rootshighway mixed bag #10

52
1 RootsHighway Mixed Bag #10 RootsHighway RootsHighway Mixed Bag Mixed Bag numero 10, settembre 2011 numero 10, settembre 2011 Okkervill River Okkervill River ”They’re very far” ”They’re very far” In questo numero: In questo numero: Bruce Cockburn Bruce Cockburn Levon Helm Levon Helm The Doors The Doors American Indie American Indie Thomas Pynchon Thomas Pynchon Seasick Steve Seasick Steve Elvis Presley Elvis Presley Gillian Welch Gillian Welch Johnnie Selfish & The Worried Men Johnnie Selfish & The Worried Men

Upload: fabio-cerbone

Post on 09-Mar-2016

239 views

Category:

Documents


6 download

DESCRIPTION

Supllemento in pdf del web magazine musicale RootsHighway.it

TRANSCRIPT

Page 1: RootsHighway Mixed Bag #10

1

RootsHighway Mixed Bag #10

RootsHighwayRootsHighway

Mixed BagMixed Bag

numero 10, settembre 2011numero 10, settembre 2011

Okkervill RiverOkkervill River ”They’re very far””They’re very far”

In questo numero:In questo numero:

Bruce CockburnBruce Cockburn

Levon HelmLevon Helm

The DoorsThe Doors

American IndieAmerican Indie

Thomas PynchonThomas Pynchon

Seasick SteveSeasick Steve

Elvis PresleyElvis Presley

Gil l ian WelchGil l ian Welch

Johnnie Self ish & The Worr ied MenJohnnie Self ish & The Worr ied Men

Page 2: RootsHighway Mixed Bag #10

2

RootsHighway Mixed Bag #10

SOMMARIOSOMMARIO

numero 10, settembre 2011

RootsHighway Mixed Bag

Supplemento in PDF del

web magazine

RootsHighway

www.rootshighway.it

Direzione e coordinamento:

Fabio Cerbone

Collaboratori e testi di:

Davide Albini, Antonio

Avalle, Paolo Baiotti,

Gianfranco Callieri, Fabio

Cerbone, Gianni Del Savio,

Marco Denti, Maurizio di

Marino, Albert Facchinetti,

Edoardo Frassetto, Matteo

Fratti, Gabriele Gatto, Nicola

Gervasini, Roberto Giuli,

Stefano Hourria, Emilio

Mera, David Nieri, Marco

Poggio, Donata Ricci,

Gianuario Rivelli, Yuri

Susanna, Silvio Vinci, Gianni

Zuretti

Cover story

Okkervil River “Will Sheff e la ricerca di Vera Vasilevna”

…..3

Speciale Mixed-bag (Articoli)

Levon Helm “L’uomo del sud” …..11

The Doors “When You’re Strange” …..14

American Indie “Una grande storia americana” …..19

Johnnie Selfish & The Worried Men “Note dall’Australia” …..21

RootsHighway’s Pick Il disco in vetrina

Tom Russell “Mesabi”

…..24

Monthly Revelation maggio - agosto 2011

Jesse Sykes; Bill Callahan; Ian Siegal; Okkervil River; Brian Wright; Dawes; Gillian Welch; William E. Whitmore

…..25

Second Hand

Avvistati in questi mesi

Steve Earle; Warren Haynes; Eliza Gilkyson; Greg Brown;

Grayson Capps & The Lost Cause Ministrels; Dave Alvin;

The Breakers; Kurt Vile; Jolie Holland & The Grand Chan-

deliers; Austin Lucas; Nick Jaina; Thurston Moore; Rock

and Roll Joe; The David Mayfield Parade; Zoe Muth & The

Lost High Rollers; Robert Ellis; Nick 13; The Horrible

Crowes

…..31

Made in Italy

Cose di casa nostra

Tiziano Mazzoni “Goccia a goccia”

…..42

BlackHighway Blues, soul & black culture

Seasick Steve; Howlin’ Wolf; JD McPherson

…..43

ClassicHighway Best of, ristampe, classici

Elvis Presley “Elvis is back!” The Long Ryders “Native Sons”

…..46

BooksHighway Le proposte sullo scaffale

Tim O’Brien “Mettimi in un sacco e spediscimi a casa” Bernard Malamoud “Il barile magico” Thomas Pynchon “Vizio di forma”

…..49

Americana Basic Tracks Archivi: ascolti essenziali

Gillian Welch “Time (The Revelator)/ Soul Journey”

…..51

Bruce Cockburn “Un diario di canzoni” …..7

Page 3: RootsHighway Mixed Bag #10

3

RootsHighway Mixed Bag #10

Okkervil River Okkervil River Cover story, settembre 2011 Cover story, settembre 2011 Will Sheff e la ricerca di Vera VasilevnaWill Sheff e la ricerca di Vera Vasilevna

A cura di Nicola Gervasini

“Quando il sole si muove nel se-gno dello scorpione, il clima diven-ta ventoso, scuro e piovoso”.

Ecco come inizia un bel racconto, con una frase apparentemente nata dal nulla, gettata in pasto al lettore proprio quando lui non sta-va minimente pensando al tempo. Ma Will Sheff amava questi parti-colari, erano la sua ossessione al college ogni volta che provava a filmare quelli che nei suoi sogni sarebbero diventati i primi corto-metraggi di un grande regista. E quei racconti di una misconosciuta autrice russa sembravano ideali per trarre la sceneggiatura di un esordio d’effetto, di quelli che ti fanno sembrare un uomo di gran-de cultura, perché esibire nomi sconosciuti da sempre l’impressio-ne di conoscere a fondo un argo-mento. Eppure ogni volta che pro-vava a riscrivere la storia e a pen-sare al film, qualcosa non andava, l’ispirazione giusta non arrivava mai. Finché poi capì qual’era il problema: la parole di quel rac-conto di Tatyana Tolstaya non gli evocavano immagini, ma suoni. Erano i suoni che sentiva il prota-gonista Simeonov, un solitario tra-duttore di brutti libri che non vole-va cedere a sposare la normale e rassicurante Tamara solo per se-guire il sogno di conoscere Vera Vasilevna, una diva della musica decaduta e ormai scomparsa dalle scene. Will cercava d’immaginarsi il film, ma alla fine era come se continuasse a sentire anche lui quel “vecchio e pesante disco di antracite colorata, non deturpato dai monotoni cerchi concentrici, con una canzone d’amore per la-to.” Non aveva ancora in mente di fare veramente il musicista quan-do incontrò Seth Warren e Za-chary Thomas, compagni di un college dello New Hampshire, ma soprattutto sezione ritmica im-provvisata per le prime uscite in pubblico. Era la fine del 1998, Will aveva 22 anni e ancora troppe letture sulle spalle per avere le idee chiare su dove andare a para-

re nella vita. Quando nel gennaio del 1999 i tre fecero il loro primo con-certo, Will si ricordò di quel racconto, e si ricor-dò di come si era imme-desimato in Simeonov, che paragonava la diva dei propri sogni ad un fiume che un tempo fu bellissimo, ma che ora era deturpato da fabbri-che e nuovi quartieri re-sidenziali. L’Okkervil River però, nell’omoni-mo brano della Tolstaya, tagliava ancora la parte est di Leningrado con spavalda fierezza, con le barche che lo intarsiava-no esattamente come la puntina del giradischi fendeva i solchi del 33 giri. Nacque così il nome della band, un’immagine perfetta per quel folk strano che veniva fuori dalla chitarra di Will. Che musica facevano gli Okkervil River? Nes-suno al college era in grado di de-finirlo, pare che Will si fosse im-provvisamente “intrippato” con i dischi della Incredible String Band, ensamble degli anni 60 che il folk lo aveva preso come pretesto per una musica stramba e irripetibile, psichedelia che si era spinta fino a confini indefinibili, rimasti inesplo-rati per almeno tre decenni in cui il rock era andato altrove. Ma qualcosa in quella fine degli anni 90 stava cambiando, nelle vene del mercato discografico indipen-dente scorreva una nuova linfa che nutriva il rock con un folk scarno e minimale, un nuovo cor-so animato da nomi come Will Ol-dahm, Smog, Sparklehorse. Uno stile che anche le riviste di musica sparse nella sua stanza stentava-no a definire, pure quando nel 19-98 avevano decantato le lodi di un disco come In The Aeroplane O-ver The Sea di quello strano grup-po chiamato Neutral Milk Hotel. Un disco che Sheff aveva ascoltato fino alla nausea, innamorato di quel sound primordiale, non più

legato a canoni classici, ma libero di spaziare, di deviare, di stonare an-che. Già, perché Will era sempre stato un po’ stonato, uno di quelli che quando si canta in compagnia cerca di raggiungere note a lui non consentite gracchiando e deraglian-do rovinosamente. Quando gli Ok-kervil River si esibirono per la prima volta allo Steamboat, si presentaro-no già con un cd masterizzato inti-tolato The Bedroom EP, roba grezza creata davvero nel suo dor-mitorio da studente, quanto basta per dare una prima idea della band. Vale a dire nessuna idea precisa. “In giorni come questi, quando la pioggia, l’oscurità e il vento che batte sulle finestre riflettono la so-lenne faccia della solitudine…” All’inizio dell’estate del 1999 Will Sheff è nel pieno della depressione, I suoi propositi da regista non tro-vano sviluppi, e il progetto Okkervil River non sembra aver suscitato l’interesse sperato. Si era di nuovo chiuso nella sua stanza per scriver nuove canzoni, esattamente come Simeonov nel racconto della Tolsta-ya si isolava in camera per sognare, ascoltando il disco della sua diva perduta. Ma nulla più usciva dalla sua chitarra, solo un’ossessiva vo-glia di riascoltare quanto aveva

Page 4: RootsHighway Mixed Bag #10

4

RootsHighway Mixed Bag #10

registrato con i suoi amici l’anno prima in soli tre giorni. Ma esatta-mente come Simeonov non si era dato per vinto e si era veramente messo a cercare la sua Vera per le vie di Leningrado, così Sheff da quella stanza uscì con due decisio-ni: la prima era quella che nella vita avrebbe semplicemente volu-to fare il fallito, la seconda che avrebbe pubblicato quei nastri di registrazioni casalinghe. Vera d’al-tronde viveva da qualche parte in Leningrado, dimenticata da tutti meno che da quei pochi ossessivi fans che collezionavano i suoi di-schi come cimeli. E così vivevano quelle canzoni, nel suo cassetto, visitate ossessivamente solo dal loro creatore, nonché unico fan. Stars Too Small to Use è nato così, 31 minuti di musica registra-ta in presa diretta, negli anni 60 un minutaggio normale per un disco, nei 90, dopo la sbornia dei cd a lunga durata e la moda di fare album di 70 minuti, il disco venne catalogato come EP. Ancora oggi le canzoni di quell’esordio sono oggetto di di-scussione tra i fans, ma che la poetica di Sheff non sarebbe an-data per sentieri convenzionali lo si capiva subito dal personaggio descritto in Auntie Alice, una zia che potrebbe anche essere un si-mulacro sessuale da commedia sexy, di quelle che ti svegliano in mezzo la notte per offrire dolce cioccolato proprio quando gli or-moni richiedono vittime, ma anche un personaggio oscuro e quasi tetro, che alleva ragni e ulula nei boschi con la sua bocca sdentata. In ogni caso nel disco si racconta-no omicidi passionali (Kathy Kel-ler), storie di pura alienazione so-ciale (Oh Precious), segni di una contorta religiosità sospesa tra redenzione e rifiuto di un Dio e semplice ansia per la vita (For The Captain o The Velocity of Saul at the Time of His Conversion), oscu-ri presagi (He Passes Number Thirty-Trhee) e la normale paura del futuro di chi della strada che percorre vede solo l’inizio (Whole Wide World). Tutte storie lontane dal binomio donne spezzacuori/ubriacature moleste di eroi di fron-tiera che popolava il 90% delle canzoni partorite dall’industria di-scografica di Austin. “…un muto, soffocante e puzzolen-te fumo, o qualcosa’altro di dispe-rato, provinciale e banale.”

Alla fine di uno dei soliti concerti in cui si aveva diffi-coltà anche a far pronuncia-re corretta-mente il nome della band dai presentatori (Okkerut Ri-ver, Occerville River, venne fuori di tutto), Sheff venne avvicinato da un giovane che gli disse “siete la cosa peggiore che io abbia mai sentito…ma so per certo che lo avete fatto apposta”. Jonathan Meiburg entrò nel gruppo così, grazie ad un insulto. In dote portava una perizia tecnica superiore, nata in ore e ore di stu-dio ossessivo degli assoli di David Gilmour, ma anche la capacità di suonare più strumenti a corde, tastiere, percussioni…sembrava davvero che quel ragazzo potesse governare qualsiasi oggetto in grado di emettere suoni. Poi arrivò un articoletto sull’Austin Chronicle, uno di quei trafiletti bonari e com-piacenti verso qualche giovane band, ma abbastanza preciso da captare l’attenzione di Brian Be-attie, musicista che Will Sheff co-nosceva bene perché aveva regi-strato con Daniel Johnston, paladi-no di quella Austin più oscura che ovviamente lui aveva preso a mo-dello. E’ nel garage di Beattie che è nato nel corso del 2000 Don’t Fall in Love with Everyone You

See, esattamente quell’opera che nei sogni di Sheff gli avrebbe a-perto le porte della riconoscenza del mondo musicale e soprattutto reso giustizia alla sua arte, esatta-mente come Simeonov voleva ren-der giustizia alla dimenticata Vera. Ma qualcosa andò storto, Jeff inviò i nastri a tutte le case discografiche della zona, ma dopo un anno l’unica risposta semi-positiva l’aveva data la Jagjagu-war, interessata al prodotto ma con poche possibilità di pubblicarlo a breve. E così quelle nove canzo-ni restavano lì, nel cassetto, a sentirsi da sole e ad invecchiare come Vera. Ma Sheff credeva in quelle registrazioni, le aveva stu-diate e ristudiate, aveva deciso che Red (un triste valzer che narra di una madre che vede nei facili

costumi e nella vita dissoluta della figlia i segni del proprio fallimento di genitore) avrebbe aperto le dan-ze del disco, che il viaggio a ritmo di slow-country in cerca di cocaina e perdizione della coppia di Kansas City avrebbe continuato il tragico racconto, e che la sofferta Lady Li-berty, ambigua tra il suo essere una canzone di amore irrisolto o una metafora politica, avrebbe im-pedito all’ascoltatore di rilassarsi veramente. Perché poi sarebbe arri-vata My Bad Days, una mazzata emozionale, un rito funebre delle proprie paure, lenta, triste, quasi insostenibile nell’interpretazione rotta e piagnucolante della voce, e poi ancora Westfall, tesa murder-song vicina al country di Austin, dove l’amicizia di due ragazzi sem-bra essere l’unico movente possibile per il fatto che abbiano ucciso le ragazze appena rimorchiate, visto che quando i poliziotti guardano negli occhi uno dei protagonisti per cercarvi il male, scoprono quanto esso sia irriconoscibile e fortemente somigliante al nulla. Will aveva frenesia di far conoscere al mondo il suo lavoro a due voci con il mito Daniel Johnston (Happy Hearts), la corsa dei man-dolini di Dead Dog Song, e si rifiu-tava di lasciare nell’oblio una can-zone come Listening to Otis Red-ding at Home During Christmas, dove al verso “casa è dove i letti sono fatti e il burro è spalmato sul toast”, fa eco un Will che ribadisce che no, casa è dove nello stereo risuona I’ve Got Dreams To Re-member di Otis Redding. Il finale del disco era invece affidato ad Ok-kervil River Song, non la storia del racconto della Tolstaya, ma un tri-ste ricordo di bei momenti passati sul fiume con una donna che

Page 5: RootsHighway Mixed Bag #10

5

RootsHighway Mixed Bag #10

al risveglio non c’è già più. Troppa tristezza forse? Eppure in quegli anni la musica non esprimeva cer-to gioia neppure alla radio, il grup-po più acclamato della fine degli anni 90 erano stati i Radiohead, che avevano insegnato al mondo a sondare le tragedie personali sen-za alcuna remora stilistica, e le cose più rassicuranti che uscivano dal mondo del nuovo folk erano i gruppi soft-core come Belle & Se-bastian o Arab Straps, musica molto melodica che faceva della malinconia il proprio dardo infuo-cato. Ma quel mezzo folk mezzo country mezzo non-so-chè degli Okkervil River non aveva senso per nessuno, e quando nel set-tembre del 2001 Will vide le torri di Ground Zero cadere in una massa di fumo e fuoco, la sensa-zione che la tragica realtà non po-tesse più essere sublimata da nes-suna arte lo mandò in depressione totale. Nel gennaio del 2002 final-mente la Jagjaguwar trovò spazio per il disco nel suo catalogo, senza dannarsi troppo nella promozione. Don’t Fall in Love with

Everyone You See vendette poco in proporzione alle positive recen-sioni che ricevette, per cui via a squallidi tour con notti passate per terra e tanti concerti senza paga se non la birra e la bistecca di so-pravvivenza. Una vita che Seth Warren decise di abbandonare, mentre Sheff e Mellburg passava-no le ore a scrivere canzoni e a scambiarsi idee artistiche, un’inte-sa che aveva bisogno di uno sfogo personale per Jonathan, che chie-se all’amico di fondare un progetto parallelo che battezzarono in quel-l’estate del 2001 con il nome di un

uccello marino, Shearwater. Suonò alla porta di Vera. “Pazzo” gli disse il suo diavolet-to sulla sinistra. La Jagjaguwar fu comunque soddi-sfatta dei risultati e per il secondo capi-tolo spedì la band a San Francisco a cer-care ispirazione e suoni giusti. Sheff si sentiva ora davvero come Simeo-nov, che incurante dei pericoli che la coscienza gli evidenziava, si reca a casa di Vera per vedere se davvero il suo mito era così malri-dotto, immaginandola romantica-mente abbandonata nella propria arte, accantonata dall’ignoranza comune, incapace di leggere nei solchi dei suoi vinili la sublimazio-ne massima del suono dell’amore. Il risultato delle sessions, registrate con la nuova formazione a quattro comprendente Meiburg, fu il disco Down The River Of The Golden Dreams, album in-dolente e melmoso come le acque dell’Okkervil River descritte dalla Tolstaya. Il titolo divenne fin da subito un nuovo caposaldo dell’in-die-rock, definizione che nel 2003 aveva ormai assunto una consoli-data connotazione. Il disco era perfettamente dosato tra il suo essere sofferto fin dalla micidiale accoppiata iniziale It Ends With A Fall e For The Enemy, ma musical-mente presentava un inedito “wall of sound” che aveva perso tutto il folk minimale degli esordi in favo-

re delle maestose a-perture strumentali di Blanket And Crib, fatte di organi hammond, fiati, archi. Mancavano giusto i cori femminili perché si potesse tran-quillamente parlare di una nuova via lo-fi del Phil Spector-pensiero. Anche la scrittura di Sheff era cresciuta vertiginosamente, ca-pace di toccare vette letterarie come The War Criminal Rises And Speaks, sorta d’imparziale processo ad un carnefice, visto sia con gli occhi di chi racconta che del crimi-nale stesso, che invita

a considerare la sua situazione u-mana prima di giudicare. In ogni caso tutto suona maturo, anche la nuova versione di The Velocity Of Saul At The Time Of His Conver-sion, non più sofferta e urlata come sul disco d’esordio, ma tranquilla e ragionata, oltre che impercettibil-mente più arrangiata. Nonostante il grande dispiego di session men e strumenti, non c’era comunque nessuna concessione alla spettaco-larità, brani come Dead Faces o Maines Island Lovers richiedevano un ascolto attento sia alle liriche sempre piene di trabocchetti e sensi nascosti, sia alle contorte trame sonore, raramente orecchiabili fin da subito (solo Song About A Star ricorreva ad un ritornello realmente riconoscibile al primo ascolto). Un disco inviluppato nel suo esistenzia-lismo (Yellow), ma meravigliosa-mente dosato in ogni sua compo-nente, anche quelle inevitabilmente più melodrammatiche e auto-compiacenti (Seas Too Far To Re-ach). “O beata solitudine! La solitudine mangia direttamente dalla padella, trafigge una fredda polpetta di car-ne direttamente da un sudicio mez-zo vasetto, fa il tè direttamente nella tazza, insomma…Pace e Liber-tà!” Ormai riconosciuti dalla critica e già eletti a gruppo cult dalle nuove ge-nerazioni, gli Okkervil River nel 2005 licenziano la loro opera più ambiziosa, Black Sheep Boy. Libe-ro di muoversi artisticamente, Sheff allarga la formazione a sei elemen-ti, e utilizza un personaggio uscito dalla penna del cult-songwriter Tim Hardin per dar vita ad una sorta di concept che unisce tante storie di-verse, dove è sempre comunque centrale la figura di una “pecora nera”, ragazzi frustrati (For Real), depressi (In a A Radio Song)

Page 6: RootsHighway Mixed Bag #10

6

RootsHighway Mixed Bag #10

o anche abusati (Black). Mai come in questo disco il mondo di Sheff si popola di freaks che non sono solo quelli della tetra copertina di Wil-liam Schaff, ma anche personaggi che manifestano sempre un’im-possibilità di amare che spesso è forzata da una realtà che non li accetta, come nel brano A Stone (ma il finale rivelatorio della storia sarà nel brano Song Of Our So-Called Friend), dove anche il clas-sico triangolo da tragedia lui-ama-lei-ma-lei-ama-un-altro si trasfor-ma in una grottesca storia degna di un film di Tim Burton, dove lei, piuttosto che amare lui, ama un altro ormai morto e ridotto a pie-tra tombale. Forte poi anche di un EP chiamato Appendix che nelle successive riedizioni renderà l’ope-ra doppia e forse fin troppo monu-mentale, Black Sheep Boy musi-calmente riusciva a tenere un per-fetto equilibro tra le sue atmosfere dark e deprimenti e la grandeur di strumenti e muri del suono, quasi che Sheff abbia realizzato con suc-cesso e con 28 anni di ritardo quanto Leonard Cohen e Phil Spector avevano rovinosamente tentato di fare con l’album Death Of A Ladies Man. Le reazioni della critica furono entusiaste, anche se il disco si rivelò ostico e contribuì a dare alla band la fama di indie-band per intenditori di nicchia. “Vera Vasilevna è morta, morta da tanto tempo, uccisa, smembrata e mangiata da questa vecchia signo-ra” Simeonov alla fine del racconto scopre che il suo mito Vera è di-ventata una patetica signora, an-cora circondata da adulatori e uo-mini piccoli che le ricordano quoti-dianamente la propria antica gran-dezza. Una scena squallida che fa capire la differenza tra mito e real-tà, il tradimento finale della star rispetto al fan che viveva “nella” e “per la” sua immagine. Sembrò quasi logico dun-que il “tradimento” operato con il successivo The Stage Names, senza dubbio il disco più accessibi-le e public-friendly della band, concepito da Sheff proprio per es-sere un altro lungo concept sul quanto l’arte abbia saputo produr-re allo stesso tempo opere duratu-re o immense patacche, e dunque su quanto i “nomi d’arte” del titolo non mettano al riparo le star dalle miserie della vita (Our Life Is Not A Movie Or Maybe è il significativo

titolo che apre l’album). La giran-dola di stili che anima l’album è stordente, dalla lunga Girl In Port che strizza l’occhio a Van Morrison ad una A Hand To Take Hold of The Scene che mette in vetrina addirit-tura riff da rock-band, e altrove ancora influenze soul che comincia-no ad allontanare la band del freak-folk a cui venivano general-mente associati. Tantissimi i riferi-menti ad opere musicali: John Allyn Smith Sails richiama nel fi-nale Sloop John B dei Beach Boys, il titolo del brano You Can’t Hold the Hand of A Rock And Roll Man ruba un verso di Blonde in the Ble-achers di Joni Mitchell, Plus Ones è una sorta di gioco a comporre un testo con titoli di altre canzoni ag-giungendoci un uno ad ogni nume-razione (ad esempio: TVC15 di Bowie diventa TVC16, le 96 Tears dei ? & The Mysterians qui sono 97, ecc..) Ma anche reminiscenze letterarie (Title Track è ispirata dal libro scandalo Hollywood Babylon di Kenneth Anger), cinematografi-che (Savannah Smiles è la storia della nota pornostar Savannah, A Hand to Take Hold of the Scene descrive le loro esperienze nel mondo delle serie TV) e tanto altro che ogni fan possa sbizzarrirsi a svelare. Una girandola di riferimen-ti volutamente volta a non divide-re bello da brutto, arte da spazza-tura, che trova la sua sublimazio-ne anche nell’appendice al disco, che stavolta non esce come com-pendio, ma sottoforma di vero e proprio album a sè stante con il titolo di The Stand-ins (ma con disegno di copertina che completa quella di The Stage Names, a te-stimonianza della stretta parente-la), con altre riflessioni sulla vita da artista e rock-band (Singer Songwriter, On Tour With Zykos e una Lost Coastlines che chiama a duettare l’amico - e ormai sempre più dedicato al progetto Shearwa-ter - Jonathan Meiburg su un testo che parla proprio delle difficoltà di rimanere nella stessa band con i tanti impegni diversi presi), finali di storie precedentemente iniziate (Starry Stairs racconta del suicidio della stessa Savannah di Savan-

nah Smiles) e storie di rockstar mancate e dimenticate (Bruce Wa-yne Campbell Interviewed on the Roof of the Chelsea Hotel, 1979, sullo sfortunato glam-rocker Jo-briath). La critica sui due dischi co-mincia a dividersi, ma vendite e popolarità garantiscono finalmente a Sheff e soci un futuro più sicuro. “Ancora uno!” Le storie di Simeonov e Sheff hanno un finale diverso: il primo alla fine smette di vivere di sogni esatta-mente come il secondo, il quale ha avuto però migliore fortuna, ha tro-vato la sua Vera nella figura di Rory Erickson, anche lui rockstar decaduta, ma con ancora dentro tanta musica da comunicare e quel-la grandiosità artistica che Simeo-nov sperava di trovare nella sua diva. Erickson invece, grazie a Sheff e agli Okkervil River, pubblica il disco migliore della sua carriera (True Love Cast Out All Evil) e dimostra che forse è proprio la luci-da follia del vecchio leader dei 13th Floor Elevators l’unico vero tratto distintivo dell’artista in grado di preservarlo dalle miserie quotidiane tipiche dell’uomo comune. Per Sheff è dunque stato tempo di una lunga pausa, per ripartire con una nuova maturità, una verginità persa, e un disco adulto e concreto come I Am Very Far (vedi spazio recensioni, ndr), che è l’inizio di una storia nuova e completamente diversa da quella nata in quel college dello New Hampshire. Una storia in cui i sogni infranti di Simeonov non sono più previsti.

I brani in corsivo sono tratti dal rac-conto “Okkervil River” di Tatyana Tolstaya, dal libro “White Walls”, Ed. Nyrb (mai tradotto in Italia).

Page 7: RootsHighway Mixed Bag #10

7

RootsHighway Mixed Bag #10

Bruce CockburnBruce Cockburn Un diario di canzoniUn diario di canzoni

a cura di Donata Ricci

Il viaggio per molti è legato a dop-pio filo alla fotografia. Anche Bru-ce Cockburn, canadese classe 1945, possiede l’attitudine del reporter, ma ha scelto la musica come medium documentativo. Va in Afghanistan e ci scrive una can-zone, trascorre qualche mese tra i campesinos del Chiapas e mette sul pentagramma i loro tormenti. A piè di testo annota, con precisio-ne svizzera, luogo e periodo di composizione. Credo gli interessi tenere un diario, una sorta di mi-nutario dai parametri temporali dilatati, ma pur sempre dotato della meticolosità annotativa che, personalmente, mi ricorda lo scrit-tore Carlo Coccioli, per chi avesse letto Piccolo Karma, altrimenti consigliato. A questo progetto di tracciabilità dei flussi emozionali mi conformerò per un tentativo di ritratto sui generis di Bruce Co-ckburn, l’occasione fornita da un nuovo disco e da un tour ancora in corso. Niente ortodossia agiografi-ca perciò e per le note biografiche basta il web. Qui vorrei che a rac-contarne la storia fossero le sue stesse composizioni, buttate così in ordine sparso con la manciata del seminatore, seguendo soltanto l’impercettibile fil rouge dei ricordi, inevitabilmente di chi scrive. E-ventuali svarioni nelle traduzioni artigianali dei testi si appellano alla clemenza del lettore. La pas-sione c’è, Bruce mette tutto il re-sto. IF I HAD A ROCKET LAUNCHER, Se avessi un lanciarazzi (da Stea-ling Fire – 1984).

Ecco che arriva l’elicottero, la se-

conda volta oggi. Quanti bambini

ha ucciso solo Dio può dirlo. Se

avessi un lanciarazzi qualche figlio

di puttana morirebbe.

Il videoclip dell’epoca è una specie di Latinoamericana con una toc-cante galleria di ritratti, che po-trebbe aver ispirato Salles per I

diari della motocicletta. Nell’83 Cockburn vagava tra Guatemala e Messico, dove la situazione sociale e la feroce repressione militare gli imposero questa invettiva. If I had

a rocket launcher è il manifesto di chi non crede ai guarded borders, i confini sorvegliati che erigono mu-ri tra gli imperi economici e la di-sperazione. LORD OF THE STARFIELDS, Si-

gnore degli starfields (da In The Falling Dark – 1976)

Signore degli starfields, antico di

giorni, creatore dell’universo, ecco

una canzone in tua lode.

Cockburn è di fede cristiana e, a parte questo, l’afflato religioso è una componente sostanziale della sua sensibilità. Questa preghiera figura tra le sue composizioni più apprezzate. L’autore è ancora gio-vane - una folta barba incornicia le

lenti da secchione - ma presenta già le credenziali del raffinato com-positore, chitarrista virtuoso, canto-re dell’essenziale. La foto di coperti-na rispecchia questa essenzialità mostrando un outdoor sottoesposto che è più da intuire che da consta-tare. Assodato che “una fotografia è

un segreto su un segreto, quanto

più dice tanto meno sai” (Diane Arbus), questa cover minimale la-scia passare parecchio dello stato d’animo crepuscolare dell’artista.

ISN’T THAT WHAT FRIENDS ARE FOR?, Non è a questo che servono

gli amici? (da Breakfast in New Or-leans Dinner in Timbuktu – 1999)

Il mondo è colmo di stagioni, di an-

goscia, di risa e mi viene l’idea di

scriverti queste parole: non c’è

niente di sicuro, non c’è niente di

puro e non importa chi pensiamo di

essere, ognuno ha una possibilità

per essere nessuno. L’amore, si

pensa, è in grado di guarire, ma mi

si spezza il cuore quando sento il

dolore nella tua voce. Ma, tu lo sai,

tutto scorre e frantumerei il mio

cuore e lo getterei in strada se non

Foto: Donata Ricci

Page 8: RootsHighway Mixed Bag #10

8

RootsHighway Mixed Bag #10

potessi pagare per la tua scelta.

Non è a questo che servono gli

amici?

Novello Cicerone, Cockburn verga il suo personale De amicitia. Fate leggere questa lirica ad un amico, ve ne sarà grato. Lucinda Williams sta alle harmony, per leccare le ferite.

DUST AND DIESEL, Polvere e die-

sel (da Stealing Fire – 1984)

Polvere e diesel si innalzano come

incenso dalla strada. Fumo da of-

frire per il mattino della rivoluzio-

ne.

Il titolo profuma esattamente di ciò che è giusto aspettarsi da un viaggio. L’enfasi di alcune espres-sioni è giustificata dall’intensa e-sperienza vissuta in Nicaragua nell’83.

NICARAGUA, Nicaragua (da Stea-ling Fire – 1984)

Il ragazzo che custodisce la tomba

di Fonseca culla un mitragliatore

beat-up. A quindici anni è un vete-

rano con quattro anni di guerra,

orgoglioso di pagare i suoi debiti…

Nel flash di questo momento sei il

meglio di ciò che siamo, non la-

sciare che ti fermino ora, Nicara-

gua.

Ed ecco il Nicaragua che si presen-ta. Questo pezzo, scritto diretta-mente a Managua, sembra un sintetico romanzo di formazione politica. Avversione alla guerra e insofferenza verso l’ingiustizia so-ciale sono ormai definitivamente introiettate.

