

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un certo roots rock fantasioso che si spargeva negli anni '90. L'esito in ogni caso è mol-to interessante e conferma Bow Thayer - attivo da una decina d'anni e con diversi progetti inven-tati e disfati nell'arco di poche sta-gioni - come un talento da portare a galla nel grande mare delle usci-te indipendenti Americana. Il melange sonoro avviato con i Per-fect Trainwreck è approdato oggi ad una sintesi che passa dall'ar-rembante elettricità di Buffalo Joe, riff di chitarra scalcianti e organo (James Rohr) al seguito, alle più bucoliche atmsfere di Dark Light, tra vaudeville e campagna country, fino alle commistioni funky roots di Good Time To Holler (di mezzo anche l'ospite Pete Weiss e il suo sintetizzatore d'an-nata, un moog). In questa scaletta restano evidenti le tracce di un folk rock cristallino (Dawning, Epi-tome) che certamente cede qual-cosa alla già citata musa della Band (da ricordare inoltre che Thayer firmò l'album Spend It All nel 2006 proprio insieme a Levon Helm), ma le qualità di Bottom of the Sky sono quelle di sfuggire alle semplici classificazioni, sguaz-zando nelle diverse facce della tradizione. Con Suicide Kings l'aria si fa più plumea e un country blues elettrico spande aria sudista e un po' noir; la title track smorza i toni e si inoltra in una ballata desertica con la steel di Chris McGandy; Catskill Stone ha il sa-pore della scampagnata alt-country, orchestrina condotta da chitarre, piano e banjo elettrifica-to; Slow Blossom rispolvera piano e acustiche lasciando sul campo il gusto di una bellissima ballata dal-le implicazioni soul; Your Heart Is Not Your First Car chiude il cerchio tornando al banjo, strumento ma-neggiato volentieri da Thayer e qui utilizzato però per colorare un bra-no dalla deriva quasi psichedelica, stravagante nel trascinare l'intera la carovana della band. (Fabio Cerbone)

Tao SeegerTao Seeger Rise and Bloom [Tao Seeger 2010]

Spesso nel campo musicale un cognome importante non è sem-pre sinonimo di successo, tutt’al-tro. In passato abbiamo assistito a carriere stroncate sul nascere dal paragone con illustri predecessori. Il più delle volte, infatti, artisti al loro debutto sono rimasti invi-schiati nella cosiddetta ansia da prestazione, che ha portato spesso a una mera scopiazzatura dei pro-pri antenati o una rilettura in chia-ve modernista degli stessi, in en-trambi i casi con risultati perlopiù disarmanti. Ed è con questo scetti-cismo che mi sono messo all’ascol-to di questo Rise and Bloom, debutto discografico a nome Tao Seeger, nipote della leggenda del folk Pete Seeger. Con un simile termine di paragone che aleggia a mo’ di spada di Damocle sulla pro-pria testa, ho subito pensato a una cocente delusione; invece fin dalle prime note del disco mi sono dovuto ricredere. Si perché il buon Tao è riuscito a posizionarsi nel centro esatto rispetto ai due oppo-sti precedentemente descritti. Se, infatti, da un lato il nostro strizza in più di un caso l’occhio alla tradi-zione, e non potrebbe essere altri-menti visto che è cresciuto a pane e folk, dall’altro si prodiga in un’o-pera di modernizzazione della stessa attraverso robuste iniezioni di rock. Ed è proprio quest’ultimo a scandire le note dell’iniziale Sail Away Ladies, tra chitarre distorte, basso pulsante, batteria martel-lante e un violino che pare impaz-zito. Si apre invece alla melodia la successiva e travolgente Train on the Island, con le voci del nostro e della violinista Laura Cortese, a rincorrersi in lungo e largo, per un brano dal refrain killer. Tao, come accennato pri-ma, non dimentica la tradizione e decide di riprendere alcuni brani simbolo dell’illustre nonno. Su di

tutti spicca quella Bring ‘Em Home, divenuta inno pacifista per eccellen-za, nonché uno dei brani più famosi a marchio Pete Seeger, che Tao rilegge alla sua maniera, aggiun-gendo sudore ed elettricità. Il trat-tamento riservato al pezzo non ne sminuisce di un grammo il valore anzi ne amplifica ulteriormente il messaggio, ricordando quanto fatto dagli Wilco e Billy Bragg a All you fascists di Woody Guthrie, nel se-condo meraviglioso volume di Mer-maid Avenue. Omaggio agli Almanac Sin-gers, nei quali militarono il nonno e lo stesso Guthrie, è invece il reprise di I don’t Want Your Millions Mister, qui trasformata in una struggente ballata pianistica. Sempre dalla penna dell’antenato arriva la con-clusiva Well May the World Go, con l’armonica di John Popper dei Blues Traveler ad abbellire il tutto. Il nostro dimostra poi di sapersi destreggiare sapientemente tra brani di chiara matrice modernista, Rise and Bloom e Reuben’s Train, accattivanti folk songs; Wade on in (a firma Cortese), Twelve Gates to the City, Wild Bill Jones; e remine-scenze latine come nella splendida El Plano de la Paz. Un’artista eclet-tico Tao Seeger in grado di sfornare un ottimo disco di debutto intriso di sudore, impegno e passione. (Marco Poggio)

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Patrick SweanyPatrick Sweany That Old Southern Drag [Nine Mile records 2011]

È quasi frustrante scoprire a volte le qualità di un artista dopo essere venuti a conoscenza di una carrie-ra che dura da una decina d'anni, rimpolpata da ben quattro dischi indipendenti e giustamente cele-brata da qualche illustre collega che lo ha visto in azione da vicino: Jorma Kaukonen, ad esempio, che lo ha spesso chiamato a partecipa-re al suo famoso campo "scolatisco" dedicato allo studio della chitarra. Tant'è, ma di Pa-trick Sweany ammettiamo che fino a ieri sapevano assai poco, anche su queste pagine solitamen-te attente ai margini della produ-zione americana. Ora stabilitosi a Nashville, dove ha preso forma anche il qui presente That Old Southern

