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Lucia Stramaccioni Tra totalità e infinito: l’ambivalenza della tradizione in Lévinas The complexity of the meaning of tradition in Lévinas reflects the contraposition between the ontology as Totality and the face of the other as Infinity. Tradition, in its negative meaning, is the history of ontology in its diachronic development and a betrayal of the living subjectivity, crystallizing his axioms in a saying without author. On the other hand, the other’s face is the place of the irruption of the sense in the context of an ethical relation that presupposes no cultural mediation. Nevertheless, the tradition also testifies the historical attempts to give sense to reality by a cultural construction and, in this sense, it has a positive value. In particular, it is possible a revaluation of tradition in Hebraism: the religious heritage transmitted by Scriptures and by their interpretations is not an already-said, but has the same vitality of the oral word coming from the other’s face. Il tema della tradizione, in senso stretto, non è immediatamente rilevabile come centrale nell’opera levinassiana, eppure è un passaggio ineludibile nello svolgersi della sua riflessione, in cui etica ed ermeneutica si pongono in rapporto di circola- rità e di reciproco rimando. Il contributo di Lévinas a tale questione va inquadrato nell’ottica più ampia del suo incessante interrogarsi sulle modalità dell’autentico rapporto etico con l’altro, sulla dinamica della differenza radicale di una tempora- lità che sfugge a qualunque tentativo del soggetto di ricondurla a sé, sulla ricerca inesausta di un senso unico che forando l’orizzonte dei molteplici significati cul- turali rimandi alfine ad un Senso ultimo. La domanda è: in che modo è possibile parlare di tradizione ed ammettere una sua valenza positiva nel contesto di una filosofia basata sulla preminenza dell’etica sull’ontologia e sul rapporto diretto, di vis-à-vis, con il volto intematizzabile dell’altro uomo? Il carattere esclusivo di questo rapporto assolutamente diretto, non mediato dal alcun categoria o teoria o costruzione culturale del soggetto, sembra negare qualunque ruolo alla tradizione nell’attingere al senso. Essa è per sua natura mediazione, rapporto con un passato che la memoria riconduce al soggetto attraverso i passaggi e le innumerevoli inter- pretazioni di chi lo ha preceduto, costituendosi in un lascito culturalmente strut- turato. Detto in altri termini, essa sembra essere, nell’ottica levinassiana, ontologia: strumento di quel darsi cieco dell’essere che si costituisce in teoria attraverso la soggettività cosciente, ma che rimane brutale datità, insuperabile insensatezza di un puro esserci.

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Lucia StramaccioniTra totalità e infinito: l’ambivalenza della tradizione in Lévinas

The complexity of the meaning of tradition in Lévinas reflects the contraposition between the ontology as Totality and the face of the other as Infinity. Tradition, in its negative meaning, is the history of ontology in its diachronic development and a betrayal of the living subjectivity, crystallizing his axioms in a saying without author. On the other hand, the other’s face is the place of the irruption of the sense in the context of an ethical relation that presupposes no cultural mediation. Nevertheless, the tradition also testifies the historical attempts to give sense to reality by a cultural construction and, in this sense, it has a positive value. In particular, it is possible a revaluation of tradition in Hebraism: the religious heritage transmitted by Scriptures and by their interpretations is not an already-said, but has the same vitality of the oral word coming from the other’s face.

Il tema della tradizione, in senso stretto, non è immediatamente rilevabile come centrale nell’opera levinassiana, eppure è un passaggio ineludibile nello svolgersi della sua riflessione, in cui etica ed ermeneutica si pongono in rapporto di circola-rità e di reciproco rimando. Il contributo di Lévinas a tale questione va inquadrato nell’ottica più ampia del suo incessante interrogarsi sulle modalità dell’autentico rapporto etico con l’altro, sulla dinamica della differenza radicale di una tempora-lità che sfugge a qualunque tentativo del soggetto di ricondurla a sé, sulla ricerca inesausta di un senso unico che forando l’orizzonte dei molteplici significati cul-turali rimandi alfine ad un Senso ultimo. La domanda è: in che modo è possibile parlare di tradizione ed ammettere una sua valenza positiva nel contesto di una filosofia basata sulla preminenza dell’etica sull’ontologia e sul rapporto diretto, di vis-à-vis, con il volto intematizzabile dell’altro uomo? Il carattere esclusivo di questo rapporto assolutamente diretto, non mediato dal alcun categoria o teoria o costruzione culturale del soggetto, sembra negare qualunque ruolo alla tradizione nell’attingere al senso. Essa è per sua natura mediazione, rapporto con un passato che la memoria riconduce al soggetto attraverso i passaggi e le innumerevoli inter-pretazioni di chi lo ha preceduto, costituendosi in un lascito culturalmente strut-turato. Detto in altri termini, essa sembra essere, nell’ottica levinassiana, ontologia: strumento di quel darsi cieco dell’essere che si costituisce in teoria attraverso la soggettività cosciente, ma che rimane brutale datità, insuperabile insensatezza di un puro esserci.

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I. La tradizione come storia della totalità

La tradizione come strutturarsi e trasmettersi di categorie appare finalizzata ad una costante ripresentazione del passato in cui l’essere possa ritrovare perenne-mente se stesso e permettere al soggetto l’abbaglio del suo auto-rispecchiamento ontologico nell’essere stesso, riconoscendosi come conatus essendi. Essa, in quan-do trasmettersi nel tempo di costruzioni culturali con il loro relativo apparato di categorie, non sarebbe che il binario nel quale si inscrive il gioco dell’essere con il soggetto, che diventa coscienza dell’essere per perdersi nella mancanza di senso della pura datità ontologica. Così ad esempio viene sintetizzato il lascito della tra-dizione filosofica occidentale in Totalità e infinito:

La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo, in forza dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce l’in-telligenza dell’essere1.

La tradizione è la storia della totalità, categoria che esprime l’essere nel suo rendersi intelligibile come teoria, ossia come ontologia in cui la parte assume il proprio significato grazie al posto che occupa nel tutto, attraverso la mediazione di un termine medio. Al costituirsi dell’essere in totalità è necessario il pensiero, che si dà nel soggetto, il quale a sua volta non può che riconoscersi come parte della totalità. La sua attività di auto-identificazione trova il culmine nella costruzione di un sistema in cui ogni alterità sia ricondotta alla medesimezza, in cui l’ordine del tutto possa dare ragione della singola parte e dominarla, ossia ricondurla a sé:

Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che domi-na la filosofia occidentale. In essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso (invisibile al di fuori di questa totalità stessa). L’unicità di ogni presente si sacrifica conti-nuamente ad un futuro che è chiamato a rivelarne il senso oggettivo. Poiché solo il senso ultimo conta, solo l’ultimo atto muta gli esseri in se stessi. Essi sono ciò che appariranno nelle forma, già plastiche, dell’epopea2.

Tale attività è intrinsecamente violenta, poiché è rappresentazione, ossia atto di coscienza che, mediante la luce, consente al soggetto di appropriarsi di ciò che co-stitutivamente non gli appartiene, superando l’esteriorità spaziale, la cui separazio-ne è colmabile dallo sguardo. Si attua così la violenza della Sinngebung del soggetto che costituisce la realtà, rapportando ad un orizzonte di significato i singoli oggetti dell’intuizione noematica. In essa il particolare è sussunto nell’universale, nel con-cetto, nel telos ultimo espresso dall’orizzonte che consente la rappresentazione, senza avere un valore in sé, ma solo in quanto parte di una totalità organizzata: il suo senso non è intrinseco, ma dato esteriormente dalla sua partecipazione al

1 E. Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l’exteriorité, Nijhoff, La Haye 1961; trad. it. di A. Dell’Asta Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, p. 41.

2 Ivi, p. 20.

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tutto. Come tante silhouettes, gli oggetti si stagliano sullo sfondo di un orizzonte luminoso che li priva del volto, per renderli a misura dell’atto rappresentativo. È il tema sartriano dello sguardo che reifica, una lettura dell’alter ego husserliano che enfatizza la simmetria tra il soggetto e l’altro fino fare di quest’ultimo una proie-zione del primo. Per Lévinas la rappresentazione e la comprensione dell’altro sono la violenza originaria, perché negano l’esteriorità riportandola all’interiorità in un rapporto che non si dà mai direttamente nel faccia a faccia, bensì in modo obliquo, attraverso la mediazione di un orizzonte comune – l’essere, il concetto – al quale l’altro è rapportato come un caso specifico.

Anche il linguaggio, in quest’ottica, diventa negazione dell’alterità, in quanto volto a trovare l’accordo razionale sulla verità universale, rispetto alla quale non ci può essere divergenza se non per errore dell’intelletto o della volontà. Il linguaggio è allora lo strumento di una comunicazione finalizzata a convincere dell’errore, a ricondurre le differenze all’unità, in forme che possono variare dall’appello alla ra-gione, alla persuasione retorica, all’imposizione ideologica, fino all’azione politica dello stato che reprime le voci di dissenso.

Se la totalità è violenza, tuttavia è proprio in questo rapporto tra il soggetto e l’orizzonte luminoso della teoria che emerge in modo inequivocabile l’esigenza di senso che lo costituisce. Cos’è, infatti, la totalità se non un tentativo di dare un senso alla realtà? Il soggetto, nell’ontologia, aspira esplicitamente ad una Sinnge-bung, che si traduce nella costruzione di mondi, di significati culturali organizzati in totalità, che in qualche modo danno ordine al caos dell’essere puro istituendosi in tradizione. L’ontologia, come teoria, non è solo lo strumento del dominio che il soggetto cerca di attuare sul reale con la rappresentazione, è anche l’espressione dell’esigenza di trascendere il puro dato dell’essere nella sua mancanza di signi-ficato. La soggettività esistente è questa esigenza, la sua separazione rispetto al fluire dell’essere consiste essenzialmente nel darsi come interiorità che articola una domanda di senso. Soltanto che questo tentativo, finché rimane iniziativa del sog-getto, è destinato allo scacco, perché invischiato nella logica egocentrica del me-desimo in cui egologia ed ontologia si rimandano l’una con l’altra, senza apertura alla trascendenza radicale.

