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Traduzione a cura di The Books We Want To Read

Revisione di Noir

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258712084286861/

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SOMMARIO

CAPITOLO UNO .......................................................................................................... 3

CAPITOLO DUE .......................................................................................................... 9

CAPITOLO TRE ......................................................................................................... 12

CAPITOLO QUATTRO ............................................................................................. 17

CAPITOLO UNO

JULIETTE

Traduzione: Shatter me – Schegge di me

Non mi sveglio più urlando. Non mi sento male alla sola vista del sangue. Non

sussulto prima di sparare un colpo.

Non mi scuserò mai più per essere sopravvissuta.

Eppure...

Vengo spaventata dal suono di una porta che si apre. Soffoco un singulto, mi volto

e, per abitudine, la mano corre sull'elsa della semiautomatica risposta in una fondina

assicurata al mio fianco.

«J, abbiamo un problema serio.»

Kenji mi fissa, gli occhi socchiusi e le mani sui fianchi, la t-shirt tesa sul petto.

Questo è un Kenji arrabbiato. Preoccupato. Sono passati sedici giorni da quando

abbiamo preso possesso del Settore 45, da quando mi sono autoproclamata

Comandante Supremo della Restaurazione, e tutto è stato tranquillo.

In maniera sconcertante. Ogni giorno mi sveglio, in parte spaventata, in parte

euforica, e attendo ansiosamente le inevitabili missive da parte delle nazioni nemiche

che sfideranno la mia autorità e ci dichiareranno guerra. Sembra che finalmente quel

momento sia arrivato. Perciò respiro profondamente, faccio schioccare il collo e

guardo Kenji negli occhi.

«Dimmi.»

Lui stringe le labbra. Guarda il soffitto. «Okay, allora...prima di tutto voglio che tu

sappia che non è colpa mia, ci siamo? Stavo solo cercando di dare una mano.»

Esito. Aggrotto le sopracciglia. «Cosa?»

«Voglio dire, sapevo che quell'imbecille era una prima donna all'ennesima potenza,

ma questo va ben oltre il ridicolo...»

«Scusa, che cosa?» Rimuovo la mano dall'arma; sento il mio corpo rilassarsi.

«Kenji, di cosa stai parlando? Non si tratta della guerra?»

«La guerra? Cosa? J, ma mi stai ascoltando? Il tuo ragazzo è in preda a una

dannatissima crisi di nervi al momento, e tu devi fargli dare una calmata prima che lo

faccia io.»

Espiro, irritata. «Sei serio? Ancora con queste idiozie? Gesù, Kenji.» Mi sfilo la

fondina e la lancio sul letto alle mie spalle. «Che hai fatto questa volta?»

«Visto?» Kenji mi punta il dito contro. «Hai visto? Perché sei così veloce nel

giudicare, eh, principessa? Perché presumere che sia stato io a fare qualcosa di

sbagliato? Perché proprio io?» Incrocia le braccia al petto e abbassa la voce. «Sai,

volevo parlarti di questa cosa già da un po', in realtà, perché penso seriamente che, in

quanto Comandante Supremo, tu non dovresti mostrare un simile trattamento

preferenziale, ma chiaramente...»

Kenji si immobilizza all'improvviso.

Al suono della porta che si apre le sue sopracciglia si inarcano; un piccolo click e i

suoi occhi si spalancano; un fruscio smorzato e d'un tratto la canna di una pistola

preme dietro la sua testa. Kenji stringe i pugni tremanti mentre mi fissa, le sue labbra

non emettono suoni mentre bisbiglia la parola psicopatico ancora e ancora.

Lo psicopatico in questione ammicca nella mia direzione, sorridendo come se non

stesse puntando una pistola contro la testa del nostro comune amico. Riesco a

reprimere una risata.

«Continua» lo esorta Warner, ancora sorridente. «Ti prego, dimmi esattamente

come avrebbe fallito in quanto leader.»

«Ehi!» Le braccia di Kenji si sollevano mimando una resa. «Non ho mai detto che

lei ha fallito in qualcosa, okay? E tu stai ovviamente esagerando...»

Warner colpisce Kenji sul lato della testa con la pistola. «Idiota.»

Kenji si volta. Strappa via la pistola dalla mano di Warner. «Che diavolo hai che

non va, amico? Pensavo fossimo a posto.»

«Lo eravamo» risponde Warner, gelido. «Finché non mi hai toccato i capelli.»

«Sei stato tu a chiedermi di tagliarli...»

«Non ho detto niente del genere! Ti ho chiesto di spuntarli!»

«Ed è quello che ho fatto.»

«Questo» replica Warner, girando su se stesso così che io possa ispezionare il

danno, «non è spuntare, tu coglione incompetente...»

Io sussulto. La parte posteriore della testa di Warner è un groviglio di lunghezze

diseguali; intere ciocche sono state tagliate via.

Kenji fa una smorfia una volta visto il proprio operato. Si schiarisce la voce.

«Bene» dice, mettendosi le mani in tasca. «Voglio dire...in ogni caso, amico, la

bellezza è soggettiva...»

Warner gli punta contro un'altra pistola.

«Ehi!» Grida Kenji. «Non voglio essere parte di questa relazione abusiva, okay?»

Indica Warner. «Non mi sono arruolato per questa merda!»

Warner lo guarda e Kenji indietreggia, ritirandosi dalla stanza prima che Warner

abbia un'altra possibilità di reagire; e proprio mentre mi lascio sfuggire un sospiro di

sollievo, Kenji riaffaccia la testa dalla porta e dice:

«Penso che il taglio sia carino, in realtà.»

E Warner gli sbatte la porta in faccia.

Benvenuti nella mia nuova vita come Comandante Supremo della Restaurazione.

Warner sta ancora guardando la porta chiusa quando espira, le sue spalle si liberano

immediatamente della tensione, e io riesco a vedere più chiaramente il disastro che ha

fatto Kenji.

I folti e bellissimi capelli dorati di Warner – parte integrante della sua bellezza -

falciati da mani incuranti.

Un disastro.

«Aaron» dico dolcemente.

Lui china il capo.

«Vieni qui.»