Drag, ma originario della cittadina univeristaria di Kent, Ohio, Swe-any si porta dietro un bagaglio di concerti e strada battuta da fare invidia alla più classica delle bio-grafie da folksinger: la sua musa è stata il blues, la collezione dei vi-nili del padre, gli accordi di Lea-dbelly e Lightnin' Hopkins. Nel cammino però qualcosa si è accu-mulato e dalle prime avvisaglie, collaborando con Jimmy Thackery e Roy Book Binder, siamo arrivati ai recenti lavori con la Nine Mile records, prodotti insieme all'amico Dan Auerbach (Black Keys). L'in-tuizione dunque, se avete afferra-

to il legame artistico, è che il blues sia un linguaggio meno immobile di quello che si pensi, così That Old Southern Drag prende le mi-sure della tradizione nera, ci ag-giunge le naturali digressioni in ambito soul - o southern soul per essere più precisi - e si permette di sporcare il tutto con una chitar-ra a tratti feroce e dallo spirito garage sixties. Il suono che scatu-risce non può non rimandare ad alcune illuminazioni presenti nei Black Keys, dando prova del sol-dalizio con Auerbach, anche se Sweany ha sufficiente personalità per uscire allo scoperto con una sua lettura del genere. E' il piccolo combo messo in piedi con Adam Abrashoff, Tim Marks e Clint Parris a garantire questa compattezza, pur nella scarnificazione dei brani: Oh! Temptation è puro r&b sixties rivi-sto nella chiave della bassa fedel-tà, Same Thing è una ballata soul in cui struggersi, The Edges ci ag-giunge anche un morbido sax pro-seguendo sul sentiero e fornendo peraltro la coperta migliore in cui avvolgere la vocalità black di Swe-any, caratteristica vincente tanto quanto la sua "misura" chitarristi-ca. Lo strumento principe del disco - mai invadente o protagonista all'eccesso, sempre invece in fun-zione della canzone in sé - è chia-mato in causa nella carica ro-ck'n'roll che si impossesa di Slee-ping Bag e di una trascinante Cor-ner Closet, lambendo il garage blues più torbido con Rising Tide e nella convulsa e punkeggiante Po-lice Car Blues. Se un appunto va mosso a That Old Southern Drag è probabilmente quello di giocarsi le carte migliori nella prima ideale facciata, anche se l'attenzione non scade mai sotto la soglia di guar-dia: nel finale semmai ritornano alcuni clichè soul in More and Mo-re, oppure ulteriori prove di quel rock blues di scuola Fat Possum, Black Keys e dintorni, che in He-

avy Problems (Peavy rage) rallenta i ritmi e esalta le valvole degli amplificatori. Poche increspature comunque per un autore a questo punto da ripercorrere a ritroso, disco dopo di-sco.

(Fabio Cerbone)

Alela DianeAlela Diane Alela Diane & Wild Divine [Rough Trade 2011]

Alela Diane é cambiata; non è più quella dolce folk singer tanto ammi-rata dalle comunità hippie, che fa-ceva gridare al miracolo con quel piccolo capolavoro The Pirate's Go-spel, bensì un'artista affermata che incide per una importante etichetta come la Rough Trade. Due anni so-no passati da quando uscì il suo secondo capitolo, quello splendido To Be Still che la consacrò, insieme alla vecchia amica Joanna Newsom, come la rilevazione del nuovo folk al femminile. Nel frattempo si è sposata con il suo bassista (ora chi-tarrista) Tom Bevitori e ha girato il mondo in lungo e in largo con la sua band, i Wild Divine, che include l'altro Tom della sua vita, Tom Me-ning padre di Alela alla chitarra soli-sta, il bassista Jonas Haskins e il batterista Jason Merculief. Grandi sono state le attese e le speranze per il suo terzo album (il difficile album della maturità!), che ha visto la cantautrice di Neva-da City passare dal folk acustico costruito su ballate intime, oniriche ed acustiche a brani elettro acustici supportarti a 360° da tutta la band. Quello che è sicuramente rimasto è la sua dolce e inconfondi-bile voce, insieme ai suoi testi che restano sempre evocativi e ancorati alla bellezza della natura che ci cir-conda e alle gioie e dolori della vita. Alela ha forse perso qualcosa in originalità rispetto a quel magico esordio, optando per un suono più pieno e completo la cui produzione é stata affidata al leggendario Scott Litt (che ha lavorato con no-mi altisonanti come Nirvana, Rem e Replacements) e dove diventa la frontwoman indiscussa di una band a tutto tondo. L'iniziale To Begin (proprio per rompere il ghiaccio) è uno dei pezzi più coinvolgenti del-l'intera raccolta, arricchito da una tastiera jazzy, dai riff trascinanti dei due Tom e dai vocalizzi di Alela ad inebriare la melodia.

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Il brano funziona ed é un grande opening. Heartless Highway ci ri-porta alle atmosfere acustiche di To Be Still come pure la bellissima Suzanne dedicata alla madre, do-ve affluiscono le note malinconiche del piano prima che il brano esplo-da in un crescendo da brividi sot-topelle. The Wind mantiene la spi-ritualità e l'intimità delle sue pre-cedenti composizioni, come la sua-dente Desire e l'evocativa fila-strocca folk Elijah. Non convincono invece appieno Long Way Down, scritta insieme al marito, troppo energica e ritmata e Of Many Co-lors venata di psichedelica alla maniera dei primissimi Jefferson Airplane. White Horse ci rimette in carreggiata con un walzer corale, dove fa capolino una fisarmonica mentre la conclusiva Rising Great-ness, che nasconde un qualcosa di arcano e spirituale, mette ancora una volta in risalto le sue doti vo-cali che sempre più si avvicinano a quelle di Josephine Foster. Gli estimatori di lunga da-ta forse la preferivano come quella "figlia dei fiori" con la gonna lunga e i colori sgargianti, innamorata delle semplici armonie acustiche legate al folk più puro e naturale e storceranno il naso di fronte a questa nuova veste di cantautrice ormai maturata, con più eleganza e raffinatezza rispetto al passato, che però continua a raccontare le sue storie con grande sensibilità, tanto cuore e sentimento. (Emilio Mera)

Wade LashleyWade Lashley

Come On Sunday [Wade Lashley 2011]

La copertina del precedente capitolo del-la storia di Wade Lashley (il delizioso Someone Take The Wheel) mostrava una strada che mirava al più classico degli orizzonti a perdere degli Stati Uniti, ma non era dato sapere con quale mezzo la si stesse percorrendo. Sulla destinazione però non c'erano dubbi: il viaggio volge-va al sud, così come dichiarato dal brano di apertura del disco (Turn Around South Bound), ma anche da uno stile che paga-va il pegno al più classico roots-rock di marca texana. Come On Sundown, po-