Il problema è posto in uno scritto del ’64, Il significato e il senso3, nella forma del rapporto tra i due termini che compongono il titolo, dove il primo è il prodotto della Sinngebung del soggetto, mentre il secondo rimanda ad un’ulteriorità dalla quale poter giudicare, come da un’altezza le tradizioni, ossia i molteplici significati e le molteplici totalità creati dal soggetto nella sua avventura storica. Questa distin-zione tra significato e senso non è costantemente mantenuta nella stessa accezione nelle altre opere dell’autore, ad esempio non è così netta in Totalità e infinito, va tuttavia segnalata perché esplicativa da una parte del tentativo del soggetto di

3 E. Lévinas, La signification et le sens, in «Revue de Métaphisyque et de Morale», n. 69, 1964, pp. 125-156; attualmente in E. Lévinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972; trad. it. di A. Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, Il melangolo, Genova 1985, pp. 31-99.

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costruire dei significati e dell’impasse cui va incontro, dall’altra dell’esigenza di un senso unico cui questa impasse dà luogo, senso che però potrà scaturire solo da una prospettiva altra, non più ontologica.

Nel saggio del ’64 viene sottolineato soprattutto il rischio di relativismo storico-culturale insito nella Sinngebung del soggetto che, attraverso il gesto culturale ed il linguaggio, crea il significato come un «adattamento libero e creativo»4, rispetto ad una realtà che di per sé ne è priva, costituendola in totalità:

L’essenza del linguaggio, […] consiste nel far rilucere, al di là del dato, l’essere tutto insieme. Il dato acquisterebbe significato movendo da questa totalità5.

D’altra parte, la creazione di oggetti culturali non è un atto puramente gratuito del soggetto, ma si situa tra il soggettivo e l’oggettivo, si situa cioè all’interno di una tradizione che lo precede:

Il significato non si può inventariare nell’interiorità di un pensiero. Il pensiero stesso si inserisce nella Cultura attraverso il gesto verbale del corpo che lo precede e lo sorpassa. La Cultura oggettiva, alla quale, con creazione verbale, esso aggiunge qualcosa di nuovo, lo illumina e lo guida6.

Tuttavia, se il condizionamento oggettivo è costituito dalla cultura, dal linguag-gio, allora la totalità non potrà essere «un’entità stabilita per l’eternità»7 e si do-vrà piuttosto parlare di una molteplicità di totalità storicamente determinate, di tradizioni, rispetto alle quali non è più possibile fare appello ad una verità ultima ed univoca. È questo quello che Lévinas definisce di volta in volta come l’anti-platonismo, l’ateismo o il processo di decolonizzazione verificatosi nel pensiero contemporaneo:

«�OD�¿ORVR¿D�FRQWHPSRUDQHD�VL�RSSRQH�GXQTXH�D�3ODWRQH�VX�XQ�SXQWR�fondamentale: l’intelligibile è inconcepibile fuorché nel divenire che lo suggerisce. Non esiste un signi-ficato in sè cui il pensiero sarebbe potuto arrivare con un salto passando per di sopra i riflessi, deformati o fedeli, però sensibili che menano verso di esso8.

Il significato, così come si costituisce nel soggetto, mostra in tal modo la sua inanità, perché la filosofia contemporanea non crede più in una totalità delle tota-lità, ossia in un esperanto alla cui luce superare il relativismo dei vari linguaggi e delle varie culture: l’impossibilità di porre un qualsiasi discrimen tra di esse le ridu-ce all’indifferenza e all’intercambiabilità. Da qui l’esigenza di un senso unico che, senza tornare al colonialismo di una cultura prioritaria che pretenda di inglobare le altre, possa dirimere il conflitto delle interpretazioni introducendo un diverso

4 Ivi, p. 43.5 Ivi, p. 42. 6 Ivi, p. 46.7 Ivi, p. 50.8 Ivi, p. 51.

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criterio – quello etico del volto che infrange l’orizzonte del significato culturale – ponendosi su un piano diverso rispetto a quello della totalità.

Il limite della Sinngebung del soggetto, che si dà all’interno di una tradizione e allo stesso tempo la costituisce rinnovandola, è per così dire l’artificialità. Essa ha una portata puramente fenomenica, poiché non si basa su alcun in sé: il presup-posto dell’impossibilità di giudicare tra un sistema di significati ed un altro sta nell’analisi condotta in Totalità e infinito sull’essere come fenomeno o spettacolo silenzioso, ossia realtà che non esprime di per sé alcun significato, ma si dà in un puro apparire, rispetto al quale l’opera del soggetto traccia delle linee di senso che sono frutto della sua attività. Lo scacco della donazione di senso operata dal sog-getto è radicato nella nozione levinassiana di fenomenicità come assenza di princi-pio, mancanza di origine:

Il fenomeno è l’essere che appare ma resta assente9.

[lo storico, nel senso del già fatto] è fenomeno – realtà senza realtà. Lo scorrere del tempo, nel quale secondo lo schema kantiano si costituisce il mondo, è senza origine. Questo mondo che ha perduto il suo principio, an-archico – mondo di fenomeni – non risponde alla ricerca del vero, è sufficiente al godimento…10.

Questo mondo silenzioso – cioè questo puro spettacolo – non è accessibile alla vera conoscenza? […] Ma un mondo assolutamente silenzioso che non arrivasse a noi tramite la parola, foss’anche menzognera, sarebbe an-archico, senza principio, senza inizio11.

Si noti, innanzitutto, l’uso del termine “anarchico” nel senso di «ciò che non mantiene alcun rapporto con la propria origine» qui impiegato in un contesto on-tologico, mentre in Altrimenti che essere, che pure sviluppa il tema della fenomeni-cità dell’essere come apparire ed ostensione, esso è collocato in un contesto etico, acquistando una valenza positiva. Il fenomeno è anarchico perché è un qualcosa che si dà all’osservatore come un dato già fatto, del quale non si può conoscere l’autore, è il puro star di fronte della datità non riconducibile ad un principio co-stituente, ossia insensata nel suo esserci ed enigmatica nel suo essere un segno che non rimanda ad alcun significante, espressione, quest’ultima, che nell’accezione levinassiana indica colui che parla, cioè colui che si esprime attraverso dei segni. A questa realtà fenomenica il soggetto attribuisce un significato attraverso la sua ope-ra, lavoro fisico o intellettuale dal quale scaturisce una totalità sensata: fenomeno è l’essere che è puro apparire privo di un senso in sé, fenomeno è il mondo frutto della Sinngebung del soggetto. Tale processo avviene secondo una prospettiva tele-ologica, in base ad una rilettura dell’intenzionalità di Husserl come finalità pratica, ossia come rappresentazione della coscienza che determina un agire orientato in modo volontaristico ad uno scopo. In tale ottica acquisisce un senso ciò che è in

9 E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 185.10 Ivi, p. 63.11 Ivi, p. 89.

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vista di un fine, in una coincidenza tra significato e telos che rimanda all’esistenza del soggetto stesso e al suo riconoscersi quale fine ultimo di ogni suo agire:

D’altra parte la significazione pratica è il campo originario del senso? […] In qualità di pratica – la significazione rinvia all’essere che esiste in vista di questa esistenza stessa. Essa è così trattata da termine che è fine di se stesso12.

In testi più tardi, degli anni ’70 e ‘80, Lévinas torna più volte sul tema della violenza intrinseca all’atto intenzionale-teleologico, in quanto strumentale all’im-manenza che tutto cerca di ricondurre al soggetto conoscente e al suo egoistico progetto esistenziale, si vedano ad esempio i saggi della raccolta Tra noi:

L’intenzionalità, identificazione dell’identico in quanto stabile, è una mira che punta, diritto come un raggio, il punto fisso dello scopo. […] Presenza del ritrovabile che il dito indica, che la mano afferra, “mantenimento” o presente in cui il pensiero pensando a propria misura raggiunge ciò che pensa. Pensiero e psichismo dell’immanenza e della soddisfazione13.

Una teleologia anima la coscienza secondo la Krisis husserliana. La coscienza va ver-so un fine, un termine, verso un dato, un mondo. La conoscenza è intenzionalità: atto e volontà. Un “auf etwas hinauswollen” (“mirare a qualcosa”), un “io voglio” e un “io posso” che lo stesso vocabolo di intenzione suggerisce14.

Ciò che intendiamo sottolineare non è tanto l’esito violento di questo processo teleologico di costruzione del senso, sul quale ci siamo già soffermati, quanto il suo sovrapporsi ad una realtà che di per sé è priva di orientamento e di significato intrinseco. La soggettività del senso ed il relativismo delle totalità storiche sono conseguenza del loro essere fenomeniche, non perché incapaci di attingere all’in sé, bensì perché non c’è alcun in sé del significato, esso è privo di fondamento ontologico ed il mondo che su di esso si costituisce, rendendosi intelligibile, non può essere che fenomeno. Il dato oggettivo in quanto tale non è che un residuo dell’attività soggettiva di Sinngebung orientata ad una finalità pratica15. Il senso è artificiale perché opera del soggetto, opera che si dà innanzitutto nel linguaggio e nella produzione di segni che si rimandano teleologicamente l’uno con l’altro all’interno di una totalità che li priva di valore intrinseco per subordinarli ad un fine ultimo. Il senso come telos si dà nella forma dell’essere segno di ciò che non ha valore in sé, ma solo in quanto rimanda a qualcos’altro come al suo fine.

Teleologia, fenomenicità ed anarchia sono strettamente intrecciate nella critica levinassiana del processo di Sinngebung: di fronte ad una realtà fenomenica che

12 Ivi, p. 93-94.13 E. Lévinas, Entre nous. Essai sur le penser-à-l’autre, Grasset, Parigi 1991; trad. it. di E.

Baccarini Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, p. 101. 14 Ivi, p. 175.15 «Ciò che appare semplicemente, la “pura oggettività” il “mero oggettivo”, sarebbe sol-

tanto un residuo di questa finalità pratica dalla quale deriverebbe il proprio senso» (E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 93).