Si gira e mi guarda con la coda dell'occhio, come se avesse fatto qualcosa di cui

dovrebbe vergognarsi. Sposto le pistole dal letto e gli faccio spazio accanto a me.

Sprofonda nel materasso con un triste sospiro.

«Sono orribile» dice piano.

Scuoto la testa, sorridendo e toccandogli la guancia. «Perché hai lasciato che ti

tagliasse i capelli?»

Warner mi guarda, con i suoi occhi grandi, verdi e perplessi. «Mi hai detto di

passare del tempo con lui.»

Rido sonoramente. «Quindi hai lasciato che Kenji ti tagliasse i capelli?»

«Non gli ho permesso di tagliarmi i capelli» replica, accigliato. «È stato» esita, «è

stato un gesto di cameratismo. Un atto di fiducia che so essere comune nel rapporto

tra soldati. Comunque» dice, voltandosi dall'altra parte, «non è che io abbia grandi

esperienze su come si costruisce un'amicizia.»

«Beh» dico, «noi siamo amici, no?»

Davanti questa affermazione sorride.

«E quindi?» Insisto. «È stato bello, no? Stai imparando a essere più gentile con le

persone.»

«Sì, beh, io non voglio essere più gentile con le persone, non è da me.»

«Io penso che sia assolutamente da te.» Dico, raggiante. «Amo quando sei

gentile.»

«Ma davvero.» Quasi ride. «Essere gentile non mi viene naturale, amore. Devi

essere paziente con i miei progressi.»

Prendo la sua mano nella mia. «Non capisco di che cosa tu stia parlando. Sei

perfettamente gentile con me.»

Scuote la testa. «Lo so, ho promesso che avrei fatto lo sforzo di essere più gentile

con i tuoi amici, e continuerò a sforzarmi, ma spero di non averti lasciato credere che

io sia capace di fare l'impossibile.»

«Cosa intendi?»

«Solo che spero di non deluderti. Sotto pressione, potrei riuscire a generare un

certo grado di calore, ma dovresti sapere che non ho interesse nel trattare nessuno nel

modo in cui tratto te. Questo» dice, indicando lo spazio che ci divide, «è un'eccezione

a una regola molto severa.» I suoi occhi sono sulle mie labbra adesso; la sua mano sul

mio collo. «Questo» continua sommessamente, «è molto, molto insolito.»

Mi blocco.

Smetto di respirare, parlare, pensare...

Mi ha a malapena sfiorata e il mio cuore sta battendo forte, i ricordi si affollano

nella mente, scaldandomi a ondate: il peso del suo corpo sul mio, il sapore della sua

pelle, il calore del suo tocco, i suoi respiri affannosi e le cose che mi ha detto solo al

buio

Le farfalle mi invadono le vene e io le costringo a uscire.

É ancora tutto così nuovo, il suo tocco, la sua pelle, il suo profumo. Così nuovo,

così nuovo e così necessario...

Lui sorride, inclina la testa; io imito il suo movimento e con un leggera

inspirazione, le sue labbra si schiudono e io resto ferma, i polmoni che annaspano per

l'ossigeno, le dita percepiscono il tessuto della sua maglia e ciò che accadrà dopo,

quando lui dice

«Dovrò radermi la testa, lo sai»

e si allontana.

Sbatto le palpebre e lui ancora non mi sta baciando.

«Ed è mia sincera speranza» dice, «che tu mi amerai ancora al mio ritorno.»

Poi si alza e va via, e io sono lì a contare su una mano il numero di uomini che ho

ucciso, riflettendo con stupore quanto poco quell'esperienza mi abbia aiutata nel

mantenere il controllo in presenza di Warner.

Annuisco una volta quando mi rivolge un cenno di saluto, riacquisisco il mio buon

senso momentaneamente disperso, e mi sdraio sul letto. Ho la testa che mi gira e le

complicazioni della guerra e della pace occupano i miei pensieri.

Non pensavo che sarebbe stato tanto facile essere un leader, ma pensavo sarebbe

stato più facile di così:

Sono continuamente tormentata dai dubbi riguardanti le decisioni che ho preso.

Sono ridicolmente sorpresa ogni volta che un soldato esegue i miei ordini. E sono

sempre più terrorizzata perché noi, io, dovrò uccidere molte, molte altre persone

prima che il mondo sia sistemato. Tuttavia credo sia il silenzio, più di ogni altra cosa,

ad avermi lasciata scossa.

Sono passati sedici giorni.

Ho fatto discorsi su ciò che verrà, sui nostri piani per il futuro; abbiamo tenuto

memoriali per le vite perse sul campo, stiamo mantenendo le promesse di attuare dei

cambiamenti. Castle, fedele alla sua parola, lavora sodo, e sta provando a risolvere i

problemi riguardanti l'agricoltura, l'irrigazione e, più urgentemente, il miglior modo

di trasferire i civili dai comprensori.

Ma questo sarà un lavoro da eseguire in diverse fasi; sarà un lavoro lento e

consapevole, una battaglia per la terra che potrebbe durare un secolo. Penso che ne

siamo tutti consapevoli. E se l'unico problema fossero i civili, non mi preoccuperei

così tanto. Ma mi preoccupo perché so bene che nulla può essere fatto per sistemare

questo mondo se sprechiamo i nostri prossimi decenni a farci guerra tra noi.

In ogni caso, sono pronta a combattere.

Non è ciò che voglio, ma andrei volentieri in guerra se è ciò che serve per la

transizione. Spero solo che sia più semplice. Attualmente, il mio più grande problema

è anche quello più nebuloso:

Le guerre richiedono un nemico, e io non riesco a trovarne.

Sedici giorni dopo aver piantato una pallottola in fronte ad Anderson non ho

ancora incontrato nessuna forma di opposizione. Nessuno ha provato ad arrestarmi.

Nessun altro Comandante Supremo mi ha sfidato. Dei 554 Settori rimasti in questo

continente, neanche uno ha disertato, dichiarato guerra, o parlato male di me.

Nessuno ha protestato; le persone non sono insorte. Per qualche ragione, La

Restaurazione sta al gioco.

Gioca a fingere.