co più di due anni dopo, ci svela finalmente che a viaggiare sulle hi-ghways americane è un vero bisonte della strada guidato da un vero cowboy moderno, ma che il viaggio nel frattempo ha seguito una deci-sa svolta verso Nashville, in Tennessee. Ne sta facendo davvero parec-chia di strada il nostro Wade, autore originario dell'Indiana che ha deci-so tardi di concedersi una carriera da songwriter indipendente, ma che ora sembra proprio stia recuperando il tempo perduto. Nonostante il taglio decisamente più country-oriented del pre-decessore, Come On Sundown appare fin dai primi ascolti come un o-pera più personale, in cui il suo vocione baritonale comincia ad assu-mere lo status di inconfondibile marchio di fabbrica, e soprattutto si nota un'ulteriore maturazione in sede di scrittura. Lashley non è uomo da grandi sorprese, il suo pregio maggiore è quello di non voler mai strafare, di non uscire mai dalle righe, e questo suo essere stilistica-mente rassicurante suona paradossalmente non come un difetto, ma come la ragione dell'irresistibile appeal di queste 10 semplici canzoni. Ben prodotto insieme a Jeff Lushby, registrato con i fidi Brad Bays (chitarre e mandolini), Keith Gomora (basso) e Ethan Rea (batteria), e impreziosito dagli interventi della fisarmonica di Mike Seitz e la pedal steel di John Reuter, l'album alterna bene momenti riflessivi (la parten-za di Virginia Take Your Leave è decisamente malinconica, The Reasons Why un'altra ballatona assai ispirata) ad altri più elettrici (Hands Of Time potrebbe comparire anche su un disco di Shooter Jennings, Cross The Wire torna per un attimo a scavare nella roots-music di Austin). E' con Mountain Moonlight Song che Lashley mischia bene arte del songwriting e tradizione country, ma è con Too Far Gone che tira fuori l'asso dalla manica con un brano melodicamente perfetto. A parti-re da qui si torna a sud, lo stile si fa leggermente più southern-rock, e non è difficile immaginarsi la voce di un membro della famiglia Van Zant cantare una Ricochet o una Determined Man, prima di chiudere con una title-track che sa di West-Coast anni 70 e una Wings To Fly che potrebbe venire dal repertorio di Johnny Cash. Come On Sundown non rivoluziona nulla, è semplicemente un bel road-record che può sta-zionare nella vostra macchina a lungo. Astenersi amanti della vita se-dentaria e rockers malati della sperimentazione a tutti i costi. (Nicola Gervasini)

Una volta al mese RootsHighway ospite di Street Lights su

Radiogas.it per presentare le novità del sito e la playlist

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Made in ItalyMade in Italy cose di casa nostra

Luca MilaniLuca Milani Sin Train [Black Nutria 2011]

Difficile prevedere, almeno per chi lo aveva conosciuto tempo fa co-me voce trainante dei File, trio dalle impetuose trame punk rock e grunge, uno sbocco da integerrimo

folksinger per Luca Milani. Eppu-re nello spazio di un paio di lavori, cominciando dal promettente ep Scars And Tattoos segnalato non più tardi di due stagioni addietro in questa stessa rubrica, la sua musica ha volto lo sguardo verso la tradizione, i chiaroscuri dell'al-ternative country, quella dolce malinconia che spesso ha abitato il genere e ne ha trovato fra i sui più lucidi testimoni Ryan Adams. Il nome, anche se altisonante nel paragone, non è per nulla fuori posto nel tentare di tracciare una mappa musicale di Sin Train, di-sco italianissimo nella produzione e nella concezione (registrazioni a Milano con una band fomata da Giovanni Calella al basso, steel guitar e mandolino e Leziero Re-

scigno alla batteria e piano) ma americano senza dubbio nell'anima, capace di evocare spazi e luoghi che hanno il sapore della polvere tante volte respirata su questo sito. Un album che fa della sem-plicità e della sottrazione in fase di arrangiamento un punto di forza, ma attenzione, senza suonare mini-mamente scarno o peggio ridotto per questioni di budget: Bandit, Mandy, Old August Sun, tripletta di inquiete ballate tipicamente alt-country piazzata in apertura, mo-stra tutto quello che deve comuni-care lo stile che Luca Milani ha scel-to per le sue parole. Quei suoni in bianco e nero, quel senso di nostal-gia mista a romantiscimo da loser che poi ritorna nella stessa title track, fra treni che rimandano a

Green Like JulyGreen Like July Four Legged Fortune [Ghost records 2011]

In attesa di decidere se la cristallina svolta folk rock dei Decemberists sia stata la mossa migliore per la band di Colin Meloy, o leccandoci ancora le ferite per la caduta di stile dell'ultimo Bright Eyes, potremmo ritrovare tutte le ragioni di un suono e della sua estetica in un trio italiano a metà strada fra la provincia nostrana e il Nebraska. Infatti, sono volati diretta-mente negli studi di Omaha i Green Like July, cogliendo l'occasione di lavorare a stretto contatto con quelli che restano i loro padri ispiratori e ai quali giustamente non si vergognano di tributare un omaggio, fin dalla scelta del loro nome. Qui finiscono però le dipendenze dirette, perché Four-Legged Fortune è tutto meno che una semplice replica, semmai una rielaborazione personale, spesso più sincera dei presunti "originali". Certamente risulta un album equilibratissimo nell'intreccio di atmosfere e parole, conciso proprio perchè ha da dire tutto nello spazio che si preso, rendendo credibile la versione di Andrea Poggio (chitarra acustica, voce) Nicola Crivelli (basso, cori) e Paolo Merlini (batteria) alle prese con tradi-zione folk, le tonalità malinconiche dell'indie rock e le sferzate dell'alternative country più sognante. Le di-gressioni bucoliche di Conor Oberst (Bright Eyes) ci sono tutte (da Cassadaga in poi), inutile nasconderle, così come una forma di ballata brillante che in Jackson, A Better Man e Was It Worth After All? può acco-stanrsi con sicurezza al suono delle radici, trovare persino riverberi degni dei Jayhawks e reintepretarli con in testa la lezione di The Band. Nelle presenze fondamentali di A.J. Mogis (produttore di casa alla Saddle-Creek), Jake Bellows (Neva Dinova) e Mike Mogis (Bright Eyes, Monsters Of Folk) il lavoro di studio acquista una rotondità delle forme che raramente capita di ascoltare a queste latitudini, trasformando le intenzioni dei Green Like July in un concreto album dal respiro americano. Tutto questo non mette in ombra le capacità di Andrea Poggio (una voce morbida e cantilenante la sua, adattissima al genere) e Nicola Crivelli, nucleo storico della formazione che ha avuto la lungimiranza di misurarsi all'estero con altri musicisti ed esperienze, cominciando da un lungo soggiorno a Glagnow. La maturazione è stata effettivamente lunga e la stessa uscita di questo Four-Legged Fortune molto travagliata, ma gli esiti sono tutti da scoprire nell'esplosione cosmic country di Hardly Thelma o nella conclusiva St. John Of The Cross. Senza dubbio una delle rivelazioni dell'anno, per una volta senza inutili distinzioni di provenienza geografica. (Fabio Cerbone)