WONDERING WHERE THE LIONS ARE, Chiedendomi dove sono i

leoni (da Dancing in the Dragon’s Jaw – 1979)

Ho fatto un altro sogno con dei

leoni alla porta, non erano nean-

che la metà di quanto fossero spa-

ventosi prima; ma sto pensando

all’eternità, una sorta di estasi mi

sta prendendo.

Non è un brano imprescindibile, come sostengono alcuni biografi. Ma quando venne distribuito, le

classifiche USA si accorsero che esisteva un certo Bruce Cockburn from Canada e così favorì la conquista del mercato statunitense, insieme a un tour a fian-co di Warren Zevon.

USE ME WHILE YOU CAN, Usami finchè puoi

(da Breakfast in New Orleans Dinner in Tim-buktu – 1999)

Ho fatto colazione a New

Orleans, cena a Timbu-

ktu. Ho vissuto come un

estraneo persino a casa

mia.

Che adoperi una kora, una resonator o una 12

string guitar, Cockburn utilizza spesso intro strumentali dilatate, prodromiche alla sortita della voce. Questo brano esempli-fica il suo processo compositivo a progressione emozionale: introdu-zione strumentale, voce recitante, canto. Come plus troviamo ancora le harmony di Lucinda Williams. Sette minuti di lucido delirio tra acacie frustrate dal vento, cavalie-ri armati di spada, sfere di acciaio incandescente. Si fa colazione a New Orleans e si cena a Timbuktu (grande titolo) in una vertigine planetaria dove il globo è un flip-per e l’autore la biglia che rimbal-za.

YOU’VE NEVER SEEN EVERY-THING, Non hai mai visto tutto (da You’ve Never Seen Everything – 2003)

Mi siedo qui, fissando la mia om-

bra, avvertendo il mio sangue che

si muove, sforzandomi di non bere

un drink, cercando un posto dove

mettere la rabbia che sto portan-

do.

Un’altra composizione all’insegna del panico cosmico. Nove minuti di recitazione sofferta, aggrappata a una quinta di suoni disarmonici e arrangiamenti allucinati. La tensio-ne si allenta qua e là grazie ad un refrain che ritrova il canto. Stavol-

ta collabora Emmylou Harris e viene da pensare che Bruce attribuisca alla voce femminile proprietà ansio-litiche. Il testo meriterebbe una lettura integrale, perlomeno da par-te di chi ha amato le visioni apoca-littiche di Howl. Per ora basti quan-to segue: siamo irradiati da segnali e virus, angeli in esilio sopra una città notturna, mentre dall’altra parte del globo un’adolescente si appicca fuoco; se non bastasse, un fornaio indiano decide una selezio-ne giustizialista mischiando farina e pesticidi. E’ il sonno dei giusti, di-chiara Cockburn, il sonno della ra-gione (“Ogni sorta di dannato son-

no, please!”). La verità è che non hai mai visto tutto perchè c’è sem-pre altro tormento da scoprire. E insomma, se qualcuno deve farlo, , Bruce non si tira indietro e raccoglie su di sè il dolore del mondo intero.

TOKYO, Tokyo (da Humans–1980)

Oh Tokyo, non posso dormire fra le

tue braccia. La mente continua a

suonare come un allarme antincen-

dio. Io e tutti gli altri dadi rimbal-

ziamo nella tazza.

Composta, neanche a dirlo, a Tokyo nel lontano 1980. Il nostro non ne può più della megalopoli e lo dichia-ra a chiare lettere. L’intonazione del verso “slow motions car falls”

Foto: Donata Ricci

Page 9: RootsHighway Mixed Bag #10

9

RootsHighway Mixed Bag #10

schiuma rabbia. Ma è una bella canzone, il basso pulsante che introduce lo splendido ritornello è in sincrono con il battito dell’ascol-tatore. Ebbene sì, questo brano è uno dei miei preferiti di sempre, con buona pace di chi derubrica Humans a lavoro di serie B. Se-condo me invece è un gran bel disco, vulnerabile soltanto nella sua resa estetica. Anch’io avrei fatto a meno di synth e arrangia-menti pop, ma resta un concentra-to di gemme. Ancora non mi spie-go perché mi sia accontentata di ascoltarlo per anni su una C 60 smagnetizzata.

THE ROSE ABOVE THE SKY, La

rosa sopra il cielo (da Humans – 1980)

Vedo la rosa sopra il cielo che si

apre e la luce dietro il sole prende

tutti.

Un’altra perla da Humans, una ballata di inaudita dolcezza, con un crescendo provvidenzialmente ripetitivo da cui non ci si stacche-rebbe mai. Per una misteriosa al-chimia, un passaggio in particolare mi mette i brividi ad ogni ascolto: “And the light behind the sun”. Sei parole e un’acca aspirata. Da inda-gare.

GAVIN’S WOODPILE, La catasta di

legna di Gavin (da In the Falling Dark – 1976)

La nebbia sale quando il sole va

giù e la luce che resta forma una

sorta di corona. La terra è il pane,

il sole è il vino. E’ un segno di spe-

ranza che è nostro per sempre.

Una strategia di avvicinamento a Cockburn per chi non lo conosces-se potrebbe partire dall’ascolto di questo Gavin’s woodpile, poiché, pur appartenendo alla sua fase produttiva iniziale, contiene già tutti gli elementi indispensabili del suo metodo compositivo: tecnica asciutta ma già superba, accorda-ture da vertigine, voce dolente ma non stucchevole. Una mini-suite di otto minuti per voce e chitarra. Anche le liriche sono già tipiche della sensibilità di Cockburn. Ri-flessioni amare, ma non estranee alla speranza.

A MONTREAL SONG, Una canzone

di Montreal (da Further Adventu-res – 1978)

Ho acceso la TV, notizie di guer-

ra… così sono andato giù al bar…

per strada ho incontrato dei ricchi,

ho suonato il jukebox, ho scritto

questa canzone.

E poi ci sono i bozzetti sulle sensa-zioni che si provano in momenti marginali, sulla minutaglia quoti-diana cucita però con fili d’oro. Ne escono cose meravigliose, come questa timida canzone. Un pensie-ro improvviso, un lampo di com-prensione e sei al centro delle co-se. Abbastanza per scriverci un pezzo di questa portata. Rara ca-pacità di rendere coerente la com-presenza di un grande tema collet-tivo (“ho acceso la TV, notizie di

guerra”) e l’introspezione indivi-

duale (“ho suonato il jukebox, ho

scritto questa canzone”).

LAST NIGHT OF THE WORLD, L’ul-

tima notte del mondo (da Breakfast in New Orleans Dinner in Timbuktu -1999)

Se fosse l’ultima notte del mondo

cosa potrei fare? Cosa potrei fare se

non bere champagne con te?

Cos’altro?

CHILD OF THE WIND, Figlio del

vento (da Nothing but a Burning Light – 1991)

Sarò un figlio del vento, fino alla

fine dei miei giorni.

Tucson, Arizona. Vigilia di natale. Pensieri leopardi-style, pessimismo cosmico. Cosa significa essere un piccolo uomo poggiato su un piccolo pianeta, perso in un universo infini-to?

PACING THE CAGE (da The Charity of Night – 1997)

A volte anche la miglior mappa non

riesce a guidarti, non puoi vedere

cosa c’è dietro la curva. A volte la

strada conduce attraverso luoghi

oscuri, a volte l’oscurità ti è amica.

Arduo dire se sia migliore la versio-ne dell’autore o la cover di Jimmy Buffett. Di certo questa canzone, dolce come una carezza, si è con-quistata un posto fisso nei concerti di Bruce.

POSTCARDS FROM CAMBODIA, Cartoline dalla Cambogia (da You’-ve Never Seen Everything – 2003)

Le piogge sono in ritardo quest’an-

no, il cielo non ha più lacrime da

versare. Ma attraverso l’aria la

Cambogia rimane un disco di umido

verde, delimitato dalla foschia lumi-

nosa.

Scritte tra Cambogia e Canada, queste cartoline postali ci restitui-scono il reporter-poeta che aveva-mo conosciuto vent’anni prima.

ACTIONS SPEAK LOUDER, Le azioni

parlano forte (da Nothing but a Burning lLght – 1991)

Page 10: RootsHighway Mixed Bag #10

10

RootsHighway Mixed Bag #10

Raramente gli strumentali di Co-ckburn risultano didascalici e an-che questo, che ha fatto da sup-porto sonoro al documentario The

Greenpeace Years, non fa eccezio-ne. Le azioni parlano forte è un titolo eloquente. La sezione ritmi-ca implacabile lo asseconda.

LONER, Solitario (da Inner City Front – 1981)

Sono un solitario, con un solitario

punto di vista.

Da un album che non è un gran-chè, Loner conserva la caratura del canadese. Che resta un solita-rio, come dice, oltre al titolo del pezzo, la foto di copertina: Bruce siede al bar, sigaretta penzoloni, sul tavolino una birra e un quoti-diano, attorno le tante solitudini di militari in licenza. La stessa soli-tudine che trova giù alla stazione degli autobus, tra angeli radianti, predatori in movimento nelle loro notti di novocaina, ascensori vuoti che si spalancano invano su stan-ze vuote.

FREE TO BE, Liberi di essere (da Circles in the Stream - 1977)

Non ho ottenuto grazie sociali, non

conosco il mio posto. Di una cosa

sono sicuro: non si può giudicare

un uomo dalla sua razza. Nascere

non è facile, la libertà non arriva a

buon mercato. Regole e mondi

vengono spazzati via, mentre per-

di tempo a dormire. Crescete voi,

cresco io, cresciamo insieme, liberi

di essere.

I fruscii di questo doppio vinile mi ricordano che l’ho amato molto. Nell’aprile del ’77, quando fu regi-strato alla Massey Hall di Toronto, qui da noi il movimento studente-sco riprovava a dirottare l’atten-zione dal privato al pubblico. Il nostro Bruce lassù in Canada pro-seguiva la sua ricerca interiore. Ma, pensandoci bene, “Cresciamo

insieme, liberi di essere” sarebbe stato uno slogan perfetto anche per i ragazzi italiani del ’77.

Bruce CockburnBruce Cockburn Small Source of Comfort [True North 2011]

Comincia a tirare aria di casa an-che nei dischi del più indomito viaggiatore della musica folk, una voglia di cercare quella "piccola fonte di comfort" che la vita da reporter mondiale della sei corde forse non gli ha mai riservato. Small Source Of Comfort è di fatto il primo album di Bruce Co-ckburn che non dà più l'idea di movimento perpetuo, di continua ricerca musicale, di eterna odissea nelle piaghe del mondo. L'abitudi-ne di documentare data e luogo di scrittura dei brani continua sempre, ma stavolta il clima generale è quello di un salotto di casa, di un uomo in pantofole, di un sospiro di sollievo serale dopo una giornata intensa. Mancava nella discografia di Cockburn un disco del genere, e forse già questo basta a renderlo ne-cessario, visto che già qualche sperimentazione di You've Never Seen Everything del 2003 scricchiolava e Life Short Call Now del 2006 dava l'impressione che il navigante avesse perso un po' la bussola. Fedele alla tradizione che vuole molte delle copertine dei dischi di Cockburn aberranti per grafica e stile, Small Source Of Comfort è una raccolta di brani molto brevi, non presenta ad esempio quei suoi tipici lunghi reportage parlati alla Postcards From Cambodia, ma cerca la via di melodie semplici e immediate come The Iris Of The World o Call Me Rose (satira politica che s'immagina un Richard Nixon divenuto donna per riabilitarsi), quasi delle pop-songs più in linea con la sua produzione anni 80 che con le sue opere più recenti. E soprattutto è forse il disco dove più che in altre occasioni regna la sua chitarra acu-stica, incontrastata, con rarissimi momenti in cui prende il sopravvento l'elettricità (accade nella bella e bluesata Five Fifty-One). E' anche l'al-bum dove i testi finiscono spesso in secondo piano (Boundless però è notevole in tal senso), dove su 14 brani, ben 5 sono strumentali, e sta-te pur certi che se si dovesse tagliare il repertorio non sarebbero certo quelli a cui rinuncereste, quanto magari a qualche inevitabile episodio minore (la faticosa Each One Lost ad esempio). Il bellissimo arpeggio in fingerpicking di Bohemian 3-step, il divertente balletto con lo splen-dido violino di Jenny Scheinman di Lois On The Autobahn e ancor più della trascinante Comets Of Kandahar, o le atmosfere nordiche di Par-nassius And Fog e Ancestors, sono proprio in questi titoli senza testi il meglio di questo lotto, il segno forse che ormai uno dei nostri cantasto-rie preferiti parla meglio in silenzio e muovendo solo le dita. Non è un disco importante Small Source Of Confort, è sempli-cemente il miglior modo di raccontare la voglia di godersi la propria solitudine, un isolamento che, secondo quanto dichiarato nelle note dell'album, avrebbe dovuto dar luce ad un album elettrico e pieno di rumore alla Le Noise di Neil Young, e che invece si è trasformato in una specie di ritorno al soft-sound dei suoi primissimi album. E forse è an-data meglio così. (Nicola Gervasini)

Page 11: RootsHighway Mixed Bag #10

11

RootsHighway Mixed Bag #10

Levon HelmLevon Helm L’uomo del sud L’uomo del sud

a cura di Marco Poggio

“We wound up in Woodstock, at

a n o l d t i m e j a m b o r e e ,

came to see the man behind the

drums” (The Man Behind the Drums – Robert Earl Keen) Batterista, mandolinista e cantan-te solista in quel gruppo seminale che è stato The Band: già sola-mente questo potrebbe farci capi-re la caratura artistica di Levon Helm. Un’avventura irripetibile, che ha portato alla nascita delle radici di quella che oggi chiamia-mo Americana. Nato ad Elaine in Arkansas, in un ambiente umile ed agreste, profondamente legato alla musica delle radici, Levon ha sempre cercato di raccontare la campagna, nella quale è cresciuto, e le storie, tra fatica e sofferenza, della sua gente. Ha intrapreso una carriera solista, con molte luci e poche ombre, attraverso la quale ha continuato ad esplorare i me-andri più nascosti della tradizione musicale americana, bianca e ne-ra. Levon Helm and RCO Al-lstars (> 8), primo vagito solista, vede la luce nel 1977 ed è l’ideale summa delle sue influenze musi-cali, un robusto rock blues in odo-re di tradizione, nel quale ad as-surgere a vere protagoniste sono la sua batteria e la sua voce. Meri-to anche di una backing band a dir poco stellare, che annovera tra le sue fila tre-quarti degli Mg’s (Booker T Jones all’organo, Steve Cropper alla chitarra e Donald “Duck” Dunn al basso) ai quali si aggiungono Mac Rebennack alias Dr John al piano, Paul Butterfield all’armonica, Fred Carter Jr alla seconda chitarra nonché la sezione fiati del Saturday Night Live. Un album che allinea dieci canzoni pressoché perfette, dal rhythm and blues Washer Woman con i fiati e l’armonica sugli scudi, alle travolgenti The Tie that Binds

e Milk Cow Boogie, dove è il no-stro a destreggiarsi sapientemente dietro ai tamburi. Le deliziose Blues So Bad e Sing Sing Sing hanno invece il pregio di confer-mare una volta di più le sue stra-ordinarie capacità canore. Poco inferiore rispetto al debutto è Le-von Helm (> 7), del 1978, in par-te colpevole di ammiccare in più di un’occasione al rock patinato, co-me nell’opener Ain’t no Way to

Forget You. Manca inoltre il parterre di stelle del precedente, ma il gruppo assemblato per l’oc-casione svolge dignitosamente il proprio compito. La riuscita Dri-

ving at Night e la pianistica Pla-

ying Something Sweet, ricalcano le sonorità del disco precedente, mentre alquanto sottotono risulta-no Standing on a Mountain Top dall’incedere quasi reggae e la sapida I Came Here to Party. Di notevole fattura sono invece Let

do it in Slow Motion e Sweet Jo-

hanna, mentre Take Me to the

River, intrisa di soul fino al midol-lo, da sola varrebbe l’acquisto del-l’album. Edito nel 1980, Ameri-can Son (> 7,5), riesce nell’inten-to di coniugare atmosfere rhythm and blues con elementi derivanti dalla tradizione musicale bianca. Apertura affidata a Watermelon

Time in Georgia, nella quale si respirano arie country folk, con Levon impegnato anche all’armo-nica. Un lavoro che alterna canzo-ni di valore (America’s Farm dal retrogusto southern, Hurricane che richiama le sonorità della Band) riusciti episodi (Blue House

of Broken Hearts e il quasi shuffle Nashville Wimmin) e qualche bra-no interlocutorio (China Girl), per un album che, ancora oggi, risulta comunque fresco e godibile. Lo stesso anno il nostro debutta an-che come attore, nel film “Coal Miner’s Daughter” - ritratto della

vita della country singer Loretta Lynn - ottenendo critiche più che positive. Sarà questo il preludio ad una parallela carriera cinematogra-fica che lo vedrà recitare, anche se in ruoli secondari, in ben 16 film (ultimo dei quali “In the electric mist” del 2008, al fianco di Tommy Lee Jones). Nel 1982 viene dato alle stampe Levon Helm (> 6,5), decisamente meno riuscito rispetto al suo omonimo predecessore. Col-pa soprattutto della pessima produ-zione, opera di Donald “Duck” Dunn, che ne snatura il suono, indi-rizzandolo verso tronfie atmosfere anni Ottanta. Qualche traccia salvabile la si potrebbe anche trovare, ma di brani memorabili non ve ne è trac-cia. Willie and the Hand Jive è pas-sabile ma nulla più, e lo stesso vale per brani come You Can’t Win Them

All o Lucrecia, devastati da assurdi overdubs di chitarra e da una batte-ria filtrata da terrificanti echi e ri-verberi. Unica nota non stonata è la voce di Helm, capace come sempre di lasciare il segno. Un disco che resta comunque il capitolo meno riuscito della discografia del

Page 12: RootsHighway Mixed Bag #10

12

RootsHighway Mixed Bag #10

batterista, e pertanto consigliato solo ai die hard fans. L’anno suc-cessivo la sua carriera da solista viene posta momentaneamente in standby, in favore della reunion della Band. Reunion che tra alter-ne riapparizioni e tre buoni album in studio (Jericho, High on the Hog e Jubilation), si protrarrà fino al 1996. Annus horribilis per Levon Helm è invece il 1998: al nostro viene diagnosticato un tumore alla gola, dal quale riuscirà comunque a guarire completamente, seppur con gravi danni alle corde vocali, che sembrano comprometterne definitivamente la carriera musica-le. Il nuovo millennio riaccende invece la speranza; la sua voce migliora e, pur non ai livelli del passato, torna ad essere forte ed espressiva. È però l’incontro con Larry Campbell, eccelso polistru-mentista, con una lunga militanza nella band di Dylan, a sancire la sua rinascita artistica. Nel 2004 prende il via una lunga serie di concerti che prendo-no il nome di “Midnight Ramble Sessions”, in ricordo degli antichi medicine show itineranti, ai quali partecipano artisti del calibro di Dr John, Black Crowes, Hot Tuna, Phil Lesh e molti altri. Due di queste straordinarie esibizioni verranno edite nel 2005 in due volumi sepa-rati. The Midnight Ramble vol I (> 8), ci mostra il profondo legame tra Levon Helm e la musica nera, e vede la presenza di Little Sammy Davis all’armonica. Una perfomance di rara intensità che annovera classici del blues come

I’m Ready, Blues With a Feeling e Blow Wind Blow, riletti con senti-mento e passione. Blues presente anche in The Midnight Ramble vol II (> 7,5), che amplia lo spet-tro sonoro del precedente inglo-bando robuste dosi di rock’n’roll e spruzzate di musica old time. De-gne di menzione sono le riletture di Battle is Over but the War Goes

On, della dylaniana Don’t Ya Tell

Henry e della bluesata Blue Sha-

dows, nella quale compare Elvis Costello. Altro gradito ospite è il vecchio compagno Dr John, che in Borrowed Time gigioneggia da par suo. Nello stesso periodo, viene pubblicata la registrazione di un vecchio concerto, effettuata pochi mesi dopo il suo debutto solista. Live at the Palladium NYC (> 8,5) ci permette di assaporare la maestria della RCO Allstars Band anche on stage, con i brani del disco in studio che acquistano nuova linfa vitale. Le vere gemme sono però altre, a cominciare da una rilettura al fulmicotone di Goi-

n’ Back to Memphis, con Levon a fare il buono e cattivo tempo die-tro i tamburi. Ampio spazio viene anche lasciato agli altri musicisti, come in Born in Chicago, dove sono la voce e l’armonica di Paul Butterfield a salire in cattedra, o nella strepitosa versione del clas-sico Got my Mojo Working, che Dr John trasforma in una sorta di rito voodoo. Ophelia omaggia il passa-to con la Band, mentre una scop-piettante versione di Goodnight

Irene, di Huddie Ledbetter, chiude in bellezza la serata. Sotto l’egida

di Larry Campbell, esce invece nel 2007, ad oltre venticinque anni di distanza dall’ultimo disco in studio, Dirt farmer (> 9). Un sentito tribu-to acustico alla musica delle radici, che si aggiudica il Grammy Awards come miglior album di folk tradizio-nale. Ad esso fa da contraltare il più muscolare Electric Dirt (> 8) (Grammy Awards come miglior al-bum Americana), nel quale spicca-no una sontuosa rilettura di Ten-

nessee Jed di Jerry Garcia, il sentito omaggio a Muddy Waters con You

Can’t Lose What you Ain’t Never

Had e la struggente e autografa Growin Trade. Sarabanda musicale in puro New Orleans style è Kin-

gfish, con i fiati arrangiati da Allen Toussiant, mentre When I Go Away, con i suoi intrecci vocali da brividi è il picco artistico dell’album. Il live Ramble at Ryman (> 8), registrato nel tempio della musica country, vede la presenza di ospiti illustri come John Hiatt, Buddy Miller, Sam Bush, Sheryl Crow, ed è l’ulteriore testimonianza di come, a 71 anni, Levon Helm stia vivendo una secon-da giovinezza artistica.

Dirt Farmer [Vanguard 2007] Venticinque lunghi anni, tanto è passato dall’ultima prova in studio di Levon Helm. Un ritorno in sala d’incisione quasi insperato visto il cancro alla gola che lo aveva colpi-to, compromettendone in parte la voce. Una voce, che seppur minata in potenza, torna a regalare intense emozioni. Un piccolo capolavoro acustico questo Dirt Farmer, un sentito omaggio alle proprie radici musicali, andando a scavare all’in-terno della tradizione americana. Intrisa di atmosfere agresti, la quasi bluegrass False Hearted Blues, ci fa capire da subito la cara-tura del disco, con la voce del

Page 13: RootsHighway Mixed Bag #10

13

RootsHighway Mixed Bag #10

Ramble at the Ryman [Vanguard 2011 Cd/Dvd]

Testimonianza al tempo stesso di uno splendore artistico e umano, dopo una seria malattia che ne ha minato fortemente la voce e lo spirito, Ramble at the Ryman trasferisce temporaneamente le celebrazioni dal vivo, solitamente deno-minate Midnight Ramble (concerti nel suo quartier generale di Woodstock, aperti a numerosi amici e ospiti, già in passato pubblicati per la propria etichetta) nella capitale del country, Nashville. È infatti sulle assi del glorioso Ryman Auditorium, casa natale del Grand Ole Opry e sorta di tempio immacolato della tradizione americana, che viene catturato questo magico show del settembre 2008, all'api-ce di un ritorno discografico (Dirt Farmer) per la Vanguard e nella preparazione dell'altrettanto apprezzato seguito (Eletric Dirt), di un anno successivo. Sono gli estremi di una rinascita che ha sancito Levon Helm quale figura indiscussa, quasi mitologica della southern music, custode di un patrimonio e padre putativo per le generazioni di oggi (basti pensare ai recenti Black Crowes che registrano Before the Frost… nei suoi studi). L'intento commemorativo non deve far pensa-re ad una parata di stelle senza anima, perché il disco vibra di una armonia mu-sicale, di un clima di gioia e complicità che rifugge da qualsiasi atteggiamento un po' tronfio: certo è innegabile che la festa al Ryman Auditorium si svolga con lo sguardo rivolto al passato, al canzononiere immortale della Band (con sei classici in scaletta), ma la qualità delle interpretazioni, la fantasia degli arrangiamenti, ne riflettono un'immagine diversa, autorevole e credibile perché non necessariamente nostalgica. C'è insomma la giusta dose di spontaneità in Ramble at the Ryman per non qualificarlo come un disco per soli fan, quanto piuttosto come una rivelazione per chi non ha mai preso seriamente in considerazione la centralità di Levon Helm all'intreccio fra radici bianche e nere del rock'n'roll. Introdotto dalla voce del cerimoniere Billy Bob Thorton, Helm siede spesso dietro i tamburi come da copione (esiste anche una versione in Dvd della serata, per chi non si accontentasse della semplice evocazione dell'audio), mostra una voce provata ma ancora indimita e dirige la sua personale "orchestra", caratte-rizzata dalle presenze dell'inseparabile Larry Campbell (chitarre, mandolino, fiddle), di Brian Mitchell (accordion, piano) e della figlia Amy (Ollabelle) ai cori. In aggiunta una bollente sezione fiati, che trasuda i ritmi e la magia della Big Easy (New Orleans), arrichisce e marchia a fuoco la performance, trasformando la scaletta in una girandola di caldissmo rock'n'soul dai profumi sudisti, la dove la Memphis di Chuck Berry (Back to Memphis) di incrocia con la tradizione bianca della Carter Family (il classico No Depression in Heaven, proposto con l'ospite Sheryl Crow). Come anticipato, la natura celebrativa del concerto è aperta alle collaborazioni, come se Levon Helm e i suoi invita-ti riconoscessero reciprocamente il proprio rispetto: da una parte un musicista che ha indicato la via, dall'altra però altret-tanti autori e interpreti da cui lo stesso Helm ha attinto per ridare senso alla propria discografia. Difficile non riportarli tutti singolarmente, perché ogni comparsa diventa il pretesto per un viaggio, una digressione nei linguaggi e nella terra della southern music, a cominciare dall'armonica e dalla voce di Little Sammy Davis in Fannie Mae e Baby Scratch My Back, me-no noto forse alle cronache delle altre star. Subito dopo appare infatti la voce di Sheryl Crow, perfettamente calata nel ruolo con il duetto di Evangeline (qui manca la regina Emmylou, ma non pare farsi rimpiangere) e nella citata No Depres-sion in Heaven, svoltando verso la campagna e l'anima hillbilly della band di Levon Helm. In tal senso il cuore dello show è rappresentato dall'apparizione sul palco di Buddy Miller e Sam Bush, maestri dell'Americana che offrono una accoppiata da brividi con il gioiello country Wide River to Cross e la lunga sarabanda in stile New Orleans del traditional Deep Elem Blues. La commovente Anna Lee, cantata in coppia con la figlia Amy, divide idealmente la scaletta grazie ad un momento di raccoglimento folk per sole voci e violino, prima di riprendere trionfalmente un viaggio lanciato in corsa grazie al songbook della Band: il solo indiavolato rockabilly di Time Out for the Blues e la trascinante saga roots di A Train Robbery spezzano la cavalcata, che vede in sequenza una strepitosa Rag Mama Rag, la più contenuta The Shape I'm In ma soprattutto gli oltre sette impetuosi minuti di una Chest Fever da applausi. Che la chiusura venga affidata ad una prevedibile The Weight, con la rauca voce di John Hiatt, non cancella affatto l'idea che Levon Helm e la sua colorata orchestra siano riusciti a riflettere una lettura ancora frizzante e attuale di questo repertorio, calcando la mano sulle "contaminazioni" r&b, soul e New Orleans style da sempre insite nei brani. Un party in piena regola insomma: verrebbe voglia di assistere al più presto a una di que-ste adunate. Il Midnight Ramble d'altronde è sempre aperto, come una sorta di "never ending tour": fatevi sotto allora! (Fabio Cerbone)

nostro in primo piano. Trasuda tradizione Poor Old Dirt Farmer, con il violino di Larry Campbell e l’accordion di Brian Mitchell a trac-ciare la melodia, sulla quale si sta-gliano la voce di Levon, ed i cori della figlia Amy e di Teresa Wil-liams, per un brano dal testo forte e impegnato. Ottima si rivela la rilettura di The Mountain , dal son-gbook di Steve Earle, brano che pare scritto per il nostro, il quale lo canta con passione e trasporto. The Train a Robbery e Got Me a

Woman, giocano con la tradizione, tra atmosfere old time, con Helm che si destreggia nell’ultima al mandolino. Feeling Good è invece un omaggio a JB Lenoir e al blues tanto amato dal batterista. Cal-vary, scritta dal bassista Byron Isaacs, non sfigura in mezzo ai tradizionali, merito anche di un’in-terpretazione maiuscola del no-stro. Le struggenti Little Birds e Anna Lee impressionano invece per semplicità e vedono nel violino lo strumento guida. Due brani sof-

ferti dove la voce di Helm raggiun-ge picchi d’intensità emotiva prima mai sfiorati. Chiude il disco la tersa Wide River to Cross, scritta da Buddy Miller. Un album che omaggia le proprie radici e il proprio passato con cuore e passione e sancisce il ritorno di uno dei più straordinari interpreti della tradizione musicale americana.

Page 14: RootsHighway Mixed Bag #10

14

RootsHighway Mixed Bag #10

The DoorsThe Doors When You’re StrangeWhen You’re Strange

a cura di Marco Denti

The Doors e in particolare Jim Morrison hanno un’attualità che a distanza di decenni suona ancora sorprendente. Raccontarli non è mai stata un’impresa semplice, soprattutto volendo evitare le trappole dell’ovvio e del superfluo, cioè l’ambito specifico dei luoghi comuni sex, drugs & rock’n’roll. Sì, è vero, ed è inutile cercare di ne-garlo che la storia di Jim Morrison e dei Doors è stata anche quella, ma la loro importanza trascende i deliri e i delitti (ammesso e non concesso che ci sia stato un qual-che delitto), i misteri e i complotti. Sia il quadro generale che quello particolare sono stati esaminati più e più volte (ci sono biografie che raccontano anche l’ultimo, infinitesimo dettaglio della vita quotidiana di Jim Morrison), per cui era difficile aggiungere qualco-sa di inedito. When You’Re Strange ci prova fornendo un contesto, uno scenario, un’idea di fondo. Il primo suggerimento, un Jim Morrison in versione James Dean, è esplicativo della visione che introduce il regi-sta Tom DiCillo: l’evoluzione del ribelle da Elvis in poi vede in Jim Morrison una figura nuova e peri-colosa. Il concentrato di ambizioni poetiche, ispirazioni cinematogra-

fiche (la sua vera passione), fughe verso la libertà e varie e abbon-danti aggiunte chimiche fanno di Jim Morrison un portatore sano di un virus covato a lungo nelle vene d’America, diciamo almeno da Walt Whitman in poi. Il ribelle, questo il nocciolo della sua storia, si ritrova impigliato in una rete oppressiva e violenta, in un clima pericoloso per chiunque non sia conforme o assoggettato ai voleri della cosiddetta maggioranza si-lenziosa. Lungi dal voler ergersi a leader o a portavoce di un’intera generazione e della sua rivolta, Jim Morrison ne divenne comun-que l’emblema, la figura più appa-riscente, il personaggio pubblico più indicato a raccogliere tuoni e fulmini. Perfetto perché bello, ap-pariscente, volitivo, confuso e im-penitente. Perfetto perché inno-cente, innocuo (nella realtà) e in-difeso. Basterà poco, la simulazio-ne di un atto piuttosto che l’atto stesso, per scatenare le tempeste. La vita di Jim Morrison e quella dei Doors si sovrappongono e si in-trecciano in modo indissolubile con lo spirito turbolento dei tempi. Il film di Tom DiCillo rende molto bene, in modo vivido, senza sbavature e con grande passione l’evoluzione della rapidissima e

bruciante traiettoria dei Doors. Se si pensa che sono esi-stiti poco più, poco meno di cinque an-ni, dall’esordio del 1967 al 3 luglio 19-71 (il resto non conta), ma hanno stravolto le regole d’ingaggio della sto-ria del rock’n’roll, si capisce che deve esserci stato qual-cosa di straordina-rio. Rispondere Jim Morrison è vero ed è giusto eppure rappresenta soltan-to un elemento, per quanto fondamen-tale, di quella tem-pesta perfetta.