E mi innervosisce profondamente.

Ci troviamo in uno strano stallo, bloccati in una zona neutrale mentre io vorrei

disperatamente fare qualcosa di più. Di più per la gente del Settore 45, per il Nord

America, e per il mondo intero. Ma questa strana quiete ci ha spiazzati. Eravamo così

sicuri che, con la morte di Andrerson, altri Comandanti Supremi sarebbero insorti -

costringendo i loro eserciti a distruggerci - a distruggermi.

Invece, i leader del mondo hanno reso palese la nostra insignificanza: ci hanno

ignorati come farebbero con una mosca fastidiosa, imprigionandoci sotto un vetro,

dove siamo liberi di girare in tondo sbattendo le ali spezzate contro il vetro finché

l'ossigeno non sarà consumato. Il Settore 45 è stato lasciato a fare ciò che vuole; ci è

stata consentita l'autonomia e l'autorità di rivedere le infrastrutture del nostro settore

senza interferenze. Tutti gli altri luoghi – e tutti gli altri Comandanti – si stanno

comportando come se nulla nel mondo fosse cambiato. La nostra rivoluzione è

avvenuta nel vuoto. La nostra vittoria è stata talmente minimizzata, che potrebbe

benissimo non esistere.

Giochetti mentali.

Castle mi fa spesso visita e mi dà consigli. Essere pro attiva, prendere il

sopravvento, era stato un suo suggerimento. Invece di aspettare, in ansia e sulla

difensiva, avrei dovuto farmi avanti, ha detto. Prendere parte alle trattative. E tentare

di formare alleanze prima di attaccare. Mettermi in contatto con gli altri cinque

Comandanti Supremi del mondo.

Potevo anche essere la voce del Nord America – ma il resto del mondo? Il Sud

America? L'Europa? L'Asia? L'Africa? L'Oceania?

Ospita una conferenza internazionale di leader, ha detto.

Parla.

Mira prima di tutto alla pace.

«Staranno morendo di curiosità» ha detto. «Una ragazza diciassettenne che

conquista il Nord America? Una teenager che uccide Anderson e dichiara se stessa

sovrana di questo continente? Signorina Ferrars..lei ha un grande potere in questo

momento! Lo usi a suo vantaggio!»

«Io?» Ho risposto, stupefatta. «Come faccio ad avere potere?»

Castle sospira. «Lei è sicuramente coraggiosa per la sua età, signorina Ferrars, ma

mi dispiace vedere che la sua giovinezza sia così inesorabilmente legata

all'inesperienza. Proverò a dirlo chiaramente: lei ha una forza sovrumana, una pelle

quasi invincibile, un tocco letale, 17 anni appena e ha abbattuto da sola il despota di

questa nazione. E ancora dubita di essere capace di intimidire il mondo?»

Rabbrividisco.

«Vecchie abitudini, Castle» ho detto sommessamente. «Cattive abitudini. Ha

ragione, ovviamente. Ovviamente ha ragione.»

Mi ha rivolto uno sguardo diretto. «Deve capire che l'unanime, collettivo silenzio

dei suoi nemici non è una coincidenza. Sicuramente si saranno messi in contatto tra

loro e concordato questa linea di azione, in attesa di vedere cosa farà lei dopo.»

Scuote la testa, «stanno aspettando la sua prossima mossa, signorina Ferrars. La

imploro di farne una valida.»

Quindi sto imparando.

Ho fatto come mi ha suggerito e tre giorni fa ho mandato un messaggio attraverso

Delalieu e ho contattato gli altri cinque Comandanti Supremi della Restaurazione. Li

ho invitati a partecipare qui, nel settore 45, a una conferenza internazionale dei leader

il prossimo mese.

Quindici minuti prima che Kenji entrasse nella mia stanza, ho ricevuto la prima

risposta.

L'Oceania ha detto di sì.

E non sono sicura di cosa possa significare.

CAPITOLO DUE

WARNER

Traduzione: Fra

Ultimamente non sono più me stesso.

La verità è che non lo sono da così a lungo che ho inziato a domandarmi se me ne

sia mai reso conto. Fisso lo specchio senza batter ciglio, mentre il ronzio del rasoio

elettrico riecheggia nella stanza. Il mio volto è a malapena riflesso, ma è sufficiente

per farmi capire che ho perso peso. Le guance sono incavate; gli occhi, sgranati; gli

zigomi, più pronunciati. I miei gesti sono, allo stesso tempo, desolati e meccanici

mentre taglio via i capelli, che cadono ai miei piedi come i residui della mia vanità.

Mio padre è morto.

Chiudo gli occhi, preparandomi ad accogliere la sgradita sensazione che ho nel

petto, il rasoio ancora stretto in pugno.

Mio padre è morto.

Sono passate solo due settimane da quando è stato ucciso, da quando gli sono stati

sparati due colpi in testa da qualcuno che amo. Uccidendolo mi ha fatto un favore. È

stata più coraggiosa di quanto io sia mai stato, premendo il grilletto quando io non ci

sarei mai riuscito. Era un mostro. Meritava il peggio.

E comunque…

Questo dolore.

Faccio un profondo respiro e sbatto le palpebre, grato per quella solitudine; grato,

in qualche modo, per l’opportunità di poter strappar via qualcosa da me stesso, dalla

mia carne. C’è un qualcosa di stranamente catartico in questo.

Mia madre è morta, penso, mentre mi passo il rasoio lungo il cranio. Mio padre è

morto, penso, mentre i capelli cadono sul pavimento. Tutto quello che ero, tutto

quello che ho fatto, tutto quello che sono, è stato creato dall’insieme delle loro azioni

e inazioni.

Chi sono, mi chiedo, senza di loro?

Testa rasata, rasoio spento. Poggio i palmi contro i bordi dello specchio, cercando

di vedere di sfuggita l’uomo che sono diventato. Mi sento vecchio e inquieto, mente e

cuore in guerra. Le ultime parole che ho detto a mio padre…

«Ehi.»

Il mio cuore accelera mentre mi volto; simulo indifferenza in un istante. «Ciao»

dico, costringendo le membra a essere salde e forti mentre mi spazzolo via le ciocche

di capelli dalle spalle.