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Johnny Cash (un artista che do-vrebbe oggi contare qualcosa per lo stesso Luca Milani, azzardia-mo...) e nevicate in Milano (Show in Milan) che sono la trasposizione di un gelido inverno chissà dove nella provincia americana. Sin Train convince anche per questo: perché le parole riflettono tutto un immaginario da "rinnegato" e un po' irrequieto hobo, ma nello stes-so tempo cercano di essere perso-nali e legate alla propria esperien-za di vita. Se un appunto va mos-so a Sin Train è forse il suo indu-giare troppo, nella seconda parte, nella desolazione acustica di Until the End, The Killer, fino alla chiu-sura con ukulele e armonica di A Place to Sty Bright, rischiando di sfiorare un po' di monotonia. Ma basta lo slancio di Jenny Stone e la voce (un dettaglio non indifir-rente) dello stesso Luca Milani per riequilibrare il tutto. Collocatelo - perché no? - al fianco di tutte quelle anime punk americane (da Chuck Ragan a Tim Berry a Ben Nichols dei Lucero) che in questi anni hanno svoltato verso le radici con risultati egregi. (Fabio Cerbone)

Veronica SbergiaVeronica Sbergia Veronica Sbergia & The Red Wine Serenaders [Totally Unecessary 2011]

Ci sono dischi in grado di trascen-dere luoghi fisici e spazi temporali. E questo è proprio quanto accade dopo aver inserito il dischetto in questione nel lettore e aver pre-muto il tasto play. Si viene cata-pultati nell'America dei primi de-cenni del secolo scorso, dove spo-

polavano il ragtime, lo swing e facevano la loro comparsa le pri-me jug band. Un suono figlio di quella tradizione musicale, ormai dai più seppellita nei meandri più reconditi della memoria, ma anco-ra viva e pulsante. Visto il sound è logico pensare immediatamente a un gruppo di musicisti americani, anzi afroamericani, volti a reinter-pretare la tradizione medesima. Niente di più sbagliato, perchè i musicisti in questione sono italia-nissimi. Arriva infatti dalla Lom-bardia Veronica Sbergia, e per questa sua seconda opera disco-grafica si fa accompagnare dai fidi Red Wine Serenaders, anch'essi italiani oltre che musicisti di gran-de caratura. I nostri si divertono a giocare con la tradizione musicale afroamericana , mostrando allo stesso tempo grande rispetto e passione per la materia in questio-ne. Strumenti inusuali come uku-lele, washboard e kazoo colorano ulteriormente la miscela sonora del gruppo, che trova nella dimen-sione acustica la propria ragione d'essere. Su tutto si staglia la splendida ed espressiva voce di Veronica Sbergia, vero punto di forza dell'intero lavoro. Virtuosa dell'ukulele, Vero-nica percuote con maestria anche la washboard, e grazie all'utilizzo di una spazzola per capelli riesce ad estrarne sonorità innovative. Nelle file dei Red Wine Serenaders spiccano senza dubbio Max De Bernardi e Mauro Ferrarese, autentici maestri degli strumenti a corde; il primo alla chitarra resofo-nica, all'ukulele e al mandolino; mentre il secondo anch'egli impe-gnato alla chitarra resofonica. Ide-ale suggello è Alessandra Ceccala, al contrabbasso e ai cori, in grado di dare ulteriore spinta ritmica al gruppo. Un viaggio musicale tra rarefatti e arcaici blues (Busy Bootin, Doggone My Soul, Love-sick Blues) e coinvolgenti swing e ragtimes (You Drink too Much, Mr Ambulance Man). You may leave (but this will bring you back) è invece una trascinante folk song condotta da washboard e kazoo, il

tutto coadiuvato da un sapiente uso delle voci. Difficile poi rimanere im-passibili di fronte alla bellezza di brani come Lullaby of the Leaves, splendida ballata con l'ukulele pro-tagonista; Nobody Knows but Me, old time blues come non se ne sen-tivano da tempo e You Must come in at the Door a mio avviso la migli-ore del lotto, splendido brano corale di stampo gospel, con un ottimo lavoro di chitarra slide ben suppor-tata dalla washboard. Vera chicca è infine la bonus track: Good Old Wagon, per solo piano e voce, sem-plicemente da brividi. Un disco vissuto, che parla di storie intrise di amore, sangue e sudore e lo fa con perizia tecnica e un alto tasso emotivo. Un plauso va quindi a Veronica Sbergia e ai suoi fidi Red Wine Serenaders, fautori di un'opera dalla bellezza cristallina.(Marco Poggio)

Ogni terzo lunedì del mese RootsHighway ospite di “In Orbita”

con Ricky Russo sulle frequenze di Radio Capodistria, anche sul web

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BlackHighwayBlackHighway blues, soul & black culture

Black Joe Lewis & The Black Joe Lewis & The

HoneybearsHoneybears Scandalous [Lost Highway 2011]

Difficile stabilire l'esatto confine tra rock'n'roll, soul, funky e blues nella formula caleidoscopica di Black Joe Lewis & The Hone-ybears: è una apparente caos che si tramuta in un giocoso abbando-no, in uno sgraziato rendez vous in qualche bettola del Texas, luogo di provenienza della band e del suo leader, tagliando subito le gambe a chiunque voglia cristalliz-zare il suono selvaggio di Scanda-

lous in un clichè. E sarà questa probabilmente la fortuna che - proviamo a lanciare una scom-messa - renderà la musica di Black Joe Lewis più significativa (e quindi più duratura) dei pur validi e numerosi fratellastri alle prese con una simile reinvenzione del linguaggio black in questi anni. La differenza sta proprio in quella sensazione di grezza incom-piutezza, in quell'idea in fondo così normale (ma non è venuta a nes-suno di recente, o per lo meno nessuno l'ha messa su disco con tanta efficacia...) di appiccicare il blues più sporco e da cantina nato nel profondo Mississippi (diciamo Junior Kimbrough, Fat Possum e tutta la pericolosa compagnia dei juke joint…palesemente saccheg-giati fra le trame appiccicose di Jesus Take My Hand e Ballad Of Jimmy Tanks) con i ritmi frenetici di un funky rock che riesce prodi-giosamente a unire le distanze in apparenza "abisssali" fra James Brown e gli Stooges, due punti di riferimento che a detta dello stes-so Black Joe Lewis hanno rappre-sentato la sua educazione. Gli cre-