When You’Re Strange attingendo proprio alle fonti primarie, cioè ai film girati dallo stesso Jim Morrison, ai concerti, alle testimonianze dell’-epoca (e ha ragione l’amico Frank Lisciandro a dire che per capire Jim Morrison serve ascoltare le sue can-zoni e leggere i suoi libri e vedere i suoi film piuttosto che leggere i libri e vedere i film su di lui) mette bene in risalto la triangolazione tra il ca-os generato da una rock’n’roll band carnivora in un mondo di erbivori (bellissima definizione di Tom Rob-bins) con l’urgenza di una ribellione diffusa e ormai incontrollabile con una ramificata campagna di com-plotti, operazioni segrete e illegali, depistaggi, violenze e sotterfugi, l’ordinaria amministrazione del po-tere. Se la reazione nei confronti dei Doors in particolare fu virulenta e ossessiva, è anche dovuto al fatto che l’esposizione di Jim Morrison accendeva fuochi impossibili da ge-stire. A quell’epoca, come oggi, era facile dire ai sognatori che chiede-vano pace, amore e musica che l’utopia parte sconfitta contro la realtà e che presto o tardi sarebbe-ro dovuti crescere, mettere su fami-glia e trovare un lavoro serio, ovve-ro la solita sbobba. Era molto più complicato, se non improbabile rispondere a un folle che urlava: “Voglio il mondo, e

Page 15: RootsHighway Mixed Bag #10

15

RootsHighway Mixed Bag #10

e lo voglio adesso”. Un grido peri-coloso perché Jim Morrison e i Do-ors, e il titolo del film When You’-Re Strange si addice alla perfe-zione, non erano schierati, non avevano né posizioni né tesi da difendere a oltranza. Erano troppo veloci, viscerali e istintivi per esse-re compresi. Sfioravano corde che vibrano in modo eclatante: quelle dei sogni e degli incubi, dell’incon-scio e del subconscio. Più che le porte della percezione, aprivano squarci impensabili nell’immagina-zione che è poi dove viviamo più tempo di qualsiasi altra parte. Il potere (che si chiami Lyndon Johnson o Richard Nixon la differenza è sempre relativa) e-margina e combatte chi protesta, ma in questo conflitto c’è un gioco di ruoli che alla fine appaga tutti, fino a quando le parti si ribaltano. Il potere tollera il dissenso finché riesce, poi cerca di controllarlo oppure di assorbirlo. Con quelli “strani” tutto ciò è inutile: la vera rivoluzione è nella mente ed è per quello che la breve stagione di Jim Morrison e dei Doors mandò tutti fuori di testa. Si potevano arginare con metodi malsani, e ci provaro-no in tutti i modi, ma ormai ave-vano avuto il mondo nelle mani e l’avevano lasciato libero. Nei corri-doi dove l’incubo ad aria condizio-nata è una cinica realtà, ancora oggi qualcuno prova un senso di fastidio a sentire parlare dei Do-ors. Nel 2001, Jim Morrison era morto ormai da trent’anni, il Patriot Act metteva ancora all’indi-ce le loro canzoni. Non è un caso.

“Se i Rolling Stones erano sporchi,

i Doors erano veramente spaven-

tosi, e la differenza è rilevante

perché elemento sostanziale della

nostra epoca è proprio la paura”.

(Lester Bangs) La canzone The End e gli elicotteri sul Mekong, all’inizio e alla fine di Apolcalypse Now di Francis Ford Coppola, stabiliscono un nesso più che mai emblematico di quegli anni Sessanta, dei quali i Doors e la guerra in Vietnam hanno rap-presentato il loro lato più oscuro, non necessariamente nell’ordine in cui li citiamo. Un’immagine che, anche grazie alla televisione o al

cinema (o ad altre arti figurative) potrebbe essere passata di mano in mano, trasfigurando la realtà nella finzione o in un viceversa non sem-pre vero, quantunque a volte vo-gliano farcelo credere delineando i contorni del mito. Un’oscura favola contemporanea che ha bisogno dei suoi detrattori, e nel corso del cen-tennale della nascita di Robert Jo-hnson (1911–2011) quanto a qua-rant’anni dalla morte di Jim Morri-son (1971–2011), forse per que-st’ultimo più che per il primo, chi veramente ha conosciuto i perso-naggi in questione e ha altrettanta volontà di farlo, può raccontarci la sua parte di verità, lasciando che

Lo sciamano canta il bluesLo sciamano canta il blues Jim Morrison, gli anni Sessanta e l’arte di documentare per im-Jim Morrison, gli anni Sessanta e l’arte di documentare per im-

magini di magini di Frank LisciandroFrank Lisciandro A cura di Matteo Fratti

“Per quanto tutte le foto di questa mostra siano state realizzate negli anni Ses-santa, qui vengono presen-tate due serie diverse di immagini. Una serie tenta di rappresentare il poeta/cantante/artista Jim Morri-son negli anni in cui io l’ho conosciuto (1968–1971). Spesso mi sento chiedere “Com’era davvero Jim Mor-rison?” In genere rispondo “Era intelligente e generoso ed era dotato di un forte senso dell’umorismo, era molto colto e passava molto tempo a scrivere”. Ovviamente, l’uomo che conoscevo era molto più complesso di quanto una semplice risposta – o una serie di immagini – possa spiegare. In queste foto, riesco soltanto a spiegare i cambiamenti esteriori che han-no avuto corso in quegli anni, come Jim è diventato ancor più ciò che già era. Se, dopo aver visto le foto, continuerete a sentire il bisogno di sapere che uomo davvero fosse, magari è il caso che leggiate il mio libro: Jim Morrison, Diario Fotografico. Inoltre, vi consiglio di ascoltare le sue canzo-ni e di prendere visione dei suoi film. La seconda serie di foto presenta alcune immagini dei vibranti e turbolenti anni compresi tra il 1960 e il 19-71. Mille immagini non riuscirebbero neppure a trasmettere una pallida idea di ciò che stava avvenendo in un decennio in cui la nostra società at-traversava grandi sollevazioni e divisioni e una rivoluzione culturale. Que-ste foto documentano ciò che ho visto, dove sono stato, eventuali eventi a cui ho partecipato, la gente che ho conosciuto e i gesti e i segnali che a me sembravano avere il marchio della felicità. Le mie fotografie rappre-sentano la persona che ero tanto quanto quei tempi. Ho pensato fin dal principio che queste due serie di immagini si rispecchiassero l’una nell’al-tra, che una fornisse il contesto e l’ambiente all’altra. Il mio contributo è ciò che ho scoperto. Spero che possiate individuare la relazione che com-pleta il quadro”. (Dichiarazione dell’Artista alla mostra “Jim Morrison. Diario Fotografico”- Frank Lisciandro, Piacenza Blues Festival, 20 giugno 2011)

Frank Lisciandro

Page 16: RootsHighway Mixed Bag #10

16

RootsHighway Mixed Bag #10

il resto sfumi nella leggenda o in qualsivoglia agiografia. Frank Li-sciandro, che con Jim Morrison e come Francis Ford Coppola ha condiviso gli anni all’Università della California di Los Angeles (UCLA) per una formazione cine-matografica è uno di quelli, amico di “Re Lucertola” e conoscitore della persona, più che del perso-naggio. Il suo intento documenta-ristico, che ha i suoi inarrivabili maestri nei grandi fotografi come Cartier–Bresson o Robert Frank, si divincolerà però negli anni della formazione dalle strettoie profes-sionali conseguenti ai primi studi di fotogiornalismo alla Michigan State University, per una più libe-ra espressione coltivata parallela-mente al lavoro di cineasta, sia esso sceneggiatore, produttore di documentari o regista, e non ne-cessariamente divisi l’una dagli altri. L’incontro coi Doors è il semplice frutto della conoscenza tra Lisciandro e la band, il cui tra-mite rimane l’uomo Morrison e la cui immagine ci viene restituita per quello che era, integrata nel suo contesto (testimonianza di un’epoca) e scevra dalle pose della rockstar nelle quali il personaggio era ormai ingabbiato, ai tempi in cui Lisciandro ritroverà la band. Al suo ritorno negli USA infatti, dopo qualche tempo di vo-lontariato nei Peace Corps in Africa per evitare il Vietnam, Lisciandro immortalerà gli anni morrisoniani tra il 1968 e l’inverno 1970-’71: dal documentario Feast of Friends con spezzoni di backstages e con-certi nella primavera del 1968, al film sperimentale HWY girato in collaborazione con Morrison e ben accolto nell’ambito della filmogra-fia indipendente (ma mai ufficial-mente pubblicato), fino a L.A.

Woman o a quelle sessions di let-tura di poesie in studio che Jim si regalerà di tasca propria al suo ventisettesimo compleanno, l’8 dicembre 1970 (e che usciranno postume con accompagnamento musicale dei Doors rimanenti nell’-album An American Prayer, 1978,

prodotto dallo stesso Lisciandro). Di seguito alcune sugge-stioni da noi suggerite a un breve incontro coll’artista in occasione della mostra fotografica Jim Mor-rison. Diario fotografico, a Pa-lazzo Farnese di Piacenza nella settimana dal 20 al 26 giugno (tra gli eventi allo scorso Piacenza Blues Festival); e una piccola nota polemica dello stesso autore in merito al nuovo documentario sui Doors When You’re Strange di Tom Di Cillo. Poi, in calce all’inter-vista, un appunto riguardo alla mancata reperibilità del testo Jim

Morrison. Diario Fotografico della casa editrice italiana Giunti, dove si ritrovano, oltre ad alcune delle foto esposte, parole, ricordi, aned-doti e esperienze dirette dello stesso Frank Lisciandro, che qui si racconta: quanto all’oggi, ai suoi trascorsi e al suo modo di intende-re la fotografia.

L’intervista con Frank L’intervista con Frank

LisciandroLisciandro A cura di Matteo Fratti

Piacenza, 25.06.2011 Oltre al momento oggetto di que-

sta mostra, a Jim e ai Doors, qual

è il tuo percorso artistico oggi?

Tu vuoi conoscere il mio percorso artistico ora? Sto preparando un libro sul Newport Pop Festival del 1968: includerà tre fotografie qui

esposte e altre fotografie con al-cune performances, i fans, i musici-sti. In qualche modo, la mostra che vedi qui sarà arricchita per fare un prossimo libro: non solo su Morri-son e i Doors, ma sugli anni Ses-santa. Sto anche preparando un libro di fotografie del periodo in cui ho abitato in Italia, ma sono foto di posti non turistici dell’Italia. Penso che lo chiamerò: “Immagini dell’Ita-lia che non avete mai visto prima”. Questo è quello che sto facendo adesso. Il diario fotografico “morrisoniano”,

ma anche la documentazione este-

sa per immagini al periodo, mi ha

fatto pensare a tratti anche al clas-

sico accostamento tra Robert Frank

e Kerouac. Cosa ne pensi?

Nel mio “Diario fotografico”… Allora, Robert Frank è stato fotografo e di certo ha fotografato la Beat Generation e gli anni Cinquanta, Kerouac e i poeti. Ma non posso paragonarmi a Robert Frank perché lui fu il più grande fotografo in as-soluto che abbia mai fotografato e raccontato l’America. Paragonare me stesso a Robert Frank è un grande complimento, un compli-mento che non accetto: il fatto di aver fotografato una o due persone è un altro paragone che si può fare, io ho fotografato anche altro oltre a Jim Morrison, ma Bobby Frank ha fotografato proprio tutto dell’Ameri-ca!

Page 17: RootsHighway Mixed Bag #10

17

RootsHighway Mixed Bag #10

Nel documentario “When You’re

Strange” nelle sale italiane in que-

sto periodo sono state prese im-

magini anche da “HWY”, è vero?

Di cosa si tratta?

Di certo ci sono immagini di HWY” (correggendo la scritta “Highway” e siglandola diretta-mente sul mio appunto, ndr) in “When You’re Strange”, ma queste immagini sono pezzi del film “HWY”. Sono scene del film che il regista di “When You’re Strange” ha tagliato da “HWY” e ha messo in questo film per formarne la struttura. Ecco, questo è un altro paragone che possiamo fare: è come se io facessi una mostra sui lavori di Picasso, ma io non ho i lavori di Picasso. Ne ho uno solo, lo taglio in cinque pezzi e lo ap-pendo ai cinque muri. Quello che sto creando è uno scandalo. Non so la parola in italiano, ma non è una bella cosa da fare. Tagliare il film, le opere d’arte di qualcun altro e creare un’altra opera d’ar-te: questo non è accettabile. Sono veramente offeso dal fatto che qualcuno abbia potuto usare il film di Jim, il mio film per fare questo documentario senza nemmeno dire all’inizio che erano parti tratte dal film di Jim e molte persone non hanno neanche capito che era Jim Morrison quello sullo schermo, e sono offeso. Tu conoscevi Jim Morrison da mol-

to tempo ma hai collaborato con

lui soprattutto con gli ultimi dischi.

Come mai nei

suoi ultimi tempi

c’era stato quel

cambiamento che

lo stava allonta-

nando dallo star

system?

E’ vero che ho dedicato molte copertine a Jim e alla band negli ultimi due anni. Forse perché loro credevano molto

in me o perché io ero molto più disponibile, o forse perché mi di-vertivo a fotografare. Qualsiasi sia la ragione, è vero che ho fotogra-fato Jim e la band negli ultimi due anni della loro vita artistica e di incisioni. Lui non ha mai visto sé stesso come parte dello star system, ma si vedeva come per-former, poeta, scrittore di canzoni. E da quando ha fatto parte dello star system, credo che non si sia mai considerato tale. Credo che abbia continuato a considerare sé stesso performer, poeta o scrittore di canzoni. Penso che lui non ab-bia mai avuto in mente di essere parte dello star system, ma c’era-no altre persone che avevano nel-le loro menti di farlo diventare una star. E io credo che lui rifiutasse l’idea di essere una star: infatti io l’ho sempre visto come una perso-

na normale che era anche un can-tante rock. Negli ultimi due anni non si vedeva come parte dello star system e non si è mai visto come parte dello star system. Nella sua mente, e ad un certo punto, ha de-ciso di smettere di registrare, di cantare. E ha lasciato gli Stati Uniti per cercare una nuova vita. Credo che sia anche attraverso l’im-

magine, in un momento in cui certi

mezzi la rendevano importante, che

Jim è diventato un’icona. Nello

stesso periodo in cui, per esempio,

la televisione portava per la prima

volta la violenza della guerra del

Vietnam dentro a tutte le case, dif-

fondeva anche la forza evocativa di

alcuni personaggi. Penso che con

certe foto tu abbia contribuito a

rendere Jim un’icona. Era qualcosa

di calcolato o credi che sia stata la

casualità del momento?

Le mie fotografie intendono inter-pretare il mio intento di documen-tare un tempo e un luogo: qualche volta con ironia, qualche volta con passione, qualche volta con meravi-glia, qualche volta con gioia, ma sempre intendono documentare quello che ho visto in un particolare posto e in un particolare momento. Non voglio cercare di creare niente: voglio dare allo spettatore una par-te evidente di quel momento, come scrivo nel mio “art statement”.

Page 18: RootsHighway Mixed Bag #10

18

RootsHighway Mixed Bag #10

(Non so se tu hai visto la mia di-chiarazione - la “dichiarazione dell’artista” in mostra, o “art statement”, appunto, ndr - ma è una buona idea che tu la legga e la aggiunga alla pubblicazione, perché credo che dica qualcosa sulla mia mostra e sul mio pensie-ro riguardo alla fotografia). Il mio scopo è quello di mostrare un’im-magine, poi sta a te spettatore sintetizzare quello che vedi e dar-gli un significato. Il mio intento non è quello di suggerirti il significato, ma solo qualcosa da utilizzare perché tu possa attribuirgli un senso. Il mio obiettivo è darti qualcosa da os-servare e se lo osservi abbastanza a lungo, forse, è l’inizio di una sto-ria nella tua mente. E’ un piccolo input per raccontare una storia a te stesso. Per esempio: “Oh, guar-da, c’è la foto di una banca, è di-strutta! Com’è successo!?”. Voglio che si pensi alla storia della ban-ca: forse c’è stata una demolizio-ne, forse c’è stato un incendio, ma sta a te pensare alla storia. Magari vai a vedere i fatti sul giornale, e qualche fatto può aiutarti a imma-ginare la storia della banca. Io non ti racconto niente, ti faccio solo vedere: qui c’è l’immagine che io

ho visto e tu fai la storia per te stesso.

Allora erano i tempi dell’analogico,

e di una prima rivoluzione dell’im-

magine. Oggi è l’era di Facebook e

della rivoluzione digitale: quali

consigli potresti dare a chi voglia

documentare oggi la realtà per

immagini?

Le persone credono che nel passa-to ci siano poche immagini. Ma in effetti ci sono molte immagini e libri pieni di immagini degli anni Cinquanta e Sessanta: c’erano persone che facevano foto a scuo-la, la fotografia era una materia di studio all’università, ma adesso la fotografia è facile nell’era digitale. Però, la stessa attitudine, lo stesso occhio, la stessa natura che era necessaria negli anni Cinquanta e Sessanta è necessaria ora. Ed è una scelta, se essere un narratore o un documentarista. Devi capire qual è il tuo scopo dietro la macchina fotografi-ca. Qual è il mio scopo dietro la telecamera? Perché? Se una per-sona decide di fare un catalogo di rane o di farfalle, cosa fa? Fa la foto a tutte le specie di rane o di farfalle e ha fatto il suo catalogo.

O la gente che fa foto solo a perso-ne sul palco: questo è un altro tipo di fotografo. Non importa se tu fai foto digitali o su pellicola: hai biso-gno della stessa abilità. Ok, la tec-nologia è più semplice, ma quando punti la macchina fotografica, come vedi il soggetto, come il soggetto entra in camera, questo è molto importante, questi sono gli elementi della fotografia: la posizione della macchina, com’è posizionata la luce e il soggetto. Bisogna considerare sempre queste difficoltà e proble-matiche sia con la fotografia digita-le che nella fotografia in passato. Il digitale è conveniente, ma l’arte e l’abilità sono arte e abilità: se vuoi delle buone fotografie devi studiare l’arte di fare fotografia. Devi studia-re l’arte e l’abilità di cui sono fatte le buone foto del passato. Le persone che vogliono fare buone foto adesso devono co-munque guardare ai grandi fotogra-fi o pittori del passato, e osservarle ancora un momento per cercare la propria espressione artistica.

Foto mostra: © Matteo Fratti

Frank Lisciandro con Matteo Fratti

Page 19: RootsHighway Mixed Bag #10

19

RootsHighway Mixed Bag #10

Una grande storia americanaUna grande storia americana ”American Indie” di Micheal Azerrard”American Indie” di Micheal Azerrard

a cura di Marco Denti

Creatività, indipendenza, coraggio, condivisione: prima dell’exploit dei Nirvana, il mondo sotterraneo del-le rock’n’roll band viveva con una manciata di dollari per concerto e mille chilometri al giorno su furgo-ni che stavano insieme per miseri-cordia. Eppure quei giovani che attraversavano l’America seguen-do percorsi misteriosi e dormendo sui pavimenti hanno lasciato una traccia indelebile. Trent’anni fa le comunicazioni erano messaggi in bottiglia che si affidavano alla spe-ranza piuttosto che a qualche stra-tegia. I collegamenti erano più improbabili che impossibili e il te-lefono (fisso) era lo strumento più avanzato (e più usato) eppure la proliferazione di rock’n’roll band segnò davvero un’epoca. Quello che legava, che univa era una rete di valori condivisi. Oggi ci sono network e vie digitali che nello spazio di uno sbadiglio sono in grado di riunire un’intera scena, ed è una fortuna, anche se poi si ha l’impressione che ognuno rimanga incollato al suo microcosmo, dietro lo scher-mo del computer. E’ soltanto una constatazione perché magari è meglio condividere igienici mes-saggi di posta elettronica e asettici pixel piuttosto che vivere insieme su un furgone alimentando lo stress con peripezie, idiosincrasie, freddo, fame e fatica giusto per quei venti minuti sacrosanti di mu-sica alla fine di lunghe e assurde giornate di viaggio. Nelle storie

raccolte e raccontate da Michael Azerrad in American Indie (Arcana Edizioni, 500 pagine, 25 euro) si sente, si percepisce e si vive la folle febbre di quei ragazzi e di quelle ragazze che suonavano per cinque dollari al giorno, dormi-vano sul pavimento dove capitava (“Tanto che differenza fa? Stai dormendo” dicevano i Black Flag) e si dedicavano ai loro gruppi con un’intensità paurosa. Anche i più scapestrati (e i più simpatici, alla fine) ovvero i Replacements, nella loro beata inconcludenza a-vevano trovato il modo per dedi-carsi a tempo pieno alla stramba creatura che portarono in giro per un bel po’. Altri vivevano l’espe-rienza con un’etica e una disciplina quasi militaresca, cercando di so-pravvivere come potevano in con-dizioni tra il tragico e il comico. Tutti dovevano sopportare le battaglie tra personalità diverse (epocali quelle tra Bob Mould e Grant Hart negli Hüsker Dü) o l’emergere di ego sempre più de-vastanti tanto che nei Dinosaur Jr le tensioni giunsero a livelli pa-tologici. Lou Barlow liquidò così la questione al momento di togliere il disturbo: “Mi sentivo male e non volevo proseguire con quella follia. Volevo solo suonare il basso”. Anni dopo, con un po’ più di saggezza, J Mascis dirà: “Non abbiamo mai comunicato per davvero. Non sa-pevamo come, credo. Troppo gio-vani. Non l’avevamo ancora impa-rato”. I complessi confronti all’in-

terno dei gruppi (non a caso quelli durati più a lungo sono stati i Sonic Youth che hanno trovato un loro modus vivendi) vertevano allora come oggi sul diverso modo di inten-dere la vita on the road (la vera casa dei musicisti), su logiche artistiche ed esisten-ziali, sui modelli di riferimento e sulle scelte essenziali della vita quotidiana, a par-

tire a quelle economiche. In modo ancora più determinante l’esistenza stessa delle rock’n’roll band era determinata dalla convinzione, dalla fede e dal grado di ossessione. Per qualcuno stare in una rock’n’roll band era una questione di vita o di morte, come diceva Mi-ke Watt: “Non volevamo essere una rock band. Volevamo essere noi, la nostra band”. Per qualcun altro era soltanto un momento di passaggio, un frammento di passio-ne con la data di scadenza, ma per la stragrande maggioranza stare in una rock’n’roll band voleva dire tut-to. Come ha detto a sua volta J Ma-scis: “So che starò sempre in una band, per cui preferisco andare a-vanti con quella che ho piuttosto che fondarne un’altra”. Il punto è che le rock’n’roll band di American Indie, quasi a celebrare tutte le rock’n’roll band di questo mondo, concerto dopo concerto, miglia do-po miglia, dischi dopo dischi e tele-fonate dopo telefonate avevano creato una rete alternativa (eccola, la famigerata parola) che a distanza di vent’anni ha ancora un sapore grezzo, ruvido, anche dilettantesco sotto certi aspetti, ma quanto mai vero e reale. Le traiettorie delle rock’n’roll band che hanno attraver-sato l’altra America, quella dove

Hüsker Dü

Page 20: RootsHighway Mixed Bag #10

20

RootsHighway Mixed Bag #10

non succede mai niente, spiegan-do e raccontando che non si dove-va per forza morire di noia e di inedia. Come capitava più o meno a tutti, era molto meglio dormire per terra, mangiare quello che capitava (che strazio per i Fugazi stare on the road e cercare di re-stare vegetariani), vivere sulla strada per una manciata di dollari (spesso anche meno) e tutto per un voto di indipendenza e di liber-tà, anche se quest’ultima nota rimane spesso nascosta nei loro racconti. Ma è proprio così: quel mondo era un pulviscolo di idee in movimento, un caos primordiale, un sottobosco così fertile e vitale che lasciava maturare le illusioni di un big bang in grado di cambia-re davvero le regole del gioco. Ricorda Ian MacKaye dei Fugazi: “E’ stato in quel periodo che ho cominciato a focalizzare l’idea che quello che facevamo fosse reale, un modello di lavoro per una co-munità concreta e alternativa, che potesse continuare a esistere fuori del mainstream, legittimamente, e supportandosi da sé. Parlo di lavo-rare, pagare l’affitto, avere rela-zioni, avere delle famiglie, qualun-que cosa”. La scansione temporale che usa Michael Azerrad nel suo American Indie è logica e coe-rente visto che parte dal 1981 e arriva a Nevermind che, nel 1991, cambiò tutto. L’immane lavoro di connessioni e relazioni, le migliaia di concerti per poche dozzine di spettatori su e giù per tutta l’Ame-rica, le fanzine, le radio, le eti-chette indipendenti avevano crea-to un pubblico e quindi un mercato di dimensioni ragguardevoli. Quando i numeri di copie vendute passarono dalle poche centinaia alle migliaia e poi alle decine di migliaia, anche negli uffici delle multinazioni cominciarono ad ac-corgersi del pianeta di American Indie. Il grande dibattito di quegli anni fu proprio se stare con una major e continuare a dedicarsi a

una indie (che poi spesso significava l’autoproduzione). C’era un attaccamento all’in-tegrità artistica che rasenta-va il fanatismo e che vedeva gli A&R delle major alla stre-gua di agenti segreti che complottavano contro l’indi-pendenza del rock’n’roll. Con il tempo i luoghi comuni crol-larono uno dopo l’altro, per-ché poi la distinzione e la disputa, nella realtà quotidia-na, non era tra indie o major

(che in fondo facevano e fanno lo stesso mestiere), ma tra rock’n’-roll band ed etichetta di riferimen-to, rapporti che J Mascis ha sin-tetizzato così: “Devo capire perché le indie che ti fregano dovrebbero essere meglio delle major che non ti fregano”. All’alba del 1991 ave-vano firmato (quasi) tutti per una major, persino gli ingestibili Repla-cements. Il passaggio era ormai spontaneo, anche se in termini economici e sostanziali per la stra-grande maggioranza di loro fu re-lativo. Memorabile la risposta che Bob Mould diede quando gli chie-sero cos’era cambiato negli Hüsker Dü dopo la firma con la Warner: “Adesso in pizzeria ci possiamo permettere la quattro stagioni”. La battuta non è contenuta su Ameri-ca Indie (la citazione è a memoria da un’intervista di un sacco di anni fa), ma ne coglie alla perfezione lo spirito. Chi più chi meno il rappor-to con le major durò giusto per lo spazio di un paio di dischi (con la Warner gli Hüsker Dü incisero due dischi magnifici, Candy Apple Grey e Warehouse: Songs And Stories) e poi arrivederci. Intanto però anche negli uffici delle major era maturata una sensibilità, tradotta anche in ter-mini professionali, che presto o tardi avrebbe trovato il modo di rendere proficui tutti quegli anni di lavoro che, per inciso, avevano fatto altri. Furono i R.E.M., i Pearl Jam e i Nirvana (guarda caso una bella spartizione tra le principali

etichette) a diventare fenomeni mondiali e fu soprattutto in Never-mind che si concentrarono ed e-splosero tutte le intuizioni di un’in-tera epoca. E’ facile oggi ricono-scersi nelle storie raccontate da Michael Azerrad e anche se si tratta di momenti che risalgono a trent’-anni fa, il valore è rimasto immuta-to. Forse sono ancora più importan-ti in questi anni in cui è più facile diventare una rock’n’roll star a for-za di click: tutti i gruppi di Ameri-can Indie (e molti altri, va ricorda-to), dai Sonic Youth (l’importante è durare) in giù hanno davvero se-minato, tracciato solchi importanti, hanno imposto una visione e hanno dato il sangue. A cosa sia servito tutto ciò, all’indomani dell’exploit di Smell Like Teen Spirit, è difficile comprenderlo, ma soprattutto è un’altra storia. Dipende da variabili che le centinaia di rock’n’roll band di American Indie nemmeno sfiora-vano con l’immaginazione. Erano tante e meravigliose, dure sporche e inarrestabili e se American Indie non è privo di mancanze, tra l’altro frutto anche di scelte ben precisate da Michael Azerrad nell’introduzio-ne, è comunque un bel libro, com-pleto e ben impostato. Bisogna però ricordare almeno una rock’n’roll band, i Thin White Rope, che oltre a condividere molti dei temi e delle sonorità dei gruppi raccontati da American Indie, erano altrettanto indipendenti, anzi di più perché era-no indipendenti anche dagli indie. Un po’ troppo. Resta il fatto che tra le tan-te storie raccontate da American Indie la più bella è quella dell’amici-zia tra i Del Fuegos e i Replace-ments: scoprire che due delle no-stre rock’n’roll band preferite si scambiavano gli indirizzi dei luoghi per i concerti e spesso condivideva-no lo stesso pavimento, è stata l’-ennesima prova che la musica è l’elemento primario di condivisione. Un collante come non ce ne sono altri. Per dire, almeno una volta nella vita (non di più perché poi

diventa pericoloso) sarebbe stato bello partecipare a una fiesta after show con Dan Za-nes, Paul Westerberg e com-pagnia bella. Saranno stati anche tempi duri e difficili, come si narra in American In-die, ma è difficile pensare che, mentre si costruivano la loro America, andassero a letto presto e/o sobri.

The Replacements

Dinosaur Jr.

Page 21: RootsHighway Mixed Bag #10

21

RootsHighway Mixed Bag #10

Johnnie Selfish & The Worried MenJohnnie Selfish & The Worried Men Tour Diary: note dall’AustraliaTour Diary: note dall’Australia

di Johnny Selfish & The Worried Men

Quartetto di musicisti milanesi

ispirati dall’old time music ameri-

cana e da un folk in cui brucia uno

spirito punk, sulle tracce di Pogues

e Old Crow Medicine Show,

Johnnie Selfish & the Worried

Men hanno esordito nel 2008 per

approdare nel 2010 all’interessan-

te Committed. Attraverso concer-

ti e chilometri stanno affrontando

la loro educazione musicale sulla

strada. Dal loro recente tour au-

straliano ci arriva questo reporta-

ge.