Mi sta guardando con gli occhi spalancati, bellissimi e preoccupati.

Mi ricordo di sorridere. «Come sto? Non troppo terribile, spero.»

«Aaron» dice piano. «Stai bene?»

«Sto bene» dico, e guardo di nuovo lo specchio. Passo una mano lungo il morbido

e insieme appuntito centimetro di capelli che ho lasciato, chiedendomi come faccia

questo taglio a farmi sembrare più duro e più freddo di prima. «Confesso che stento a

riconoscermi.» Aggiungo a voce alta, cercando di ridere. Sono in piedi nel bel mezzo

del bagno con indosso solo i boxer. Il mio corpo non è mai stato più magro, le linee

dei muscoli non sono mai state più definite; e l’asprezza del mio corpo è ora

combinata con il rude taglio di capelli, in un modo quasi incivile… e così diverso dal

solito me che devo distogliere lo sguardo.

Juliette adesso è davanti a me.

Poggia le mani sui miei fianchi e mi tira avanti; incespico un po’ mentre faccio ciò

che vuole. «Che stai facendo?» Inizio a chiedere, ma quando incontro il suo sguardo

vi trovo tenerezza e preoccupazione. Qualcosa dentro di me si scioglie. Le mie spalle

si rilassano e l'attiro a me, inspirando a fondo.

«Quando ne parleremo?» Dice contro il mio petto. «Di tutto? Quello che è

successo…»

Sussulto.

«Aaron.»

«Sto bene» mento. «Sono solo capelli.»

«Sai che non è di questo che sto parlando.»

Guardo altrove. Fisso il vuoto. Stiamo entrambi in silenzio per un attimo.

È Juliette a rompere infine il silenzio.

«Sei arrabbiato con me?» Sussurra. «Per avergli sparato?»

Il mio corpo si immobilizza.

I suoi occhi si allargano.

«No… no» dico le parole troppo in fretta, ma è quello che intendo davvero. «No,

certo che no. Non è questo.»

Juliette sospira.

«Non credo che tu ne sia consapevole» dice alla fine, «ma va bene piangere la

morte di tuo padre, anche se era una persona terribile. Lo sai?» Alza lo sguardo su di

me. «Non sei un robot.»

Caccio indietro il nodo che ho in gola e mi districo gentilmente dalle sue braccia.

La bacio sulla guancia e mi soffermo lì, sulla sua pelle, solo per un secondo. «Ho

bisogno di una doccia.»

Lei sembra confusa e ferita, ma non so che altro fare. Non è che non ami la sua

compagnia, e solo che adesso ho un disperato bisogno di solitudine e non so in che

altro modo trovarla.

Quindi mi faccio delle docce. Dei bagni. Faccio lunghe passeggiate.

Tendo a farlo spesso.

Quando finalmente vado a letto lei già dorme.

Voglio raggiungerla, accostare il suo corpo caldo e morbido al mio, ma sono come

paralizzato. Questo terribile mezzo lutto, al buio, non fa altro che farmi sentire

complice. Mi preoccupa il fatto che la mia tristezza sarà interpretata come un

sostegno verso le sue scelte, verso la sua stessa esistenza, e su questo non voglio

essere frainteso, per questo non posso ammettere di essere in lutto, che piango la

perdita del mostruoso uomo che mi ha cresciuto. E senza saper cosa fare rimango

congelato, una pietra senziente sulla scia della morte di mio padre.

Sei arrabbiato con me? Per avergli sparato?

Lo odiavo.

Lo odiavo con un’intensità che non avevo mai provato prima. Ma il fuoco

dell’odio, ho realizzato, non può esistere senza l’ossigeno dato dall’amore. Non sarei

stato ferito così tanto, o non avrei odiato così tanto, se non ci avessi tenuto.

E questo, l’affetto non corrisposto verso mio padre, è sempre stato la mia più

grande debolezza. Quindi sto qui, sdraiato, perso in un dolore di cui non posso

parlare, mentre il rimpianto mi consuma il cuore.

Sono un orfano.

«Aaron?» Sussurra lei, riportandomi al presente.

«Sì, amore?»

Si muove in maniera assonnata di lato, dandomi un colpetto sul braccio con la

testa. Non posso far altro che sorridere mentre le faccio spazio. Riempie il vuoto

velocemente, premendo il viso contro il mio collo mentre avvolge un braccio attorno

alla mia vita. I miei occhi si chiudono come se stessi pregando. Il mio cuore riparte.

«Mi manchi» dice. È un sussurro a malapena udibile.

«Sono qui» le rispondo, carezzandole piano la guancia. «Sono proprio qui, amore.»

Ma lei scuote la testa. Anche quando la stringo di più a me, anche mentre si

riaddormenta, scuote la testa.

E io mi chiedo se non abbia ragione.

CAPITOLO TRE

JULIETTE

Traduzione: Giorgia P.

Sto facendo colazione da sola questa mattina, sola, ma non in solitudine.

La sala dove facciamo colazione è piena di volti familiari, e ciascuno cerca di

recuperare qualcosa: sonno, lavoro, conversazioni interrotte a metà. I livelli di

energia qui dentro dipendono sempre dalla quantità di caffeina che assumiamo e, in

questo momento, le cose sono ancora abbastanza tranquille.

Brendan, che sorseggia la stessa tazza di caffè da tutta la mattina, incontra il mio

sguardo e mi saluta. Lo saluto anche io. È il solo tra noi a non avere davvero bisogno

di caffeina; la sua capacità di produrre elettricità funge anche da generatore di

corrente per tutto il suo corpo. È la reincarnazione dell'esuberanza. Infatti, i suoi

capelli bianco candido e gli occhi azzurro ghiaccio sembrano emanare un’energia

propria, persino dall’altra parte della stanza. Comincio a pensare che Brendan

mantenga le apparenze con la storia delle tazze di caffè solo per solidarietà verso

Winston, che al contrario sembra proprio incapace di sopravvivere senza.

Ultimamente sono inseparabili, anche se sembra che ogni tanto Winston sia

infastidito dalla naturale esuberanza di Brendan.