diamo sulla parola ascoltando l'in-troduzione di Livin' In The Jungle, pura pantomima funk con la chi-tarra ritmica dell'inseparabile Zach Ernst e una sezione fiati (Derek Phelps, tromba, Joseph Woullard, sax baritono, Jason Frey, sax tenore) bollente pronta a mischiarsi con l'elettricità del gruppo. In questo senso Scanda-lous non potrà certo sfruttare l'ef-fetto sorpresa dell'esordio Tell 'Em What Your Name Is!, ricalcando uno stile collaudato dall'intensa attività dal vivo, ma avrà sempre dalla sua una compattezza figlia esattamente della strada e del palco. Così arriva la stoccata di Booty City, frenetica tanto quanto la gemella Blake Snake, mentre I'm Gonna Leave You omaggia il blues più paludoso e Messin' lo declina in acustico, facendo risor-gere lo spirito di un altro punto fermo di Black Joe Lewis, ovvero sia Lightnin' Hopkins. Il canto del leader, strozzato, zoppicante, è poi la conferma di questo percorso fra tradizione e elettricità: non possiede il gancio del grande croo-ner, non svela tracce di una inten-sità soul drammatica, e in questo senso è davvero figlio del ro-ck'n'roll. Soltanto così ti spieghi il talkin' aggressivo di Mustang Ranch e la sua girandola fra torri-do r&b e uno spirito quasi punk rock. Hot stuff avrebbero detto gli Stones e come non farsi trascinare dal suono "garagista", semplice-mente rock, di You Been Lyin', arricchito da un caldissimo soste-gno vocale dei misconosciuti eroi locali The Relatives. Scandalous conferma le qualità di party band indemoniata degli Honeybears: mettetelo sul piatto e accendete la serata! (Fabio Cerbone)

T Model FordT Model Ford Taledragger [Alive 2011]

Il documentario Deep Blues: A Musical Pilgrimage To The Crossro-ads del '91 è stato basilare per la riscoperta del blues profondo del Delta del Mississippi, mostrando la vitalità del country blues attraverso protagonisti all'epoca sconosciuti, musicisti attivi da anni senza avere registrato nulla, ma ben noti nei pochi juke joints sopravvissuti. Lo scrittore e giornalista Robert Pal-mer, che aveva già scritto un libro sull'argomento con lo stesso titolo, è stato la guida del documentario e lo scopritore di numerosi artisti che hanno successivamente pubblicato per la Fat Possum, tra i quali Junior Kimbrough, R.L. Burnside e Roo-svelt Barnes. Anche T-Model Ford fa parte di questo gruppo di blue-smen scoperti negli anni novanta in età avanzata. James Lewis Carter Ford è nato tra il 1920 ed il 1925 a Forest nel Mississippi; ha lavorato nei campi, in una segheria e poi come camionista ed ha avuto vari problemi con la legge (il principale una condanna a dieci anni per omi-cidio in una rissa poi ridotta). Ha registrato il suo primo disco nel '97 e per anni ha girato nella zona del Delta accompagnato unicamente dall'amico batterista Spam. Dopo cinque dischi per la Fat Possum l'anno scorso è passato alla Alive, pubblicando l'acustico The Ladies Man seguito da Tale-

dragger, un ruvido disco elettrico molto interessante nel quale è ac-compagnato dai Gravelroad, la band che spesso lo segue in tour, un trio di Seattle cresciuto con il grunge che definisce la propria mu-sica psychedelta blues. In effetti il blues ripetitivo ed ipnotico di Ford , basato su una ritmica

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preponderante te ed essenziale, si accompagna molto bene con il suono grezzo dei ragazzi e degli altri ospiti funzionali alla riuscita del disco: il polistrumentista Brian Olive, giovane mente dei Green-hornes che interviene alle tastiere ed al sax, Mike Weinel alla slide e Matthew Smith alla chitarra ed al basso. Basta asoltare l'opener Sa-me Old Train per capire l'atmosfe-ra del disco. E' un boogie ipnotico e ripetitivo che ricalca le note del classico Mistery Train, nel quale tuttavia si inseriscono interessanti variazioni: il piano di Olive e l'a-spra chitarra di Stevan Zillioux protagonista di un assolo brillante nella sua essenzialità. Comin' Back Home è sostanzialmente un rifaci-mento di Smokestack Lightning, ma l'inserimento del sax conferi-sce al brano una nota di diversità. Non male la versione di How Many More Years di Howlin' Wolf (uno dei bluesmen di riferimento di Ford), con la batteria in contro-tempo ed un sapore psichedelico. L'ipnotica Someone's Knocking On My Door e I Worn My Body For So Long riprendono nei testi il tema della morte (e ci fanno ricordare che ormai Ford è uno dei pochi bluesmen originali ancora in vita), mentre Big Legged Woman ha una slide incisiva che richiama il suono dei primi ZZ Top. Il dischetto è chiuso dalla gloriosa Little Red Rooster, interpretata alla grande da Ford con la sua voce grezza ed ispida. Un disco di blues come se ne sentono pochi in questo perio-do, lontano dal suono pulito e me-lodico più popolare; se poi pensia-mo che è stato inciso da un musi-cista novantenne o quasi...allora dobbiamo veramente inchinarci di fronte a T-Model Ford ed alla sua band. (Paolo Baiotti)

T Model Ford

Mississippi Fred McDowellMississippi Fred McDowell

Come and Found You Gone [Devil Down records 2010]

Inaspettata, emozionante e ben cu-rata questa operazione postuma dedicata a Mississippi Fred McDo-well. Musicista inconsueto e contro-verso seppur nato a Rossville, in Tennessee, si è formato artistica-mente sul Delta, tra Red Banks e Como e fu scoperto da Alan Lomax nel 1959, che registrò le sue prime incisioni. Fred McDowell ha lasciato una traccia indelebile nella storia del blues, noto per le molteplici inter-pretazioni di You Gotta Move, em-blematica quella attribuita spesso

erroneamente ai Rolling Stones. Interprete inflessibile, con la sua ab-bagliante slide (pare che si esercitasse con l'osso di una grossa bistec-ca) aveva imposto una tecnica, una musicalità ipnotica ed essenziale, la sua chitarra fortificata sulla potenza ritmica accompagnava una voce forte e sicura. Del suo stile ritroviamo tracce e ascendenti in bluesmen come R.L.Burnside e Junior Kimbrough. L'album Come And Found You Gone è un tesoro ritrovato tra le incisioni fornite dall'archivio personale del musicologo Bill Ferris ("Era fantastico. Ricordo che alla fine di ogni canzone accordava perfet-tamente la chitarra, cosa che ho visto fare a pochissimi bluesman, poi ricominciava a suonare ed aveva la ricchezza di un'orchestra e la forza di un treno in corsa" intervista sul Il Blues n.113), in stretta collabora-zione con Annie Mae McDowell e con la straordinaria partecipazione di Napoleon Strickland. Le emozionanti incisioni inedite risalgono all'ago-sto del 1967, Como MS, e per la loro natura sono diverse da quanto pubblicato finora. Sono state improvvisate, tra brani noti e inediti di valore, un set acustico registrato a casa di amici. Le ultime pubblicazio-ni risalivano agli anni '90 e il grande Fred McDowell è di nuovo tra noi, intimo, magnetico, con dodici brani mai pubblicati su un totale di 18 versioni inedite. Oltre alle tracce più note, inserite nella prima parte dell'album, come Shake 'Em On Down, Baby Please Don't Go e John Henry, l'atten-zione cade sui brani sconosciuti e su imprevedibili trepidazioni Dream I Went To The U.N., uno strumentale semplicemente denominato The Boogie con al centro l'armonica di Napoleon Strickland, episodi che ci portano nei momenti salienti di queste istantanee domestiche, Get Right Church, in cui ci si stringe quasi in preghiera, viscerale Death Came In (da ascoltare dovunque il battere percussivo del piede di McDowell - a prova di woofer), e ancora I Got Religion, momenti spiri-tuali in cui la partecipazione impulsiva dei presenti e in particolare della moglie Annie Mae, assumono le vesti di una complicità mistica, conta-giosa, You Gonna Meet The King Jesus. Imperdibile e avvolgente, ades-so o mai più. Oltre ai diciotto brani tra cui una intervista a Bill Ferris, il cd offre un libretto di 16 pagine redatte da Ferris, Luther Dickinson e Vincent Joos. Promozione e distribuzione esclusiva, su internet, per l'Europa da Rootsway Web Records e in collaborazione con la rivista Il Blues. (Antonio Avalle)