Se tre anni fa ci avessero detto che ci saremmo esibiti dall’altra parte del mondo, davanti ad un pubblico di ogni origine, colore ed estrazione sociale, saremmo e-splosi in grasse risate. Eppure, nel momento in cui l’obiettivo si è fat-to concreto, ci è subito sembrato lo sbocco naturale di anni di lavo-ro, sia musicale che promozionale. Penso che il momento di vera svolta in questo senso sia stata la “pazza” decisione di lanciarci, nel giugno del 2010, nel “sogno” giap-ponese; tutto nasce dalla volontà di sganciarsi dall’ambiente della musica live italiana (e milanese) che alla lunga rischia di diventare soffocante e limitata. Dopo oltre 100 concerti in casa, siamo entrati in contatto con Go Tsushima, promoter e manager di Osaka che si è offerto di organizzarci un tour di 5 date nel Giappone meridiona-le. Ormai questa esperienza fa parte della nostra piccola storia, ma ci ha fatto capire che il circuito artistico internazionale vive di moltissime entità, non solo e ne-cessariamente dei ciclopici tour commerciali di LiveNation. Altra storia (recentissima) è quella che ci ha portati a suona-re nell’emisfero australe: armati di convinzione nei nostri mezzi e de-terminazione, abbiamo cominciato

a contattare promoters australiani già verso fine dicembre, inviando materiale e presentazioni della band. A marzo avevamo già mes-so insieme un tour di 8 date lungo la costa orientale dell’Australia, tra Melbourne e Brisbane. Poco dopo ci ha contattati il produttore radio-fonico Vincent Ramone, di Sydney, offrendosi di fare promozione ra-diofonica al nostro tour. Un inizio promettente, così sembra-va...Siamo partiti il 9 agosto da Milano alla volta di Sydney e il giorno stesso ci attendeva il primo “problema” del tour: il nostro bas-sista Mr.Time Machine è rimasto bloccato a casa con febbre a 40. Poco male, ci avrebbe raggiunto due giorni dopo direttamente a Melbourne per la prima data. Nel frattempo noi tre (Johnnie – voce, Lorenzo – chitarra elettrica/armonica, Luca – chitarra acusti-ca), accompagnati dal fedelissimo e utilissimo roadie Giovanni Trapa-ni, siamo arrivati a Sydney e, an-cora frastornati da 24 ore di viag-gio e dal relativo fuso orario, ci siamo buttati immediatamente nel cuore della vita notturna australia-

na, con gli (in)immaginabili riscontri del mattino seguente. Ci trascinia-mo fino alla compagnia di noleggio furgoni: il nostro mezzo è una spe-cie di rottame su ruote, interamen-te dipinto da gruppi di hippy e fric-chettoni e provato da oltre 30-0.000km di viaggio. Anche questo è rock’n’roll… 13 Agosto – National Hotel,

Geelong, VIC. Il 13 agosto arriviamo a Geelong, dove si trova il National Hotel, sede del nostro primo concerto: il fatto di suonare in un hotel ci aveva fin da subito stupiti, ma pare che laggiù sia una situazione piuttosto diffusa. Infatti, appena arrivati ci rendiamo conto che il National non ha niente a che vedere con un “albergo”… ci troviamo piuttosto in una sorta di tempio del punk, con pareti scro-state, un enorme pub annesso e qualche gelida stanza al piano su-periore, dove avremmo poi allog-giato (considerate che in agosto in Australia è pieno inverno). Qualche giorno prima di noi si sono esibiti qui i No Use for A Name. Mentre facciamo un rapido soundcheck,

Page 22: RootsHighway Mixed Bag #10

22

RootsHighway Mixed Bag #10

l’efficientissimo roadie si fionda all’aeroporto di Melbourne per re-cuperare il nostro fondamentale bassista. La serata si rivela un successo al di là delle aspettative: da buon locale punk, il National ci regala una nutrita rappresentanza di personaggi borderline mescola-ta a giovani locali. Vista la situa-zione, diamo il nostro meglio dal punto di vista dell’energia e dello show sul palco e il messaggio vie-ne recepito alla grande. Abbiamo venduto parecchi dischi e magliet-te e il feedback è stato ottimo. Dopo una notte al gelo, ripartiamo con il nostro potente mezzo, cari-chi di entusiasmo e soddisfazione per aver creduto in un progetto apparentemente folle come questo e averlo concretizzato. Prossima tappa: Melbourne. 14 Agosto – IDGAFF Bar

Melbourne, VIC. Nella periferia di questa splendida città, ci attende il locale che de-tiene il primato di luogo più brutto (e sporco) in cui abbiamo mai suo-nato: si tratta dell’IDGAFF Bar, di proprietà di un giovanotto indiano di nome Winty. Winty sostiene di essere figlio di un ministro dello stato indiano den Punjab… L’impianto è orribile e il sound ne risente parecchio. Dopo un’ora e mezza di concerto per una trenti-na di distratti avventori ce ne an-diamo alla svelta. A questo punto ci attende una risalita lungo la co-sta che ci porterà, dopo circa 100-0km, a Newcastle, sede dei due concerti successivi.

17 Agosto –

Newcastle Uni-

versity + Lass

O’Gowrie

N e w c a s t l e ,

NSW. Newcastle è una modesta cittadina industriale di circa 100.000 abitanti, un centinaio di kilometri a nord di Sydney. Il nos-tro promoter si chiama Andy

Costigan, un uomo magro sulla cinquantina, montatura d’occhiali spessa e look da intellettuale newyorkese. Notiamo tutti la somiglianza con l’attore e musi-cista Bi l ly Bob Thornton. Dopo una lunga chiacchierata da-vanti ad un caffè, ci dirigiamo all’Università di Newcastle, dove suoneremo in uno spazio aperto del campus. Stupisce molto che in questa location si tengano decine di concerti all’anno, a tutte le ore, per la gioia degli studenti. Qualche mese prima si sono esibiti anche Architecture in Helsinki e John Butler Trio. Appena finita l’esibizi-one, abbiamo giusto il tempo di distribuire qualche disco e qualche maglietta e fiondarci verso la loca-tion del concerto serale: the Lass O’Gowrie. Questo enorme irish pub è il principale locale per la musica dal vivo della zona ed è

decisamente popolato fin dal tardo pomeriggio. Prima di noi si esibis-cono i Dennis Boys Band, una ec-cezionale formazione di country moderno formata da quattro fratelli, tutti camionisti nella com-pagnia di trasporti del padre, che amano definirsi “hard workin’ men”. La serata risulta affollatissima e culmina in una super jam con ele-menti dei Dennis Boys e la parteci-pazione straordinaria dello stesso promoter Andy. Dopo questo bagno di folla passiamo un paio d’ore con gli av-ventori più festaioli per poi fare fati-cosamente ritorno al gelido ostello che ci ospita. 18 Agosto – Gollan Hotel, Li-

smore, NSW. Partiamo di buon’ora per raggiun-gere Lismore, cittadina hippy vicina a Brisbane. Durante il tragitto, assi-stiamo a un nastro continuo di im-magini da cartolina: siamo ormai vicini al Tropico del Capricorno e la natura comincia ad essere variega-ta e lussureggiante. Pochi giorni prima ci aveva scritto Darren, il promoter dell’agenzia SideShow che ha organizzato due nostre date nel-la zona, per dirci che la nostra “accommodation” sarebbe stata a casa di Marilyn…una volta arrivati all’indirizzo indicato, scopriamo che Marilyn è una signora sui 45 anni, la cui vita è stata interamente dedi-cata al rock’n’roll.

Page 23: RootsHighway Mixed Bag #10

23

RootsHighway Mixed Bag #10

Pensate che ogni anno, il giorno del suo compleanno, viene orga-nizzato un rock festival in suo o-nore. Dopo aver divorato il chili preparato con amore dalla nostra ospite, ci rechiamo tutti insieme al Gollan Hotel. Apre il nostro con-certo Dave Ramsey, puro post-punk blues australiano. La serata va decisamente bene: ormai lo show è ampiamente rodato e ab-biamo preso le “misure” del gusto australiano. Riceviamo molti com-plimenti e qualche “regalo” per poi tornare al nostro alloggio dove ci attendono ore di chicchere e vino con una Marilyn piuttosto entusia-sta.

20 Agosto – Downtown Bar,

Sydney, NSW. Dopo una settimana di vita in campagna, è ora di tornare a Syd-ney: un paio di giorni di viaggio e arriviamo alla città più affasci-nante che abbiamo toccato in questo tour. Al sabato suoniamo al Downtown Bar, locale in pieno centro gestito da Luca Capecchi, giovane milanese (anche lui dell’hinterland di Lambrate) tras-feritosi 7 anni fa a Sydney e diret-tore di questo prestigioso locale da pochi mesi. Il bar è veramente fantastico: interrato e con aspetto rustico, ma fornito dei migliori li-quori e barman. Sicuramente questo è il locale più altolocato in cui ci siamo esibiti durante il tour: nonostante le piccole dimensioni riusciamo a dare del nostro meglio (forse anche grazie allo stimolo degli ottimi cocktail) e il piccolo bar diventa quasi subito una bol-gia. Concludiamo la serata con un “honky tonk” guidato da Luca nei bar del centro. 21 Agosto – Botany View Ho-

tel, Sydney, NSW.

Il risveglio di domenica mattina è difficile, ma dobbiamo riprenderci in fretta perché oggi concludiamo il tour con una data al Botany View Hotel nel quartiere Newtown di Sydney.

Come ci aspettavamo, questo pub è già popolatissimo alle 5 del pomeriggio. Ormai sappiamo come affrontare gli avventori di questo tipo e montiamo subito le nostre cose sul palco senza badare troppo ai più molesti. Ci esibiamo insieme ad una band psychobilly chiamata The Tombstone Ram-blers (il nome dice tutto). Inaspet-tatamente, questa serata ci regala il record di vendite di dischi e magliette. Andiamo a dormire a casa di Dan, batterista dei Tomb-stone, che ci mette gentilmente a disposizione la sua rimessa per gli attrezzi…

Dopo 4500km on the road, 7 con-certi in 2 settimane, 14 notti tra-scorse sempre in alloggi diversi, le nostre energie sono ridotte al mi-nimo: ci trasciniamo in aeroporto augurandoci che il viaggio di ritor-no passi il più in fretta possibile. Siamo entusiasti e sorpresi del successo riscontrato e delle decine di proposte per tornare ancora da queste parti: di certo lo faremo, ma, proprio mentre siamo in viag-gio, riceviamo una mail da parte di John Wheeler, cantante e produt-tore degli Hayseed Dixie, con la quale si è proposto di produrre il nostro prossimo disco nei suoi stu-di di Nashville, Tennessee. Le premesse per il 2012 comincia-no già a farsi interessanti...

Page 24: RootsHighway Mixed Bag #10

24

RootsHighway Mixed Bag #10

RootsHighway’s PickRootsHighway’s Pick Il disco in vetrina

Tom RussellTom Russell Mesabi [Proper 2011]

Il più letterario e beat dei cantori del border completa il percorso intrapreso con Blood on a Candle Smoke, celebrando in Mesabi una sorta di compendio del suo stile e della sua ricerca decennale. Del precedente progetto Mesabi co-stituisce al tempo stesso una prosecuzione e un ampliamento, senza minimamen- te scadere in una copia sbiadita. Lavoro complesso, più di un anno di ge-stazione, quindici canzoni collo-cate geograficamente in diversi luoghi e studi di registrazione (Nashville, Tucson, Los Angeles e El Paso), personaggi e vicen-de che passano da figure ac-clamate, star in decadenza, assoluti outsider e natural-mente memorie personali del-lo stesso Russell. Non un vero e proprio concept, ma più soggetti in-trecciati fra loro, come se Mesabi rappresentasse una raccolta di novelle unite da un filo rosso. Se il "set cinematografi-co" è dunque familiare per Tom Russell, lo è altrettanto la musica, un groviglio di ballate ar-se dal deserto, stentorei folk rock, sabbiose brezze dal confine messicano, con accordi e passaggi usuali per l'autore, eppure sospinti da una vitalità degli arrangiamenti che li rendono nuovi e significativi. Lo schieramento è di quelli che non si scordano: ancora camei sparsi dei Calexico, le partecipazioni di leggende quali Van Dyke Parks e Augie Meyers, l'ottimo pia-nista e co-produttore Barry Walsh, e ancora Da-vid Henry, Will Kimbrough, Victor Krauss, Fats Kaplin, come dire l'essenza di un'altra Nashville. L'effetto si coglie negli episodi più elettri-ci, in un'epica Mesabi ad aprire le danze: costi-tuisce la parte più "privata" dell'album. Russell traccia la desolazione del Minnesota dove è cre-sciuto il suo mentore Bob Dylan e al giovane folksinger Robert Zimmerman cerca di rappor-tarsi in una comune storia di influenze e ascolti musicali. La successiva When the Legends Die sposta l'attenzione sullo stesso Tom Russell e la sua ostinata maturazione come autore, la stra-da fatta per affrancarsi dai suoi maestri. Il set si sposta quindi all'esterno, in una galleria di per-sonaggi fra Hollywood e Disney, celebrando le

sfortunate vite di Bobby Driscoll (la bellissima ballad elettrica Farewell Never Land), voce di Peter Pan al cinema, morto dimenticato e tossi-codipendente a soli trentuno anni, di Cliff E-dwards detto "Ukulele Ike" (il retro wing The Lonesome Death of Ukulele Mike), musicista jazz e suonatore di ukulele caduto in disgrazia, e ancora di Sterling Hayden (l'asciutto folk di Sterling Hayden), attore in Johnny Guitar e Giungla d'asflanto, abbattuto dalla mannaia del maccartismo e dalla caccia alle streghe comuni-ste negli anni '50. Furious Love (For Liz) è l'ulti-

ma canzone incisa in ordine di tempo, breve bozzetto acustico de-dicato alla scomparsa di Liz Taylor, mentre i trionfali toni da marcia funebre in stile New Orleans di A Called Way Out There, con sezione fiati al completo, vanno in memoria dell'improvvisa morte di Ja-mes Dean. Il disco è un continuo andirivieni di luoghi e relative espressioni musicali: Heart With a Heart è ampliata nella sua veste gospel dalle voci delle McCray Sister, Jai Alai un bol-

lente flamenco con la chitarra spanish di Jacob Mossman, And God Created Border Town chia-ma alle armi l'accordion tex mex di Joel Gu-zman e il piano di Augie Meyers, tratteggiando le miserie delle città di confine, fondendosi con naturalezza nella successiva Goodnight Juarez, località a cui Russell è legato da grande affetto. L’album ufficialmente si chiude sulle note della ripresa acustica di Love abides, già pre-sente in The Man From God Knows Where, an-che se la verbosità di Tom Russell non lo frena dall'includere due bonus track, entrambe pre-senti nella colonna sonora di "Road to Nowhe-re", film targato 2010 del regista di culto Monte Hellman. E per fortuna aggiungiamo noi: la cover rallentata e rarefatta di A Hard Rain's A-Gonna Fall, cantata in coppia con Lucinda Wil-liams, è un mezzo miracolo di latente tensione, la stessa The Road to Nowhere invece un altro saggio dell'intesa raggiunta con i Calexico, sullo sfondo di una storia di caduta e miseria ai mar-gini dell'America. Un altro centro perfetto nella collezione di Tom Russell. (Fabio Cerbone)

Page 25: RootsHighway Mixed Bag #10

25

RootsHighway Mixed Bag #10

Monthly revelationsMonthly revelations maggio - agosto 2011

Jesse Sykes & The Sweet Jesse Sykes & The Sweet

HereafterHereafter Marble Son [Fargo 2011]

Trovarsele così, le note che descri-vono le nuove passioni di Jesse Sykes e dei suoi Sweet Hereafter, lasciano quanto meno interdetti: marcare l'accento sulle recenti collaborazioni con Sunn0))) e Bo-ris (nel progetto pareallelo Alter), messaggeri di spettrali ambienta-zioni fra metal e linguaggi dilatati che dalla radice psichedelica oggi passano sotto il nome di drone music, fa pensare ad un voltafac-cia spiazzante, come se lo scena-rio gotico, tipicamente country noir, che così efficacemente veni-va evocato dai precedenti lavori del gruppo di Seattle si fosse tra-sformato in un vero e proprio in-cubo. La realtà è ben diversa, per-ché se di influenze e contributi si deve parlare, allora questi ultimi si sono risolti soltanto in un suono più livido, elettrico, squarciato dai lampi chitarristici del bravissimo Phil Wandscher. Oggi più che mai è lui il direttore nell'orchestra denominata The Sweet Hereaf-ter: l'ex Whiskeytown (non pos-siamo che ricordare sempre con una certa nostalgia il suo ruolo di co-fondatore con Ryan Adams) padroneggia un carico di riverberi e fragranze psichedeliche che sembrano sbucare dalla stagione più visionaria della baia di San Francisco, allargando la radice si-xties e folk rock della band, così come i profumi tradizionali della scrittura di Jesse Sykes, verso fu-ghe lisergiche e lunghe code stru-mentali. Marble Son non è dunque un salto nel buio, anche se le at-mosfere lo farebbero pensare,

semmai un'ulteriore "sbandata" oltre le intuizioni del già ottimo Like Love Lust and the Open Halls of Soul, facendo tesoro degli anni di produzione al fianco del quotato Tucker Martine. La forma canzone allora si espande, seguendo maga-ri i suggerimenti dei Black Mountain con cui hanno condiviso un tour, mentre la voce di Jesse Sykes non è più illuminata al cen-tro della scena, ma un elemento del tutto, uno strumento che si deve amalgamare ai passaggi un po' onirici e un po' chiassosi dei compagni di ventura. Una musica non per tutte le stagioni, che esige davvero un ambiente attorno a sé, una serie di suggestioni che ne carichino la parte emozionale: in fondo le pla-cide acque della title track, le so-gnanti melodie di Come To Mary e Be It Me, Or Be It Done, non si distanziano dal marchio di fabbrica di questa ignorata, validissima testimone del nuovo folk america-no, ma il loro effetto si annulla inevitabilmente nei rintocchi di Hushed By Devotion, cavalcata di otto minuti che deflagra in picchi di rock psichedelico, feedback e riff di chitarra traboccanti. Questa "ruggine" elettrica, come l'avrebbe giustamente chiamata il maestro Neil Young, si impossessa di Cei-lings High, forse la più vicina alla sostanza di certo alternative country del passato, e prende let-teralmente il largo con Pleasuring The Divine, più nervosa nel suo sviluppo. È qui che risalta il ruolo di Wandscher, il quale si tiene in serbo persino un fantomatico In-strumental, sei minuti di echi we-stern psichedelici che sembrano resuscitare la lezione della coppia Cipollina-Duncan nei Quicksilver Messenger Sevice, riletta alla luce di una musica più rarefatta e ral-lentata. Svoltato l'angolo torna protagonista per un momento l'in-quietudine della voce di Jesse Sykes in Birds Of Passerine, nono-stante sia il trascinante saliscendi di Your Own Kind a distinguere con intensità il percorso degli at-tuali Sweet Hereafter. Wooden Roses nel finale pare voler calma-re le acque, ma è evidente quanto Marble Son sia un disco di svolta,

un passaggio che lascia aperti an-che molti interrogativi su quale sarà il destino della coppia artistica Sykes-Wandscher. Conservando comunque il fascino un po' sinistro e incantato del passato, Jesse Sykes and the Sweet Hereafter sono oggi un ecci-tante gruppo al confine tra il senso profondo delle radici e l'ignoto della ricerca. (Fabio Cerbone)

Bill CallahanBill Callahan Apocalypse [Drag City 2011]

E' un'apocalisse privata, intima ("My Apocalypse", è ripetuto in più punti), quella inscenata nei sette intensi movimenti dell'ultimo disco di Bill Callahan. Anche quando lo sguardo pare abbracciare una di-mensione politica, come in Ameri-ca!, lo fa per marcare l'inadegua-tezza dell'autore a "servire la pa-tria", a seguire l'esempio di quell'e-sercito di folksinger i cui gradi sono passati in rassegna nei versi della canzone ("Captain Kristofferson, Buck Sergeant Newbury, Leather-neck Jones, Sergeant Cash - what an army!"). L'America di Callahan non è dentro la storia, ma nella na-tura, tra paesaggi da western cre-puscolare e la wilderness salvifica di H.D. Thoreau: un luogo dell'anima suggerito dal dipinto di Paul Ryan in copertina e introdotto dai 5 minuti di lenta epifania di Drover, che dà il tono al disco accompagnandoci nel-le riflessioni di un mandriano erran-te. Finché in fondo al viaggio, ad apocalisse avvenuta (o immaginata, o sperata), la voce di One Fine Mor-ning si domanda, sentendosi già parte della terra e della strada: "vi sentirò viaggiare sulla mia schie-na?".

Page 26: RootsHighway Mixed Bag #10

26

RootsHighway Mixed Bag #10

Questa apocalisse non è distruzio-ne ma palingenesi, voglia di rina-scita: ricerca di un approdo. Ogni canzone è un quadro indipenden-te, ma è anche parte di un "polittico" che illustra un percorso, dallo smarrimento al ritrovamento di sé. Andando nei dettagli: Dro-ver, sorta di flamenco destruttura-to, suona come i Calexico ai confi-ni del mondo; Baby's Breath è un racconto di amore e perdita sor-retto dal cuore palpitante di un vecchio blues di Lightnin' Hopkins e disturbato dai feedback della chitarra di Matt Kinsey; America! sposa ricordi di Smog a un groove di chitarra che è funk metropolita-no, mentre evoca tra sarcasmo e nostalgia un paese in cui "a tutti è concesso un passato che si ha cu-ra di non menzionare". Universal Applicant - ermetico apologo di un uomo legato su una barca in mez-zo all'acqua che, nel tentativo di liberarsi, ne provoca l'affondamen-

to - è il turning point del disco: tesa e psichedelica, quasi una danza pellerossa, nella prima par-te, si scioglie verso la fine (l'accettazione del proprio desti-no?), conducendoci a Riding For the Feeling, il brano meno spigolo-so, l'unico che avrebbe potuto tro-vare spazio anche su I Wish We Were An Eagle, una meditazione sulla "via più veloce per raggiun-gere la riva". Free's flirta con flau-to e cimbali, quasi alla ricerca di una dimensione da "settimane astrali", mentre One Fine Morning è - in parallelo al misticismo pan-teistico delle liriche - la cosa più vicina al gospel che vi potete a-spettare da Callahan, puntellata dal piano di Jonathan Meiburg (Okkervil River, Shearwater). Di contro alla morbida densità sperimentata negli arran-giamenti di archi e fiati e nel tono dolcemente malinconico del disco precedente, qua il linguaggio, pur

nella sua essenzialità, appare disar-ticolato, espressionisticamente scomposto. A cucire e dare unità è la voce di Callahan, fulcro emotivo e stilistico che riconduce i vari ele-menti sparsi del suo folk non orto-dosso a un'unità di significato. I colori della tradizione sono mesco-lati per creare qualcosa che non è tradizionale - le canzoni non hanno una struttura diritta, sembrano pro-cedere per scarti emotivi, come i cambi di tempo di Baby's Breath - ma risulta comunque familiare. E' il suono di un mondo in-teriore che concilia gli opposti, ri-compone fratture e crea armonia dalla tensione. I Wish We Were An Eagle era suonata ad alcuni opera di transizione, di passaggio: Apo-calypse mostra che il punto di (momentaneo) arrivo è un luogo ove pochi artisti sono in grado di giungere. (Yuri Susanna)

Ian Siegal and The Youngest SonsIan Siegal and The Youngest Sons The Skinny [Nugene 2011]

Faccia da spaccone e sorriso beffardo, Ian Siegal ha tatuato sulle braccia Muddy Waters e Howlin' Wolf. Una scelta senza mezzi termini, come il suo blues crudo e senza fronzoli di sorta, da chitarre "scarnificate" e voce cavernosa rubata alla strada, quella dei buskers di Berlino dove s'è fatto le ossa. A riconoscerne il talento basta vederlo dal vivo, corrisponde a quel che si dice di chi la musica la mastica davvero: meglio così che su disco. Il supporto "fonico" a quelli come lui non sempre rende giustizia, a meno che non sia registrato al top da un'abile produzione a coglierne l'atmosfera e gli umori del contesto, meglio ancora se "analogico" e "downhome". Non a caso uno studioso dei luoghi sacri del blues in Mississippi come Steve Cheseborough (Blues Tra-veling. The Holy Sites of Delta Blues, University Press of Mississippi) ha dichiarato proprio come dentro a quei posti vi sia davvero qualcosa di magico, del tipo che "quando mi siedo e suono Catfish Blues e Kindhear-ted Woman in Mississippi.." - dice - "..suonano meglio rispetto a quando le suono a New York o in Arizona". Dev'essere a qualcosa del genere che hanno pensato anche i North Mississippi All Stars, se il fratello Cody Di-ckinson ha poi deciso con gli altri di ospitarlo dalla vecchia Europa a Col-dwater, Mississippi, e produrgli il nuovo The Skinny. Ecco allora che quel diavolo di Siegal si ritrova nel posto giusto al momento giusto, oseremmo dire, e cioè un agosto 2010 allo Zebra Ranch (lo studio di Coldwater, Mississippi fondato da papà Jim Dickinson) dei fratelli, a Nord del Magnolia State, neanche fosse uno di casa. Ed ecco perché all'occasione si presentano pure eredi Burnside & Kimbrough (papà Robert Lee e David "Junior" sono ormai tra i "grandi" padri del Blues, di questo blues) e con l'alternanza di Cody alla batteria col figlio di Bobby Blue Bland (Rodd), il basso di Garry Burnside e l'altra chitarra di Robert Kimbrough, formano gli Youngest Sons. Il resto è il sound di cui sopra, quello che anche su disco (e stavolta è una di quelle) rende merito a mr. Ian, nato Berry, 1971, profondo Sud ..dell'Inghilterra. Che si conservi, nemmeno lui lontano da un cliché di "maledettismo", ma di certo troppo "young" per una voce così satura di bourbon, whisky o che si voglia beer. Chiaro (come l'acqua-vite..) quando approccia la title-track, incedere pastoso come l'acque fangose, e una partecipazione persino di Alvin Youngblood Hart all'altra chitarra. Poi salta fuori come special guest anche Andre Turner per quel suono che, ancestrale, riprende il flauto di legno di nonno Othar e in Devil's In The Detail, un richiamo ritmi-co tribale da una triangolazione che, in questi casi, tra Europa, Africa e America, riscatta uno storico e dram-matico passato. Il vortice gorgogliante della washboard elettrificata di Cody trasforma il blues di Stud Spider in un moderno funky e dalla Picnic Jam (a firma Burnside) a Natch'L Low (Coolin' Board) più nera che mai, Ian Siegal con gli Youngest Sons se ne esce veramente come un rinato e ululante lupo mannaro inglese a Tate County, USA. (Matteo Fratti)

Page 27: RootsHighway Mixed Bag #10

27

RootsHighway Mixed Bag #10

Okkervil RiverOkkervil River I Am Very Far [Jagjaguwar 2011]

Che il sesto album degli Okkervil River sarebbe stato quello di una nuova svolta per il gruppo era nel-l'aria già da tempo. Contando che The Stand Ins era un disco nato insieme al precedente The Stage Names, era dal 2007 che Will Sheff e compari non entravano in uno studio di registrazione (a par-te il bellissimo disco con Rory Eri-ckson), e le dichiarazioni dell'or-mai incontrastato leader del grup-po (all'indomani del definitivo ab-bandono di Jonathan Meiburg, co-munque presente in queste ses-sions) erano tutte volte a prepara-re il terreno a qualcosa di inedito e rivoluzionario. Abbiamo scaramantica-mente stretto un po' i denti, gli occhi e forse anche qualcos'altro prima di ascoltare I Am Very Far e abbiamo invocato gli dei perché non ci facessero recitare l'epitaffio anticipato per una delle band che più abbiamo amato e sostenuto negli anni 2000, ma alla fine le nostre preghiere sono state ben ripagate. Sconvolgetevi pure per il fatto che il singolo Piratess è un brano più vicino alla lounge-music anni 80 che al loro freak-folk tra-sversale (wurlitzer, batteria elet-tronica, basso in evidenza…), che l'iniziale The Valley si basa su un pesantissimo big-drum-sound anni 80 che farebbe invidia al Max Weinberg di Born In The Usa (con l'unica differenza che in questo caso l'effetto è ottenuto facendo suonare la batteria del nuovo arri-vato Cully Symington in sovrae-sposizione ad una seconda suona-ta dallo stesso Sheff). E basta an-che leggere l'ultima frase per tro-vare subito qual è il denominatore comune tra queste canzoni: gli anni 80, che tornano prepotente-mente sottoforma di un rinnovato (e ovviamente più saggio) utilizzo delle tecnologie, di sampler, espe-rimenti con nastri riavvolti e sva-

riati tipi di tastiere, e di grandi produzioni mai troppo scarne (vi diamo un paio di dati per rendere il concetto: per realizzare l'album sono stati utilizzati 31 musicisti, per un totale di circa 35 strumenti diversi tra vari tipi di tastiera, ar-chi, chitarre e diavolerie elettroni-che). I Am Very Far nasce dun-que come prodotto di un lungo percorso creativo in studio di regi-strazione, ma senza l'assillo delle vendite che regnava negli eighties, senza l'idea che la musica debba essere adattabile ad un immagine, senza soprattutto produttori impo-sti dalle case discografiche e con gusti lontani da quelli della band. Se l'album non fallisce l'obiettivo come è accaduto al recente Cele-bration, Florida dei Felice Brothers è semplicemente perché Will Sheff sembra davvero non aver mai perso di vista il fine di tutto: scrivere grandi canzoni. E così go-diamoci brani che in verità non sono per nulla così lontani dagli Okkervil River che furono, come ad esempio White Shadow Waltz, un pezzo che 6 anni fa la band avrebbe registrato nello stile dark-folk di Black Sheep Boy, e che in-vece oggi presenta in un tripudio di batterie tuonanti, archi maesto-si, cori unisoni e tastiere martel-lanti. Godiamoci Rider, puro roots-rock mainstream, oppure il tema da colonna sonora di Mermaid, il folk-pop leggero di Lay Of The Last Survivor, il crescendo di Your Life Past As A Blast, la marcia pop di Wake And Be Fine. Difetti? Sheff stesso am-mette di non aver ancora capito bene quale sia il risultato ottenuto, e forse nell'essere ancora un og-getto indefinito e indefinibile sta tutto il limite di I Am Very Far, che non sarà mai il primo disco degli Okkervil River che consiglieremo ai neofiti, ma che ha già raggiunto l'incredibile risultato di evitare che

qualcuno un domani possa dire "Ah, gli Okkervil River, mi sono piaciuti fino a The Stand Ins, poi quando hanno cambiato stile non li ho più seguiti…". (Nicola Gervasini)

Brian WrightBrian Wright House on FireHouse on Fire [Sugar Hill 2011]

Figlio del Texas profondo, Brian Wright ha preferito andare a respi-rare la salsedine del Pacifico con la sua band - i Waco Tragedies: niente più che uno dei milioni di gruppi che ogni sera calpestano i palchi dei club di Los Angeles. Hanno anche registrato un paio di dischi (autoprodotti, ovvio, e finiti nel nul-la): file under alt.country, se vi in-teressa. Ma nella testa di Brian tur-binano troppe idee per lasciarle ap-passire nel recinto limitato della sua band. Così, si è chiuso in uno studio di registrazione a Laurel Canyon e, in solitudine quasi totale, un po' alla volta ha provato a dare forma a quelle idee. Suonando, sperimen-tando, sovraincidendo. Qualcuno, passato a trovar-lo, ha lasciato il suo contributo, principalmente ai cori: Joe Purdy, Sally Jae, Torrance 'Stonewall' Ja-ckson... Per il resto, Wright fa tutto da solo. Non solo lo sfogo di un'os-sessione musicale, ma anche un tentativo di esorcizzare una vita incasinata e senza direzione. Ne sarebbe potuto uscire un pasticcio

autoreferenziale, ma le radici southern hanno salvato Brian dalla deriva, lo hanno tenuto ancorato a canzoni dalla forma concreta, tenace-mente fruibile. Nel-l'insieme House on Fire è una bella pro-va di songwriting, ma anche qualcosa di più. Soffermandosi a studiare i particolari si colgono le sfaccet-tature del lavoro

Okkervil River

Page 28: RootsHighway Mixed Bag #10

28

RootsHighway Mixed Bag #10

compiuto da Wright sui suoni, la varietà delle soluzioni. Non c'è una canzone uguale all'altra: il disco parte infilando in sequenza l'espe-rimento pop psichedelico dall'ani-ma country Striking Matches, la ballata in 3/4 in stile Elvis Costello Blind April, il duetto da texas trou-badour con Jamie Drake Live A-gain, l'atmosfera gotica dell'inten-sa Accordion, attraversata dal ri-verbero delle chitarre e dalla vi-brazione minacciosa delle percus-sioni. E non siamo neanche a un terzo del disco. Prima della fine, c'è tempo ancora per un country-gospel (Mesothelioma), un blues (Rich Man's Blues), un r&b old style (Still Got You), un folk-soul à la Ry Cooder (If You Stay) e un pop/rock "tompettyano" (Had E-nough). Ah, e anche un raga-hillbilly (The Good Dr., e no, non c'è venuta una definizione miglio-re…). E poi c'è Maria Sugarcane: racconto di due fratelli innamorati della stessa donna, violenza e rim-pianti, che sembra uscito da Ne-braska di Springsteen, con una melodia che ricorda il John Prine di Donald & Lydia. Sono 14 canzoni ma, per una volta, non sembrano troppe. Il rischio semmai era che tutto questo rimanesse oscuro, nasco-sto: il disco era già in giro nel 20-10, autofinanziato e venduto ai concerti. Per fortuna alla Sugar Hill hanno le orecchie aperte e, anche se ormai i cd è più facile venderli come sottobicchieri che come supporti fonografici, ne han-no acquisito i diritti e si sono ac-collati l'onere di ristamparlo e dar-gli una distribuzione adeguata. Con anche una nuova copertina - quella originale rappresentava un fiammifero acceso su sfondo nero -, ispirata alla pubblicità vintage di un medicinale. Già, perché questo disco in qualche modo ha funzio-nato da antibiotico, nella vita di Brian: in questo anno tante cose si sono aggiustate, ora è anche pa-dre di un bimbo. E, non ultimo, ha finalmente la possibilità di pro-muovere il suo lavoro come si de-ve. "Il miglior disco che ancora non possedete", recita il claim promozionale. Non vi resta che ascoltarlo. (Yuri Susanna)