Entrambi hanno dovuto sopportare molto. Come tutti noi.

Brendan e Winston sono seduti con Alia, che ha il suo blocco dei disegni aperto

accanto a sé, senza dubbio sul punto di disegnare qualcosa di nuovo e meraviglioso

per aiutarci in battaglia. Se non fossi troppo stanca per muovermi, mi alzerei per

unirmi al loro gruppo; invece, appoggio il mento su una mano e studio le facce dei

miei amici, sentendomi grata. Le cicatrici sui volti di Brendan e Winston pero' mi

riportano a un tempo che preferirei dimenticare, un tempo dove pensavamo di averli

persi. Dove pensavamo di averne persi altri due. E improvvisamente i miei pensieri

sono troppo tetri per l'ora di colazione. Quindi distolgo lo sguardo. Tamburello le dita

sul tavolo.

Dovrei incontrare Kenji per colazione, così iniziamo le nostre giornate di lavoro,

ed è l’unica ragione per la quale non ho ancora preso niente da mangiare.

Sfortunatamente, il suo ritardo sta iniziando a farmi brontolare lo stomaco. Tutti nella

stanza stanno tagliando pile di morbidi pancakes, e sembrano deliziosi. Tutto di loro è

invitante: il piccolo dispenser di sciroppo d’acero; la pila fumante di patate dolci; la

ciotolina di frutta fresca appena tagliata. Se non altro, uccidere Anderson e

impadronirsi del Settore 45 ci ha fruttato delle colazioni decisamente migliori. Siamo

forse gli unici pero' che apprezzano questi miglioramenti.

Warner non fa mai colazione con il resto di noi. Non smette praticamente mai di

lavorare, nemmeno per mangiare. La colazione è l'ennesima riunione per lui, e la

passa con Delalieu, solo loro due, e anche allora non sono sicura che mangi davvero

qualcosa. Warner non ha mai mostrato di trarre piacere dal cibo. Per lui non è altro

che carburante, indispensabile e, la maggior parte delle volte, fastidioso, dato che il

suo corpo ne necessita per funzionare.

Una volta, mentre era profondamente immerso in una qualche pratica durante la

cena, ho messo un biscotto in un piatto di fronte a lui solo per vedere cosa sarebbe

accaduto. Ha sollevato lo sguardo verso di me, lo ha poi riabbassato sul suo lavoro

sussurrando un grazie, e poi si è messo a mangiare il biscotto con la forchetta e il

coltello. Non sembrava nemmeno che se lo godesse. Questo, inutile a dirsi, lo rende

l'esatto opposto di Kenji, che ama mangiare qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, e

che in seguito mi disse che vedere Warner mangiare un biscotto gli aveva fatto venire

voglia di piangere.

A proposito di Kenji, il suo darmi buca questa mattina è molto più che strano, e sto

cominciando a preoccuparmi. Sono sul punto di consultare l'orologio per la terza

volta quando, improvvisamente, Adam è in piedi accanto al mio tavolo, a disagio.

«Ciao» dico, un po’ troppo forte. «Cosa, ehm, cosa succede?»

Adam e io abbiamo interagito un paio di volte nelle ultime due settimane, ma è

sempre stato per caso. Da questo si deduce che è strano per Adam stare in piedi di

fronte a me di proposito, e sono così sorpresa che per un momento quasi non colgo

l’ovvio.

Ha un brutto aspetto.

Spossato. Sfinito. Molto più che esausto. Infatti, se non sapessi che è impossibile,

giurerei che Adam ha pianto. Non a causa della nostra relazione finita, spero.

Vecchi istinti mi attanagliano, facendo risvegliare sentimenti passati.

Parliamo nello stesso momento.

«Stai bene…?» Chiedo.

«Castle vuole parlare con te.» Dice.

«Castle ha mandato te a chiamarmi?» Domando, dimenticandomi dei sentimenti.

Adam scrolla le spalle. «Stavo passando vicino alla sua stanza al momento giusto,

immagino.»

«Ehm, okay.» Provo a sorridere. Castle prova sempre a mettere a posto le cose tra

me e Adam; non gli piace la tensione. «Ti ha detto che vuole vedermi proprio

adesso?»

«Già.» Adam si mette le mani in tasca. «Subito.»

«Va bene» dico, e l’intera situazione è imbarazzante. Adam rimane lì mentre

raccatto le mie cose, e gli vorrei dire di andare via, di smetterla di fissarmi, che la

situazione è strana, che abbiamo rotto una vita fa ed è stato strano, tu l’hai reso così

strano, ma poi realizzo che non è me che sta fissando. Sta fissando il pavimento come

se fosse bloccato, perso da qualche parte nei suoi pensieri.

«Ehi… stai bene?» Gli chiedo di nuovo, questa volta più gentilmente.

Adam alza lo sguardo, sorpreso. «Cosa?» dice. «Cosa, oh… sì, sto bene. Ehi, sai

per caso, ehm» si schiarisce la gola, guardandosi intorno «sai mica, ehm…»

«So cosa?»

Adam oscilla sui talloni, gli occhi che scrutano la stanza. «Warner non è mai qui

per colazione, eh?»

Le mie sopracciglia schizzano in alto. «Stai cercando Warner?»

«Cosa? No. Me lo stavo solo, ehm, chiedendo. Non è mai qui, sai? È strano.»

Lo fisso.

Lui non dice niente.

«Non è poi così strano» replico lentamente, studiando l'espressione di Adam.

«Warner non ha tempo di fare colazione con noi; lavora tutto il tempo.»

«Oh» risponde Adam, afflosciandosi.

«È un peccato.»

«Davvero?» Aggrotto la fronte.

Adam non sembra sentirmi. Chiama James, il quale sta mettendo via il suo vassoio

della colazione, e i due si incontrano al centro della sala per poi andarsene.

Non ho idea di cosa facciano tutto il giorno. Non gliel'ho mai domandato.

Il mistero dell'assenza di Kenji a colazione si risolve non appena varco la porta di

Castle: entrambi si trovano lì, le teste vicine.

Busso contro la porta aperta per mera cortesia. «Ehi» dico, «mi voleva vedere?»