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ClassicHighwayClassicHighway best of, ristampe e classici

Nick LoweNick Lowe Labour of Lust [Proper 2011]

Compendio ideale all'operazione di ristampa del precedente Jesus Of Cool (Pure Pop for Now People nell'edizione americana), clamoro-so esordio solista di Nick Lowe del 1978, l'attuale uscita di La-

bour of Lust completa la rivisi-tazione di un genio artigianale della canzone inglese, capace come pochi altri in quegli anni di new wave e coda lunga del punk, di rivitalizzare il senso di classicità del e per il rock'n'roll. Un obiettivo raggiunto mante-nendo un incredibile equilibro fra citazione e novità, freschezza e nostalgia, lavorando di comune accordo con una scena, poi riletta sotto la sigla abusata di "pub rock", che egli stesso avrebbe let-teralmente infiammato grazie non solo al suo lavoro di musicista ma anche di produttore e talent scout. Labour of Lust in particolar modo è un disco che si inserisce come una cuspide al vertice di quella stagione di rilancio del rock ingle-se, portandosi appresso la con-temporanea invenzione della crea-tura Rockpile, la band guidata in team con l'anima gemella Dave Edmunds, e l'amicizia (poi sfociata in una vera e proparia regia musi-cale) con Elvis Costello e gli At-tractions. Registrato nel 1979, pochi mesi prima dell'isolato debutto dei citati Rockpile e praticamente in contemporanea con l'altrettanto esplosivo Repeat When Necessary di Dave Edmunds, Labour of Lust sarà per sempre celebrato come l'album "americano" di Lowe. Non solo o non tanto per l'evidente vocazione musicale che infonde buona parte del suo materiale, spesso invischiato con le radici del rock'n'roll, quanto proprio per l'ac-coglienza entusiasta che riceverà dal pubblico e dalla critica d'oltre-oceano, portandolo al numero 31 di Billboard e sancendo l'unico ve-ro trionfo in carriera del nostro con il singolo Cruel to Be Kind, che toccherà la posizione 12 sia in pa-tria sia negli States. Assemblata una band più coesa e un registro

meno eclettico del precedente Je-sus of Cool, Labour of Lust vive delle pulsioni dei Rockpile, qui riuniti sotto lo stesso tetto pur non condividendo la firma finale: le chitarre swampy e i riff alla Chuck Berry di Edmunds, la sezione rit-mica di Billy Bremner e Terry Wil-liams sono

il carburante mi-gliore per dare forma alla piccola enciclopedia rock'n'roll che frulla nella testa di Lowe. In particolar modo la seconda facciata dell'al-bum sembra "arrendendersi" al-l'apporto del gruppo, portando alle stelle il concetto di pub rock, in fondo inventato dallo stesso Lowe fin dai tempi misconosciuti con i Brinsley Schwarz. In tal senso Skin Deep e Dose of You raffinano elettricità, uno strato rockabilly che si mi-schia al pop sixties, alle armonie doo wop, alla soul music più ani-mosa, amori mai sopiti di questi musicisti, e un'irresistibile verve melodica li trasforma e rilegge, dettando le regole del genere. Switchboard Susan, versione defi-nitiva del brano firmato da Mickey Jupp, guida quindi l'assalto con un rock arrembante, bissato nel finale da Love So Fine, episodio efferve-scente che annuncia l'avvento di-scografico dei Rockpile di li ad un solo anno. Il citato gusto "americano" di Labour of Lust si traduce poi nelle tonalità country e folk rock che sembrano muoversi sottilemente fra la melodia di En-dless Grey Ribbon e soprattutto nel sobbalzare irrefrenabile di Wi-

thout Love (guarda caso ripresa in seguito da Johnny Cash), sorta di aggiornamento del sound senza tempo degli Everly Brothers. Ancora una volta passare in rassegna que-ste perle di understatement musi-cale offre l'esatta dimensione della passione fuori sincrono che muove-va Lowe e la sua corte in quel mo-mento storico: aprire Labour of Lust con una delizia pop quale Cruel to be Kind, beatlesiana fino al midollo, è la prova di una sensibilità in gra-do di trasgredire lo spirito dei tem-pi, in un 1979 riletto sotto una lente che coraggiosamente sposta il baricentro dalla rabbia e dallo sperimentalismo verso la scrittura rock più tradizionale. Ne sono ulteriore testimonianza lo swamp insistente di Cracking Up, infarci-to delle chitarre twang di Dave Edmunds e da un coretto scaltro e attraente che abbraccia l'intero brano, oppure la spiazzante sa-rabanada rtimica di Big Kick, Plain Scrap, forse la traccia più

singolare di Labour of Lust, per il resto votato come sempre a rende-re l'arte della pop song un sublime gesto (American Squirm, con la partecipazione di Elvis Costello e Pete Thomas degli Attractions), spezzato da accelerazioni di travol-gente rock'n'roll (l'incalzante Born Fighter, che vede la presenza di un giovane Huey Lewis all'armonica). In questa ristampa curata dalla Proper l'aggiunta di un'acusti-ca, ininfluente Basing Street, lato b del giugno '79, non pare essere la notizia più rilevante: già la sorpresa di riavere per la mani una piccola meraviglia per troppi anni fuori ca-talogo basta e avanza. Nel caso potrete semmai aggiungere le inte-ressanti note del libretto curate da Will Birch, giornalista e autore di No Sleep Till Canvey Island- The Great Pub Rock Revolution, e i ricordi di Greg Geller, promoter di Nick Lowe alla Columbia americana proprio negli anni di Labour of Lust. (Fabio Cerbone)

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BookshighwayBookshighway Le proposte sullo scaffale

Pete DexterPete Dexter Spooner (Einaudi, pp.508)