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“appare ma resta assente” perché priva di un’origine che ne dica il senso, il sog-getto si fa “autore” di significati che si danno teleologicamente come segni. Ma la funzione “autorale” del soggetto è debole e non esente da una ricaduta an-archica. Infatti i segni sono costitutivamente enigmatici, ambigui, proprio perché radical-mente fenomenici nella loro artificialità di opera del soggetto che in essi non è mai presente completamente, da cui l’insuperabile ragion d’essere del dubbio iperbo-lico cartesiano:

Il simbolismo della vita e del lavoro simbolizza secondo il senso assolutamente sin-golare che Freud ha scoperto in tutte le nostre manifestazioni coscienti e nei nostri sogni e che costituisce l’essenza di ogni segno, la sua definizione originaria: esso rivela solo na-scondendo. […] Da un punto di vista assoluto, l’interpretazione del simbolo può, certo, portare fino ad un’intenzione intuita, ma noi ci introduciamo in questo mondo interiore come per effrazione e senza scongiurare l’assenza16.

Il significato non è mai pienamente manifesto nel segno e quest’ultimo non è mai del tutto chiaro: la sua interpretazione implica uno svelamento, una sorta di “effrazione”, poiché esso non si esprime ma è espresso, cioè è il frutto dell’espres-sione di un significante (parlante) che tuttavia resta assente dal segno prodotto, il quale diventa autonomo dal suo autore, da qui la sua ambiguità. In Lévinas solo la parola viva di colui che ha prodotto dei segni può guidare alla loro univoca interpretazione e sciogliere la loro enigmaticità, ma là dove il segno ha perduto la sua oralità e si è cristallizzato in forma scritta, facendosi opera, o nell’esteriorità di un comportamento dato una volta per tutte, facendosi storia, esso perde ogni potere di disambiguazione, perché si separa dal suo autore, al quale soltanto tale potere può essere ascritto. Il segno, se non è orale, è per definizione qualcosa di morto, un qualcosa di già fatto che non può più modificarsi e che si riduce ad og-getto alla mercé dell’interprete, per questo la tradizione, sia in quanto opera sia in quanto storia, è sempre un tradimento rispetto all’autore. L’equivocità di ciò che si tramanda nel tempo attraverso le generazioni rimane insuperabile: la fenomeni-cità, come impossibilità di accedere direttamente all’in sé, è strettamente collegata all’an-archia, intesa come separazione della propria origine di ciò che è stato già fatto o già detto. Il mondo, che è per l’appunto il prodotto di questa cristallizzazio-ne del significato attuatasi nell’opera del soggetto che si fa storia, non può essere che anarchico “spettacolo muto”, ossia fenomeno.

Lo specifico della fenomenologia levinassiana consiste in questa rilettura del tema classico dell’apparire incapace di manifestare pienamente l’in sé, come con-seguenza della separazione dell’opera dal proprio autore, che non è mai realmente presente in essa e che le sfugge proprio in quanto interiorità irriducibile al suo comportamento o alle sue produzioni esteriori. È la tesi della priorità dell’orale sullo scritto: mentre quest’ultimo è segno e fenomeno perché separato dal signifi-cante (parlante), l’oralità è espressione in cui il significante (parlante) è presente,

16 Ivi, p. 181.

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per questo assume un carattere noumenico e non è segno, bensì volto e quindi senso unico che trascende il significato culturale.

Quella che Lévinas cerca di costruire attraverso un approccio etico è a tutti gli effetti una “metafisica della presenza”, che tenta di attingere direttamente all’in sé inteso come volto, ossia a colui che parla, senza mediazioni – tantomeno quel-la della tradizione – che lo ridurrebbero al caso di un genere o alla parte di una totalità. La “presenza noumenica” ricercata da Lévinas è quella dell’oralità, il che misura la sua distanza sia rispetto ad Heidegger, per il quale l’essere si manifesta non tanto nel linguaggio orale ma in quello della poesia, sia rispetto a Derrida, il cui tentativo di decostruzione della metafisica classica si basa sulla differenza come sottrarsi dell’essere alla presenza, come differire che si dà in modo eminente nella scrittura17. Per Lévinas il senso va cercato in una presenza vivente, in un volto, si potrebbe dire nella “persona”, se questo termine, per le sue implicazioni onto-logiche, non fosse poco levinassiano ed anzi talvolta utilizzato nell’accezione di maschera, che è appunto negazione del volto18.

Dunque, il senso costruito come telos e come segno non è che significato cul-turale dal valore fenomenico, perché separato dal significante (parlante), il che fa sì che il processo teleologico di Sinngebung si riveli debole, prima ancora che vio-lento. Se l’opera è sempre un’alienazione rispetto all’autore ed ai suoi fini, poiché separata dalla sua origine può essere piegata ad una teleologia esterna dettata dai suoi interpreti e dalla storia, ciò significa che in questo tentativo di articolare l’oriz-zonte del significato come totalità, il soggetto, luogo originario della domanda di senso, finisce con il perdersi nella totalità stessa, nello smarrire la propria interio-rità. In altri termini il senso inteso come fine inchioda il soggetto alla sua insupera-bile finitudine, secondo quanto suggerisce il gioco di parole “il fine” come scopo e “la fine” come termine, amplificato nel francese fin che non distingue neanche nel genere tra i due significati19:

17 Per la critica di Derrida alla concezione levinassiana di opera si veda J. Derrida, Violence et métaphysique, essai sur la pensée d’Emmanuel Lèvinas, in «Revue de Métaphysique et de Morale», nn. 3-4, 1964, Paris, pp. 322-254 e 425-473; trad. it. Violenza e metafisica, in La scrittura e la differenza, a cura di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, pp. 99-198, cit. pp. 127-130: «Tutte le proposizioni di Lévinas su questo argomento, non possono essere rovesciate? Per esempio, col dimostrare che la scrittura può essere d’aiuto a se stessa, perché ha il tempo e la libertà, in quanto sfugge meglio della parola all’urgenza empirica? Che, in quanto neutralizza le sollecitazioni dell’“economia empirica”, è per essenza più “metafisica” (nel senso di Lévinas) di quanto non lo sia la parola? Che lo scrittore si allontana meglio, cioè si esprime meglio come altro, e si rivolge meglio all’altro di quanto non faccia l’uomo che parla? E che, in quanto si priva del godimento e degli effetti dei suoi segni, rinuncia meglio alla violenza? […] Dunque il confine tra la violenza e la non-violenza forse non passa tra la parola e la scrittura, ma all’interno di ognuna di esse» (ivi, p. 129).

18 Ad esempio: «Il pronome nasconde già l’unico che parla, lo sussume sotto un concet-to, ma così facendo designa solo la maschera, o la persona dell’unico…» (E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974; trad. it. di S. Petrosino e M. Aiello Altri-menti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 72, il corsivo è mio).

19 La tematica è presente anche in Derrida. Nella conferenza del 1968 Fini dell’uomo, il filosofo, ripercorrendo il pensiero di Hegel, Husserl e Heidegger, mette in relazione la struttura

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Il processo dal quale gli esseri traggono il loro senso non sarebbe solo finito di fat-to, ma in quanto finalità, consisterebbe per essenza nell’andare verso un termine, nel finire. […] Ma i mezzi stessi perdono il loro significato nell’esito. Dall’istante in cui è raggiunto il fine è inconscio. Con quale diritto l’innocenza della soddisfazione inconscia potrebbe illuminare le cose con un significato, dal momento che è essa stessa una specie di assopimento?20.

Finito nel senso di esaurito nella sua capacità attrattiva e quindi nella sua stessa funzione teleologica è lo scopo una volta raggiunto, come dire che il suo valore di sensatezza è “a termine”; finito è il significato culturale frutto della Sinngebung in quanto storicamente determinato e non assoluto; finito è il soggetto che, mos-so da un’ansia di significato, costruisce la totalità come teoria dell’essere, ma poi scompare al suo interno come autore che resta assente dalla sua opera, inevitabil-mente tradito dalla trasmissione che ne attua la tradizione. Il significato, nel suo darsi come segno, rimanda ad un fine/una fine e non ad un’origine, per questo non riesce ad attingere al senso unico, assoluto. Viceversa, nell’ottica levinassiana, quest’ultimo va ricercato nell’origine, in ciò o, meglio, in colui che produce il segno linguistico; esso ha a che fare non con la teleologia, con il “finire”, ma con l’“ini-ziare” nel senso dell’essere la scaturigine di ogni funzione segnica, che pertanto non potrà essere segno a sua volta, ma dovrà collocarsi su un diverso piano. Nello scacco del soggetto che cerca un significato nella totalità, ma rimane ancora ego-centricamente ripiegato su di sé e sulla propria finitudine e che per questo produce violenza nel perseguire la sua logica intenzionale-teleologica, si annuncia l’esigenza del passaggio ad un altro “orizzonte” di senso, non più teorico-ontologico, bensì etico, che sia in grado di risolvere l’impasse del primo.

II. Oltre la tradizione: la diacronia del volto

La svalutazione della tradizione, ricondotta a modalità dell’ontologia, muove in Lévinas dalla consapevolezza che il darsi originario del senso non si verifica che nell’epifania del volto dell’altro uomo. L’assolutezza di tale incontro non è conciliabile con il rapporto mediato con il passato che la tradizione istituisce, né, tantomeno, con la continuità temporale su cui essa si basa. Il manifestarsi del volto d’autrui è pensato, infatti, come irruzione del totalmente nuovo, di ciò su cui le categorie del soggetto non fanno alcuna presa e che rimane assolutamente estraneo

teleologica dell’agire umano con un’escatologia in cui l’uomo in quanto finito scompare hegelia-namente nell’infinito o, in termini heideggeriani, si fa pastore dell’essere: i suoi fini rimandano ad un fine ultimo che, allo stesso tempo, segna la sua fine in quanto uomo. Dunque il tema della fine dell’uomo, emerso nel ‘900 con le scienze umane, è in realtà insito nell’escato-teleologia della tradizione filosofica. Derrida ne conclude l’esigenza di una riduzione del senso, intesa non come uno scivolare nell’assurdo, bensì come un superamento della concezione del senso come telos (cf., J. Derrida, Fini dell’uomo, in Marges – de la philosophie, Les Éditions de Minuit, Paris 1972, Margini - della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, pp. 155-185).