«Sì, sì, signorina Ferrars» risponde Castle con impazienza. Si alza in piedi e mi fa

segno di entrare. «Prego, si sieda. E..» punta il dito alle mie spalle, «chiuda la porta,

per favore.»

Divento immediatamente nervosa.

Incerta, avanzo di un passo all'interno dell'ufficio improvvisato, e lancio

un'occhiata a Kenji, la cui inespressività non fa nulla per alleviare i miei timori. «Che

succede?» Domando. E poi, rivolgendomi esclusivamente a Kenji: «Perché non c'eri

a colazione?»

Castle mi fa segno di prendere posto.

Eseguo.

«Signorina Ferrars» dice con urgenza, «ha ricevuto notizie dall'Oceania?»

«Chiedo scusa?»

« La risposta all'invito. Ha ricevuto la sua prima risposta, no?»

«Sì, l'ho ricevuta» rispondo lentamente. «Ma ancora nessuno dovrebbe esserne a

conoscenza...ne avrei parlato oggi a colazione con Kenji...»

«Sciocchezze.» Mi interrompe Castle. «Lo sanno tutti. Il signor Warner lo sa, è

certo. E anche il Luogotenente Delalieu.»

«Cosa?» Guardo Kenji, il quale si stringe nelle spalle. «Come è possibile?»

«Non si sconvolga per così poco, signorina Ferrars. È ovvio che tutta la sua

corrispondenza è monitorata.»

Spalanco gli occhi. «Cosa?»

Castle fa un gesto esasperato con la mano. «Il tempo è denaro, perciò se non le

dispiace, vorrei...»

«Il tempo è denaro?» Domandai, irritata. «Come dovrei aiutarla se non so

nemmeno di cosa sta parlando?»

Castle si stringe il setto nasale tra le dita. «Kenji» dice, improvvisamente. «Ci

lasceresti soli, per favore?»

«Affermativo» Kenji si alza immediatamente eseguendo la parodia di un saluto

militare. Si incammina verso la porta.

«Aspetta» dico, afferrandogli il braccio. «Che sta succedendo?»

«Non ne ho idea, ragazzina.» Ride, liberando il braccio dalla mia presa.

«Questa conversazione non mi riguarda. Castle mi aveva convocato prima per

parlare delle mucche.»

«Delle mucche?»

«Sì, hai presente» inarca un sopracciglio. «Bestiame. Ultimamente mi sono

occupato di perlustrare centinaia e centinaia di acri di terreni coltivabili che la

Restaurazione teneva nascosti. Un numero impressionante di mucche.»

«Eccitante.»

«A dire il vero, sì.» Gli si illuminano gli occhi. «Il metano rende abbastanza

semplice rintracciarle. Viene voglia di chiedersi perché non abbiano fatto qualcosa

per imped...»

«Metano?» Ripeto, confusa. «Non è una specie di gas?»

«Deduco tu non sappia molto di merda di vacca.»

Ignoro il commento. «Per questo non c'eri a colazione? Analizzavi cacca di

mucca?»

«Praticamente.»

«Beh» rispondo. «Almeno si spiega la puzza.»

Kenji impiega un secondo per cogliere il sottinteso, e appena lo fa stringe gli occhi

a fessura. Mi pressa un dito contro la fronte. «Andrai dritta all'inferno, lo sai vero?»

Faccio un sorrisone. «Ci vediamo dopo? Voglio comunque fare la nostra

passeggiata mattutina.»

Risponde con un evasivo grugnito.

«Andiamo» lo incoraggio, «stavolta sarà divertente, prometto.»

«Oh sì, uno spasso.» Kenji alza gli occhi al cielo mentre si volta per andarsene, e

rivolge a Castle un altro saluto militare. «A più tardi, signore.»

Castle annuisce, un luminoso sorriso sul volto.

Kenji impiega un minuto per uscire dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle, ma

in quel singolo minuto la faccia di Castle si tramuta. Il sorriso rilassato, lo sguardo

vivace: spariti. Adesso che siamo totalmente soli, Castle sembra un po' scosso e più

serio: forse persino... spaventato?

Va subito al sodo.

«Che cosa diceva la risposta che le è arrivata? C'era qualcosa di particolare nel

messaggio?»

«No» mi acciglio. «Non saprei. Considerando che tutta la mia corrispondenza è

monitorata, non dovrebbe già conoscere la risposta a questa domanda?»

«Certo che no, non so io quello che le monitora la posta.»

«E chi allora? Warner?»

Castle si limita a guardarmi. «Signorina Ferrars, c'è qualcosa di profondamente

inusuale in questa risposta. Specialmente considerando che è la prima e l'unica che ha

ricevuto finora.»

«Okay» rispondo, confusa. «Cosa c'è di inusuale?»

Castle guarda le proprie mani, poi il muro. «Che cosa sa dell'Oceania?»

«Poco.»

«Quanto poco?»

Mi stringo nelle spalle. «So identificarla su una mappa.»

«E non ci è mai stata?»

«Sta scherzando?» Gli indirizzo un'occhiata incredula. «Certo che no. Non sono

mai stata da nessuna parte, ricorda? I miei genitori mi hanno fatta ritirare da scuola,

inserita nel sistema e infine rinchiusa in un manicomio.»

Castle inspira profondamente. Chiude poi gli occhi mentre mi domanda con grande

cautela: «C'era un qualsiasi elemento inusuale nel messaggio che ha ricevuto dal

comandante dell'Oceania?»

«No» replico. «Non particolarmente.»

«Non particolarmente?»

«Immagino che sia un po' informale, ma non cred...»

«Informale in che modo?»

Distolgo lo sguardo, riflettendo. «Il messaggio era molto breve» spiego. «Diceva

Non vedo l'ora di vederla, senza firma o simili.»

«Non vedo l'ora di vederla?» Improvvisamente Castle sembra perplesso.

Annuisco.

«No, non vedo l'ora di incontrarla» dice, «ma non vedo l'ora di vederla.»

Annuisco di nuovo. «Come ho già detto prima un po' informale, ma almeno è stato

educato. Il che, tutto sommato, mi sembra un segnale alquanto positivo.»