Un po' Huckleberry Finn, un po' Forrest Gump, un po' Tenenbaum, Spooner è un piccolo grande ro-manzo americano di raro stampo, in questa temperie letteraria di post-postmodernismo e meta-metanarrativa. Pete Dexter è scrittore concreto, "di genere", anche se di quelli riconosciuti grandi dalla critica, almeno a giu-dicare dal National Book Award vinto nel 1988 con Il cuore nero di Paris Trout. Di solito frequenta il noir, ma non disdegna il western, soprattutto se anti-epico: il suo Deadwood ha ispirato (in maniera apocrifa: Dexter sta ancora aspet-tando che gli riconoscano i diritti) una serie tv di chiara fama. Qua si cimenta in un ro-manzo di formazione (irrisolta) che non nasconde la propria gene-si autobiografica: una biografia libera di entrare e uscire dalla re-altà, di spostare gli avvenimenti nel tempo e nello spazio, di me-scolare memoir e invenzione, ma al cui fondo resta l'impronta di un’identificazione Spooner-Dexter tutt’altro che superficiale - a di-spetto della narrazione in terza persona. Strutturato in 8 parti che corrispondono ai luoghi di svolgi-mento della storia, dalla cittadina della Georgia in cui il protagonista nasce - in piena presidenza Eisen-hower - all'isola a Nord di Seattle in cui, ormai scrittore affermato, va a vivere nell'ultima parte del racconto - e siamo più o meno ai

giorni nostri - Spooner, pur senza appartenere alla narrativa di viag-gio, condivide con i grandi road novel americani il tema dello sra-dicamento e del sentirsi sempre e comunque "spostati". I personaggi entrano e escono dalla narrazione: emergono dallo sfondo le due figu-re focali, quella dell’(anti)eroe e-ponimo e quella del suo patrigno Calmer (nomen omen), punto di riferimento cercato, inseguito, am-mirato lungo tutto il romanzo e, infine, custodito e protetto dalle insidie del mondo in una commo-vente inversione di ruoli. La quest di Spooner, per-sonaggio "senza padre", si può leggere come un’incompiuta ricer-ca di approvazione e amore che vede interagire due anime affini ma irrimediabilmente respinte su due fronti opposti della vita: tanto Calmer è incapace, fino all'autole-sionismo, di agire contro le regole, di non fare la "cosa giusta" (nella carriera militare, nel lavoro, nella famiglia), tanto Spooner è impos-sibilitato a non fare, sempre e co-munque, la cosa "sbagliata". La scrittura di Dexter, arguta e capa-ce di curve e illuminazioni improv-vise, si veste di stralunato cini-smo, mimando l’occhio di Spooner sul mondo. Anche nella descrizio-ne della violenza, da sempre mo-tore dell'azione narrativa nei ro-manzi di Dexter, si coglie un'ironia rassegnata, sia quando viene di-pinta esplicitamente (il resoconto del pestaggio in un bar di Filadel-fia, episodio realmente vissuto dallo scrittore), sia quando prende forme più subdole, connotando i rapporti umani di una società nu-trita dalla competizione e dalla prevaricazione (emblematici in tal senso alcuni personaggi, come l'allenatore di football o il nipote del professore in pensione). Una società di cui Spooner diventa l'involontario controcanto-re, quello che, con il suo sguardo obliquo, ne fa detonare i meccani-smi di senso. Come quando il ven-ditore porta a porta per cui lavora gli chiede con insistenza quanto sia il massimo di soldi che crede di potere guadagnare in un giorno, nel "giorno perfetto". E Spooner

risponde: "Nei giorni perfetti, io non lavoro". (Yuri Susanna)

Philip RothPhilip Roth L’umiliazione (Einaudi, pp.113)

Nella tendenza crepuscolare di Phi-lip Roth cominciata con L’animale morente, L’umiliazione si distin-gue per l’efficacia della misura e del ritmo stesso che la scrittura impone alla storia. Il “lungo viaggio nella notte” del suo protagonista, Simon Axler, è condensato in un romanzo dalle dimensioni ristrette che si e-volve con sequenze elicoidali e pro-prio come una vite guida la trama senza la minima sbavatura. Basta-no due soli cambi di scena sostan-ziali, molto precisi, e L’umiliazione arriva dritta al capolinea che a sua volta è l’ineludibile coup de théâtre che aleggia tra le righe fin dall’inci-pit. Questa non è scrittura. E’ chi-rurgia e Philip Roth, attraverso la crisi di Simon Axler, attore nel pani-co, affonda il bisturi in quella zona dei legami e delle relazioni umane in cui la finzione e la realtà si sfu-mano nella linea d’ombra dell’as-surdo. Come scriveva uno dei pro-tagonisti del teatro nel ventesimo secolo, Jean-Louis Barrault, “l’attore è colui il quale col suo mo-vimento incide uno spazio e con il suono incide un silenzio. L’attore entra in uno spazio e deve raccon-tare. In realtà non è l’attore che recita ma è il pubblico che recita per lui. Egli è la sintesi di una

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storia. L’attore è un segno, un ponte fra la storia e il pubblico che vuole entrare nella storia”. Quan-do Simon Axler decide che il tem-po del talento è scaduto perché “proprio ciò che prima aveva fatto di lui quel che era, adesso faceva di lui un pazzo”, la vita che fin lì ha vissuto diventa passato. Perde sua moglie, entra in un ospedale psichiatrico, non mangia più e si isola nel suo falli-mento perché comunque “a un certo grado di infelicità, le provi tutte per spiegare cosa ti sta capi-tando, anche se sai che non spie-gano nulla e che sono solo una filza di spiegazioni mancate”. L’ar-rivo di Peegen Mike Stapleford, figlia di amici d’infanzia (anche loro attori, va detto), ormai qua-rantenne e lesbica dichiarata sca-tena una metamorfosi per entram-bi. La relazione che cominciano, consapevoli di vivere il momento e sicuri che nella vita conta solo “cercare tenacemente ciò che vuoi” e “smettere di cercare ciò che non vuoi più”, è incendiaria. Nonostante tutti gli avvisi, gli al-larmi e i presagi Simon e Peegen non si pongono limiti e, anzi, usa-no il sesso senza inibizioni come un laboratorio emotivo. L’atto finale viene da solo: un colpo di ghigliottina, automati-co e perfetto. Serve piuttosto tor-nare indietro un attimo, quando Simon Axler era ricoverato e “tutti gli altri sedevano in un cupo silen-zio, interamente tesi e intenti a ripassare tra sé, nel lessico della psicologia pop o dell’oscenità da trivio o della cristiana sofferenza o della patologia paranoide, gli anti-chi temi della letteratura dramma-tica: incesto, tradimento, ingiusti-zia, crudeltà, vendetta, gelosia, rivalità, desiderio, perdita, disono-re e lutto”. L’umiliazione è il rifles-so delle tracce di tutti questi temi fatti roteare nell’aria da un gioco-liere che non sbaglia niente, tanto che sembra un prestigiatore. Il migliore. (Marco Denti)