DawesDawes Nothing is Wrong [ATO 2011]

Smessi i panni del progetto Middle Brother, in cui Taylor Goldsmith incontrava spiriti affini e sognava orizzonti comuni con altri giovani autori (John McCauley e Matthew Vasquez, rispetivamente dai Deer Tick e Delta Spirit) alla ricerca del tempo rock perduto, le canzoni migliori finiscono per fortuna nella sacca dei Dawes, principale band di riferimento formata con il giova-nissimo fratello Griffen dietro i tamburi della batteria. Nothing is Wrong accre-sce le quotazioni del gruppo cali-forniano, fra i principali animatori di un ritorno alle visioni folk rock della West Coast, oggi peraltro battezzati dalla presenza non ca-suale di Jackson Browne, voce aggiunta nel finale della strepitosa cavalcata Fire Away. Idealmente siamo trascinati negli stessi inna-moramenti musicali che in queste stagioni hanno generato, non solo sulle sponde della costa del Pacifi-co, le avventure di Truth and Sal-vage Co., naturalmente i già citatri Delta Spirit e Deer Tick, così come i campioni del rinascimento "seventies" Fleet Foxes e i più chiacchierati Band of Horses, un pugno di band con personalità di-stinte ma tutte accomunate da una fresca rilettura del passato

che l'acuto critico inglese Simon Reynolds non esiterebbe a definire "Retromania". Rispetto però alla radice indie rock che sembra popo-lare le spinte della maggior parte dei musicisti appena menzionati, i Dawes scelgono la via più diretta e semplice, puntado certamente sugli impasti vocali, sulla rinascita del cosiddetto suono del Laurel Can-yon, pregando i santini di CS&N, del padre putativo Jackson Browne, ma dando l'impressione che il cuore di Nothing is Wrong sia la bellezza della canzone, la sua disarmante costruzione melodica. Più elettrico e spumeggiante del già prelibato e-sordio North Hills, ancora visionato dala produzione di Jonathan Wilson, il nuovo lavoro amplifica i ganci pop della scrittura di Taylor Goldsmith, mettendo in comunicazione il tono nostalgico delle storie, i brevi cenni e le confessioni autobiografiche con la speranza insita nelle armonie: nascono così ballate dove gli asso-luti protagonisti, piano e chitarra, dialogano tenendo dritta la barra della melodia, portando The Way You Laugh verso una marcetta cele-stiale con una slide che evoca il mi-gliore David Lindley, oppure chiu-dendo sulle note languide, tristan-zuole di A Little Bit of Everything, altro saggio di tenera West Coast aggiornato al 2011. Si accennava tuttavia ad una spinta più elettrica, frutto evi-dentemente dalla passione alimen-tata sulla strada, forse dal fatto che persino Robbie Robertson (The Band è un altro imprescindbile tas-sello del suono Dawes) sia stato stregato dei ragazzi, imbarcandoli come backing band dei suoi concer-ti: da qui sbucano autentici singoli killer quali Time Spent in Los Ange-les e If I Wanted Someone, la se-conda un country rock rutilante che candida i Dawes tra i più credibili discepoli dei Jayhawks, mentre My

Way Back Home ritorna sui passi di una ballata onirica, un folk pop flu-tuante in cui gioca un ruolo centrale l'or-gano (c'è an-che l'ospite B e m m o n t h Tench dagli H e a r t b r e a -kers…e il cer-chio sembra

Dawes

Page 29: RootsHighway Mixed Bag #10

29

RootsHighway Mixed Bag #10

davvero chiudersi sulle influenze). C'è ancora tempo per le scintillanti rincorse rootsy di Coming Back to a Man e per l'esplosione "byrdsiana" di How Far We've Co-me, campo di prova per la vocalità accentuata della band, mai inva-dente però o tentata da fastidiosi barocchismi. La moderazione e il tono pacato con il quale Taylor Golsmith e compagni provano a conquistarci sono infatti i tratti distintivi di una piccola band che non sembra ambire alla grande impresa: piacciono proprio per questo loro ingenua purezza, forse mascherata dietro un'astuzia da veri sacchegiatori del passato. E se per qualcuno tutto ciò rifletterà un segno di debolezza o di normale semplicità poco impor-ta, a noi pare di avere trovato u-n'altra piccola oasi di eccellenza nel giovane rock americano. (Fabio Cerbone)

Gillian WelchGillian Welch The Harrow & The Harvest [Acony 2011]

Un senso di incantata immobilità assale al primo ascolto di The Harrow and the Harvest, disco agognato per otto lunghi anni che sembra consegnarci una Gillian Welch chiusa in una teca, rapita dalla sua anima folk più intereger-rima. È difficile scalfire questa su-perficie e non farsi guidare da un naturale istinto, lo stesso che vor-rebbe la cantautrice ferma sulle sue convinzioni: l'interminabile silenzio artistico e la conseguente aspettativa, da parte di un publico Americana che l'ha derintivamente consacrata ad ambascitrice del genere, non aiutano certo a mi-gliorare la situazione. Un'attesa che evidentemente rischia di gio-care brutti scherzi, soprattutto se si attendeva una progressione che già sembrava trapelare frai solchi dell'interlocutorio Soul Journey, album che rimandava infatti ad una nuova dimensione. Non è arri-vata, sono trascorse stagioni in-

terminabili e oggi The Harrow and the Harvest risulta persino provo-catorio nella sua "chiusura" al tempo: non un passo avanti, bensì due indietro, verso l'asciutto folk appalachiano, le ballate scure e dense della tradizione, il suono acustico più scarno e indifeso, che esalta la voce della Welch e gli incastri agli strumenti a corda del-l'inseparabile compagno David Rawlings. Tutto già scritto, tutto già detto in Hell Among the Yearlings e Time (The Revelator), ormai punti fermi del moderno folk ame-ricano, che intorno a questa musi-ca ruotavano con un senso ciclico (e un po' mistico) della vita e della musica. Eppure la sincerità di The Harrow and the Harvest, il fatali-smo delle sue storie, l'intersecarsi di mortalità, speranza, desiderio e depressione (immancabile se finia-mo nell'old time music) che sbuca-no dalle parole come pietre di Gil-lian Welch non passano inosserva-te, non sono semplicemente "un altro revival", uno dei tanti che sta vivendo l'american music. Non sarà probabilmente il disco della consacrazione, semmai una rilet-tura delle tematiche che da sem-pre nutrono i sogni di questa ra-gazza d'altri tempi. Ciò nonostante The Har-row and the Harvest racchiude ancora quel senso di mistero infi-nito che pone il suo contenuto fuo-ri da ogni contingenza: il ruvido incedere hillbilly di Scarlet Town ci introduce in questo mondo di ma-gia, fra sentimenti di vendetta. Personaggi trascinati dagli eventi quelli della Welch, che parla di amore e morte con una grazia che regge soltanto nella sua bocca, senza trasformarsi in una messin-

scena: Dark Turn of Mind resta in equilibrio fra dolcezza delle chitarre e crudele ferocia delle parole, Hard Times viene ancora dal passato ma si adatta incredibilmente ai nostri giorni, mentre un trittico di brani che si aprono con "The Way" nel titolo (The Way it Will Be, The Way it Goes, la conclusiva The Way the Whole Thing Ends) paiono sviluppa-re l'intera gamma di umori del di-sco, quasi una sintesi che si dipana fra la ripresa del country più rurale e quelle eteree ballate folk che nello scambio delle voci e delle chitarre fra la Welch e Rawlings hanno im-presso uno stile. Non manca natu-ralmente la murder ballad di turno, una Silver Dagger che attinge diret-tamente alla fonte della Carter Family, mentre la dolcissima e on-deggiante Tennessee e assai di più Down Along the Dixie Line evocano luoghi e ricordi, immersi nella cultu-ra e nelle immagini del Sud. Ritratti che necessitano solamente di qual-che contrappunto al banjo, oppure un'armonica sporadica (ad esempio nella rustica, asciutta Six White Horses, altra invocazione dei fanta-smi della più pura hillbilly music) per acquisire una forza quasi ance-strale. La musica di Gillian Welch è primitiva e non si pensi ad una con-traddizione con la grazia della sua interpretazione: basterebbe un vec-chio 78 giri dell'epoca della Grande Depressione per cogliere questo contrasto. Certo resta la sensazione (e forse anche il rammarico) di u-n'artista che non sente neppure l'esigenza di uscire dal suo guscio folk, quasi si trattasse di una sfida: il miracolo è che Gillian Welch rie-sce comunque ad apparire moder-nissima. (Fabio Cerbone)

Gillian Welch & David Rawlings

Page 30: RootsHighway Mixed Bag #10

30

RootsHighway Mixed Bag #10

William Elliott WhitmoreWilliam Elliott Whitmore Field Songs [Anti 2011]

Dalle profonde rive del fiume Mis-sissippi torna ad affascinarci con la sua voce catramosa e il suo banjo William Elliott Whitmore, dopo l'ottimo Animals in The Dark. La foto in copertina di questo suo quinto album parla da sé: una semplice foto seppia, dove due agricoltori scaricano un carro pie-no di fieno a simbolizzare il rap-porto dell'uomo con la terra, la natura e con la vita rurale fatta di duro lavoro. Field Songs incorona con i suoi umori l'essenza delle old time ballads, del folk di protesta e del blues rurale degli anni '30 e '40 che erano cantati nei cotton fields da bluesman come Blind Willie Johnson, Bukka White, Blind Blake e Leadbelly. Anche se meno immediato del suo predecessore, Field Songs cresce ascolto dopo ascolto ed è il suo compagno ideale. Nonostante suoni dismesso, scarno e malinco-nico ai primi ascolti, è l'album più ispirato del farmer dell'Iowa e for-se anche il suo masterpiece. Ancora una volta William basa tut-to il suo sound sui suoni gentili di un banjo scordato o di una vecchia chitarra acustica, su rudimentali tamburi, sui battiti di mano o sugli stompin feet con qualche field re-cording registrati all'aperto (il cin-guettio degli uccelli, le cicale, il vento, l'acqua che scorre) ad ac-compagnare la sua voce solitaria e spoglia, che mai ha suonato così vera, sincera e piena di dolore. Se i primi tre album, Hymns For The Hopeless, Ashes To Dust e Song Of The Blackbird (che formavano una sorta di trilogia) erano in-fluenzati dalla perdita dei genitori ed erano pieni di funeral songs e dolorose murder ballads, Field Songs riflette la vita nell'heartland americano condotta nella fattoria di 160 ettari dei nonni, dove è cre-sciuto e ancora oggi vive allevan-do i suoi cavalli. Non stupisce per-ciò il fatto che i testi parlino della

vita nel profondo Sud, di una vita all'aria aperta condizionata dalla natura, il tutto avvolto dalla sua voce che sempre più sembra quel-la di un motore diesel. Bury your Burdens In The Ground riflette ancora il dolore palpabile per la perdita dei genitori, un dolore che trova riparo nella natura. Il brano è scarno con il banjo ad accompa-gnare la sua voce carica di gospel. La title track sembra un pianto di dolore cantato da Mississippi John Hurt mentre nella tranquilla Let's do Something Impossible il nostro troubador torna ad imbracciare il suo banjo accompagnandoci pigra-mente sulle note di una folk ballad irresistibile capace di infonderci tanta grazia e tranquillità. Don't Need It è uno dei brani più belli dell'album, un country blues tirato e battuto dal fischiettio del vento e dal semplice suono del suo tamburo che rimbomba ipnoti-co ed insistente. Everything Gets Gone possiede il mood di una go-spel song cantata con tutta l'ani-ma e il cuore di un vero cantasto-rie mentre Get There from Here è una folk ballad trascinante che ti si appiccica in testa. Le cicale annun-ciano la finale Not feeling Any Pain, un lungo e tirato stompin' country blues che risulta il brano più riuscito dell'intera raccolta. Nonostante la sua brevità (solo 8 brani) Field Songs deve essere ascoltato tutto d'un fiato senza pause, al fine di poterti en-trare e non lasciarti più. Mai un semplice banjo e una chitarra acu-stica hanno suonato così sinceri e veri. E come diceva Sam Beckett riassumendo l'essenza del blues "quando sei quasi rovinato e non hai nulla, l'unica cosa che ti resta da fare è cantare, cantare del pro-prio dolore". Colpo di Fulmine. (Emilio Mera)

RootsHighway consiglia

ISRAEL NASH GRIPKA & BAND

Italian tour 2011

25/10 CANTU' (CO)

All'Unaetrentacinque circa 27/10 CASALGRANDE (RE)

(Loc. Dinazzano) Barricada Club

28/10 BORGO VALSUGANA (TN) Teatro Auditorium

29/10 VICENZA (zona ferrovieri) Club Retrò

30/10 FAENZA (RA) Lismore Irish Pub

31/10 SAVIGNANO sul RUBICONE (FC)

Sottomarinogiallo 01/11 NAPOLI

Good Fellas 02/11 CECINA (LI)

Birroteca Doppiomalto

Info: ROOTS MUSIC CLUB

www.rootsmusicclub.com [email protected]

William E. Whitmore

Page 31: RootsHighway Mixed Bag #10

31

RootsHighway Mixed Bag #10

Steve EarleSteve Earle I’ll Never Get Out of This World Alive [New West 2011]

Ripartendo dall'icona Hank Wil-liams Steve Earle torna all'essen-za del suo ruolo di storyteller, alla scrittura più asciutta che potesse immaginare, lasciandosi alle spalle rivoluzioni e antagonismi, per ab-bracciare una saggezza quasi filo-sofica. Non si è ammorbidito, per-ché, come giustamente sottolinea egli stesso nelle note di presenta-zione, ogni singolo verso di I'll Never Get Out of this Wold Ali-

ve fa i conti in qualche modo con il senso di mortalità del mondo, guardandolo spesso dalla prospet-tiva degli ultimi, degli esclusi. Tuttavia, scegliere come titolo quella canzone di Hank non è una provocazione senza signifi-cato: l'ultimo spettrale singolo che il fuorilegge del country incise po-co tempo prima di morire, in una fredda notte di capodanno del 19-53, è un monito per lo stesso Ear-le e la sua vita al limite, oltre che il titolo di un nuovo racconto da lui firmato e che verrà pubblicato proprio in questo periodo, raccon-tando le gesta di Doc Ebersole e del fantasma del suo vecchio pa-ziente, guarda caso Hank Wil-liams. In questo intreccio di musi-ca, narrativa e leggenda l'attenzio-ne non poteva che ricadere sulle parole e sulla vulnerabilità di un songwriter che non avrà più l'ir-ruenza rock dei giorni migliori, ma si è trasformato davvero in un maestro di equilibrio e sobrietà: chiamando T Bone Burnett e la sua squadra di fidati collaboratori (ci sono Dennis Crouch e Jay Bel-lerose alla sezione ritmica, mentre

Greg Leisz pennella alla steel) il risultato era "prevedibile", dando forma a ballate austere, asciugate nel suono prevalentemente acusti-co, ma capaci di riprendere i fili della tradizione più densa dell'a-merican music. Si potrebbe partire ad esempio dal crudo suono hil-lbilly che trafigge l'ironica Little Emperor, dominata dal violino di Sara Watkins e dal mandolino che trascina Earle persino ai tempi di Train a Comin', ritorno dagli inferi che fece giustamente gridare al miracolo. Al linguaggio e alle sco-perte musicali di quel periodo una buona parte del repertorio di I'll Never Get Out of this Wold Alive si ricollega immediatamente, seppu-re interpretato con la maturità di oggi: un saliscendi country della fattura di Waitin' on the Sky erano anni che non sbucava dalla penna di Steve e l'impatto è diretto, una travolgente danza sul border che lancia manciate di brusca terra texana. Molly-O è addirittura un "bagno di sangue" degno della migliore memoria delle murder ballads, suono scuro e ancestrale che viene riscattato dalla dolcezza di The Gulf of Mexico, God Is God e I Am a Wanderer, le ultime due donate a suo tempo alla musa Jo-an Baez, ma oggi ripescate con più fedeltà al loro carattere origi-nale. Ritorna qui l'affetto per Wo-ody Guthrie e per una canzone circolare, che nella sua semplicità esalta i toni spezzati della voce, invecchiata come un ottimo whisky d'annata, e la stessa pro-duzione di Burnett. Quest'ultimo non ha inva-so il campo, riuscendo a cogliere lo spirito denso, eppure disarman-te di molte melodie: l'effetto è evidente in Every Part of Me, folk song già sentita forse, che pure suona come un riassunto dello stile di una vita, o ancora nel com-movente ritratto di Lonely Are the Free. Lo zenith di questa nuova espressività è probabilmente rac-chiuso dalla conclusiva This City, clamorosa dedica all'anima ferita di New Orleans: un brano già ap-parso nella colonna sonora della serie televisiva Treme (dove Earle recita un ruolo) e arrangiato sa-pientemente dal maestro Allen

Toussaint, che sembra misurare l'intervento dei fiati e l'afflato soul della canzone, modellandolo sul tono accorato dell'interprete. (Fabio Cerbone)

Warren HaynesWarren Haynes Man in Motion [Concord/ Stax 2011]

Mentre Gregg Allman sta promuo-vendo il disco solista Low Country Blues (salito nei top ten america-ni...un risultato sorprendente anche in un periodo di crisi discografica) e Derek Trucks è in tour con la Tede-schi Trucks Band (a giugno esce Revelator registrato con la moglie Susan), anche l'iperattivo Warren Haynes si è dedicato ad un proget-to solista. Accantonati per il mo-mento i Gov't Mule finalmente è riuscito ad incidere l'album ispirato dal soul della Stax che aveva in mente da anni, non a caso pubbli-cato dalla Concord, proprietaria del glorioso marchio di Memphis. Il primo amore del chitarri-sta di Asheville è stato il rhythm and blues; è un ammiratore di molti artisti di colore (Otis Redding, Boo-ker T., Albert King, Eddie Floyd, Four Tops, James Brown, Ray Char-les...) e nel suo vasto repertorio non sono mancate covers di musica soul. Con l'aiuto di Gordie Jo-hnson (che ha prodotto gli ultimi dischi dei Mule) Warren ha raccolto brani scritti nel corso degli anni a-datti per questo progetto ed ha in-ciso ad Austin nei Padernales Stu-dios di Willie Nelson con una band di musicisti esperti di black music, tra i quali il bassista dei Meters Ge-orge Porter Jr., i tastieristi Ivan Ne-ville e Ian McLagan ed il sassofo-nista Ron Holloway, oltre ad una sezione fiati ispirata ai Muscle Sho-als Horns.

Second HandSecond Hand avvistati in questi mesi

Page 32: RootsHighway Mixed Bag #10

32

RootsHighway Mixed Bag #10

Il risultato è un disco eccellente, incentrato sulle non trascurabili doti di vocalist di Haynes; questo non vuol dire che nel disco manchi la chitarra...ogni brano è arricchito da assoli brillanti ed incisivi con code strumentali jammate, ma è diverso il contesto: il suono è più morbido e ritmato con la batteria in primo piano ed un ruolo prima-rio per le tastiere suonate splendi-damente da Neville e McLagan. L'opener Man In Motion, introdotta da piano e organo, viaggia tra una ritmica funky e splendide tastiere gospel, con la voce calda di Haynes e dei fiati in ritmica mutuati dal soul più classi-co; la coda strumentale si trasfor-ma in una jam nella quale la chi-tarra solista è ispirata dal periodo Stax di Albert King. River's Gonna Rise è un mid-tempo intenso e trascinante con un testo ispirato ai cambiamenti del continente africa-no ed intrecci mirabili di tastiere e chitarra. Si prosegue su ottimi livelli con Everyday Will Be Like A Holiday, l'unica cover dell'album, una ballata di William Bell (singolo Stax nel '67) nella quale la fluida sezione strumentale ricorda il suo-no degli Allman Brothers. Il ritmo si alza nuovamente con la funkeg-giante Sick Of My Shadow intro-dotta dal sax di Ron Holloway che duetta anche nel finale con Ha-ynes e Neville. Da sempre le balla-te intimiste sono un punto di forza del chitarrista e Your Wildest Dre-ams lo conferma (con un altro bril-lante assolo di sax). Forse On A Real Lonely Night è il brano più debole del di-sco, un up-tempo leggero e un po' banale appesantito dai fiati in rit-mica, meglio la scattante Hattie-sburg Hustle, non lontana dai Mule più morbidi. Un sax jazzato è pro-tagonista dell'accattivante A Friend To You, resa interessante anche dai cambi di ritmo, mentre l'errebi Take A Bullet ospita la chi-tarra di David Grissom. L'ultimo brano Save Me merita un discorso a parte: si tratta di un sorpren-dente gospel nel quale il suono essenziale di piano e organo so-stiene una intensa performance vocale di Warren, che sembra re-gistrata in una chiesa batti-sta...formidabile conferma dell'e-clettismo di un musicista comple-to, capace di alternare assoli e-splosivi a toni morbidi di grande sensibilità. (Paolo Baiotti)

Eliza GilkysonEliza Gilkyson

Roses at the End of Time [Red House 2011]

La stagione in corso sembra essere l'anno delle "Woman in Action" ovvero un gene-rale risveglio delle cantautrici al femminile, cominciando dal ritorno di Pj Harvey e Lu-cinda Williams passando per le conferme di Nicole Atkins, Eilen Jewell e Anna Calvi. Rientra a pieno titolo tra le conferme del 2011 anche Roses At The End Of Time diciottesimo album per Eliza Gilkyson e l'ottavo per la sempre attenta Red House Records di Greg Brown, contando il bellis-simo live (Your Town Tonight del 2007) e

il recente progetto "Red Horse" realizzato con i compagni di scuderia John Gorka e Lucy Kaplanky. Eliza, al pari di Mary Gauthier, resta una folksinger vera che ha tanto fascino da regalare grazie ad una voce calda e profonda, unita a testi che restano sempre ricchi di spunti so-cio-politici. Ogni sua canzone è come una finestra dentro una vita fatta di lotte e sacrifici per ottenere vittorie e migliorare il mondo in cui vi-viamo e per questo non può non ricordare la principessa del folk di pro-testa: Joan Baez. Ne sono un esempio le bellissime Looking For A Place (rockeggiante e con una bellissima melodia) e Once I Had a Home, che parlano delle troppe persone che ancora oggi sono senza casa. "Rose alla Fine del Tempo" è un album che dimostra tutta la maturità della cantautrice di Austin, tutta la sua passione per la folk music saldamen-te ancorata alle radici della musica americana e ci sarebbero tanti arti-sti, con la metà dei suoi anni, che farebbero salti mortali per regalare le emozioni che Eliza è capace di trasmetterci. La produzione dell'album è affidata al figlio Cisco Ryder che ha svolto un buon lavoro nell'assemblare le dieci ballate contenute che mettono a nudo la sensibilità di Eliza e che crescono ascolto dopo a-scolto. Blue Moon Night, che apre la raccolta, é una lullaby punteggiata dalla chitarra e dalla voce di Eliza che sembra volare come una farfalla e che ti entra sotto pelle già dal primo ascolto. La bellissima Death In Arkansas è stata scritta anni fa dal fratello Tony Gilkinson (membro dei Lone Justice e degli X) e qui reinterpretata in maniera superba con l'ausilio di Lucy Kaplanky alla seconda voce. La versione è molto ro-ots e old timey con il suono del banjo e del fiddle in bell'evidenza. La romantica titletrack è appena sussurata e ricorda Lisa Germano mentre la grazia della sua voce esce allo scoperto con Slouching Towards Be-thlem, una ballad jazzy mozzafiato che ricorda il primo Tom Waits con la tromba in primo piano e l'aiuto dell'amico John Gorka ai cori. Vayan al Norte (cantata in inglese e spagnolo) suona come una "Deportee"(di Pete Seeger) attuale e parla del lungo viaggio che i Messicani intra-prendono passando dalla morte alla vita (o viceversa) superando il filo spinato della frontiera californiana. Il mood triste di questa cumbia ri-corda Lila Downs e rimanda alle composizioni della compianta Chavela Vargas. La lunga Belle Of The Ball, scritta in onore alla madre, è una ballata glaciale e intensa che ti trascina in un vortice di emozioni forti guidate dalla voce della signora Gilkyson con qualche ritocco elettroni-co. 2153 ci riporta in territori roots con una country ballad ricca di pa-thos e ritmo, mentre Midnight On Raton suona malinconica e desertica come una canzone di Townes Van Zandt. La conclusiva Once I Had a Home è forse il brano più innovati-vo con qualche arrangiamento elettronico che non stona in compagnia dell'abrasivo suono della slide. Un album che celebra la sua recente entrata negli Austin Music Hall Of Fame e che farà sognare non pochi. (Emilio Mera)

Page 33: RootsHighway Mixed Bag #10

33

RootsHighway Mixed Bag #10

Greg BrownGreg Brown Freak Flag [Yep Roc 2011]

Probabilmente un segno del desti-no, per un artista che ha sempre giocato fuori dagli schemi, folksin-ger così asciutto e dal sapore anti-co: la prima volta che Greg Brown si era deciso ad arrendersi alla moderna arte della registra-zione digitale, utilizzando Pro-Tools, un fulmine durante una tempesta (di quelle che ormai de-vastano regolarmente il Midwest americano) si è infilato nei cavi dello studio di registrazione di Minneapolis e tutto è svanito in un attimo. Per nulla scoraggiati, Brown e l'inseparabile Bo Ram-sey, chitarrista e produttore che ha modellato un suono, si sono rimessi subito al lavoro, partendo dalla sola Freak Flag, title track che porta il testimone di un'opera perduta definitivamente nella me-moria. Tutto il resto è stato com-posto da zero, trovando un appi-glio sicuro solamente in un paio di reiterpretazioni, pur sempre re-stando in famiglia: la tenera balla-ta Let the Mystery proviene infatti dal repertorio della moglie Iris De-ment, mentre Remember the Sun appartiene alla figlia Pieta, testi-monianze di un passaggio di san-gue. Così narrano i particolari che accompagnano l'ennesimo album di Greg Brown: trent'anni di car-riera, altrettanti dischi o quasi, dal vivo e in studio, con la regolarità di un artigiano che scrive canzoni come se respirasse aria. Ogni giorno, una necessità di vita o di morte: e lo si capisce bene dal fatto che mai il songwri-ter dell'Iowa abbia abbassato peri-colosamente la soglia della quali-tà, garantendo un esempio di de-dizione e ispirazione al tempo stesso. Freak Flag, tra i naturali alti e bassi della discografia, sem-bra collocarsi immediatamente dalla parte più riuscita, con una franchezza di intenti e un intruglio di goderecci country rock e fra-

granze blues elettriche che lo ren-dono episodio di sostanza, seppu-re lontano da alcuni picchi dello scorso decennio. Se la stessa Freak Flag riflette un docile don-dolio country sui versi autobiogra-fici di Brown e della sua lontana gioventù, il resto del repertorio si muove tra privato e pubblico, non mancando di rivolgersi a quegli elementi di sentimento e di terra che hanno da sempre animato la sua scrittura: da una parte dunque il ruspante country blues di I Don't Know Anybody In This Town, iro-nico ritratto americano, dall'altra la piccola poesia dei dettagli in Rain & Snow, Lovinest One e Ten-derhearted Child, tre accordi tre e una voce che arriva dalle profondi-tà del mondo. Abbassando ulteriormente il suo tono baritono Greg Brown pare infatti essere approdato al grado zero del suo canto: dopo il ruolo di Ade nella folk opera di Anais Mitchell, Hadestown, deve essergli scappata la mano e in Freak Flag si diverte ad alternare uno straniante falsetto nel boogie di Where Are You Going When You're Gone e un tono da spirito maligno nel torbido blues di Mercy Mercy Mercy, per ritornare a quel vibrato commovente che percorre la nostalgica Someday House. Al suo fianco, come antici-pato, le note essenziali, secche dell'inseparabile Bo Ramsey, oggi arricchite dalle presenze delle chi-tarre di Richard Bennett e persino di Mark Knopfler nella esangue Flat Stuff. Il solito Greg Brown insomma, o forse qualcosa di più: comunque la garanzia di un appro-do sicuro per l'arte del songwri-ting. (Fabio Cerbone)

Grayson CappsGrayson Capps The Lost Cause Minstrels [Royal Potato 2011]

Prendiamo la poesia del Texas trou-bador Townes Van Zandt e l'attitu-dine ai margini del country di Steve Earle e mescoliamo il tutto con un po' di bayou blues (alla Howlin Wolf), tanto New Orleans Soul e incominciamo ad avere un' idea di quello che ci aspetta ascoltando questo quinto album per Grayson Capps. The Lost Cause Mini-strels è sicuramente la raccolta più riuscita e completa di tutta la sua discografia, è l'album che tutti i fans si aspettavano, dove non ci sono riempitivi (come capitava spesso negli altri episodi) e dove si respira un profondo "South Vibe" a tratti sporco e duro, a tratti roman-tico ma sempre cantato con tanto cuore e suonato con grande feeling dalla nuova band che lo accompa-gna: i Lost Cause Ministrels. Dal 2010 Grayson ha sciolto la sua precedente band Stumpko-ckers per formare i "Menesterelli delle cause perse" cui l'album è de-dicato: non quattro ragazzi scelti a caso ma una line up affiatata che costituiva i "Kung Fu Mama", una jam band a tutto tondo compren-dente John Milham alla batteria, Chrisitan Grizzard al basso, Chris Spies all'hammond e Corky Hughes alle chitarre. E il loro sound pieno di "soul" riempie tutto l'album e ben si

addice al vocione fumoso e bagnato di bourbon del songwriter dell'A-labama. La sua compagna Trina S h o e m a k e r (Dylan Leblanc, Queen Of Stone Age, Sheryl Crow nel suo curricu-lum) fa tutto il resto, cucendo le diverse canzoni e registrandole nel-l'intimo home studio di Nashville dove Capps ora Grayson Capps

Page 34: RootsHighway Mixed Bag #10

34

RootsHighway Mixed Bag #10

risiede. In Highway 42 troviamo Dylan, Johnny Cash, Kris Kristof-ferson e tutto l'outlaw country, troviamo Sprinsgsteen, Steve Ear-le e il migliore songwriting ameri-cano di frontiera. La ballata dai sapori southern sembra una vera e propria cavalcata con quell'ar-monica e quei cori che ti contagia-no a ogni ascolto, In Coconut Mo-onshine invece c'e il ritmo voodoo e la polvere di New Orleans con tanto di trombe, fiati e cori a crea-re un sound sudista autentico al 100%. John The Dagger cambia i ritmi con il suo opening heavy, la batteria che colpisce duro e i riff di chitarra che sembrano rasoiate. Un brano rock blues crudo, di sicu-ro impatto che vede Grayson alla slide. Janes' Alley Blues (brano del '27 presente nell'American Folk Anthology di Harry Smith) è l'o-maggio sentito a Richard "Rabbit" Brown ed è la prima cover dell'al-bum. Nella sua personale versione la voce sembra quella Nick Cave senza i Bad Seeds: recitativa co-me fosse un talkin' blues con u-n'affilatissima chitarra e un coro che avvolgono l'intero brano. L'acustica e rilassata Chief Seattle ricorda le trame di Delaney And Bonnie mentre Yes You Are è una love song che ha tutti gli in-gredienti di una canzone gospel con tanto di cori e tocchi di Ham-mond in sottofondo. La bellissima Annie's Lover (brano di Taj Mahal presente in Giant Step & De Ole Folks ) è uno swamp blues con la slide e il piano in bella evidenza, Ol'Sac è infarcita con suoni Mardi Gras e il jazz delle origini, con tan-to di fiati da brividi sottopelle. No Definitions è il brano più duro e selvaggio della raccolta e forse il meno riuscito mentre Rock'n Roll è il degno epilogo della raccolta, una ballata elettro-acustica soffusa che parla delle tragedie e delle ironie della vita e del sopravvivere gior-no dopo giorno imparando dai pro-pri sbagli. Una raccolta che riassume alla perfezione il suono di New Orleans con il country e il R'n R che potrebbe portare il titolo: "The Wild The Innocente and The Lost Cause Ministrels". Mr. Capps è uno dei migliori southern troubador in circolazione. (Emilio Mera)

Dave AlvinDave Alvin Eleven Eleven [Yep Roc 2011]