Castle sospira profondamente, e ruota la sedia. Adesso è rivolto verso il muro, le

mani intrecciate sotto il mento. Mentre studio i lineamenti affilati del suo profilo,

dice, sommessamente:

«Signorina Ferrars, cosa le ha detto il signor Warner della Restaurazione?»

CAPITOLO QUATTRO WARNER

Traduzione: Veru

Sono seduto da solo nella sala riunioni e mi sto passando distrattamente una mano sui

capelli appena tagliati quando arriva Delalieu. Trascina con sé un carrellino per il

caffè e ha il solito sorriso incerto su cui ormai ho imparato a fare affidamento.

Nell’ultimo periodo le nostre giornate di lavoro sono state più impegnate che mai; per

fortuna non abbiamo avuto il tempo di discutere gli spiacevoli dettagli degli ultimi

avvenimenti e dubito che mai ne parleremo.

Di questo sono estremamente grato.

Questo è un porto sicuro per me, con Delalieu, dove posso fingere che la mia vita

non sia cambiata in modo significativo.

Sono ancora capo comandante e reggente dei soldati del Settore 45; è ancora mio

compito organizzare e guidare coloro che ci aiuteranno a contrastare ciò che rimane

della Restaurazione. E da questo ruolo derivano delle responsabilità. Sono stati

necessari svariati aggiustamenti mentre decidiamo le nostre prossime mosse, e

Delalieu si è dimostrato fondamentale nel processo.

«Buongiorno, signore.»

Faccio un cenno di saluto mentre lui versa il caffè per entrambi. Un tenente non ha

bisogno di versarsi il caffè da solo la mattina, ma preferiamo questa privacy.

Bevo un sorso del liquido nero – ho da poco imparato ad apprezzarne il sapore

amaro – e mi appoggio allo schienale della sedia. «Novità?»

Delalieu si schiarisce la voce.

«Sì, signore» risponde affrettandosi a riappoggiare la sua tazza sul piattino e

finendo per rovesciarne un po’. «Parecchie questa mattina, signore.»

Gli rivolgo un cenno del capo.

«La costruzione della nuova stazione di comando procede bene. Pensiamo di

ultimare i lavori nel giro di due settimane, ma si potrà trasferire nelle sue stanze

private già domani.»

«Bene.» La nostra nuova squadra, sotto la supervisione di Juliette, è formata da

molte persone e ci sono molti aspetti da gestire. A eccezione di Castle, che si è

ricavato un piccolo ufficio al piano di sopra, la squadra ha finora usufruito della mia

struttura d’addestramento privata come quartier generale. E nonostante in principio

mi fosse sembrata un’idea pratica, alla struttura d’addestramento si può accedere solo

attraverso i miei quartieri personali, e ora che vivono tutti liberamente alla base

spesso escono ed entrano nelle mie stanze senza alcun preavviso.

Inutile dire che non mi piace la cosa. Rivoglio le mie stanze.

«Cos’altro?»

Delalieu controlla la sua lista e dice: «Siamo finalmente riusciti a recuperare i

documenti di suo padre, signore. Ci è voluto molto tempo per rintracciarne la

maggior parte, ma ho lasciato gli scatoloni nella sua stanza, signore, così può aprirli

con calma. Ho pensato…» Si schiarisce la voce. «Ho pensato che volesse dare

un’occhiata a ciò che resta dei suoi effetti personali prima che li erediti il nostro

nuovo comandante supremo.»

Il mio corpo viene colto da un gelido terrore.

«Sono parecchi, temo» Delalieu continua a parlare. «Tutti i suoi registri giornalieri.

Tutti le relazioni che ha presentato. Siamo riusciti persino a rintracciare alcuni suoi

diari personali.» Delalieu esita. E poi, in un tono che solo io so decifrare dice: «Spero

che i suoi appunti le siano utili in qualche modo.»

Alzo lo sguardo, incontro quello di Delalieu. Ci trovo apprensione.

Preoccupazione.

«Grazie» dico sommessamente. «Me ne ero quasi dimenticato.»

Tra di noi cala un silenzio imbarazzato e, per un attimo, nessuno dei due sa bene

cosa dire. Non abbiamo ancora discusso della cosa, della morte di mio padre. La

morte del genero di Delalieu. Il terribile marito della sua figlia defunta, mia madre.

Non parliamo mai del fatto che Delalieu è mio nonno. Che è la cosa più simile a un

padre che mi rimane a questo mondo.

Non fa parte di noi.

Quindi è con voce innaturale e incerta che Delalieu prova a riprendere il filo del

discorso.

«L’Oceania, come di sicuro ha già saputo, signore, ha detto che, che parteciperà

all’incontro organizzato dalla nostra nuova… nuova suprema…»

Faccio un cenno d’assenso.

«Ma gli altri» dice, le parole ora gli escono di getto, «non risponderanno senza

prima aver parlato con lei, signore.»

Davanti a questa notizia i miei occhi si allargano percettibilmente.

«Sono…» Delalieu si schiarisce di nuovo la voce. «Beh, signore, come ben sa,

sono tutti vecchi amici di famiglia e… beh, loro…»

«Sì» mormoro. «Certo.»

Distolgo lo sguardo, spostandolo verso la parete. D’un tratto sento di aver serrato

la mandibola per la frustrazione. Dentro di me, me l’ero aspettato. Ma dopo due

settimane di silenzio avevo cominciato a sperare che magari avrebbero continuato a

far finta di niente. Non c’è stata nessuna comunicazione da parte di questi vecchi

amici di mio padre, niente condoglianze, niente rose bianche, niente messaggi di

cordoglio. Nessuna corrispondenza, com’era abitudine di tutti i giorni, da parte delle

famiglie che avevo conosciuto da bambino, le famiglie responsabili dell’inferno in

cui viviamo ora. Pensavo mi avessero tagliato fuori, con mia grande fortuna.

A quanto pare no.

A quanto pare il tradimento non è un crimine abbastanza grave da lasciarti isolato.