20 E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 94.

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alla temporalità dell’io penso. Pertanto, se la tradizione postula un flusso temporale continuo in cui il passato si trasmette al presente fornendo dei criteri interpretativi e di comportamento più o meno vincolanti, la temporalità inaugurata dall’epifania del volto si basa sulla diacronia, ossia sulla mancanza di un tempo comune tra il soggetto e l’altro e sulla loro irrecuperabile separazione. L’altro irriducibile alle categorie del soggetto non consente alcuna contemporaneità, neanche quella del tempo della memoria, tempo di ciò che è passato ma che è in qualche modo recu-perabile e che si tramanda: l’altro non proviene né da un a priori del soggetto né da una temporalità che memoria e anticipazione del futuro possono ricondurre al presente della comprensione. Proprio da questa irriducibilità categoriale e tempo-rale del volto, da questa sua separazione radicale scaturisce la sua capacità di essere senso auto-fondante e origine di ogni significanza:

Chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me. […] il volto d’Altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del mio ideatum – l’idea adeguata. Non si manifesta in base a queste qualità, ma kath’auto. Si esprime. Il volto, in opposizione all’ontologia contemporanea, introduce una nozione di verità che non è lo svelamento di un Neutro impersonale, ma un’espressione21.

Il volto è essenzialmente espressione: non si offre alla vista, ma è sguardo, né è l’oggetto di una tematizzazione linguistica, ma è parola. Quello che Lévinas fa, nell’elaborare la nozione di volto come manifestazione dell’altro, consiste sostan-zialmente in un rovesciamento dell’intenzionalità husserliana, per cui il movimento non è dal soggetto a ciò che gli è esterno, che sia un oggetto o un alter ego, ma l’inverso. È il volto che in qualche modo assume l’iniziativa del movimento inten-zionale, che si manifesta facendo un’entrata22 e che ha la prima parola, non il sog-getto. Quest’ultimo si trova ad essere sorpreso nella sua autoreferenziale opera di Sinngebung dall’interpellanza che proviene dal suo esterno, da un’intenzionalità a lui estranea che lo riguarda, scoprendo che la parola dell’altro lo precede, che non è frutto della sua attività di donazione di senso, ma che è già presente. Di fronte al soggetto un’altra voce si esprime, un volto parla e si presenta come un fatto indi-pendente – kath’auto – dalla coscienza intenzionale. Esso è un fatto, non il frutto di un atto del soggetto. Mentre l’essere è un già fatto, radicato in un passato ormai inerte e che si presenta come fenomeno anarchico, cioè privo di un autore e quindi insensato, rispetto al quale la coscienza soggettiva intraprende un’opera di Sinn-gebung che gli rimane comunque estrinseca, il volto costituisce un fatto esterno all’attività intenzionale dell’io, presentandosi come qualcosa che si fa da sé e che da sé si dà il suo significato. Il suo farsi richiama una temporalità diversa, quella di un passato immemorabile e di un futuro imprevedibile nei quali non c’è la compiutez-za di ciò che è avvenuto una volta per tutte, né il cristallizzarsi in una forma di ciò

21 Ivi, p. 48.22 «Tale presenza consiste nel venire a noi, nel fare il suo ingresso. […] L’epifania del viso

è visitazione» (E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 75).

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che si è dato, ma la dinamica stessa del movimento vitale, nel suo nascere da sé e nel suo continuo rinnovarsi, pena la fine della vita stessa:

Mentre il fenomeno è già, comunque lo si intenda, immagine, manifestazione prigio-niera della sua forma plastica e muta, l’epifania del viso è vivente. La sua vita consiste nel disfare la forma in cui ogni ente quando entra nell’immanenza – e cioè quando si espone come tema – si è già dissimulato23.

Il volto è dunque presenza viva, come già abbiamo avuto modo di sottolineare, quella che esso inaugura è effettivamente una “metafisica della presenza”, ma non nel senso del dispiegarsi nel presente di un sistema ontologico, di una totalità ba-sata sulla rap-presentazione, bensì in quello dell’essere di fronte, nel faccia a faccia concreto, di un volto unico, particolare, reale che mi interpella. In questo suo im-porsi come un fatto auto-evidente, il volto è non-anarchico, nell’accezione in cui il termine è usato in Totalità e infinito, in quanto è esso stesso il “proprio autore”, cioè da se stesso si presenta come dotato di senso e tale da richiedere una risposta adeguata da parte del soggetto, e contemporaneamente, per lo stesso motivo, è anarchico, nell’accezione di Altrimenti che essere e dei testi levinassiani degli anni ’70, perché non derivato né riconducibile all’arché rappresentato dal soggetto, ma autofondato.

La vita del volto si manifesta come energia del porsi da sé come realtà significan-te, dotata di un senso intrinseco rispetto al quale il soggetto è chiamato alla non-indifferenza, anziché ad un’opera di Sinngebung. È per questo che il volto non è né segno, né fenomeno24, ma ciò che si sottrae a qualsiasi rinvio ad altro da sé, sia esso il sistema linguistico o la tradizione di pensiero nei quali il segno significa, o una realtà noumenica che occorre svelare. Il volto, infatti, è il “fenomeno” dell’altro, cioè la sua manifestazione o epifania, ma senza rimandare a qualcosa che non sia il volto stesso: esso si rivela per quello che è, non occorre s-velare una verità nascosta dietro i simboli linguistici o ricercarla al di là delle “incrostazioni” della tradizione, perché il volto la manifesta in tutta la sua evidenza, né ipotizzare una correlazione che riporti la realtà esterna nel suo darsi fenomenico all’atto della coscienza inten-zionale, poiché esso si dà come irriducibile alterità.

Il carattere noumenico del volto fa un tutt’uno con la sua vitalità, con il suo es-sere kath’auto, senso autofondante che non dipende dall’iniziativa della coscienza intenzionale che “crea” il senso in funzione di un orizzonte di significato, ma si pre-senta in se stesso come irriducibilmente significante e dotato di un valore proprio. Il volto è noumeno in quanto porta in sé la sua verità e la manifesta nel suo stesso

23 Ibidem.24 «La presenza sensibile di questo casto pezzo di pelle, con fronte, naso, occhi, bocca,

non è né segno da cui risalire verso un significato, né una maschera che lo nasconde. La presenza sensibile, qui, si desensibilizza per lasciar apparire direttamente colui che si riferisce unicamente a sé; l’identico» (E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., p. 62). «Il volto del prossimo […] sfugge alla rappresentazione; è la defezione stessa della fenomenalità. Non perché troppo brutale per l’apparire, ma perché, in un senso, troppo debole, non-fenomeno perché “meno” del fenomeno» (E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 110).

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apparire: nel faccia a faccia vi è la “rettitudine” della verità che si auto-rivela nella sua sincerità, senza la mediazione-tradimento della tradizione e senza le ambiguità di alcun “velo”, né gli infingimenti della retorica, che procede sempre obliquamen-te attuando la sottile violenza della persuasione25.

Dunque, nell’epifania del volto d’autrui possiamo incontrare la fonte stessa del significare, il senso unico autofondante da cui scaturisce ogni possibile significato culturale, ogni linguaggio. Esso, infatti, non si colloca sul piano degli altri significa-ti storicamente dati, bensì costituisce l’altezza da cui poter giudicare – il “punto”, non il sistema – che permette una valutazione della tradizione:

Mi ritrovo sempre di fronte agli Altri. Essi non sono né un significato culturale né un semplice dato. Sono senso in maniera primordiale, perché ne danno uno all’espressione stessa, perché solo per mezzo loro un fenomeno come il significato entra, di sua natura, nell’essere26.

Tale capacità deriva proprio dal fatto che il senso originario, in quanto visitazio-ne di un volto, non è il prodotto di una Sinngebung, non è cioè una forma inten-zionale ed ordinatrice che si sovrappone ad una realtà che husserlianamente ne è il correlato, facendosi più o meno funzionale alla volontà di potenza dell’io. Il volto infatti non viene prodotto dal soggetto, non è semplicemente un suo alter ego, ma gli si manifesta come qualche cosa di esterno ed estraneo al suo potere, qualche cosa che è già lì e gli sta davanti con un’evidenza che non deriva da alcun a priori e che gli si impone nella concretezza di un fatto innegabile27. È questa l’esperienza per eccellenza, ossia l’esposizione a ciò che viene da fuori e che per questo non è creazione arbitraria dell’io e quindi relativa alla situazione storico-esistenziale in cui esso si colloca, ma senso unico alla luce del quale giudicare i molteplici signifi-cati culturali. Il senso è conseguenza del fatto autoevidente della presenza del vol-to, non dell’atto di Sinngebung del soggetto, pertanto non è una finzione, ma una realtà innegabile ed auto-evidente in grado di porsi come criterio di valutazione per la molteplicità ed il relativismo delle elaborazioni culturali soggettive. In altri termini, nell’incontro particolare con un volto viene veicolato un significato univer-sale, un senso originario che precede ogni operazione di donazione di senso teleo-logica e che fora l’orizzonte di qualsiasi tradizione storicamente data. Non si tratta, idealisticamente, di negare il finito riconducendolo all’infinito, ma di riconoscere dietro l’evento quotidiano dell’incontro con l’altro un significato che trascende la contingenza di questo stesso evento, senza negarlo nella sua concretezza empirica.