È arrivato il momento dei ricordi e del raccolto anche per Dave Al-vin, venticinque anni di carriera o quasi in solitaria nel dopo Bla-sters, che si confrontano con sto-rie passate, amici perduti e ritro-vati, mitologia di uno spirito ro-ck'n'roll che non la ha mai abban-donato. Eleven Eleven è un disco che suona familiare per contratto, ma non sbiadisce in un semplice amarcord: per la prima volta vede coinvolti attivamente membri dei Blasters in una sua opera solista, richiamando persino l'amico-nemico Phil Alvin, fratello di mille scorribande con cui finalmente Dave ironizza e trova il tempo di scherzare nella godereccia riunio-ne di What's Up With Your Bro-ther?, musicalmente però uno de-gli episodi più "banali" dell'abum. C'è anche il piano boogie di Gene Taylor a spargere semi rockabilly e gioia di suonare, men-tre le altre facce del quadro le ab-biamo incrociate più volte, se ave-te avuto la pazienza di seguire Dave in queste stagioni, da Greg Leisz a Don Heffington, da Rick Shea a Bob Glaub, per citare gli ospiti californiani più di riguardo. È un piccolo sunto del roots rock di Los Angeles, così come Eleven Eleven è un concentrato delle conquiste passate e presenti di Alvin, con quella convinzione e quella qualità di repertorio che lo eleva rispetto alle più recenti uscite. Accantonato l'interes-sante ma poco risolto (per esiti artistici) connubio delle Guilty Women, le chitarre tornano a ruggire, masticando la lingua del blues più notturno e sordido in Harlan County Line, racconto che profuma di leggenda america-na (leggetevi nel caso il recente volume di Allessandro Portelli per Donzelli, sulle lotte dei minatori nel Kentucky), i ritmi alla Bo Did-dley del singolo Run Conejo Run, lo strimpellare da saloon di Gary,

Indiana 1959, altra evocazione di battaglie per il lavoro (questa volta nelle acciaierie). Sono proprio le narrazioni che rendono il Dave Alvin del 2011 interessante e maturo co-me autore, un poeta di strada si sarebbe detto un tempo, che ha trovato il giusto equilibrio fra ro-manticismo (non gli è mai mancato e quando imbraccia l'acustica di-venta un maestro dell'Americana) e spacconate rock. Certo la sensazio-ne che Eleven Eleven sia una di-screta sintesi del "già detto" non la allontana nessuno, come se il rug-gito rock blues di Ashgrove (il suo debutto in casa Yep Roc qualche anno fa) si fosse incontrato con il lato più da folksinger degli anni di King of California. Dal primo approdano diret-tamente la ficcante Johnny Ace is Dead, rievocazione di una delle più assurde tragedie conosciute dal pri-mo rock'n'roll, con un colpo di pi-stola che per uno stupido gioco fini-sce nella testa della giovane pro-messa Ace, e ancora la citata Run Conejo Run o Dirty Nightgown: vo-ce sempre più baritonale, la chitar-ra che lancia riff secchi e la band che segue il groove. Dal secondo tracciato invece spuntano le vere gemme: la storia di dolore in Black Rose of Texas, ballata da grandi orizzonti segnata da una slide gui-tar; la commovente border song No Worries Mija, piano e accordion che riportano davvero ai tempi gloriosi del "Re della California"; infine il duetto con Christy McWilson in Manzanita, dolce celebrazione di un amore giovanile di Dave mai di-menticato. Episodio a sé stante, forse un po' fuori luogo nel contesto so-noro di Eleven Eleven, è invece la coda retro-jazzy di Two Lucky Bums, ultimo brano registrato da

Dave con l'amico scomparso Chris Gaffney. Un omaggio, più che un errore, che si può (si deve) assolu-tamente perdonare. (Fabio Cerbone)

Page 35: RootsHighway Mixed Bag #10

35

RootsHighway Mixed Bag #10

The BreakersThe Breakers The Breakers [Wicked Cool 2011]

Adoro la Scandinavia, soprattutto perché si suona ottima musica! Ho amato i fantastici Creeps, o gli scatenati Stomach Mouths, e an-cora oggi riascolto con piacere il rock di frontiera dei Wayward Souls. Di recente da quelle terre sono emersi i Siena Root, i Little Barrie e i Big Bang, mancava nei miei files la Danimarca, ed ecco che scopro questi The Breakers. Al primo ascolto faccio un balzo dalla poltrona e me li sparo a palla dallo stereo, un po' per ballare e soprattutto perché la loro freschezza mi eccita tanto da cor-rere sul web per cercare informa-zioni su questi strepitosi danesi. The Breakers, originari di Copena-ghen, sono Toke Nisted (voce), Anders Bruus e Laus Hojbjerg (chitarre e organo), Jackie Larsen (basso) e Thomas Sotlsvig (drums). Incidono per l'etichetta Wicked Cool Records sotto l'ala protettiva di Steven Van Zandt, che produce questo omonimo la-voro scrivendo anche alcune songs. Nati nel 2002 hanno già alle spalle due dischi : "What I Want" (2004) e "Here for a Laugh" (2006), che anticipano, arrotando il tiro con centinaia di concerti in Europa e negli Stati Uniti, questa ultima fatica, che a mio avviso sarà il punto di parten-za per una carriera ricca di soddi-sfazioni. Il disco parte subito con un brano, che già dal titolo dice tutto, Start The Show, e dato che Little Steven li ha prodotti e fatti incidere a New York, ecco venirmi in mente un gruppo newyorkese, i Fleshtones, che l'avrebbero suona-ta ad occhi chiusi tanto assomiglia allo stile del loro repertorio. I vici-ni mi richiamano alla compostezza e soprattutto ad abbassare il volu-me quando parte The Jerry Lee Symptoms, potente hit single, ga-loppante, quasi garage rock, molto sixties, irresistibile canzoncina,

semplice ma efficace. Cresce la mia eccitazione quando giungo al quarto pezzo Riot Act, basso solido e riff chitarristico che richiama alla memoria tutto il rock americano fine anni sessanta (Young Rascals, Turtles, Standells) ma pure il punk inglese dei maturi Clash. If You Please è la prima ballata del disco di chiara matrice Little Steven, che prende per mano i Breakers quasi per insegnargli come si può essere tosti e trascinanti con tre accordi. Ancora umore metropolita-no della grande mela con New York City, fino ad arrivare a Soulfi-re, altra grande canzone dell'al-bum, colori Motown, ed echi dello sfavillante rhythm'n blues alla Ste-ve Winwood e Chris Farlowe, pez-zo radiofonico di potenziale grande presa. Resto di sasso quando arri-vo all' ottavo brano If You Need Someone, pare appena uscita da un riuscitissimo jam meeting con Bruce Springsteen, e sembra can-tata da Rod Stewart la bella Baby Blue, che anticipa un'altra perla, Union Street, la perfetta fusione tra un primo poetico Van Morrison e un adrenergico Steve Marriott (ultimo anno Small Faces), con un bel Hammond a ricamo. Ancora vibrazioni r'n'b con Temptations e chiusura con la splendida ballata Forever's A Long Time Gone, che riporta alla memoria l'incedere maestoso degli anni d'oro degli Stones (Let It Bleed-Exile on a Main street). Sarà che la Scandinavia mi influenza comunque positivamen-te, o che i Breakers hanno avuto l'onore di aprire per Paul Mc Car-tney in Hyde Park, ma voglio co-munque incensare questi Danesi perché sono bravi, fanno semplice rock di derivazione sixties, ma freschezza, grinta, amore e pas-sione per la propria musica e una produzione di altissimo livello non si trovano dietro l'angolo e non si costruiscono a tavolino. Pochi gruppi, negli ultimi mesi, mi hanno eccitato come The Breakers. Vo-glio esagerare, ottimo lavoro. (Silvio Vinci)

Kurt VileKurt Vile Smoke Ring for My Halo [Proper 2011]

Fa un po' ridere pensare che le pri-me presentazioni di Kurt Vile lo descrivessero come un seguace di Bruce Springsteen e Bob Seger, visto che il suo album del 2009 Childish Prodigy (il terzo della sua carriera) è stato un vero successo di critica negli ambienti più progres-sivi e indipendenti della critica mu-sicale, tanto da guadagnarsi anche una sponsorizzazione da parte di Kim Gordon dei Sonic Youth. Vile, cantautore di Philadelphia, è infatti uno di quei personaggi che si muo-ve ai margini della roots-music con un fare "indie" che crea sempre un certo interesse ed evita che lo si confonda con l'ultimo hobo del Te-xas o il penultimo "nuovo Dylan". Da sempre fedele all'imma-gine del one-man-band da strada (era l'immagine di copertina del suo secondo disco), ma ormai converti-to alle gioie di un suono più pieno di una band, potremmo collocarlo in un'area prossima al compianto Vic Chesnutt, uno che piaceva sia ai conservatori che ai progressisti del-la musica. Smoke Ring For My Halo è il suo nuovo lavoro, prodot-to dall'esperto John Agnello (Sonic Youth, Dinosaur Jr.) con un piglio decisamente alternativo, con la chi-tarra acustica di Kurt sempre in primo piano e il resto dalla band (i Violators) sempre comunque in di-sparte. La forza di Vile è sicura-mente nei bei arpeggi che sorreg-gono i suoi brani, e non certo nella voce, che cerca effettivamente l'ac-cento del sud di Tom Petty, ma fini-sce per sembrare come se fosse filtrata elettronicamente anche quando non lo è, avvicinandolo piuttosto all'essenzialità del folk stralunato di M Ward. In alcuni casi la particolarità diventa un punto di forza, come nell'elettrica Puppet To The Man che sarebbe piaciuta al Robyn Hitchcock di metà anni 80, altre volte invece

Page 36: RootsHighway Mixed Bag #10

36

RootsHighway Mixed Bag #10

Jolie Holland & The Grand ChandeliersJolie Holland & The Grand Chandeliers Pint of Blood [Anti 2011]

Pint Of Blood, quinto album per Jolie Holland, é un notevole passo avanti rispetto al precedente The Living and The Dead del 2008. L'al-bum ci trascina verso un'aurea più intima e raccolta, con alcune scorri-bande elettriche che ricordano il Zu-ma di Neil Young, sempre dominato da un suono essenziale, ridotto al-l'osso e che gira intorno alla sensibili-tà dei suoi testi e alla sua intensa voce. Le dieci composizioni qui con-tenute restano più che mai come so-spese nell'aria in un'atmosfera malinconica, intima e personale. Nell'al-bum la sua voce sembra una luce che si spegne ed accende, che cresce d'intensità per poi cadere nel buio lasciando l'ascoltatore come in uno stato di "trance". Il tutto condito, last but not least, da testi che riman-gono piccole poesie, che uniscono storie di tutti i giorni con surrealismo moderno legato alla natura, alla luna, agli uccelli, agli open space e che fungono da specchio per il cuore di Jolie Holland. Registrato dal vivo, in parte a New York e in parte nel suo inti-mo home studio, è stato prodotto, come il precedente, da Shahzad I-smaly. E' un ritorno alle origini il suo, alla semplicità di Catalpa e alla spontaneità di Escondida, senza troppi orpelli o arrangiamenti inutili. L'album è accreditato insieme ai The Grand Chandeliers che vede all'opera oltre a Ismaly al basso e batteria, Greg Gersten (coautore anche di un brano) e Marc Ribot (presente come il prezzemolo in tutte le produzioni Anti) alle chitarre. All Those Girls che apre l'album, é una ballata di younghiana memoria ricca, di effusioni elettriche con la chi-tarra distorta e urlante di Gersten a fare da contraltare alla calda voce di Jolie. Si resta negli stessi territori del canadese con Remember e Little Birds (vecchio brano scritto durante la militanza con le Tanyas) dove Jolie assume le sembianze di una Pj Harvey meno spigolosa e dove la batteria sembra pulsare come quella di Moe Tucker dei Velvet Underground (una delle principali influenze). Tender Mirror è una torch song che riesce a illuminarti, in un giorno piovoso e grigio, avvolta dal riverbero della sua voce, da un piano sgangherato e da un semplice accordo di chitarra. Gold and Yellow è un'intensa cavalcata elettro acu-stica verso il miglior suono Americana, molto trascinante con un assolo di chitarra da capogiro, mentre la struggente June è una love song a-custica, tinteggiata dalle note del violino che riesce a far parlare il si-lenzio. Se Wrecakge ti prende per mano con il suo sound inebriante bagnato di folk e country, The Devil's Sake ti conduce dentro un country blues dalle tinte noir e scure con suoni rarefatti che ricordano la prima Chad Marshall (Cat Power). Honey Girl rimane ancorata a suo-ni jazz e alle sue composizioni del passato mentre l'ultimo brano, la versione di Rex's Blues di Townes Van Zandt è rifatta in maniera perso-nale con violino e piano suonati dalla songstress texana che dimostra ancora una volta, la sua bravura come polistrumentista. Un disco che raggiunge facilmente il cuore e che cresce ascolto dopo ascolto: dolce, malinconico, disperato e per cuori infranti. (Emilio Mera)

quando la ballata segue addirittura giri acustici da west coast anni 70 (On Tour), il suo fare atteggiato stride un po'. Quello che si nota subito ascoltando Smoke Ring For My Halo è una certa indecisione tra voglia di volare basso con un disco volutamente lo-fi (Jesus Fe-ver), e tentativi non sempre ben definiti di strutturare i propri brani in chiave più pop (Peeping Tom-boy o Ghost Town), che rende l'al-bum in qualche modo irrisolto. Resta comunque la testi-monianza di un buon talento, an-che se non è ancora questo a no-stro parere il disco che lo confer-ma a livelli di eccellenza, ma visto che sul titolo si sta comunque sca-tenando un piccolo hype nel web, dategli una chance, trovare artisti come questo in grado di unire nel-la discussione popoli rock distanti non è facile e resta buona occasio-ne di confronto. Se poi i compli-menti a queste canzoni siano solo questione di perfetta aderenza ad una moda del momento o vera gloria è decisione che resta dipen-dente dal vostro buon senso. (Nicola Gervasini)

Austin LucasAustin Lucas A New Home in the Old World [Last Chance 2010]

Una delle voci country più pure che l'ultima generazione america-na potesse regalarci, Austin Lu-cas torna sul luogo del delitto cambiando pochi significativi det-tagli, senza perdere un briciolo dell'appassionante narrazione a cui ci aveva abituati con il sor-prendente Somebody Loves You. Dalla fisionomia acustica, tradizio-nalissima di quel disco passiamo oggi alla costruzione di un suono più elettrico e full band: A New Home In The Old World alza con moderazione i toni, ma come anticipato non svende l'anima an-tica di questo ragazzo cresciuto nella "rivolta" del punk rock e tor-nato presto, come figliol prodigo,

Ogni terzo lunedì del mese RootsHighway ospite di “In Orbita”

con Ricky Russo sulle frequenze di Radio Capodistria, anche sul web

Page 37: RootsHighway Mixed Bag #10

37

RootsHighway Mixed Bag #10

nelle braccia di una eredità folk e hillbilly appresa in famiglia. Ave-vamo già accennato, in occasione del suo precedente lavoro, agli insegnamenti del padre Bob Lucas, strumentista di scuola bluegrass con un discreto curriculum alle spalle, che affiancava il suo ragaz-zo con orgoglio: oggi Austin si è concesso una gita fuori porta, chiamando alcuni talenti del roots rock locale e non solo, ampliando la squadra con membri di Lucero e Magnolia Electric Co. e chiamando alle rifiniture di studio Paul Ma-hern, già collaboratore di John Mellencamp. Da un figlio dell'In-diana, che registra il nuovo capito-lo a Bloomington, c'era da aspet-tarselo, anche se l'eco della tradi-zione in A New Home In The Old World si fa meno "divulgativo" e democratico rispetto al recente Mellencamp. Qui risuona un raccolto di walzer country, danze hillbilly e ballate folk che mettono insieme passato e presente, sconfinando a volte in un roots rock più vibrante, che torna persino ad evocare la prima stagione degli Uncle Tupelo (sentitevi nel caso Thunder Rail), quando non ad omaggiare in ma-niera palese uno dei padri di que-sto suono, Neil Young (il riff di chitarra nella livida The Grain ri-corda fin troppo Hey Hey My My…). L'essenza tuttavia non cam-bia: Lucas ha un viso bonario e tatuaggi da ribelle, ma quando apre la bocca si trasforma in un angelo che riporta la country music alle sue fondamenta, tra mistero, peccati, tribolazioni. Tutto il disco d'altronde è imperniato attorno ad una rilettura della propria gioventù, alla rivisita-zione dei propri errori e delle oc-casioni mancate, per riscrivere la sceneggiatura della vita e ricomin-ciare da capo. Austin Lucas com-pie l'operazione con un tono che va dal confessionale alla pura gioia della condivisione dei sentimenti: così i forti accenti rurali e le scate-nate danze di Run Around e Dar-kness Out Of Me si intrecciano alla solitaria leggerezza di Sit Down, alle dolci trame acustiche di Neva-da County Line, dimostrazioni di una padronannza dei linguaggi tradizionali che non scade mai nel-la calligrafia fine a se stessa. La sezione ritmica, come prevedibile, è adesso spostata in primo piano, nonostante resti improbabile con-fondere A New Home In The Old World con un disco di rock'n'roll:

fatte le dovute eccezioni (i due episodi ricordati più sopra), rima-ne infatti centrale il gioco di stru-menti quali fiddle e banjo, che alimentano il sacro fuoco di Sleep Well e Feast, fino a chiamare a raccolta i fiati nella commovante chiusura di Somewhere A Light Shines, li dove il cuore bianco e nero si intrecciano e una fragranza country soul riporta alla mente la lezione di The Band. Splendida conferma. (Fabio Cerbone)

Nick JainaNick Jaina The Beanstalks that Have Brought Us Here Are Gone [Nick Jaina 2011]

Questo Nick Jaina, tra le sue molteplici indoli (cantautore, pro-duttore, troubadour, persino columnist per un periodico dell’O-regon), deve avere latente anche quella del regista cinematografico. Non si spiega altrimenti un disco come questo, concepito e scritto da lui modellando il copione sulle caratteristiche del cast e poi “girato” rimanendo dietro le quinte per lasciare il proscenio alle pro-prie interpreti, dieci voci femminili provenienti dall’universo America-na/ Folk, una per ogni canzone. Con queste premesse il rischio che The Beanstalks that Have Brought us Here Are Go-

ne (titolo chilometrico e bislacco che suona più o meno come “le piante di fagioli che ci hanno por-tato sin qui se ne sono andate”) prendesse la forma di un caldero-ne disordinato e disomogeneo era incombente e invece Jaina, che si autoproduce in coppia con Lee Howard, è riuscito a creare un au-tentico gioiellino di roots da came-ra che fa proprio dell’equilibrio formale e della coesione comples-siva i suoi punti di forza. Per non parlare poi delle canzoni, manufat-ti di puro artigianato che hanno il fascino sottile di atmosfere intime ed old-time ed un indiscutibile po-tere evocativo. Nick Jaina è anche

un eccellente creatore di melodie a cui sa cucire addosso vestiti dalle tonalità disparate: l’indie pop saltel-lante e contagioso di Once but ne-ver again (con la voce di Luzelena Mendoza) e di The president of the chess club (con Amanda Spring), la lullaby pianistica dai sapori ance-strali When the blind man rings that bell (canta Kaylee Cole), le country ballad da manuale Missing awhile (organo e mandolino che fanno il loro dovere accompagnando Corrina Repp dei Tu Fawning) e Whiskey riddle (con Johanna Kunin), le ve-nature soul della conturbante Awa-ke when I’m sleeping (con Audie Darling) e il violino strappalacrime di Laura Gibson che punteggia la conclusiva No one gives their heart away. E ancora la cameristica Ja-mes che sembra un pezzo degli O-ver the Rhine, con Annalisa Tornfelt dei Black Prairie che galleggia sulle note del piano lanciandosi sulle tracce di Karin Bergquist e Ortolan (interpretata da Myshkin), splendi-da melodia leggera come una piu-ma che riesce a catturare l’essenza del pop conquistando al primo a-scolto. Per ultima la star di questo cast eterogeneo, il nome più noto nelle nostre lande, Jolie Holland (ricordate la sua splendida doppiet-ta Catalpa e Escondida che la fece assurgere nei primi anni 2000?) che mette la firma sulla gemma più luc-cicante della raccolta, You were so good to me, un folk jazzato di gran classe, dall’andamento sinuoso ed elegiaco esaltato dalla tromba: in altre parole la migliore Neko Case arrangiata dai Calexico. Nelle note di presentazione Nick Jaina dichiara di voler pagare le dieci artiste che hanno dedicato il loro tempo prezio-so alla realizzazione del disco. A mio avviso, invece, sono loro a dover essere grate a un così bravo cantautore-regista che ha saputo esaltare le qualità delle sue interpreti regalando a tutte delle inquadrature da applausi. Mezzo punto in più per l’audacia del pro-getto e la simpatia che suscita que-sto piccolo diamante nascosto tra i giganti. (Gianuario Rivelli)

Page 38: RootsHighway Mixed Bag #10

38

RootsHighway Mixed Bag #10

Thurston MooreThurston Moore Demolished Thoughts [Matador 2011]

Uscito defitivamente dal guscio protettivo dei Sonic Youth, Thur-ston Moore prende ancora più confidenza e coraggio, spostandosi dai segnali di indipendenza lanciati con Trees Outside the Academy verso la vera e propria illuminazio-ne di Demolished Thoughts, ad oggi il disco solista più originale e spiazzante della sua carriera soli-taria. Se il precedente sforzo me-diava con tutte le eredità musicali del musicista newyorkese e si at-teneva a un suono crudo ed es-senziale, pur sperimentando con più libertà rispetto ai territori sol-cati dalla "gioventù sonica", l'at-tuale condizione artistica di Moore pare avere tentato un taglio più netto, senza per questo abbando-nare uno stile, un linguaggio e in definitiva un songwriting riconosci-bilissimi. Il merito innegabile è da condividere con Beck, produttore e arrangiatore che dalle intuizioni avviate nel suo Sea Change tra-sporta l'eleganza degli archi e le finezze del pop d'autore dentro le ballate diafane che popolano De-molished Thoughts. Il matromonio è riuscitissimo, anche se richiede una disposizione al sogno, lascian-dosi abbandonare in melodie sem-pre un po' sospese e "imperfette", che non rinunciano, seppure in una veste acustica, morbida, quasi impalpabile, ai contorni tipici delle composizioni di Thuston Moore. Erompe così un folk came-ristico dove alle chitarre del prota-gonista e alla sua voce sospirata si affiancano il violino di Samara Lu-belski, le leggere percussioni di Joey Waronker, persino un'arpa (Mary Lattimore), ma soprattutto le stratificazioni continue degli ar-chi, che Beck cerca con insistenza di alternare agli accordi di Moore, quasi riproponendo la classicità del binomio Robert Kirby-Nick Drake, inevitabile raffronto. Questa trama rappresenta il limite e il pregio del

disco, che apparirà forse monocor-de nel suo sviluppo, ma una volta domato esploderà proprio nelle sue ambientazioni distese, che hanno nella cantilenante Benedic-tion, dai frammenti quasi folk blues, e ancora di più nelle suc-cessive Illuminine e Circulation il loro manifesto di intenti, un triade di trasparente bellezza, in fondo perpetrata sotto diverse declina-zioni lungo l'intero Demolished Thoughts. Costituiscono una sorta di canovaccio, sul quale Moore si inerisce portando a libero sfogo la sua scrittura: accade nelle lunghe "suite" Blood Never Lies e Mina Loy, sette minuti circa in entrambi i casi dove abbondanti introduzioni chitarristiche si dischiudono al suono d'insieme, creando una spe-cie di psichedelia folk raffinata dove il lascito dei Sonic Youth, l'impronta evidente del passato (il riff che sottende Orchard Street e ancora la minacciosa Space) si scioglie in qualcosa di più indeci-frabile. Tutto concorre a rendere Demolished Thoughts opera dal fascino quasi fuori tempo massi-mo, monilite a sé stante. (Fabio Cerbone)

Chip TaylorChip Taylor Rock and Roll Joe [Trainwreck 2011]

Rock and roll Joe è un progetto dedicato alla riscoperta degli eroi dimenticati della musica rock, per-sone che sono state e continuano ad essere fondamentali per lo spi-rito e la passione del rock'n'roll e che tuttavia non hanno mai rice-vuto il credito che meritano". Con queste parole si viene introdotti all'ascolto di Rock and roll Joe, nuovo album a nome Chip Ta-ylor. Un progetto nato quasi per caso nel 2007, durante un tour in terra scandinava, in cui il nostro aveva avuto modo di parlare con la propria band di quei musicisti spesso sconosciuti al grande pub-blico, ma alla base di alcune delle più importanti registrazioni degli

ultimi sessant'anni. Da qui l'idea di un album in grado di raccontare le loro storie. Album che rappresenta solamente l'inizio del progetto Rock and Roll Joe, in quanto parallela-mente è stato lanciato anche un sito web in cui vengono menzionati alcuni tra i musicisti oggetto di que-sto tributo, e nel quale gli stessi ascoltatori possono aggiungere dei nomi alla già nutrita lista presente. Sono invece della partita per quan-to riguarda il progetto discografico, l'amico di lunga data e chitarrista John Platania, la violinista Kendel Carson, il bassista Ron Eoff e il batterista Bryan Ownings, ai quali si aggiungono numerosi ospiti. Band che aveva già accompagnato on stage Taylor, pertanto solida e ro-data, in grado di spaziare dal rock più autentico fino ad atmosfere care alla musica tradizionale americana. Vero trait d'union dell'intero lavoro è però il violino della Carson, che si cimenta senza problemi sia in balla-te dal retrogusto country, che in sfrenati rock'n'roll. Alle prime appartengono senza ombra di dubbio canzoni co-me I'm the Law in this Old Town, Couldn't We use Some of That Now e The Van Song, nelle quali i ritmi si fanno più rilassati e viene lasciato ampio spazio alla melodia. Ovvia-mente è però il rock'n'roll ad essere il vero e incontrastato protagonista dell'album, sia che si tratti della sua forma primigenia, sia della sua fu-sione con elementi tipicamente country. Monica (These fingers mo-ve on your), rappresenta da sola la quintessenza del citato rock'n'roll, quello più muscolare e autentico, complice anche un azzeccato ritor-nello e un ben studiato uso delle dinamiche. Nel medesimo solco cor-rono I Can't Let Go e l'incalzante, nonostante l'impianto musicale se-miacustico, The Union Song. In bra-ni come The Savoy Files, Hot Rod Carson, ci troviamo invece in terri-torio country'n'roll, così come in Measurin, con un piano honky tonk a dettare i ritmi, e nella trascinante Sugar sugaree, in cui vi sfido a non battere a tempo il piede. Il vertice artistico ed emoti-vo si raggiunge però con la strug-gente ballata Live and die for Ro-ck'n'roll e con la title track che me-glio di ogni altra canzone esemplifi-ca il profondo rispetto di Taylor nei confronti di questi eroi perduti. Un tributo, questo Rock and Roll Joe, fatto con cuore, sudore e anima, la cui genuinità trasuda da ogni nota. (Marco Poggio)

Page 39: RootsHighway Mixed Bag #10

39

RootsHighway Mixed Bag #10

The David Mayfield ParadeThe David Mayfield Parade The David Mayfield Parade [Sub Pop 2011]

David Mayfield, già bassista nei Cadillac Sky, lascia momentanea-mente alle spalle quella avventura per affrontare un progetto solista. Quartetto di musicisti di estrazione old time e benedetti dalle cure produttive di Dan Auerbach (Black Keys), i Cadillac Sky si sono mossi dal Texas a Nashville tentando la fortuna con tre dischi imbevuti di una rilettura della tradizione old time e bluegrass. David, invece, si apre oggi ai diversi stimoli del suo songwriting, garantendo comun-que una linea di continuità nella famiglia. Cresciuto infatti in un'at-mosfera comunitaria e un po' zin-garesca, al seguito della carovana country dei genitori, entrambi mu-sicisti, e con una sorella (Jessica Lea Mayfield, già un paio di lavori solisti premiati dalla critica indie) dal sicuro avvenire, David ha pen-sato bene prima di "nascondersi" dietro le quinte, curando le regi-strazioni degli amici Barry Scott e Among The Oak & Ash's, quindi di uscire allo scoperto sfruttando la sua amicizia con gli Avett Bro-thers. Una sensibilità musicale comune viene effettivamente evo-cata nello svolgimento di The Da-vid Mayfield Parade, lavoro soli-sta sotto le mentite spoglie di un suono corale che unisce tradizione folk, ballate alt-country, primitivo rock'n'roll e amore a prima vista per certo pop d'autore ereditato dai sixties. Una formula eterogenea non c'è che dire, che rimessa nelle mani e soprattutto nella voce mor-bida di Mayfield raggiunge un di-screto equilibrio, una sobrietà che non rinuncia allo spirito eclettico dell'artista ma non sfocia neppure in soluzioni troppo barocche. I te-nui archi che accompagnano l'acu-stica Blue Skies Again (donata in passato al repertorio della sorella) annunciano un folksinger dai toni gentili, salvo deviare verso la chi-tarra twangy e riverberata di I

Just Might Pray. Da qui parte un disco curioso che non resta impri-gionato nel clichè dell'Americana a tutti i costi, nonostante la presen-za di Mayfield a festival itineranti quali Bonnaroo e Merlefest. La sua matrice rootsy, giunta in superficie con la fokie Breath of Love o la romantica ballata country Faraway Love (al controcanto femminile è presente Caitlin Rose), si mescola con una scaletta imprevedibile: il recupero di Sea of Heartbreak (Beck) commuove nel suo intrec-cio tra voci piano e organo, Norre-en recupera un frizzante rock'n'roll a metà strada fra i Beach Boys, Buddy Holly e la campagna sudi-sta, mentre Looking for Love infila un organetto farfisa degno di Au-gie Meyers e smuove ancora fre-sca terra pop rock. Il gusto retrò che si im-possessa della David Mayfield Parade non scade mai nella paro-dia o nel plagio: in What Do You Call It o nella dolce Udine, altra sintesi fra folk rock e archi dai sgargianti colori sixties ci sono un senso della misura e una fantasia che inducono a considerare questo ragazzo come una possibile rivela-zione. L'interminabile (nel titolo certamente… ma il brano arriva comunque a toccare i sette minuti, grazie ad un cadenzato folk rock dal morbido passo elettrico) I Ha-ve Been Known to Be Wrong from Time to Time but I'm Afraid I'm Right rappresenta così il degno finale di un autore singolare e dal promettente avvenire. (Fabio Cerbone)

Zoe Muth and The Lost High Zoe Muth and The Lost High

RollersRollers Together We Are All Alone [Signature Sounds 2011]

Avevamo lasciato Zoe Muth in compagnia dei suoi Lost High Rol-lers con quell'omonimo esordio che tanto ci aveva sorpreso per la sua freschezza e originalità. Con questo secondo capitolo dal titolo Starlight Hotel la nostra son-

gstress fa ancora meglio, grazie ad un ulteriore passo avanti. La cantante originaria di Seattle (ormai un'alternativa a Na-shville o Austin) mantiene quel tim-bro vocale dolce e soulful capace di incantarti e accarezzarti il cuore (come erano capaci Iris Dement o Kitty Wells), una songstress ecce-zionalmente dotata con testi che dimostrano tutta la sua vulnerabili-tà ( da molti paragonata ad Em-mylou Harris) con le sue story-songs che raccontano di bad boy, heartbreaker lover e honky tonk nights. Quello che cambia è il sound creato dai Lost High Rollers, una band ormai affiatata che suona semplicemente "alla grande" senza tralasciare una nota o il minimo dettaglio. In un solo anno troviamo un combo più maturato e più affia-tato, in grado di donare alle ballate e alla voce di Zoe una maggiore profondità e un maggiore feeling. Il dolce sound del mandoli-no di Ethan Lawton si mescola con quello desertico della pedal steel dell'esperto Dave Hamonson, men-tre Mike McDermott accompagna con la sua chitarra e Greg Nies tie-ne il ritmo senza mai essere troppo intrusivo. Con I've Been Gone, Zoe ci fa entrare nella sua musica con un inizio trascinante che ricorda Ring Of Fire, con quei fiati mariachi che adornano il brano e quel canta-to che fa tornare in mente Loretta Lynn. Whatever's Left ci conduce nelle strade secondarie di una bor-der town (Take to the Back side of town) con una melodia solare arric-chita dall'eccellente lavoro al man-dolino. Let's Just Be Friend è una bellissima ballad dolce amara con la steel e il madolino in bell'evidenza, mentre Before The Night Is Gone è intima e acustica con la voce di Zoe che ti accompagna prima che le luci dell'alba accendino il nuovo giorno. Harvest Moon Blues ci riporta in piena notte con un'altra ballata co-rale molto emotiva e toccante