Victor GischlerVictor Gischler Notte di sangue a Coyote Crossing

(Meridiano Zero, pp.208)

Nel nome della città, Coyote Crossing, c’è già il grumo denso e pensoso che Victor Gischler nasconde nella frenesia degli effetti speciali della sua scrittura. Nel gergo del border il coyote è la gui-da, si fa per dire, che conduce gli immi-grati dal Messico verso il Norte ed è at-torno a un traffico di disperati che si sviluppa tutta la Notte di sangue a

Coyote Crossing perché Victor Gi-schler è divertente, caotico e giocoso nel superare i confini tra western e noir, come nota Don Winslow, ma è anche attento a non sfuggire la realtà. Per cui nella Notte di sangue a Coyote Crossing oltre alla desolazione dell’immigrazione illegale, l’atmosfera è delineata da un paesaggio è “white trash”, un sottopro-letariato con poche o nulle speranze, se

non la fuga dalla smalltown dove tirano a campare, tra lavori di infima categoria (il massimo, sembra di capire, sarebbe spararsi due ore di strada al giorno per andare a fare l’operaio in un’industria di fertilizzan-ti) ed esistenze ai margini della legalità. Se poi in un ambiente che è sempre sull’orlo della crisi di nervi si immettono la criminalità organizzata e gli sceriffi corrotti la miscela si accende da sola per autocombustione. A farne le spese è Toby, un loser da quattro soldi con un passato da chitarrista in mediocri rock’n’roll band (anche la musica che segue del resto non è il massimo: Weezer, Garbage, Blind Melon sono i nomi che s’incontrano strada facendo) e un presente di aspirante sceriffo, padre di famiglia e concubino di una mi-norenne, giusto per completare il quadro. Un impiastro che riesce a ca-varsela, almeno dal punto di vista ideale, con una punta di inevitabile fatalismo, espresso così: “C’è chi viene reso più forte dalle avversità, così come dalle delusioni e dalle sciagure, e c’è chi diventa più stronzo. Sono i casi della vita e nessuno ne è immune, che sia una vecchia o una messicana infuriata o un aiuto sceriffo part-time. Fai girare la ruota, e prendi quello che arriva”. Victor Gischler scrive con il senso dei fumetti o più in generale delle immagini in testa ed è un susseguirsi di colpi di scena senza un attimo di respiro perché Toby Sawyer dopo aver subito per gran parte della Notte di sangua a Coyote Crossing decide che è ora di restituire colpo su colpo. In realtà, un vero loser non sceglie mai e infatti la svolta arriva per inerzia se non proprio per stanchezza perché c’è un limite anche a fare da punching ball per una famiglia di bifolchi inferociti. La progres-sione è un tourbillon di inseguimenti, sparatorie e continui rovesci di fronte con Toby Sawyer protagonista assoluto e sempre nel centro del mirino. Tutto l’armamentario dei cliché delle storie d’azione, dall’assedio del suo trailer prima e della stazione di polizia ai fucili a pompa, è preso da Victor Ginschler che poi lo ricicla, lo rimescola e lo frulla a una veloci-tà anfetaminica. L’effetto è tale che, pur senza particolari ambizioni let-terarie, si resta incollati dalla prima all’ultima pagina dove, come richie-sto dallo stile, arriva un finale impeccabile. (Marco Denti)

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Americana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic Tracks Ascolti essenziali, dai nostri archivi

Over The RhineOver The Rhine Drunkard’s Prayer

[Back Porch/ Virgin 2005]

Da quando ho il piacere e l'onore di scrivere su questo sito, cioè all'incirca da due anni, è la terza volta che mi trovo a parlare degli Over The Rhine di Karen Bergquist e Linford Detweiler, e anche in questa occasione non posso che abbondare nei superlativi. Questo, a scanso di equivoci, non a causa di simpatie preconcette, idolatria priva di obiettività o criminose con-nivenze; lodare gli Over The Rhine, considerata la loro prolificità, la loro e-sorbitante media qualitativa e l'assoluta trasparenza intellettuale con cui sanno porgersi all'ascoltatore, è a conti fatti una gradevolissima incombenza per chiunque segua con trepidazione l'evolversi della musica americana nel-la sua declinazione più vicina al cuore vivo del grande songwriting. A sentire la coppia di sposi che, in sostanza, è la vera testa pensan-te dell'intero progetto, Drunkard's Prayer è nato allo scopo di tradurre in musica un momento di crisi vissuto dal loro rapporto di coppia. Ma a giudi-care dai risultati bisognerà dire che su queste undici canzoni aria di crisi,

tremendamente equilibrate e suggestive come sono, non ne spira affatto. Anzi, a partire dall'incantevole gioco tra corde acustiche e pianoforte dell'iniziale I Want You To Be My Love fino ad arrivare alla spettacola-re cover di My Funny Valentine che chiude l'album è tutto un susseguirsi di meraviglie contrassegnate sì dal consueto mood malinconico e introspettivo, eppure inevitabilmente vivide, palpitanti, colme di forza immagi-nifica e melodie indimenticabili. Diciamo che in questo caso l'impatto del lavoro è nel complesso meno roots del solito, dacché il centro nevralgico del disco, pur non volendo mancare di rispetto e devozione alla fila-strocca country di Bluer, alla serena riflessione folkie di Who Will Guard The Door o all'incalzante rock'n'folk di Lookin' Forward, va rintracciato in quelle spettrali ed evocative ballate dove alla voce sublime della Ber-gquist e ai rintocchi delle tastiere di Detweiler si aggiungono magari le pelli sornione di Devon Ashley, il con-trabbasso di Byron House e lo splendido violino di David Henry. Mi riferisco soprattutto alla cupa Spark, con i suoi accenti marcatamente wave, e alla straordinaria Firefly, vero e proprio centerpiece dell'opera non-ché tour de force impressionante sotto il profilo dell'estensione vocale di Karen Bergquist e dell'abilità stru-mentale di Linford Detweiler. Bisognerebbe citare anche le scintille elettriche di Born, oppure il sassofono umido di Brent Gallaher che impreziosisce ulteriormente i pregiati tessuti jazzy di Little Did I Know e della title-track, ma lo spazio è tiranno e in questa sede posso solo sottolineare che Drunkard's Prayer, oltre a essere l'ennesimo centro pieno, rappresenta per gli Over The Rhine il dodicesimo lavoro di studio in appena 14 anni di carriera. Il migliore? Certamente. Almeno fino al prossimo. (Gianfranco Callieri)

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Arrivederci al prossimo numero di

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