25 «Essa [la retorica] va incontro all’Altro non frontalmente ma di lato; certo non come una cosa – poiché la retorica resta discorso e poiché, attraverso tutti i suoi artifici, va verso Altri, sollecita il suo sì. Ma la natura specifica della retorica (della propaganda, dell’adulazione, della diplomazia, ecc.) consiste nel corrompere questa libertà. Per questo è violenza per eccellenza, cioè ingiustizia» (E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 68).

26 E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 74.27 «Il volto è l’evidenza che rende possibile l’evidenza, al pari della veracità divina che

sostiene il razionalismo cartesiano» (E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 209).

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D’altra parte, in questa possibilità di giudicare come da un’altezza la tradizione si annuncia anche la possibilità di un suo recupero: la tradizione, svalutata nella sua capacità di attingere al senso originario e di restituirlo nella sua interezza, è tuttavia valutabile alla luce di quest’ultimo e quindi fondata in ultima analisi su di esso. Il senso unico è all’origine del linguaggio: fa sorgere il linguaggio come socia-lità, come unica relazione possibile con l’altro sfuggente ad ogni presa, riconoscen-dolo nella sua irrecuperabile diversità. Pertanto esso, nella sua radicale diacronia, è anche il presupposto di qualsiasi creazione di significati culturali e della loro organizzazione in sistemi di pensiero di cui la tradizione possa farsi portatrice nel fluire del continuum spazio-temporale.

III. Alle origini del linguaggio

In Lévinas l’apertura della prospettiva etico-metafisica avviene nel linguaggio che trae origine dalla parola dell’altro. Tale prospettiva consente di infrangere quella dell’ontologia, in cui la violenza autoreferenziale dell’essere e la sua insen-satezza non riescono a trovare un riscatto neanche attraverso l’opera di donazione di senso messa in atto dal cogito. È il volto come espressione che fonda il primo significato, ponendosi come evento originario di ciò che ha senso in sé e per sé, e quindi determina la possibilità stessa di un rapporto linguistico – di un discorso – sulle cose e con gli altri, da cui l’apertura alla trascendenza etico-metafisica. Scrive Lévinas:

Cercheremo di mostrare che il rapporto del Medesimo [il soggetto] e dell’Altro […] è il linguaggio. Il linguaggio attua infatti un rapporto tale che i termini non sono limitrofi in questo rapporto, tale che l’Altro, malgrado il suo rapporto con il Medesimo, resta trascendente al medesimo. La relazione del Medesimo e dell’Altro – o metafisica – si dispiega originariamente come discorso nel quale il Medesimo, raccolto nella sua ipseità di “io” – di ente particolare unico ed autoctono – esce da sé28.

E ancora:

Questo rapporto di verità che, ad un tempo, colma e non colma la distanza – non forma alcuna totalità con l’“altra riva” – si fonda sul linguaggio: relazione in cui i termini si assolvono dalla relazione – restano assoluti nella relazione. Senza questa assoluzione, la distanza assoluta della metafisica sarebbe illusoria29.

In Lévinas la metafisica si dà nel linguaggio e viene fatta coincidere con l’etica. La lezione heideggeriana viene accolta e reinterpretata in chiave non ontologica, poiché il linguaggio non è la dimora dell’essere impersonale, ma il luogo dell’epi-fania dell’altro, con il quale intrattenere un rapporto che lo lascia intatto nella sua

28 Ivi, p. 37.29 Ivi, p. 62.

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alterità: è questo il senso della differenza – etica e non ontologica – e dell’oltre-passamento inscritto nella funzione meta-. La distanza etico-metafisica si offre nel linguaggio che originariamente è socialità, ossia istituzione di un rapporto tra due termini irriducibili l’uno all’altro, la cui relazione non è il contatto della presa ma quello della parola che lascia assolti, separati, ossia di una parola che non è quella della designazione di un oggetto e della tematizzazione concettuale, ma quella che scaturisce dal manifestarsi dell’altro e che può essere recepita solo attraverso il suo riconoscimento. Al linguaggio ontico del parlare tematizzate, così come a quello ontologico del rivelarsi/nascondersi dell’essere, Lévinas contrappone il linguaggio come relazione senza presa che si mantiene nella differenza etica ed in cui si ha l’evento dell’alterità radicale.

Ne consegue che il linguaggio, in quanto socialità, non trova la sua massima espressione nel Detto, che, incentrato sul contenuto anziché sulla relazione, è sem-pre un tradimento rispetto al suo autore dal quale si separa come un’opera a se stante, neanche nel detto della poesia che pure ha una funzione originaria nell’am-bito della parola scritta30, ma nel Dire o Discorso, ossia nell’espressione orale, in cui vi è la presenza viva dell’altro. Nel dire l’interlocutore si pone di fronte al soggetto ed “assiste” – nel senso dell’essere presente e del prestare aiuto – alla propria espressione linguistica, pronto a chiarire e a disambiguare la sua stessa parola che per questo rimane vitale, senza cristallizzarsi in una forma data una volta per tutte e quindi equivoca.

Il segno linguistico si offre insieme al significante (il parlante, nell’accezione le-vinassiana), non se ne separa, essendo trasmesso da un interlocutore che è presente al proprio dire e che costituisce il significato originario del suo stesso parlare. Infat-ti, il linguaggio per Lévinas non è un sistema di segni, ma la relazione che si dà nel movimento del dis-correre da e verso l’alterità, movimento che innanzitutto dice l’interlocutore che si presenta come volto, dice una presenza eticamente rilevante, che precede qualunque contenuto linguistico. Siamo così condotti all’evento ori-ginario del linguaggio che non è a sua volta un evento “linguistico”, ma una realtà concreta, quella dell’altro che mi interpella con la sua stessa presenza prima ancora di proferire alcuna parola:

Dire è approssimarsi al prossimo. […] il Dire propriamente parlando non è invio di segni. […] Il Dire è comunicazione, certo, ma in quanto condizione di ogni comunica-zione, in quanto esposizione. La comunicazione non si riduce al fenomeno della verità e della manifestazione della verità concepiti come una combinazione di elementi psicolo-gici: pensiero in un Io – volontà o intenzione di far passare questo pensiero in un altro Io – messaggio attraverso un segno che designa questo pensiero – percezione del segno da parte dell’altro Io – decifrazione del segno. Gli elementi di questo mosaico sono già

30 «Il linguaggio come espressione, è, innanzitutto, il linguaggio creativo della poesia. [...] La cultura e la creazione artistica fanno parte dell’ordine ontologico medesimo. Sono onto-logiche per eccellenza: esse rendono possibile la comprensione dell’essere» (E. Lévinas, Umane-simo dell’altro uomo, cit., p. 47).

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situati nella mia preliminare esposizione all’altro, nella non-indifferenza per l’altro, che non è una semplice “intenzione di inviare un messaggio”31.

Prima di qualunque messaggio e di qualunque comunicazione di contenuti at-traverso il medium linguistico, prima di qualunque tentativo di trovare una con-vergenza delle diverse posizioni attraverso il dialogo razionale, il discorso è l’espo-sizione del volto nella sua epifania di senso unico originario, cui il soggetto è a sua volta chiamato a rispondere attraverso la propria esposizione, ossia attraverso la sua responsabilità. Dunque il dire sorge per iniziativa dell’altro ed il parlare del soggetto è risposta: ancora una volta un tema heideggeriano, quello dell’ascolto del Dire originario32, viene ripreso e declinato secondo una prospettiva in cui il punto centrale non è tanto lo spostamento di accento dall’essere all’ente, ma dal piano del Neutro impersonale a quello dell’unicità dell’altro nel suo valore etico. Infatti, ciò che è in gioco nel linguaggio non è il “messaggio” da trasmettere, ma il riconoscimento dell’alterità, pre-condizione di ogni espressione linguistica, senza la quale non avrebbe senso alcuna forma di comunicazione.

Il discorso è l’essenza di ogni relazione umana che non si traduca in possesso o alienazione, anzi è la relazione come capacità di istituire un rapporto tra due termini che non sfoci in totalità, ma li lasci assolti, cioè assoluti, separati. In al-tri termini, il linguaggio come dire e discorso è il luogo del riconoscimento e del rispetto dell’altro in quanto altro, del quale non si verifica alcuna comprensione, manipolazione o mantenimento nella rappresentazione, ma lo si lascia essere nella sua trascendenza irriducibile. Ciò che conta nella relazione linguistica è, innanzi-tutto, la presa di coscienza dell’alterità che sta di fronte a me, per questo il saluto, nel quale mostro di riconoscere l’altro, viene prima di qualsiasi comunicazione di contenuti e costituisce l’atto sorgivo del discorso come invocazione, anziché come comprensione di un oggetto:

L’incontro si distingue dalla conoscenza proprio per questo. In ogni atteggiamento nei confronti dell’umano c’è un saluto – anche se come rifiuto di salutare. La percezione non si proietta qui verso l’orizzonte – ambito della mia libertà, del mio potere, della mia proprietà – per appropriarsi dell’individuo su questo sfondo familiare. Essa si rapporta all’individuo puro, all’essente in quanto tale. […] Ciò che distingue il pensiero che in-tenziona un oggetto da un legame con una persona è il fatto che in quest’ultima si artico-la un vocativo: ciò che è nominato è allo stesso tempo ciò che è interpellato33.

Questa mancanza di “presa” sull’altro, non riconducibile all’oggetto di una comprensione intenzionale, viene anche espressa come mancanza di contempora-

31 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, op.cit., p. 61. Il corsivo è mio. 32 «Ora il Dire originario è quello che, in quanto vi porgiamo ascolto, ci fa giungere alla

parola. La via che conduce al parlare è entro il linguaggio stesso. La via al linguaggio inteso come parlare è il linguaggio in quanto Dire originario» (M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, In cammino verso il linguag-gio, Mursia, Milano 1973, pp. 201-202).