Page 40: RootsHighway Mixed Bag #10

40

RootsHighway Mixed Bag #10

arricchita dal coro della band, mentre la lunga New Mexico flut-tua tra Gram Parsons e Neil Young con un mood pigro dettato dalla steel e dal mandolino. If I Can't Trust You With a Quarter è un ju-ke box blues destinato a durare nel tempo, con la pedal steel a pennellare note su note. La storia narra di una jukebox girl (che pos-siede una grande collezione di di-schi country) che pensa di aver trovato la sua anima gemella fino a che non scopre, dopo una breve chiacchierata, che il presunto Mr. Right non ha mai sentito parlare del grande John Prine (Any man that doesn't aprreciate Prine simply can't be Mr. Right). Gli ulti-mi due brani della raccolta dimo-strano tutto lo charme di Zoe: la title track (come si può notare dalla cover) racconta di quelle tipi-che bettole della provincia ameri-cana con le tende perennemente chiuse dove consumare una "one night stand" o una sbronza di whisky. Il brano ti cattura con quel suo mood da vera storyteller, mentre la divertente Come Inside è un invito a entrare nella sua mu-sica e schiacciare il tasto "repeat". Una conferma del valore di Zoe Muth, che con questo Star-light Hotel ci dimostra di aver la stoffa per entrare direttamente nell'olimpo della musica country al femminile. Con lei il genere riac-quista la sua vera anima, oggi troppo spesso persa per strada.(Emilio Mera)

Robert EllisRobert Ellis Photographs [New West 2011]

Un'anima divisa in due quella di Robert Ellis, per uno dei debutti country (e non solo…si capirà stra-da facendo) del 2011. A meno di non considerare il suo esordio - The Great Rearranger - lavoro pe-rò del tutto indipendente e soprat-tutto passato inosservato. Per il pubblico Americana è dunque

Photographs il disco su cui inve-stire e sul quale anche la New West ha deciso di scommettere, direttamente nella persona di Ge-orge Fontaine, presidente dell'eti-chetta folgorato sulla via del Fi-tzgerald, piccolo club di Houston. Da quelle parti, ogni mer-coledì notte, il ventiduenne Robert Ellis ha tenuto in tempi recenti un corso accelerato di country music di origine controllata: con una band personale (Will Van Horn alla pedal steel, Kelly Doyle alle chitar-re, Geoffrey Muller al basso e Ryan Chavez ai tamburi) ha rinno-vato i fasti del suono "fuorilegge" e romantico, passando in rassegna George Jones, Hank Williams, Johnny Paycheck, Buck Owens e decine di altre leggende che hanno fatto da stelle polari al giovane songwriter. Naturale che queste illuminazioni si siano riflesse in Photographs, senza rinunciare pe-rò ad una sensibilità di folksinger che sui ricami dell'acustica sembra percorerre in lungo e in largo l'in-tero arco dei seventies, fra tradi-zione e west coast, folk rock e suono outlaw. Ne è nato così un album dalle due facce, stranito, spiazzante, eppure di un fascino raro. Una sorta di concept, così afferma lo stesso Ellis, sui rapporti umani e di coppia, che parte dal lato più filosofico, quasi metafisico e certamente nostalgico di Friends Like Those e Bamboo, per scivola-re gradualmente verso un quadro più vivace e persino ironico. La prima parte, come anti-cipato, è acustica, malinconica e spesso solitaria: vengono in mente il primo James Taylor, ma soprat-tutto personaggi come Mickey Ne-wbury e Harry Nilsson, nelle trame per archi della deliziosa Cemetary, prima di prender strade tortuose con il piano saltellante in Two cans of Paint. I testi non sono mai ba-nali, anzi, con il dono della sempli-cità mettono in fila pensieri pro-fondi, pur sfiorando temi risaputi e universali. Quando arriva We-stbound Train il disco spezza le catene e annuncia il secondo atto. La canzone fa esattamente da spartiacque: un'introduzione at-tendista e intima come le prece-denti, la band che entra all'im-provviso e cambia marcia. Da qui in poi Photographs muta pelle e si trasforma in uno spettacolare rendevous di country d'annata, con numeri strepitosi per intensità e qualità del songwriting: Comin' Home è un honky tonk vorticoso

che esalta i numeri della band, What's In It For me? e I'll Never Give Up On You è puro distillato di George Jones, compresi i battibec-chi con la consorte e le eccessive bevute, racconto di una disgrega-zione coniugale. Quando arriva No Fun siamo nell'ironia più spaccona e pungente di un marito geloso, roba bollente che mancava dai tempi degli esordi di Robbie Fulks: nella struttura è un altro country rock al galoppo con pedal steel e chitarre dal calore twangy che avvolgono. Il capolavoro però è riser-vato giustamente al finale: la title track è senza tema di smentite la ballata country del 2011, un'accora-ta dichiarazione di amore e tormen-to che evoca il Gram Parsons più sentimentale. Robert Ellis ha tutti i numeri per diventare la nuova brez-za Americana che soffia dal Texas.(Fabio Cerbone)

Nick 13Nick 13 Nick 13 [Sugar Hill 2011]

Non è il primo e non sarà certo l'ul-timo caso di felice comunicazione fra tradizione country e ribellione punk. Potremmo citare il clamoroso e riuscito binomio di Mike Ness, leader dei Social Distortion fulmina-to sulla via del rockabilly e di Johnny cash, che in realtà manca all'appello con un disco solista da troppo tempo ormai. Per i nostalgici potrebbe coprire l'assenza Nick 13, nome d'arte di Nick Jones da San José, California, già trascinatore dei Tiger Army sulla scena punk rock californiana e oggi reinventatosi con successo come romantico cantore di ballate dal sapore country&western. Un'operazione ad effetto questo omonimo debutto, che evi-dentemente il buon Nick cullava da tempo, anche perché le influenze di tutta la tradizione nashvilliana, il rock'n'roll della Sun e buon ultimi il Bakersfield sound e l'honky tonk degli anni '60 erano comunque na-scosti sotto i riff e l'elettricità della sua band di riferimento.

Page 41: RootsHighway Mixed Bag #10

41

RootsHighway Mixed Bag #10

Gli elementi del trio, con contra-basso e scarna batteria, richiama-vano già una sorta di psichobilly, imbastardimento del primo rock delle radici che ha sempre avuto una scena molto ricettiva negli States. Nick 13 appare invece qualcosa di più educato, elegante e decisamente tradizionalista, un omaggio riuscitissimo al sound country dell'epoca d'oro, ad una Nashville che non esiste più o qua-si e che rivive in questo pugno di canzoni, dieci in tutto per una quarantina di minuti scarsi, secon-do le regole di una volta. La voce gentile, accogliente e melodica di Nick 13 ricorda Chris Isaak e Raul Malo, anche negli arrangiamenti, tra una sentimentale In The Or-chard che non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Mavericks più sdolcinati e una Nashville Winter dai colori cristallini. I punti di riferimento d'al-tronde sono certamente molto simili, anche se va ammesso che Nick 13 guarda con più affetto a Buck Owens, a certo country cali-forniano, naturalmente anche ad un discepolo e poi maestro egli stesso come Dwight Yoakam, ag-giungendovi un tocco western tut-to personale: ad esempio l'epica Carry My Body Down e la chiusura con Gambler's Life, un titolo che dice tutto dell'immaginario evoca-to dall'album. La dolcissima Re-stless Moon diffonde invece fra-granze da border grazie all'accor-dion di Mike Webb; la più ruspante 101 è sospinta da un inconfondibi-le (e necessario) twang sound del-le chitarre, e così anche Nighttime Sky, altro banco di prova per la morbida vocalità di Nick 13. Que-st'ultimo brano, così come Cupid Victim, è marchiato a fuoco dalla leggendaria pedal steel di Lloyd Green: è soltanto uno dei tanti nomi di prestigio che accrescono il valore strumentale di un disco che risulterà semplicemnete una godu-ria per chi ama le sonorità più classiche del genere. Greg Leisz infatti produce con James Intveld e entrambi ci mettono lo zampino, il primo con chitarre, pedal e lap steel, il secondo al basso, sce-gliendo poi per ogni singolo brano l'ospitre più azzeccato. Profumi di vecchia America allora, disco senza dubbio dall'in-tenso sapore retrò, eppure una delle uscite strettamente country più fresche del 2011. (Fabio Cerbone)

The Horrible CrowesThe Horrible Crowes

Elsie [Side One Dummy 2011]

Dell'animo dicotomico di Brian Fallon, già leader e deus ex-machina dei Ga-slight Anthem, se ne erano già accorti in tanti. Basti pensare al suo aspetto fisico: faccia da bravo ragazzo e corpo ricoperto di tatuaggi da duro. Perciò, come egli stesso ha avuto modo di affermare, non bisogna stupirsi della cupezza di questo nuovo disco, che segna l'esordio della sigla The Horri-ble Crowes. È semplicemente l'altra faccia della medaglia. Lasciato per un attimo da parte il romanticismo e la melodica irruenza degli album dei Ga-

slight Anthem (fra i quali almeno uno, The 59's Sound, pur col suo ba-gaglio citazionista ed il suo piglio che potrebbe sembrare eccessiva-mente sognatore, dovrebbe comparire in ogni collezione che si rispet-ti), Fallon congeda per un istante la sua band - che tuttavia fa capolino qua e là lungo tutto lo scorrere del disco - imbarcando come nuovo compagno di viaggio il chitarrista e roadie Ian Perkins e sfoderando una scrittura scura e soulful come non mai. E il risultato è un disco livido e aggrovigliato, sempre in bilico fra sferzanti distorsioni e meditabonde elegie. All'ascolto, non è difficile comprendere il perché Brian Fallon abbia voluto tenere separato, anche nominalmente, questo suo nuovo progetto da quello targato Gaslight Anthem, nonostante il blocco dei musicisti (con l'aggiunta di Perkins, appunto) sia più o meno il medesimo. È una lotta contro i propri fanta-smi quella che il leader ingaggia lungo tutto lo scorrere dell'album, una lotta interiore che pervade tutte le dodici canzoni e che tocca il proprio climax nel ruggito delle chitarre elettriche di Mary Ann, con la voce di Fallon che debutta urlando "Guarda fuori, l'uragano sta arrivando/L'acqua è avvelenata e tutti ti mostrano i denti", per poi sciogliersi nel-l'hard gospel del bridge che, nonostante quel "Jesus gonna be here soon" rubato a Tom Waits, pare solo l'eco di una promessa non mante-nuta. Ma è tutto il disco ad essere attraversato da una linea scura, con il leader che sfodera una scrittura molto più scheletrica che in passato (Sugar e Behold the Hurricane recano non poche affinità con i lavori dei National, con i quali Fallon condivide l'amore viscerale per Springsteen e Cohen), salvo poi talvolta intarsiare le sue canzoni di soul (I Witnes-sed a Crime) fino ad arrivare alle coloriture quasi sinfoniche di Go tell Everybody e Blood Loss. Ma è con il terzetto che allinea Ladykiller (un pezzo che cita i migliori U2 senza tuttavia risultare emulativo né pleo-nastico), Crush (stupenda cavalcata rock) e la già citata Mary Ann che il disco tocca le sue vette più alte, con la voce che, lungi dall'essere tecnicamente perfetta, si sfalda, grida, ruggisce e sembra consumarsi in ogni singolo pezzo e ciononostante riesce a toccare corde emotive impensabili. Chissà ora cosa passerà nella mente di Brian Fallon, che nell'ul-timo anno si è tolto la soddisfazione di duettare con Springsteen e di assurgere al ruolo di rocker di culto. Chissà se questo progetto, chiuso il tour che comincia in questi giorni, passerà in archivio o se Elsie avrà un successore. Nel frattempo, pur continuando a seguire le irrequietez-ze del leader, meglio godersi questo disco anche se, attenzione, non è opera per tutte le stagioni. (Gabriele Gatto)

Page 42: RootsHighway Mixed Bag #10

42

RootsHighway Mixed Bag #10

Made in ItalyMade in Italy cose di casa nostra

Tiziano MazzoniTiziano Mazzoni Goccia a goccia [Eccher music 2011]

Che la musica d'autore in Italia sia sempre meno musica e ancor me-no d'autore è ormai tristemente risaputo. Purtroppo, e questo è innegabile, da vent'anni a questa parte gli artisti di casa nostra han-no completamente abbandonato una dimensione che sfiorava te-matiche universali sconfinando nel privato, nelle pieghe (e piaghe) sociali che caratterizzavano il no-stro paese. Quella prospettiva è scomparsa dall'orizzonte, ma non si è rinnovata a dovere, tanto che, con una certa tristezza, dobbiamo tornare indietro per leggere me-glio il presente, a significare che il tempo non scalfisce (o almeno, non del tutto) quel che di buono i nostri cantautori ci hanno regalato fino alla fine degli anni ottanta; oppure dobbiamo cercare tra le produzioni che non si fanno senti-re, che restano confinate nell'am-bito del culto degli appassionati, quelli che la musica d'autore se la vanno a cercare, senza arrendersi all'evidenza e alla tristezza di ciò che propinano media e affini. Una divagazione, questa, che saprà di risentito, di banale, di noioso. Ma è quella che, con una certa insistenza, si è impadronita della mia penna quando ho iniziato a buttar giù queste righe. In tutta onestà, questo disco l'ho ascoltato parecchie volte, molte di più ri-spetto alle recensioni che normal-mente scrivo. Il motivo è molto semplice: mi sono semplicemente chiesto se ciò che fuoriusciva dai diffusori fosse un disco del 2011, oppure se il buon Fabio non mi avesse rifilato per sbaglio una ri-

stampa di qualche cantautore de-gli anni settanta del quale, mio malgrado, non conoscevo il nome. Ma poi ho ascoltato il suono e mi sono detto no, non può essere, una produzione così nei settanta, a parte qualche rara eccezione, se la sognavano. Mi sono detto no, questo è un disco che parla del presente, coniugandolo però al passato, in quella dimensione uni-versale alla quale ho accennato. Questo, soprattutto, è un grande disco, e Tiziano Mazzoni è una realtà dei nostri giorni, la dimostrazione evidente che la mu-sica d'autore, o almeno, quella che noi intendiamo come tale, non è finita, non è morta, ma è ancora in grado di emozionare. Giunto al suo secondo disco, l'artista pi-stoiese si fa produrre da uno che il mestiere lo conosce bene, Massi-mo Bubola, incidendo per la sua etichetta. Ecco, se dobbiamo fare un paragone, questo disco, a livel-lo di varietà di suoni e suggestioni, rimanda a quello che secondo il sottoscritto è il capolavoro del cantautore veronese, Doppio lun-go addio, un gioiello degli anni novanta che chi non lo indossa deve farlo subito. C'è la lezione americana filtrata dai nostri De André (quando si parla di Bubo-la…) e De Gregori, c'è il cielo d'Ir-landa, una poesia nei versi che non è mai al servizio dell'astrazio-ne dei sentimenti, ma della loro quotidiana espressione, nel caso in questione tradotta nelle varie sfac-cettature di una storia d'amore poco ideale e molto reale. C'è, poi, una voce profonda, ben calibrata, supportata da una strumentazione eccellente, con un hammond che fa magie (Pippo Guarnera), il violino di Anchise Bolchi, l'orga-netto di Riccardo Tesi, l'elettrica di Nick Becattini e il mandolino di Edoardo Palermo. L'album si apre con un omaggio al conterra-neo Maurizio Ferretti, bravissimo musicista scomparso prematura-mente, cui Tiziano deve molto. Ad occhi aperti, questo il titolo, è un robusto R&B in chiave acustica che sprigiona momenti di grande poe-sia in quella sua triste denuncia dei tempi moderni che si stanno

raggomitolando in una totale assen-za di valori nascosta dal vuoto del-l'informazione, che chiaramente risponde a precisi disegni del pote-re. Si viaggia poi a mille con l'"irlandese" Storie segrete e la splendida Cambio, un rock blues tinteggiato di cajun che dà voce alle fisiologiche necessità di cambia-mento nell'esatta direzione dei no-stri desideri, con la title track dal sapore coheniano (in quella sua perfetta sintesi letteraria e musica-le) e Dall'altra parte dell'Atlantico, che richiama la degregoriana Viaggi e miraggi e si scioglie in un refrain assassino. Lentamente è una densa ballata in stile irish, Mi ricorderò di te sprizza alte dosi di energia grazie al violino e al dobro che ne costitui-scono l'ossatura cajun, Come un soffio di vento è soffice e rarefatta, mentre Solo come un cane è un frizzante e delizioso bluegrass che conta sulla doppia voce di Luigi Grechi. Chiudono Quando il cielo lava il viso alla città, un'altra de-nuncia del degrado sociale in cui viviamo che poggia su una simbolo-gia azzeccata e originale, la dark ballad La casa della strega e Vie-n'mi incontro nel buio, la riconcilia-zione dopo la separazione, il mo-mento dell'abbraccio, che se non ricompone almeno ricama la spe-ranza di un nuovo domani. Un disco che riconcilia, che fa pensare, che si lascia scoprire ascolto dopo ascolto, in quella sua intensità quasi irreale. (David Nieri)

Page 43: RootsHighway Mixed Bag #10

43

RootsHighway Mixed Bag #10

BlackHighwayBlackHighway blues, soul & black culture

Seasick SteveSeasick Steve You Can’t Teach an Old Dog New Tricks [Play It Again Sam 2011]

Il blues made uk sta attraversan-do un buon momento di salute sia in seguito alla valida pubblicazione dell'album di Ian Siegal che per questo nuovo lavoro di Seasick Steve, ex californiano trapiantato in Europa. Niente di nuovo sotto al sole, pardon sotto il cielo grigio di Londra, abbiamo di fronte il solito album di blues rudimentale, ripeti-tivo e ipnotico a cui Steve Wold (il vero nome del barbuto interprete di blues) ci ha abituato con alti standard qualitativi fino ad ora. La scelta di Steve Wold, in età matu-ra, di spostarsi in Europa a cele-brare la propria musica è stata a dir poco premiante anche se a quanto pare ci ha lasciato il cuore, per la precisione vive a Notodden, un piccolo comune della contea di Telemark in Norvegia. Una sfida che di sicuro in America non avrebbe riscosso la medesima risonanza e magari era ancora in qualche bettola a cerca-re un vero contratto discografico. Oggi nel Regno Unito è molto se-guito e rispettato mentre parados-salmente è piuttosto ignorato an-cora negli USA. Nel lavoro in cau-sa spicca tra gli ospiti il nome di John Paul Jones, proprio lui l'ex Led Zeppelin presente in tre brani, questo scoprendolo tra le note dell'album (che si può reperire anche in vinile) altrimenti neanche ce ne saremmo accorti. Tutto ruo-ta intorno all'ego fatto di voce e chitarre di Seasick Steve. Quello che ci piace raccontarvi è che sia-mo una spanna sopra al preceden-te Man Another Time, anche se

nelle diverse similitudini non è semplice individuarne le differen-ze, e si tende a sfiorare la pienez-za di I Started Out With… (2008), oggi il suo lavoro più completo e maturo insieme a Cheap che per impatto ed energia sprigionata non ha ancora eguali nella sua produzione. L'apparente "benzinaio" barbuto sfoggia il suo gran reper-torio fatto di pochi accordi suonati con tutta la sua strumentazione, una canzone per ogni chitarra. Si celebra il blues elettrico con la Trance Wonder a tre corde in Back In The Doghouse o la Cigar Box in Don't Know Why She Love Me But She Do, episodi in puro stile Sea-sick Steve con il loro carico distil-lato ad alta energia magnetica. In apertura vi aspetta la ballata Trea-sures semplice di sentimento e struttura (chitarra - banjo e violi-no), diretta al cuore e sembra strizzare l'occhio a Johnny Cash. Seguono altre valide situazioni come Burnin'Up di vibrante "hookeriana" memoria con la vivi-da presenza del compagno di av-v e n t u r a Da n Magnu s s e n (simpatica la foto all'interno con Steve che stappa la terza bottiglia di vino e Dan che gli sorride), che interrompe i pochi momenti di so-litudine acustica di Seasick pre-senti in questo album, intimi brani di cui meritano un cenno di riguar-do Have Mercy On The Lonely e Underneath A Blue And Cloudless Sky, malinconica e decisa ballata al banjo. La title track, in puro

ZZTop style, diverte e sembra stu-diata apposta per dilagare sulle FM inglesi (svaga il relativo video), chiude l'inno corale di It's Long Way. Ai puristi potrebbe apparire scontato e derivativo eppure l'alto blues di sintesi di Seasick Steve sa ancora con semplicità toccare le corde dell'emozioni. (Antonio Avalle)

Howlin’ WolfHowlin’ Wolf Live and Cookin’ (At Alice’s Revisited) [Raven 2011]

Chester Burnett, "il lupo", un omo-ne di quasi due metri per cento-trenta chili di stazza, era nato a White Point, Mississippi (nei pressi dell'accademia militare di West Point), da una famiglia, come spes-so capitava ai neri americani nei primi anni del '900, povera, religio-sa e molto numerosa. La madre lo buttò fuori di casa, nemmeno ado-lescente, per essersi rifiutato di la-vorare nei campi. Il nonno, fissato con le leggende rurali cresciute in-torno al fiume Mississippi, gli disse

Page 44: RootsHighway Mixed Bag #10

44

RootsHighway Mixed Bag #10

così trovandogli un soprannome professionale, di stare attento ai lupi che, dopo averlo ghermito, avrebbero potuto sanzionarne il comportamento ribelle. All'ipoteti-co castigo Burnett badò poco, ma la storia degli animali feroci gli rimase impressa al punto da spin-gerlo a battezzarsi Howlin' Wolf, il lupo ululante, e a seguire gli in-segnamenti di Charley Patton, Blind Lemon Jefferson e Jimmie Rodgers (i primi due li conobbe de visu, il terzo rimase un idolo invio-lato della gioventù): impugnate una chitarra e un'armonica, prese a peregrinare nelle piccole comu-nità operaie sorte, durante gli anni '30, nei pressi del Delta del Missis-sippi. Il suo primo disco "lungo", su etichetta Chess, giunse soltanto nel 1959 e fu un mezzo shock. Moanin' In The Moonlight, con l'immagine del lupo intento a ri-volgere il proprio guaito verso un paesaggio brullo e lunare, recava ancora le stimmate del country-blues più arcaico e campagnolo, ma portava con sé anche i germi di una rivoluzione urbana (poi por-tata al massimo compimento da Muddy Waters) che avrebbe con-dotto il blues a stretto contatto con le metropoli e con i tormenti di razza dell'inurbamento nero. Disgustato dalla spinta mollezza di molti fratelli nel frattempo baciati da fortuna e successi (celebre un suo diverbio con Son House, che rinvenne, ubriaco fradicio, nel backstage del Newport Folk Festi-val del '66 e che accusò di aver sprecato le migliori opportunità della propria vita), Howlin' Wolf decise negli anni '60 di portare alle estreme conseguenze il flirt peccaminoso tra la radice contadi-na, remota e isolazionista della propria ispirazione e il sound urba-no dei grandi agglomerati cittadini sviluppatisi lungo le due coste del-la nazione. La musica, per Wolf, era un mestiere, da affrontare con impegno, dedizione e spirito di sacrificio; il pubblico un detentore di indulgenze, soprattutto econo-miche, da blandire e irretire, con tutti i mezzi necessari. Persino tramite soluzioni sgradevoli, non-ché sgradite al diretto interessato: The Howlin' Wolf Album ('69), de-testato dal titolare e in parte ispi-rato ai coevi esperimenti di Muddy Waters (si ascolti Electric Mud ['69]) e alle fiammate della Strato di Jimi Hendrix, inzuppato di wah-wah e sferzanti cover da Willie

JD McPhersonJD McPherson

Signs and Signifiers [Hi Style 2010]

Arriva da Tulsa, Oklahoma, JD McPherson, e Signs and signifiers segna il suo debutto discografico. Un album, quello approntato dal nostro, che rispecchia i propri amori musicali attingendo alla fonte del r'n'b e del primo ruspante rockabilly, il tutto re-gistrato con strumenti analogici per recuperare le sonorità dell'epoca. So-no proprio le scelte sonore del disco a sorprendere: grazie all'utilizzo di un vecchio registratore a nastro Berlant degli anni '60, si è riusciti a ricreare quella magia sonora che permeava

luoghi ormai leggendari come gli studi della Sun o della Chess. Non sono solamente i suoni a sorprendere, in quanto McPherson è anche autore di vaglia e possiede una voce roca ed espressiva, che non ha nulla da invidiare ai più blasonati esponenti del genere. Inizio al fulmi-cotone con il rock'n'soul di North Side Gal, dove la voce di JD ha subito l'occasione di mettersi in mostra, ben supportata dal contrabbasso di Jimmy Sutton e dalla batteria di Alex Hall; il tutto condito dagli in-terventi solistici ad opera del sax. Di chiara matrice r'n'r è anche la successiva Country Boy, che vede ospite al piano Scott Ligon, e basa tutto il suo appeal su di un mood rallentato e suadente. Fire Bug dal canto suo sarebbe stato il singolo perfetto per uno dei tanti rockabilly hero che infestavano le radio sul finire degli anni '50; tappeto percussi-vo di piano e sezione ritmica che pare un treno in corsa. Decisamente atipica è la title track, che pare provenire diretta-mente da un album a marchio Chess, a nome Bo Diddley. Del fu gran-de Elias Bates McDaniel viene infatti ripreso quel tipico ritmo jungle, tanto che sembra di trovarsi di fronte a una versione edulcorata di uno dei brani del chitarrista afroamericano. Ridotta all'osso è invece Wolf teeth, terreno ideale per la voce di McPherson, che qui urla e sbraita come fosse posseduto dai fantasmi di Eddie Cochran e di Gene Vincent. I fiati tornano a farla da padrone in Scratching Circles, dove Jonathan Doyle e Josh Bell soffiano come ossessi nei loro strumenti. Infarcita di soul è invece la suggestiva A gentle Awakening, suadente ballata dai forti sentori sudisti, nella quale spiccano il violino di Susan Voelz e il violoncello di Allison Chesley. Decisamente più classiche sono invece la pianistica Dime for Nickels, la fiatistica B.G.M.O.S.R.N.R. e la cover di un vecchio brano di Joey Simone "Your love (all that I'm mis-sing), con gli ottimi spunti chitarristici di Joel Paterson. I Can't Com-plain dal canto suo è un blues virato verso il r'n'r, che riprende le at-mosfere tanto care alla città di Chicago, dove l'album è stato registra-to. Chiusura in grande spolvero con l'anfetaminica Scandalous da a-scoltare a tutto volume per poterne assaporare appieno l'energia. E come si dice in questi casi buona la prima; anzi ottima direi. (Marco Poggio)

Una volta al mese RootsHighway ospite di Street Lights su

Radiogas.it per presentare le novità del sito e la playlist

Page 45: RootsHighway Mixed Bag #10

45

RootsHighway Mixed Bag #10

Dixon, venne definito da Wolf "merda di cane". Eppure vendette abbastanza bene, tanto da convin-cere il lupo a imbarcarsi in un tour di supporto ad Alice Cooper (!) e a prendere un biglietto aereo per Londra, allo scopo di registrare qualcosa in compagnia di tutti quei giovanotti britannici - Eric Clapton, Bill Wyman, Steve Winwood, Charlie Watts - che, alla guida dei loro gruppi, sostenevano di aver desunto dai suoi brani un imprinting culturale imprescindibi-le. Ne risultò The London Sessions ('71), album discreto e tuttavia, ancora una volta, poco amato da un Wolf ormai convinto di essersi allontanato troppo dal perimetro di gioco di propria pertinenza. In parte infastidito dal gri-giore dei cieli albionici, in parte provato da un sincero disagio nei confronti di quegli spilungoni, e capelloni, e cannaioli, e cocaino-mani, coi quali si era confrontato per qualche settimana pianificata da esigenze di management, il lupo decise fosse il momento giu-sto per sfoderare gli artigli e sfo-gare un pizzico di istintività. L'oc-casione propizia arrivò grazie a un ingaggio, inaspettato, dell'Alice's Revisited, un bar di Chicago un tempo mecca di hippies, folksters e contestatori di vario lignaggio. Il 26 gennaio del '72 Howlin' Wolf vi piombò con tutta l'irruenza del suo blues urbano e stradaiolo, sten-dendo al tappeto una platea di bianchi estasiati e neri rabbiosi. Live And Cookin' (At

Alice's Revisited), licenziato in origine dalla neonata Geffen, fu l'unico album dal vivo della sua longeva carriera e un assalto ai sensi, all'erotismo sudato e alla furia rapinosa del blues orchestra-to con gesto assassino dalla sei

corde torrenziale di Hu-bert Sumlin, dal basso Fender di David Myers, dal drumming feroce di Fred Below, dal piano barrelhouse di Sunnyland Slim, dal sax ubriaco e cavernoso di Eddie Shaw. Devastante, concentrato, bruciante e vorticoso, Live And Cookin' mostrò un Howlin' Wolf ai vertici di un potenziale costruito sulla collera e la voluttà di una popolazione coloured fino ad allora tenuta ai margini oppure esibita alla stregua di un esotico fenomeno da baraccone.