A quanto pare le molte lettere giornaliere in cui mio padre esponeva la mia “assurda

ossessione nei confronti di un esperimento” non erano bastate a farmi allontanare dal

gruppo. A mio padre piaceva lamentarsi a gran voce, gli piaceva raccontare i suoi

motivi di indignazione e contrarietà ai suoi vecchi amici, gli unici ancora in vita che

lo avevano conosciuto di persona. E ogni giorno mi umiliava davanti alla gente che

conoscevamo. Faceva sembrare il mio mondo, i miei pensieri e i miei sentimenti

insignificanti. Patetici. E ogni giorno contavo le lettere che si accumulavano nella

mia posta, sermoni dei suoi vecchi amici che mi pregavano seguire il buonsenso,

come lo chiamavano loro. Di ricordarmi chi ero. Di smettere di mettere in imbarazzo

la mia famiglia. Di ascoltare mio padre. Di crescere, fare l’uomo, e smetterla di

piangere per la mia madre malata.

No, questi legami sono troppo radicati.

Serro gli occhi per reprimere la sfilza di volti, dei ricordi della mia infanzia, e dico:

«Digli che mi metterò in contatto con loro.»

«Non sarà necessario, signore» dice Delalieu.

«Come, scusa?»

«I figli di Ibrahim sono già in viaggio.»

Succede velocemente: i miei arti si paralizzano per un breve istante.

«In che senso?» chiedo, mantenendo a stento la calma. «In viaggio per dove?

Qui?»

Delalieu annuisce.

Un’ondata di calore mi attraversa così velocemente che non mi rendo conto di

essermi alzato finché non devo appoggiarmi al tavolo per reggermi. «Come osano»

dico, aggrappato ancora a un filo di compostezza. «Essere così strafottenti… sentirsi

così insopportabilmente in diritto di…»

«Sì, signore. Capisco, signore» dice Delalieu con aria terrorizzata. «È solo che…

come sa… è così che funziona tra le famiglie supreme, signore. È una tradizione

radicata nel tempo. Un rifiuto da parte mia sarebbe stato interpretato come un atto di

ostilità… e la Signora Suprema mi ha ordinato di essere diplomatico il più a lungo

possibile, perciò ho pensato, ho… ho pensato… Oh, mi dispiace molto, signore…»

«Lei non sa con chi ha a che fare» replico con voce tagliente. «Non c’è diplomazia

con questa gente. Il nostro nuovo comandante supremo potrà anche non saperlo, ma

tu…» dico, più turbato che arrabbiato, «tu avresti dovuto saperlo. Sarebbe valsa la

pena di andare in guerra per evitare tutto questo.»

Non alzo lo sguardo sul suo volto quando dice con voce tremante: «Sono

profondamente dispiaciuto, signore.»

Una tradizione radicata nel tempo, proprio così.

Il diritto di andare e venire era una pratica che era stata stabilita molto tempo

prima. Le famiglie supreme erano sempre state le benvenute nelle terre delle altre

famiglie, in qualsiasi momento, nessun invito necessario. Quando il movimento era

giovane e così anche i loro figli, le famiglie vi avevano tenuto fede. E ora quelle

famiglie – e i loro figli – governano il mondo.

La mia vita è stata così per molto tempo. Il martedì un pomeriggio di gioco in

Europa, il venerdì una cena in Sud America. I nostri genitori erano pazzi, tutti quanti.

Gli unici amici che avevo avuto avevano famiglie ancora più assurde delle mie.

Non voglio più rivedere nessuno di loro.

Tuttavia…

Santo cielo, devo avvertire Juliette.

«Per, per quanto riguarda la questione dei civili...» Delalieu continua a blaterare.

«Sono in contatto con Castle, come, come da sua richiesta, per decidere su come

procedere con il loro trasferimento dai, dai comprensori…»

Ma il resto della mattina trascorre in un lampo.

Quando finalmente riesco a liberarmi dell’ombra di Delalieu vado dritto alle mie

stanze. Di solito Juliette si trova lì a quest’ora e spero di trovarla per avvisarla prima

che sia troppo tardi.

Mi fermano nel giro di pochissimo tempo.

«Ah, ehm, ehi…»

Alzo lo sguardo distratto e mi blocco sul posto. Sgrano leggermente gli occhi.

«Kent» dico piano.

Basta un’occhiata veloce per capire che non sta bene. Anzi, ha un aspetto terribile.

È più magro che mai, ha dei cerchi scuri sotto agli occhi. È completamente esausto.

Mi chiedo se ho il suo stesso aspetto.

«Mi chiedevo…» dice, per poi distogliere lo sguardo, il volto tirato. Si schiarisce la

voce. «Mi, ehm…» Si schiarisce di nuovo la voce. «Mi chiedevo se potessimo

parlare.»

Mi sento stringere il petto. Lo guardo un momento, prendo nota delle sue spalle

tese, dei suoi capelli scarmigliati, le unghie mangiate sin quasi alla base. Si accorge

che lo sto guardando e subito si mette le mani in tasca. Quasi non riesce a guardarmi

negli occhi.

«Parla» riesco a dire.

Lui annuisce.

Espiro piano, lentamente. Non ci siamo scambiati una parola da quando abbiamo

scoperto di essere fratelli, quasi tre settimane fa. Pensavo che l’implosione emotiva di

quella sera fosse finita nel migliore dei modi, ma da allora sono successe tante cose.

Non abbiamo avuto l’occasione di riaprire quella ferita. «Parla» ripeto. «Dimmi

pure.»

Lui deglutisce sonoramente. Guarda il pavimento. «Bene.»

E d’un tratto mi sento costretto a rivolgergli una domanda che scombussola

entrambi. «Va tutto bene?»

Lui alza lo sguardo, sconvolto. I suoi occhi azzurri sono enormi e iniettati di

sangue. Il suo pomo d’Adamo fa su e giù nella gola. «Non so con chi altro parlarne»

sussurra. «Non so chi altro potrebbe capirmi…»

Ma io sì. Improvvisamente.

Lo capisco.

Quando i suoi occhi diventano improvvisamente lucidi per l’emozione, quando gli

tremano le spalle anche se prova a restare fermo…

Sento le mie ossa scricchiolare.

«Certo» dico sorprendendomi. «Vieni con me.»