33 E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., p. 36.

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neità tra il medesimo e il volto, la cui epifania è sospesa tra un passato anarchico, che non è mai stato presente e pertanto immemorabile, e l’avventura imprevedibile del futuro assoluto, portatore di una novità radicale. Tra il tempo del soggetto e quello del volto vi è una sfasatura incolmabile, che nessun atto della coscienza può superare. Infatti, mentre la distanza spaziale può essere superata, quella temporale non può essere dominata, è totalmente indipendente dal potere del soggetto, che subisce lo scorrere del tempo, senza poterlo determinare. In altri termini, la riten-zione del passato nella memoria e la protenzione del futuro nell’anticipazione, che corrispondono alle forme intenzionali di “controllo” del tempo, valgono solo per la temporalità basata sul presente del cogito, nel suo processo di costante auto-identificazione, ma non “fanno presa” sull’altro.

Di fronte all’epifania del volto, non si tratta più dell’auto-riconoscimento del soggetto nella successione degli istanti temporali, ma del riconoscimento dell’al-terità radicale, il cui tempo trascende assolutamente quello della coscienza e non può essere ricondotto al suo presente. Il riferimento alla temporalità serve per l’appunto a sottolineare la distanza incolmabile tra il soggetto e il volto: la distanza temporale, pensata radicalmente, costituisce in Lévinas il modello per misurare l’alterità irriducibile dell’altro, la cui temporalità non è deducibile da quella del soggetto, ma ne è la frattura, che si configura come scarto diacronico insuperabile che impedisce ogni simultaneità e quindi ogni tentativo di ridurre il volto ad alter ego. Naturalmente, la relazionalità che ne risulta, basata sulla dia-cronia anziché sulla sin-cronia, è profondamente diversa da ciò che abitualmente si intende con “relazione”, nella quale è sempre implicita una qualche contemporaneità con colui con il quale la si istituisce:

Relazione che non si fa correlazione. Di conseguenza relazione che, per essere esatti, non si potrebbe chiamare relazione, poiché ai suoi termini manca perfino la comunanza della sincronia che, come una comunanza ultima, nessuna relazione può rifiutare ai pro-pri termini. […] Relazione senza simultaneità dei termini: a meno che il tempo stesso non duri sotto forma di questa relazione-non relazione, di questa domanda. Tempo da prendere nella sua dia-cronia e non come “forma pura della sensibilità”: l’anima nella sua temporalità dia-cronica in cui la ritenzione non annulla il lasso, né la protenzione – la novità assoluta – l’anima nella sintesi passiva dell’invecchiamento e dell’av-venire, nella sua vita, sarebbe la domanda originaria, l’a-Dio stesso34.

Ma allora, se il linguaggio è ricondotto a questo puro contatto “senza presa” con l’alterità, al di là di ogni contenuto linguistico, al di là di ogni comprensione e contemporaneità, si può ancora parlare di un rapporto con l’altro? Come intendere questa relazione puntuale – puro vocativo del saluto – e timorosa della contami-nazione, che sembra interpretare come violenza ogni contatto con l’alterità che vada oltre il rispettoso riconoscimento del suo essere kath’auto? Come instaurare

34 E. Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Parigi 1982; trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, contenente anche un Colloquio con E. Levinas, a cura di S. Petrosino e J. Rolland, Jaca Book, Milano 1983, pp. 132-133.

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un dialogo effettivo con il volto, quale discorso è possibile con l’altro, se non vi deve essere alcuna contemporaneità con il soggetto35? In Lévinas l’accentuazione del movimento unidirezionale dell’intenzionalità che, a “senso unico”, va origi-nariamente dal volto al soggetto, non determina una svalutazione del rapporto comunicativo come scambio? È vero che le modalità del detto, della trasmissione di un messaggio e quindi della messa in comune di un contenuto tra il soggetto e l’altro, vengono successivamente recuperate. Infatti una volta chiarita l’origine non linguistica ma etico-relazionale del linguaggio – il fatto che si parla perché c’è un altro che ci interpella – poi è possibile dedurne il fatto linguistico come costituzio-ne di un sistema di segni condiviso, finalizzato alla comunicazione di determinati contenuti e quindi anche alla costituzione di una tradizione comune nella quale riconoscersi. Tuttavia il momento originario del sorgere del rapporto con l’altro sembra rimanere contenutisticamente indefinibile, pura intenzionalità del “senso unico” del volto che si manifesta nella sua dignità: cosa si dicono il soggetto e l’al-tro nel loro vicendevole scoprirsi?

L’interpellanza che prende corpo nel volto non è una parola qualsiasi, ma ha il suono di un’ingiunzione, si configura come un comandamento: “tu non ucciderai”,

35 Sulle difficoltà poste dalla concezione levinassiana della relazione come non-contem-poraneità e non-comprensione si è soffermato più di un interprete, sottolineando il carattere problematico e non comunicativo che assume il rapporto con il volto, una volta che il non-possesso dell’altro, nella sua assoluta purezza, diventi una forma di separazione incolmabile: se tra il medesimo e il volto non ci deve essere neanche il tempo in comune, su quale piano si può realizzare effettivamente il loro incontro? A proposito si veda Ricoeur: «Tutta la filosofia di Lévinas riposa sull’iniziativa dell’altro nella relazione intersoggettiva. In verità, tale iniziativa non instaura alcuna relazione, nella misura in cui l’altro rappresenta l’esteriorità assoluta rispetto ad un io definito dalla condizione di separazione. L’altro, in tal senso, si ab-solve da ogni relazione. Questa irrelazione definisce l’esteriorità stessa» (P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Édition du Seuil, Paris 1990; trad. it. di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 284). Altrove Ricoeur si sofferma esplicitamente sul carattere dia-cronico di questa «irrelazione» tra il sé e l’altro: «Lévinas non ha pensato che la memoria possa essere interpretata come riconosci-mento della distanza temporale, irrecuperabile nella ri-presentazione» (P. Ricoeur, Autrement. Lecture d’«Autrement qu’être ou au-delà de l’essence» d’Emmanuel Lévinas, Presses Universitai-res de France, Paris 1997; trad. it. di I. Bertoletti, Altrimenti. Lettura di «Altrimenti che essere o al di là dell’essenza» di Emmanuel Levinas, Morcelliana, Brescia 2007, p. 19). Pertanto, una volta radicalizzata la distanza temporale come garanzia della trascendenza dell’altro, al punto di nega-re il valore stesso della memoria, «ci troviamo dinanzi alla difficoltà apparente di far coincidere il pre-originale del discorso del Dire con la contemporaneità dell’“approssimarsi del prossimo”. […] A far problema è l’affinità tra “la dia-cronia refrattaria ad ogni sincronizzazione” e quel che, sembra, posso pensare solo come contemporaneità dell’approssimarsi» (ivi, p. 20). Analo-ghe sono le obiezioni mosse da Mura al rifiuto levinassiano di intendere la relazione etica come comprensione: «Svalutando il tempo della pre-comprensione dell’altro, com’è possibile non solo intendere, ma ascoltare la parola dell’altro?» (G. Mura, Emmanuel Lévinas: ermeneutica e “sepa-razione”, Città Nuova Editrice, Roma 1982, p. 39). Esclusa la possibilità di un tempo comune e di una pre-comprensione, il problema di come stabilire un contatto reale con l’altro è destinato a rimanere insoluto. È per questo che in Lévinas il linguaggio va inteso «non quindi come “comu-nicazione”, e nemmeno come comunione di interiorità, giacché “l’espressione non consiste nel darci l’interiorità di Altri”, come nello spiritualismo personalista. Ma piuttosto in un rimando, infinito, alla significazione come Illeité, ossia come Enigma» (ivi, p. 83).

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cui risponde l’“eccomi” dell’interlocutore chiamato alla responsabilità. In Lévinas il linguaggio ha origine non all’interno di un generico rapporto con l’altro, seppure basato sul profondo rispetto della sua alterità, bensì nel contesto di una relazione nella quale entrano in gioco, in senso forte, i temi della giustizia e del bene e del male originari. Questo movimento di manifestazione del senso che si dà nel discor-so da e verso l’alterità è un movimento di esposizione, diverso dall’ostensione in-differente ed autoreferenziale dell’essere, in quanto comporta un rischio reale per colui che si espone e, d’altra parte, un impegno36 altrettanto concreto di colui che risponde a tale interpellanza esponendosi a sua volta. Altri si espone nella vulne-rabilità della sua condizione di indigente nella quale risuona l’invocazione “tu non ucciderai”, il soggetto risponde nell’“eccomi” della responsabilità, riconoscendosi usurpatore del posto altrui sulla terra e mettendo in discussione il proprio esistere fino alla sostituzione dell’essere-per-l’altro e al farsi ostaggio. Nella correlazione di queste due prime parole che non hanno la neutralità etica di un qualsiasi scambio di contenuti, che non sono finalizzate alla designazione di un oggetto, a dare osten-sivamente nome ad una cosa, ma neanche a configurarsi come un gioco linguistico, poiché ciò cui si riferiscono non ha la leggerezza del gioco, sorge il linguaggio. Esso esprime, originariamente, un legame essenziale con la questione del bene e del male rispetto alla quale qualunque altra manifestazione linguistica, da quella della “chiacchiera” a quella del linguaggio concettualizzante, non può che apparire inessenziale, gratuita. Infatti nel dialogo tra il “tu non ucciderai” e l’“eccomi” sono coinvolte le esistenze dei parlanti ed il loro rapporto con il bene ed il male ad un livello così profondo che ogni altro dire non può che risultare secondario, accesso-rio. Ancora una volta la tradizione sembra incapace di giocare un ruolo attivo nello svolgersi di questo dire originario: nella sua essenzialità etica esso sfugge o, meglio, precede qualunque convenzione linguistica in grado di strutturarsi in un sistema di segni e di significati culturali che possano trasmettersi nel tempo. Tale relazione linguistica non si articola in una lingua storicamente data, ma è pura socialità, im-mediatezza di un incontro che sorge nel vis-à-vis, evidenza di un fatto che si dà da sé e per il quale non vi è una tradizione che possa valere come pre-comprensione.