Nel disco, oggi ristampato in CD dall'australiana Raven con l'ag-giunta del funky martellante di una The Big House fradicia di soul e di una Mr Airplane Man così in-trisa di magia, esoterismi e perdi-zione da far impallidire i Gun Club, non dovete cercare traccia del cle-avage sociologico del decennio precedente (rimosso con un ghi-gno mefistofelico), solo la radica-lizzazione del solecismo wolfiano, perpetrato col preciso intento di sventrare la purezza della sintassi rurale del blues. In una tempesta di rasoia-te di chitarra e scivolate pianisti-che, frustate di armonica e disarti-colazioni di batteria, con un sax svelto a infilarsi in tutti i pertugi d'un sordido racconto urbano, Ho-wlin' Wolf cantò, grugnì e ululò a pieni polmoni, disseminando il di-sco di un ringhiare sordo e bruta-le, protesi emotiva ed estrema di una coscienza di razza e di classe ridotta a brandello di bestialità sessuale. Come intrappolato in un incubo di cui non poteva conosce-re l'epilogo, il Wolf di Live And Co-okin' incarnò il nero recluso nella gabbia di cemento della città, sen-za speranza, senza riscatto, senza so-gni e senza risarci-menti al di fuori di quelli concessi da una serata di effe-rato blues elettrico. Dal lentaccio della sontuosa Call Me The Wolf alle bato-ste della scartave-trata When I Laid Down I Was Trou-bled (otto minuti travolgenti), dalla melodia rockeg-giante di un'intensa

Sittin' On Top Of The World alla valanga sudista di Mean Mistreater (Muddy Waters), passando attra-verso un repertorio che evita di proposito i pezzi più conosciuti per ribaltare e dilatare un pugno di gemme da esegeti della materia, Wolf sputò nel microfono ogni grammo di risentimento. Dicono che, all'apice del successo, fosse tornato dalla madre che l'aveva ripudiato, offrendole soldi, sostegno pratico e una solitu-dine impossibile da grattare via. Dicono che la madre lo respinse una seconda volta, rivolgendogli l'accusa di aver abbracciato la mu-sica del diavolo. Sull'episodio non esiste datazione certa, ma qualcosa mi dice che Howlin' Wolf l'avesse già sperimentato, o lo presagisse, assumendo a sé i blues come una cicatrice diffusa in modo capillare su tutto il corpo e abbandonandosi all'amarezza della vita e delle sue promesse dissolte di felicità ed e-quilibrio, quando decise di interpre-tare, quella sera a Chicago, I Had A Dream, un vecchio rock-blues di Big Bill Broonzy. Il blues era ed è tutto lì, nel titolo della canzone ripetuto in tono ossessivo, nel picchiare ot-tuso della sezione ritmica finché il nostro - estenuato - non chiude la partita: "L'altra notte ho fatto un sogno / Ho sognato che un uomo si prendeva la mia donna / L'altra notte ho fatto un sogno / Mi sono svegliato / E non avevo una cazzo di vita". (Gianfranco Callieri)

Page 46: RootsHighway Mixed Bag #10

46

RootsHighway Mixed Bag #10

ClassicHighwayClassicHighway best of, ristampe e classici

Elvis PresleyElvis Presley Elvis is Back! Legacy edition 2CD [RCA/ Sony 2011]

Alcune parole, a forza di essere utilizzate in modo improprio, han-no ormai perso di valore e signifi-cato. Tra queste, tutti i superlativi cui si ricorre, accompagnandoli con immancabili squilli di trom-ba, quando c'è di mezzo (in ambito discografico) una qual-che ristampa. Sono convinto anch'io che un pizzico di mode-razione lessicale in più potrebbe aiutarci a ritrovare un auspicabi-le senso delle proporzioni: in fondo, le riscoperte davvero im-prescindibili sono quattro o cin-que ogni anno, mentre tutto il resto oscilla tra la mera operazio-ne di marketing, lo stratagemma per ingolosire il completista e la pura e semplice raschiatura del fondo del barile. Eppure di fronte alla nuova versione di Elvis Is Back!, il primo album pubblicato da Elvis Presley dopo quel servizio di leva che secondo molti ne a-vrebbe addomesticato gli istinti più selvatici, è difficile trattenere l'entusiasmo. Non solo per il dili-gente lavoro di rimasterizzazione effettuato dall'esperto Vic Anesini presso i Battery Studios di New York: la scelta di accoppiare il di-sco del 1960 a una dozzina di sin-goli del periodo rimasti fuori dai coevi lp e al successivo Some-thing For Everybody ('61), mol-to simile per spirito e musicisti coinvolti, consente infatti di tenere per le mani un gruppo di canzoni tra le migliori mai licenziate da Elvis in vent'anni di attività, di un nonnulla inferiori all'inarrivabile, scorticato rock'n'roll degli esordi e sullo stesso piano delle superbe registrazioni gospel dell'ottobre '60 o delle spettacolari raccolte dal vivo della decade posteriore. Sebbene molti autorevoli commentatori sostengano che l'u-nico Elvis che vale la pena cono-scere - il ragazzo bianco con la voce da nero capitato negli studi di Sam Phillips, a Memphis, per incidere un acetato da regalare alla madre - sia quello del 1956,

chi vi scrive è invece convinto che materiale interessante, nel percor-so professionale di Elvis, si trovi un po' dovunque, anche nelle fasi di carriera più sputtanate e super-ficiali. È vero: Elvis non è mai sta-to selvaggio, innocente e trasci-nante come nei brani elaborati, tra il '53 e il '55, durante il soggiorno in casa Sun

Stu-dio (obbligatorio, a tal proposi-

to, consigliare ancora una volta un ripasso del doppio Sunrise ['99]). Ma quello di Elvis Is Back! e So-mething For Everybody è soltanto un altro musicista e, soprattutto, un altro cantante. La famigerata chiamata alle armi non ha affatto rammollito il nostro, ne ha sem-mai affinato le doti da crooner, da cantante confidenziale (peraltro capace di recuperare in un lampo la verve del vecchio shouter inna-morato del rockabilly). Elvis ap-profitta della rinnovata sicurezza, contrattuale e artistica, per inizia-re quel cruciale processo di transi-zione che, dalle radici blues del nativo Mississippi (era nato a Tu-pelo, nel 1935), lo porterà prima a definire meglio di chiunque altro rhytm'n'blues di Memphis, poi a mettere in cantiere il crossover tra country e ballate nostalgiche degli anni '70. Si può anzi dire, col senno di poi, che il big bang rockinrollista del citato preambolo sotto l'egida di Phillips, ancorché fondamentale nello sviluppo della musica popola-re del '900, individui in realtà, ri-spetto al complesso dell'opera, il segmento meno rappresentativo della carriera di Presley. Al contra-

rio, in Elvis Is Back! e Something For Everybody, entrambi registrati a Nashville col preciso scopo (caso raro per il Re) di confezionare due album fatti e finiti, c'è il prototipo del Presley passato alla storia, quel-lo delle canzoni d'amore tra country e soul, il rocker ingentilito dalla ri-cercatezza di un portamento rootsy mai più espresso con tanta elegan-za, il bluesman proletario che si infiamma, accarezza, scuote e sus-surra. Elvis Is Back!, in particolare, è un capolavoro di finezza. Attor-niato dai musicisti migliori con cui abbia mai lavorato, cioè Scotty Moore (chitarra), DJ Fontana (batteria) e Floyd Cramer (pianoforte), e doppiato alla voce dallo strepitoso quartetto dei Jor-danaires, Presley passa con di-sinvoltura stupefacente dal blues al rock'n'roll, dal doo-wop allo swing, dal rockabi l ly al rhytm'n'blues, sempre fornendo le versioni definitive delle canzo-

ni con le quali si cimenta. Il jazz ambiguo di Fever (Little Willie John) segue con scru-polo l'arrangiamento (schiocchi di dita e una linea di basso) conferito al pezzo, due anni prima, da Peggy Lee, ed è altrettanto geniale; Make Me Know It (Otis Blackwell) apre le danze con una sarabanda doo-wop, dove i Jordanaires fanno faville, che deve qualcosa ai Drifters e sta sullo stesso piano delle altre composizio-ni dello stesso autore già interpre-tate da Elvis (Don't Be Cruel e All Shook Up, e scusate se è poco). Il trittico successivo, composto dal pop sentimentale di Girl Of My Best Friend, dal country evocativo di I Will Be Home Again e dal rock'n'pop travolgente di Dirty, Dirty Feeling (solito pezzo da novanta di Jerry Leiber e Mike Stoller, gli autori di Hound Dog e Jailhouse Rock), atte-sta la spregiudicatezza e la sponta-neità di Elvis nel muoversi in una baraonda di generi differenti. Tutti ricomposti, un attimo dopo, nella devastante frustata tra rock e soul della movimentata Such A Night, uno di quei brani che spie-gano meglio di qualsiasi descrizione perché Elvis abbia trasceso la di-mensione di mera icona musicale e sia finito a giocare tra i big-leaguers delle leggende storiche (in ogni

Page 47: RootsHighway Mixed Bag #10

47

RootsHighway Mixed Bag #10

caso, l'ampiezza della scala di to-nalità vocali utilizzate nel corso della canzone lascia ancora a boc-ca aperta). Se suonano ottimi il blues di It Feels So Right e Like A Baby (più pomposa l'una, più scar-na l'altra), a dir poco incredibile è la jam bluesata della conclusiva Reconsider Baby, col pezzo di Lo-well Fulson che si trasforma nella colonna sonora di una serata da juke-joint dove Elvis singhiozza, il gruppo naviga sicuro nel fango delle paludi e il sax fulminante di Boots Randolph squarcia l'aria con i suoi fendenti. Nelle bonus-tracks ricavate dai singoli "extra-album" dell'epoca, poi, appare di tutto: il tosto rock mid-tempo di Stuck On You e la deliziosa ballata Fame And Fortune (una strizzatina d'oc-chio a Frank Sinatra), l'etilico er-rebì di una Mess Of Blues culmi-nante in un falsetto da antologia e il pop all'acqua di rose di I Gotta Know. Are You Lonesome Tonight? è così nota da rischiare l'effetto saturazione, ma questa prima ver-sione, contrassegnata dall'ugola di Elvis che recita stentorea sopra un tappeto di sussurri vocali e chitar-re arpeggiate con estrema delica-tezza, rimane un piccolo gioiello. It's Now Or Never e Surrender, invece, restano indigeribili oggi come allora: traduzioni di due classici della canzone napoletana, le celeberrime O Sole Mio e Torna A Surriento, rivisitati da Elvis per compiacere la moglie del prussia-no manager dell'artista (il "Colonnello" Tom Parker), i brani, pur cantati benissimo, affogano in un pantano di grottesche citazioni operistiche e folklore da cartolina

che il tempo non ha certo miglio-rato, anzi. Piccolezze, comunque, da prendere come parte del gioco teatrale di un artista troppo famo-so per non incorrere in qualche scivolone, e magari, se osservate con la giusta dose di ironia, perfi-no divertenti. E ironico, divertente, sor-nione e irresistibile è l'intero So-mething For Everybody, diviso in due facciate - "ballad" e "rhytm" - dalle caratteristiche opposte pronte a regalare "qualcosa a chiunque". Nelle ballate Elvis è fenomenale: There's Always Me, la bluesata Give Me The Right (splendida l'intro vocale di Millie Kirkham), i fiati di Sentimental Me, il pianoforte asciutto di Star-ting Today e la folkeggiante Gently, impreziosita dalla chitarra acustica del grande Hank Garland e attraversata da Elvis col pensie-ro rivolto a Marty Robbins e al Kin-gston Trio, non sbagliano un colpo neanche a farlo apposta. Ma anche la sfilata dei pezzi più pimpanti, inaugurata dall'honky-tonk alla Jerry Lee Lewis di I'm Comin' Home (Charlie Rich), conclusa dal rockabilly enfatico di I Slipped, I Stumbled, I Fell e consegnata al-l'immortalità dal rock'n'roll teppi-sta di una I Want You With Me che catapulta Ray Charles in una guer-ra tra bande giovanili, si difende con la grinta, l'energia, il morden-te e la determinazione di sempre. Completano il quadro della ristam-pa il blues da manuale di I Feel So Bad, l'accoppiata (Marie's The Na-me) His Latest Flame e Little Si-ster (tutte e due scritte da Doc Pomus e Mort Shuman ispirandosi agli scossoni ritmici di Bo Did-dley), il doo-wop di Good Luck Charm e l'incantevole sussulto gospel di una Anything That's Part Of You che sembra Bridge Over Troubled Water dieci anni prima. Tutta questa eterogeneità stili, questa pluralità del linguag-gio, costituisce il peccato originale che in parecchi, al Sergente Pre-sley rientrato dall'arruolamento, non hanno mai perdonato. Elvis Is Back! e Something For Everybody, di fatto, strappano il velo tra spet-tacolo e pubblico, aprendo la diga al fiume di mestieranti decisi a monetizzare la scelta di compiace-re gli indirizzi degli ascoltatori an-ziché anticiparli o crearli (come Elvis e Sam Phillips avevano fatto mescolando Hank Williams al rhytm'n'blues e, quindi, inventan-do e sdoganando il rock'n'roll per i

bianchi). Coltivare sogni infranti può essere una consolazione, non si discute, ma nel caso di Elvis signifi-cherebbe sottovalutare il lavoro di uno dei più grandi performer della storia del rock e una catena di al-bum dove, anche nei casi meno presentabili, c'è ogni volta un mon-do da riscoprire, da attraversare, da abitare. (Gianfranco Callieri)

The Long RydersThe Long Ryders Native Sons (Deluxe reisse) [Prima 2011]

Una "y" infilata nel bel mezzo di quel Ryders, Gene Clark a duettare in Ivory Tower e l'album dei ricordi del rock californiano si apre sulle pagine di una "nuova psichedelia" aggiornata agli anni 80. Qualcuno la chiama Paisley Underground, au-mentando il mistero sul nome e sulle origini, ma a conti fatti si trat-ta soltanto di alcune coraggiose rock'n'roll band che si infilano nel riflusso dell'epoca post punk e per ripicca al rumore di fondo riscopro-no la tradizione, ogni protagonista peraltro con una sua caratteristica non uniformabile. Infatti, la band di Sid Griffin e Stephen McCarthy, attratti dal sole opaco di Los Ange-les ma nati e cresciuti in un più du-ro Midwest americano, prende con-tatti con la scena cittadina ma si distanzia subito dalle frange più oniriche del movimento: amici di Steve Wynn certo, e dei Green on Red poi, con cui arriveranno a in-ventarsi l'isolato, splendido omag-gio alla polevere country&western di Danny & Dusty, The Long Ryders abitano i luoghi più nasco-sti alla vista di un country rock dal riottoso animo garage, pregando tanto i santini dei Byrds e dell'ama-to Gram Parsons (di cui Sid Griffin diverrà una sorta di esegeta) quan-to quelli delle più oscure frange del-la California entrate nelle cronache di Nuggets, l'antologia per eccellen-za delle misconosciute bande si-xties. Si trovano così sullo stesso sentiero dei Beat Farmers, dei primi

Page 48: RootsHighway Mixed Bag #10

48

RootsHighway Mixed Bag #10

dei primi Los Lobos, dei Blasters e di altri rinnegati che seguono un percorso a ritroso nella memoria. È il 1984 d'altronde, un'al-tra era geologica del rock'n'roll, con i tempi che corrono e il consu-mo continuo di novità che tutto ci fa dimenticare in fretta: fra suoni sintetizzati, capigliature impropo-nibili e nuove reginette del pop, la musica di questa nuova sponda californiana si rintana invece nelle cantine e suona anacronistica fin dal primo rintocco di chitarra in Final Wild Son. È la traccia che apre Native Sons, esordio sulla lunga distanza dei Long Ryders, che ricompare in gran spolvero con una cura all'ingrasso che oggi ne propone una degnissima ver-sione deluxe, aumentata a 24 can-zoni dalla presenza dell'ep di de-butto 10-5-60 del 1983, dalle cosiddette 5x5 Sessions del 1985 e addirittura dalle demo nominate Radio Tokyo datate 1982, con le prime bozze di Still Get By e And She Rides. Suona tutto ancora adesso immutato nella sua fresca innocenza: una riscossa dell'indi-pendenza che ruba lo spirito alla quasi coeva rivoluzione punk ma lo applica ai nuovi interessi per il passato di questa generazione. E' il primo segnale del ri-torno alle radici, annuncio di un'A-mericana a venire, primo mattone della casa alternative country che sarebbe nata negli anni Novanta: appare oggi come un piccola Bib-bia del rock provinciale Native Sons, apripista di una sensibilità che si sarebbe allargata a macchia d'olio sul vasto territorio del nulla americano, lasciando testimonian-ze rinvenute poi nell'esperienza di Uncle Tupelo, Jayhawks (non a caso Stephen McCarthy ci finirà a suonare in una delle diverse for-mazioni), Waco Brothers (Jon Lan-

gford dedica ai Long Ryders uno dei suoi ri-t r a t t i "scheletrici" a l l ' i nterno del boo-klet), Whi-skeytown e mille altri. Ce lo fa in-tuire anche John Ma-ckey, ami-co, giornali-sta e road m a n a g e r

della band in quella stagione, che cura le note del libretto, ricco di foto e piccole memorabilia. Lo di-cono soprattutto i suoni di Native Sons, album che lancia ancora scintille e sprizza la stessa energia travolgente della mistura di Ri-ckembacker e Telecster in mano alla coppia Griffin-McCarthy, com-pletata dalla sezione ritmica di Greg Sowders e Tom Stevens: Final Wild Son è uno stantuffo country rock che aggiorna la sta-gione degli outlaw e di Johnny Cash, Still Get By una scudisciata che rinfresca il garage rock, Run Westy Run e Tell It to thye Judge on Sunday altri esempi di un intel-ligente recupero dei sixties più spensierati, I Had a Dream una chiusura che si tinge di grandi o-rizzonti psichedelici, mentre la ripresa di (Sweet) Mental Reven-ge, una vecchia hit country firma-ta da Mel Tillis, e l'hillbilly rock di Never Got to Meet the Mom ritor-nano verso la campagna e una idealistica immagine della tradizio-ne, come se i Long Ryders fossero i nuovi pionieri di una frontiera americana a tempo di rock'n'roll. La fotografia d'insieme

conferma lo zenith della band, mai più su questi livelli di affiatamento e ispirazione (seppure la maturità del successivo The State of Our Union sia un punto di arrivo notevole e Two Fisted Tales un canto del cigno da rivalutare), pronti a guidare le fila di una riscossa sulla strada e per la strada, insieme agli altri ge-nerosi rimestatori della tradizione. Rispetto però ai molti dirimpettai dell'epoca, colpisce davvero la dut-tilità dei Long Ryders nel fare pro-prio il linguaggio dei sixties: il ri-spolvero dell'ep 10-5-60, dove an-cora è presente il primo bassista Des Brewer, mostra questo talento spostandosi dal jingle jangle tipica-mente byrdsiano di Join my Gang ad una chiasossa, vibrante title track, svicolando tra gli aromi beat-leasiani un po' retrò di Born to Be-lieve in You, una avvincente The Trip che ricorda i primi Heartbrea-kers di Tom Petty (la scuola e gli studi fatti sono gli stessi…) e la splendida visione lisergica di And She Rides, piccolo sottovalutato classico del gruppo. Un gioco di ri-mandi che diventa persino più e-splicito con il ripescaggio delle 5x5 Sessions: qui i Long Ryders si met-tono a nudo proponendo le cover rivelatrici di I Can't Hide (dai Fla-ming Groovies di Shake Some Action) e Master of War (Bob Dylan), quest'ultima in una cruda rilettura per chitarre elettriche e violino che li ricolloca improvvisa-mente nel pieno del Paisley. L'impressione generale però che si ricava dalla lunga cavalcata proposta in questa edizione deluxe di Native Sons è che i Long Ryders siano stati degli ingenui battitori liberi, dentro una spensierata e irri-petibile primavera del rock'n'roll americano: con i loro caschetti, i loro stivali d'ordinanza e quell'aria da esploratori del vecchio West in

un mondo che non li a v r e b b e mai accet-tati se non come una p a g i n a s c r i t t a troppo in ritardo sui tempi. (Fabio Cerbone)

Page 49: RootsHighway Mixed Bag #10

49

RootsHighway Mixed Bag #10

BookshighwayBookshighway Le proposte sullo scaffale

Tim O’BrienTim O’Brien Mettimi in un sacco e spediscimi a casa (Piemme, pp.219)

L’esordio di Tim O’Brien cresce con la sua chiamata alle armi. Quando ricevette la cartolina ebbe una reazione che lo sorprende an-cora a distanza di anni: “Andai nella mia stanza e cominciai a pe-stare sulla mia macchina da scri-vere. Fu l’estate peggiore della mia vita, peggio che essere in guerra. La mia coscienza mi dice-va che non dovevo andare, ma tutto il resto mi diceva che lo do-vevo fare. Quell’orribile estate fece di me uno scrittore. Non so cosa scrissi. Ho ancora una parte di quella roba, anche se non riesco più a guardarla ma quello fu l’ini-zio”. L’arruolamento, dovuto più a luoghi comuni e alle convenzioni che a una reale partecipazione, lo porta a un cupo campo d’adde-stramento, Fort Lewis, con perso-naggi e dinamiche che poi saranno protagonisti anche in Full Metal Jacket. “Eccoci qui, proiettati ver-so l’opposto e l’assurdo antipodo di ciò che riteniamo giusto” è il saluto che Tim O’Brien rivolge alla sua nuova casa. In difficoltà nel trovare una dimensione umana in quel contesto, Tim O’Brien stringe amicizia con un altro outsider con cui si diletta a discutere di filosofia e poesia. Gli amici verranno sepa-rati perché i voli pindarici non hanno speranza all’interno della struttura militare e Tim O’Brien si ritrova proiettato da solo nel fan-go, nel sangue e nella merda della

guerra in Vietnam. Le sue ipotesi di fuga nonché tutti i piani per ef-fettuarla sfumano negli ingranaggi spietati della macchina bellica, tra lunghissimi momenti di noia e po-chi attimi di terrore. L’idea della diserzione si riduce a una ritirata nelle retrovie, come se la vita e la morte nella zona di combattimento avessero riportato Tim O’Brien alla realtà e a una guerra diversa. La fuga diventerà un altro romanzo, Inseguendo Cacciato, e le sue radici sono proprio qui: “Cazzo, amico il segreto per resi-stere in Vietnam è andare via dal Vietnam. E non parlo di andare via in un sacco di plastica. Parlo di andare via vivo, così lo sento quando la mia ragazza mi abbrac-cia”. L’unico, esile filo che collega Tim O’Brien alla vita è il rapporto epistolare con il vecchio compa-gno, ma le lettere sono una rarità e del tutto incongrue con la desti-nazione finale. Il Vietnam è distru-zione e disperazione al fronte e decadenza e assuefazione nelle retrovie, una terra di nessuno do-ve non c’è posto per la poesia o la filosofia e dove la percezione è soltanto una: “Le cose accadeva-no, le cose finivano. Inutile farne un dramma. Non restavano che macerie, quattro crateri fumanti per terra, qualche fuoco che si sarebbe spento da solo”. Nel ripor-tare il suo diario di guerra la scrit-tura di Tim O’Brien è ancora fram-mentaria e sfocata rispetto alla sua evoluzione in Inseguendo Cac-ciato e poi Luglio per sempre. A questo stadio la scrittura funziona come una forma evoluta di autodi-fesa a cui non è estraneo il malin-conico ritorno a casa che Tim O’-Brien fotografa così: “In cambio di tutto il tuo terrore, le praterie si mantengono sfrontatamente im-mutate”. Come per dire: da laggiù non si può nemmeno fuggire. (Marco Denti)

Bernard MalamudBernard Malamud Il barile magico (Minimum Fax, pp.256)

Personaggi che hanno davanti i ri-masugli senza vita di vecchi sogni e a cui restano poche pretese, che però difendono fino alla morte, co-me Kessler, l’inquilino di Lamento funebre. Personaggi rosi da qualche tormento (quello della scrittura in particolare) come il protagonista che insegue La ragazza dei miei sogni. Spiccioli di vite, nel Lower East Side, dove passano le giornate in piccoli negozi, luoghi pubblici in cui prende forma, attraverso umili lavori che vanno avanti per inerzia, una lingua che si snoda in frasi bre-vi, secche e brucianti e dialoghi che non lasciano speranze. Adatta alla durezza degli eventi, dei tempi e dei luoghi. Anche in scenari diversi da New York, come i paesaggi ita-liani, il lago Maggiore, Roma, “Roma, città di perpetua sorpresa, gli aveva fatto una brutta sorpre-sa”, i personaggi di Bernard Mala-mud sono attorcigliati alle proprie sconfitte, a partire dalla famiglia di Ecco la chiave, cronaca di agghiac-cianti “vacanze romane”. L’amarez-za è il tratto comune a tutti e un volto dopo l’altro i protagonisti delle short stories di Bernard Malamud vanno a formare un’umanità dolen-te, affranta, indecisa, tenuta insie-me dal dolore, imprigionata negli errori e nei sotterfugi. Dalla bambina cleptomane di Abbi pietà al finto studioso di U-n’estate di letture, Il barile magi-co è una fonte inesaurible di storie che sono l’elemento primario della

Page 50: RootsHighway Mixed Bag #10

50

RootsHighway Mixed Bag #10

scrittura di Bernard Malamud: “Storie, storie: per me non esiste altro. Spesso gli scrittori che non riescono a inventare una storia seguono altre strategie, perfino sostituendo lo stile alla narrazio-ne”. D’altra parte, sostiene sem-pre Bernard Malamud “le storie ci accompagneranno finché esisterà l’uomo. Lo si capisce, in parte, dall’effetto che hanno sui bambini. Grazie alle storie i bambini capi-scono che il mistero non li uccide-rà. Grazie alle storie scoprono di avere un futuro”. Per lui, per gli uomini e le donne che allinea Il barile magico il tempo è spesso declinato al passato perché, come dice Isabella, alias La dama del lago, “Noi siamo ebrei. Il mio pas-sato ha un senso, per me. Faccio tesoro di ciò per cui ho sofferto”. L’esistenza tutta è una concessione limitata, e anche se “il compimento è nel futuro”, Il barile magico brucia le storie nel-l’irrimediabile presente mettendo all’angolo tanto i personaggi quan-to il lettore, due figure che nelle sue storie spesso coincidono. Se, nella fiction, la lettura diventa una consolazione (come succede con Manischevitz, il sarto in L’angelo Levine: “Non leggeva veramente, perché i suoi pensieri erano altro-ve; però i caratteri stampati offri-vano ai suoi occhi un comodo luo-go di riposo, e qualche parola qua e là, quando lui si concedeva di comprenderne il senso, aveva l’ef-fetto momentaneo di aiutarlo a dimenticare le sue disgrazie”) in realtà la scrittura è ruvida, aspra, una frustata dopo l’altra: usando la velocità delle short stories in modo perfetto, senza sprecare una parola, Bernard Malamud non ha esitazioni a trascinare il lettore nei bassifondi della vita. (Marco Denti)

Thomas PynchonThomas Pynchon Vizio di forma (Einaudi, pp.470)

Cosa accade se uno dei più allucinati, funambolici scrittori del post-moderno, il recluso per eccellenza della letteratura americana Thomas Pynchon, si getta a capofitto sul cadavere del romanzo poliziesco alla Raymond Chandler? Ne esce un’opera indecifrabile, persino irri-tante, eppure vivace e inclassificabile quale Vizio di Forma, l’omaggio sui generis di Pynchon all’epopea del noir, dell’investigazione privata e delle mille incarnazioni da Marlowe in poi. Natural-mente questa è soltanto la superficie, anche fuorviante, di un vero e proprio trip psichedelico in forma di narrativa, quasi cinquecento pagine di deliri e in-trecci improbabili, con una pletora di personaggi da perderci il sonno. Sullo

sfondo di una California ancora abbagliata dalla sbornia hippie, ep-pure già al crepuscolo della sua spinta ideale, Doc Sportello sbarca il lunario assumendo casi irrisolti, che non hanno né capo né coda, tanto quanto la sua vita di loser impenitente, cultore della surf music e degli spinelli fumati in amicizia. Esattamente a cavallo fra 60 e 70 i sobborghi di Frisco e L.A. sono già stati macchiati dalla tragedia degli omicidi della Manson Family e il sogno multicolore del “flower power” si sta spegnendo in traffici di droga, eroina per le strade e giovani senza una meta pre-cisa. Sportello fluttua nostalgico in questo tramonto di un’era mito-logica e innocente (fino ad un certo punto), mettendosi sulle tracce della sua ex, mai dimenticata, Shasta Fay, invischiata con un affari-sta un po’ evanescente di nome Mickey Wolfmann, il quale tresca con malavita, FBI, casinò a Las Vegas e barche misteriose. La trama è solo una scusa evidentemente, a Pynchon interessa imbastire un tributo a un’epoca e al suo immaginario: un affetto mai nascosto (si pensi al suo Vineland) dal romanziere, che qui diventa il pretesto per mettersi sulla carreggiata del noir americano con una verve co-me al solito fuori sincrono. Non piacerà agli esegeti del genere Vizio di Forma, perché non ha un baricentro e si muove “psichedelico” come i suoi personaggi: tanti, troppi, con nomi improbabili come Japonica e Adrian Prussia, tutti abbagliati dal sole californiano, da complicate esistenze sulla linea della totale dissolvenza. Doc Spor-tello è al tempo stesso il testimone e la prima donna di questo mon-do caleidoscopico e distorto: non attua vere indagini, non mette in-sieme i pezzi, piuttosto segue l’onda, si fa trascinare fra polizia cor-rotta, amici freak totalmente “bruciati”, accompagnandosi sulle note di una musica surf riportata con dovizia di particolari. Molte infatti le band citate nel libro, da quelle veramente esistite ai fantomatici Boards del sassofonista Coy Harlingen, uno dei tanti fantasmi sulle cui tracce si incammina Doc. (Fabio Cerbone)

BooksHighway BlogBooksHighway Blog Il blog delle letture di RootsHighway: leggi le recensioni inedite su bookshighway.blogspot.combookshighway.blogspot.combookshighway.blogspot.com

Page 51: RootsHighway Mixed Bag #10

51

RootsHighway Mixed Bag #10

Americana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic TracksAmericana Basic Tracks Ascolti essenziali, dai nostri archivi

Gillian WelchGillian Welch Time (The Revelator) // Soul Journey

[Acony 2001/2003]

Le vendite milionarie di Oh Brother Where Art Thou? (Fratello Dove Sei), ancora oggi presente nelle charts americane a più di un anno dalla sua comparsa, nonchè il crescente interesse generatosi attorno alle nuove fig-ure femminili della canzone tradizionale, sembra non aver scalfito minima-mente il carattere schivo e l'animo indipendente di Gillian Welch, che di quel progetto è stata una delle eroine più decantate. Con un'invidiabile ed intransigente statura artistica, che solo certi talenti possiedono, Gillian si è ulteriormente chiusa a riccio nella sua asciutta poesia country-folk, fregan-dosene altamente dei probabili scarsi riscontri commerciali derivanti da un disco quale Time (The Revelator). Abbandonata anche l'elegante, ma tutto sommato ininfluente, produzione di T-Bone Burnett, la Welch opta per una produzione in solitudine, senza abbandonare l'insostituibile David Rawlings, fondamentale compagno d'avventura che con le sue chitarre acustiche segna indelebilmente le melodie di tutto il disco. Le radici sono

quelle apprezzate già in passato, che rendono il nome di Gillian fra le più immacolate interpreti della rinas-cita roots di questi anni, e per giunta nel suo aspetto più "radicale": il trapassato remoto della folk music, le ballate degli Appalachi, la tradizione country & hillbilly trapiantata nel profondo sud dagli immigrati europei nel XIX secolo, sono riproposte senza filtri, attraverso ballate aspre ed angeliche al tempo stesso. Rispetto al passato si rivela una maggiore propensione a lunghe e celestiali folk songs (April The 14th, la conclusiva I dream a highway), intervallate dagli immancabili quadretti rootsy (My first lover, Elvis Presley blues), sui quali si eleva ad assoluto capolavoro, per intensità d'esecuzione e parte testuale, I want to sing that rock'n'roll: al limite del paradosso, vista l'assoluta inesistenza di elettricità nella musica di Gillian Welch...a voi scoprire l'arcano. I primi verdetti della stampa specializzata americana, divisi tra osanna e critiche spietate, sembrano riflettere la complessità di Soul Journey: defi-nito dalla stessa Gillian Welch come il suo disco più solare, è in realtà una raccolta di canzoni molto più ambizosa rispetto al passato. Per con-trasto la struttura dei brani è assai scarna, incentrata esclusivamente sulla melodiosa vocalità della protagonista ed un accompagnamento mai in-vadente. Certo, lasceranno un po' spiazzati le presenze più massicce di batteria, organi e chitarre elettriche, elementi che solo sporadicamente (e in gran parte relegati al suo primo disco) avevano fatto capolino nella mu-sica di questa principessa dell'Americana sound. Il concetto è adattabile alla perfezione per un artista come la Welch, da sempre paladina di un re-cupero delle radici più ancestrali della folk music dei monti Appalachi, bal-late acustiche sospese ad un filo, fuori del tempo, con un respiro religioso. In Soul Journey non si verificano stravolgimenti imprevedibili del suo sitle, per natura sempre fedele all'essenzialità delle sue fonti di ispirazione, ma in qualche modo si contrappon-gono un afflato soul ed una semplicità d'esecuzione che contrastano con il precedente, oscuro e strepitoso, Time The Revelator. La presenza di Greg Leisz (dobro), Jim Boquist (basso, ex Son Volt), Ketch Secor (fiddle) e Mark Ambrose (chitarre) dona al disco una dimensione meno solitaria e lo stesso fedele compagno David Rawlings (chitarre e strumenti assortiti) è oggi relegato ad un ruolo meno incisivo. Le oasi acustiche restano in ogni caso atti di assoluta purezza folk, sublimate nelle cover di Make Me a Pallet On Your Floor e I Had A Real Good Mother and Father, anche se il nuovo corso è simboleggiato dalla corale Wayside/Back in Time, dall'andamento sontuoso di Look at Miss Ohio e dall'ombrosa One Monkey. La dolcissima No One Knows my Name appare come un refuso del passato, country music rurale con banjo e fiddle sbucata dagli anni trenta: è il brano che più si lega al passato della Welch, insieme all'angelica I Made a Lovers Prayer, mentre il finale è tutto nelle mani dell'elettrica Wrecking Ball, ballata country-rock dai profumi seventies che stende tutto il fascino anti-modernista di questa cantautrice. (Fabio Cerbone)

Page 52: RootsHighway Mixed Bag #10

52

RootsHighway Mixed Bag #10

Arrivederci al prossimo numero di

Mixed Bag