36 Il termine “impegno” viene qui usato, con una certa forzatura rispetto alla “lettera” del testo levinassiano, per sottolineare il coinvolgimento dell’effettivo vissuto esistenziale del soggetto nel suo esporsi all’altro, di cui diventa responsabile. In questo senso, l’esposizione del soggetto è impegno in quanto non comporta un rapporto puramente conoscitivo con l’alterità, ma un impegnarsi concreto, che chiama in causa l’interezza della sua condizione di esistente. Tut-tavia, va ricordato che in Lévinas vi è piuttosto una presa di distanza rispetto a tale espressione, impiegata in tutt’altra accezione semantica. Infatti, nel filosofo l’impegno viene contrapposto all’assegnazione, in cui il medesimo si ritrova ad essere responsabile dell’altro prima di qua-lunque sua libera scelta. Al contrario di quanto avviene nell’assegnazione, l’impegno indica la conseguenza di una decisone assunta intenzionalmente da parte del soggetto, animato da un’in-clinazione altruistica da soddisfare (cf., E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 172-176): «Come esito di una decisione liberamente presa o consentita, come esito di un capovolgimento della susceptio in progetto, l’impegno rinvia – è necessario ripeterlo? – ad un pensiero intenzionale, ad un’assunzione, ad un soggetto aperto su un presente, ad una rappre-sentazione, ad un logos» (Ivi, p. 172).

Philosophical News TRA TOTALITÀ E INFINITO: L’AMBIVALENZA DELLA TRADIZIONE IN LÉVINAS 145

Essa è prima di qualunque dato culturale o categoria che vengano a costituirsi come portato del tempo, poiché è radicata nell’esserci stesso del soggetto e dell’al-tro nel loro puro stare di fronte, nel fatto “ontologico” della loro realtà di esistenti costitutivamente aperti alla relazione.

IV. Dal senso unico al Senso ultimo: il recupero della tradizione

Estranea al Dire originario che scaturisce dall’interpellanza del volto dell’altro uomo e alla sua immediatezza autoevidente oppure ricondotta a modalità dell’on-tologia nel suo darsi come totalità e a percorso nel quale si attua il tradimento dell’opera rispetto al suo autore, la tradizione appare un tema secondario nel pen-siero di Lévinas. Anche se non del tutto svalutata, essa sembrerebbe inefficace ai fini dell’emergere del senso e all’instaurarsi dell’originario rapporto dialogico con l’altro. Solo in un secondo tempo, all’interno di un discorso etico già sorto, essa potrebbe dare il suo contributo, che comunque resterebbe nell’ambito del dire tematizzante, come trasmissione nel tempo del già detto. Dunque, Lévinas sembra collocarsi tra quegli autori secondo i quali per attingere al senso occorre scavalcare la tradizione, oltrepassarla per raggiungere un piano originario più autentico. È la linea di Nietzsche o Heidegger, con i quali Lévinas indubbiamente condivide l’atteggiamento fortemente critico nei confronti della tradizione filosofica occiden-tale. In realtà, come in questi autori la critica del pensiero occidentale comporta il richiamo ad una tradizione più antica e per così dire primigenia, quella dei pre-socratici, così in Lévinas è presente il riferimento ad una tradizione altra rispetto all’attività propriamente teoretica e di natura pre-filosofica, quella giudaica, con la quale la speculazione filosofica è incessantemente chiamata a confrontarsi37.

Al pari del volto, le Sacre Scritture e la tradizione interpretativa che su di esse si basa sono concepite da Lévinas come luoghi del senso. Non a caso il confronto con tale tradizione si affianca costantemente in Lévinas al lavoro propriamente filosofi-co fin dall’immediato dopoguerra. La circolarità tra il pre-filosofico rappresentato dalla religione ebraica ed il filosofico vero e proprio rimane sullo sfondo dell’intera opera levinassiana come ciò da cui essa trae il suo movimento:

37 Per Lévinas vi sono anche altre tradizioni di natura pre-filosofica che possono avere un’analoga funzione, ad esempio le letterature nazionali, nelle quali viene posto il problema filo-sofico come problema del senso dell’umano. Il riferimento a queste ultime, presente soprattutto nelle opere giovanili, non ha tuttavia la rilevanza che assume quello alla tradizione giudaica: «Il pensiero probabilmente comincia da traumi o da tentativi che non si riesce neppure ad espri-mere: una separazione, una scena di violenza, un’improvvisa consapevolezza della monotonia del tempo. Poi, leggendo i libri – non necessariamente filosofici –, questi choc iniziali diventano domande e problemi, danno da pensare. Il ruolo delle letterature nazionali può essere qui molto importante, ma non perché vi si imparano parole: vi si vive “la vita vera che è assente”, la quale cessa appunto di essere utopica» (E. Lévinas, Éthique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Fayard, Parigi 1982; trad. it. di E. Baccarini, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Città Nuova, Roma 1984; riedito a cura di F. Riva, trad. it. di M. Pastrello, Città Aperta Edizioni, Enna 2008, p. 49).

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Non ho mai avuto l’intenzione esplicita di “accordare” o di “conciliare” le due tra-dizioni [la teologia biblica e la tradizione filosofica]. Se si sono trovate in sintonia è forse perché il pensiero filosofico riposa sempre su esperienza pre-filosofiche, e nel mio caso la lettura della Bibbia è rientrata tra queste esperienze fondanti38.

E ancora:

Ai miei occhi la tradizione filosofica occidentale non ha mai perso il diritto all’ultima parola. Tutto deve essere infatti espresso nella sua lingua, ma forse essa non coincide con il luogo del senso originario degli esseri, con il luogo in cui il sensato comincia39.

In altri termini, non ci si può sottrarre alla teoresi filosofica, allo stesso tempo però essa non è in grado di esaurire la questione del senso, poiché la parola filoso-fica è costantemente esposta al rischio di tradire tale questione e di farsi ontologia. È qui che occorre operare la riduzione al “pre-filosofico”, ossia l’apertura ad una prospettiva altra dalla quale ricevere quel contenuto di senso che la parola filosofica da sola non può darsi, ma che deve tentare di articolare nel suo dire. È un circolo ermeneutico incessante, che torna su di sé sotto l’urto, il traumatismo esercitato dal “pre-filosofico” sul filosofico, o forse sarebbe meglio parlare di un circolo franto, perché animato da qualcosa che ne rompe la circolarità, collocandosi esteriormen-te all’ambito propriamente filosofico, ma che allo stesso tempo, proprio attraver-so questa espropriazione o dislocazione, alimenta la riflessione filosofica stessa, la mette in moto e la avvia verso percorsi di cui non si può prevedere il termine.

Questo intreccio tra filosofico e “pre-filosofico”, questo circolo ermeneutico tra la filosofia e ciò che la precede, è sempre finalizzato in Lévinas al dire filosofico stesso. Egli non si riconosce nella categoria di filosofo ebreo, perché intende essere filosofo ed ebreo, ossia tradurre nel linguaggio greco l’ispirazione profondamente etica del suo pensiero desunta dalla tradizione ebraica, che non è semplicemente una tradizione storicamente data, ma assume una valenza universale e proprio per questo è in grado di interloquire con la speculazione vera e propria. Se il contribu-to di tale tradizione è fondamentale per l’elaborazione della filosofia levinassiana del volto e della responsabilità radicale verso l’altro uomo, ancora più pregnante è il suo ruolo nel rapporto con quello che di volta in volta viene chiamato Infinito, Illeità, Santo. In questo caso la tradizione ebraica non costituisce solo ciò che ispira e mette in moto la riflessione filosofica, ma si configura come una delle principali vie per attingere al Santo.

Dio si rivela all’uomo innanzitutto nel visage d’autrui, dove riluce in trasparenza come la traccia di un’assenza, come la provenienza ultima dell’intenzionalità che dal volto interpella il soggetto:

L’al di là da cui viene il viso significa come traccia. Il viso è nella traccia dell’Assente assolutamente scomparso, assolutamente passato40.

38 Ivi, p. 51, il corsivo è mio. 39 Ivi, p. 52.40 E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 90. I corsivi sono miei.

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Nell’orizzontalità di questo rapporto dialogico con il senso unico si annuncia la verticalità di un rapporto con l’Infinito, ossia con il Senso ultimo, che si manifesta nascondendosi, perché in-comprensibile nella sua infinitudine dal soggetto finito. Esso è il Santo che non si confonde con le forme fusive del sacro impersonale, nel-la cui luce abbacinante il soggetto è riassorbito, ma, infinitamente distante, lascia libero l’uomo. Per questo è un Dio che si dà sempre in terza persona, che è cioè Illeità, con la quale non si può avere la facile immediatezza di un contatto diretto o di una qualche presa, ma è realtà irrimediabilmente sfuggente, seppur sempre presente ed irrinunciabile quale orientamento ultimo del senso:

L’al di là dell’essere è una Terza Persona che non è definita dal Se Stesso, dall’ipsei-tà. […] L’al di là donde viene il viso è in terza persona. Il pronome “Egli” ne esprime l’inesprimibile irreversibilità, come dire, già sfuggita sia alla rivelazione sia alla dissimu-lazione – e in questo senso - assolutamente in conglobabile o assoluta, trascendenza in un passato as-soluto. L’illeità della terza persona – è la condizione dell’irreversibilità41.

Analoga esperienza dell’Altro si ha attraverso il principio cartesiano dell’idea di Dio in noi, idea che il soggetto non si è dato da solo e che lo precede, idea di una sproporzione che deporta il pensiero verso un ideatum che esso non può contene-re e che è il movimento stesso dell’a-Dio. Nell’idea cartesiana Dio è riconosciuto come intimo e alla stesso tempo in-comprensibile, così come nell’epifania del volto d’autrui si manifesta un’assenza che interpella in profondità il soggetto e si sottrae alla sua presa. Ecco, questo tipo di dinamica è in atto anche nel confronto con la tradizione ebraica, che non è tradizione nel senso oggettivante e cristallizzante del detto ontologico, bensì apertura all’infinito di Dio:

Dio nasconde il volto eppure è riconosciuto come presente e intimo: come è possibi-le? Si Tratta forse di una costruzione metafisica, di un salto mortale paradossale di sapore kierkegaardiano? Al contrario, crediamo che sia qui che si manifesta la particolare fisio-nomia del giudaismo: il rapporto tra Dio e l’uomo non è una comunione sentimentale nell’amore di un Dio incarnato, ma un rapporto tra spiriti, attraverso la mediazione di un insegnamento, attraverso la Torah. È proprio una parola non incarnata da Dio ad assicurare un Dio vivente in mezzo a noi42.

Oltre che nell’immediatezza del volto o nell’idea innata dell’Infinito, Dio si ri-vela nelle Scritture attraverso la mediazione di una tradizione: si è di fronte alla Bibbia come di fronte al visage d’autrui, interpellati nella profondità del proprio essere e chiamati ad una risposta, si è da sempre zum-Buch-Sein43, aperti all’inter-

41 Ivi, pp. 91-92.42 E. Lévinas, Difficile Liberté. Essai sur le judaisme, Albin Michel, Parigi 1963; 2° ed.

aumentata Albin Michel, Parigi 1976; trad. it. parziale di G. Penati Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, La Scuola, Brescia 1986; riedito in versione integrale con trad. it. di S. Facioni da Jaca Book, Milano 2004, p. 181.

43 «L’essere umano non è solamente “al-mondo”, non è solo un in-der-Welt-Sein ma an-che un zum-Buch-Sein in relazione alla Parola ispirata, atmosfera così importante per il nostro

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rogazione proveniente dall’alterità del Testo come da quella dischiusa dall’epifania dell’altro uomo o dall’ideatum-Infinito che costantemente sovrasta le capacità del pensiero. Non vi è contraddizione tra queste diverse modalità del darsi dell’Illeità, vivente in tutti i casi, sia che si tratti del volto dell’altro o dell’idea di Infinito in noi, sia che si tratti delle Scritture. La condizione è che queste ultime vengano lette non tanto in base al metodo storico o filologico che parla del testo ridotto a cosa morta, ad opera che “tradisce” il suo autore ormai assente, bensì attraverso un’esegesi che faccia parlare il testo facendo vibrare in esso «la voce dispiegata e viva del suo insegnamento»44, nella quale si manifesta la presenza irriducibile dell’Autore.

È dunque l’esegesi talmudica che consente questo rapporto con il Libro: senza il contatto con questa fonte per Lévinas non si può essere pienamente ebrei, il giudaismo è condannato ad inaridirsi. Essa si costituisce nel dialogo aperto con la Torah, attraverso la dialettica sottile delle opinioni rabbiniche nella cui polifonia la Parola scritta si manifesta nella sua essenziale “oralità”, ossia nella sua vivente capacità di interrogare, suscitare interpretazioni, inquietare il soggetto. L’apparen-temente caotico sovrapporsi delle prospettive storiche attraverso le quali i maestri talmudici si confrontano sui singoli temi, senza trovare una sintesi definitiva, è il movimento che fa parlare il Testo, anziché parlarne, che si pone in ascolto del suo insegnamento.

“Essere-davanti-al-Libro” significa dunque, in Lévinas, passare per la media-zione talmudica, ossia rapportarsi ad una tradizione profondamente stratificata: se è necessario il contatto diretto con la Torah, contatto che richiede la conoscenza dell’ebraico per accedere alla Parola nella sua originarietà, esso non può essere se-parato dalle interpretazioni che ne fornisce il Talmud nella duplice articolazione di Mishnah e Gemara, né è possibile prescindere dai commentatori successivi, primo fra tutti Rashi, al quale il filosofo dedica un corso a cadenza settimanale sin dal primo dopoguerra, quando è direttore della Scuola Normale Israelita Orientale di Parigi, fino agli ultimi anni di vita.

In altri termini, lo zum-Buch-Sein non si dà nell’immediatezza di un rapporto estemporaneo o improvvisato con le Scritture, ma si nutre del contatto con i mae-stri della tradizione, è un pensare la distanza storica in tutto il suo spessore, si con-figura come un’ermeneutica della stratificazione esegetica in cui ogni movimento per ritornare alla Parola originaria si alimenta del riverbero di quella stessa Parola nella storia delle sue interpretazioni45. In questa ermeneutica infinita la Parola vive:

esistere quanto le strade, le case e gli abiti. A torto si interpreta il libro come puro Zuhandenes, come ciò che è a portata di mano, come un manuale. La mia relazione con il libro non è di puro utilizzo, non ha infatti il medesimo significato di quella che intrattengo con il martello o con il telefono» (E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., pp. 143-144).

44 E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, cit., p. 274.45 Il Lévinas lettore della Torah colloca la propria esegesi ad un terzo livello dopo i due

livelli interpretativi talmudici della Mishnah e della Gemara. Così Camera: «L’interpretazione ebraica delle Scritture, definita come “interpretazione dell’esegesi dell’esegesi”, è dunque un procedimento a più livelli attuato con consapevolezza metodica, che però è strettamente colle-gato allo sfondo religioso e alla elaborazione filosofica» (F. Camera, L’ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Morcelliana, Brescia 2001, p. 257). Per un’analisi del corpus delle letture talmudiche

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la tradizione in questo caso non è archeologia, ma irradiarsi del significato eterno del Dire originario nel tempo, dinamica attraverso la quale «da un solo verset-to scaturiscono molteplici sensi (Trattato Sanhedrin 34a)»46, secondo una logica per cui l’interpretazione fa parte della stessa Rivelazione. La deportazione verso l’infinito si riproduce infatti nel carattere dialogico e aperto dell’esegesi, nell’ar-ricchimento apportato dalla tradizione interpretativa al messaggio originario della Scrittura che cresce e si sviluppa con chi la legge: l’eccedenza di senso della Parola attende l’opera dei commentatori per dispiegarsi in tutte le sue implicazioni, per mostrare la sua fecondità inesauribile. È così che tra il massimo dell’immediatez-za – il volto – ed il massimo della mediazione – le Scritture –, si manifesta un’es-senziale corrispondenza, quella sussistente tra due espressioni viventi, davanti alle quali il soggetto non finisce mai di mettersi in questione e che attesta una comune provenienza dall’Infinito di un’origine anarchica.

La presenza del Dio assente si dà nel Libro, dove la Parola vivente si incarna senza che vi sia alcuna incarnazione di Dio: nessun rapporto diretto è consentito con l’Illeità che si dà solo attraverso la mediazione del volto o quella delle Scritture lette all’interno della loro tradizione interpretativa. Il divieto assoluto di stabilire con Dio forme di rapporto “immediate”, di comunione spirituale o di partecipa-zione mistica, si traduce in uno stare davanti-al-Libro che è essenzialmente studio – “Talmud” significa per l’appunto insegnamento, studio –, ossia approccio meto-dico e razionale al testo sotto la guida di un maestro:

Che Mosè abbia parlato faccia a faccia con Dio significa – dicono i saggi – che disce-polo e Maestro si piegarono tutti e due sulla stessa lezione talmudica47.

Se è necessaria l’interiorità per rapportarsi alle Scritture – l’uomo ridotto a strut-tura e privato della sua interiorità è la negazione di qualunque possibilità che il Testo parli e venga ascoltato nel suo insegnamento –, è altrettanto vero che nessun interiorismo, nessun sentimentalismo è concesso in ambito religioso. Il rapporto con Dio è un rapporto tra spiriti adulti, tra intelligenze48, un rapporto dove alle forme dell’interiorizzazione nebulosa, del facile entusiasmo e dell’improvvisazione devono subentrare quelle del rigore metodico e della paziente applicazione. La parola del Libro è una Parola esigente, che richiede una lettura attenta e matura, affinata dal confronto con i maestri della tradizione, per essere colta in tutta la sua ricchezza, nelle sfumature della sua inesauribile polisemia. Allo stesso tempo, è una Parola esigente perché si traduce in praxis, esige una condotta morale da parte dell’interprete autentico, quello cioè che si mette in ascolto per incarnarla:

di Lèvinas, del metodo interpretativo adottato e del rapporto tra queste letture e la filosofia dell’altro, si veda ivi, pp. 231-259.

46 E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, cit., p. 81.47 Ivi, p. 48. 48 «Spiritualizzare una religione non consiste nel giudicare le sue esperienze alla luce dei

risultati scientifici del momento, ma nel comprendere tali esperienze come rapporti tra intelligen-ze, rapporti situati nella luce piena della coscienza e del discorso» (ivi, p. 22).

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la Parola è comandamento49. Quella che viene fornita dal Talmud è per l’appunto l’interpretazione di carattere giuridico-normativo della Torah, la Legge scritta: la centralità riconosciuta al testo talmudico nel definire la stessa identità ebraica fa un tutt’uno con la centralità dell’etica nell’ambito della religione.

In Lévinas il nucleo costitutivo di ogni esperienza religiosa “adulta” è sintetiz-zabile nella formula «amare la Torah più di Dio»50, ma non si può amare la Torah se non mediante lo studio della sua tradizione esegetica. Tale scelta a favore della Legge che, in quanto tale, chiede di essere interpretata, non significa altro che amare Dio attraverso l’uomo: la priorità dell’aspetto giuridico-normativo della reli-gione non va inteso come una riduzione della stessa ad un legalismo formale, ad un puro ritualismo fatto di precetti e divieti, ma come riconoscimento dell’irriducibi-lità dell’altro uomo nella profondità dell’appello etico che proviene dal suo volto. La coerenza tra Scritture e volto, nel loro essere vie per accedere all’Illeità, consiste essenzialmente nel fatto che le prime rimandano espressamente al secondo quale termine dell’agire etico. Allo stesso tempo, la sottigliezza dell’esegesi scritturale, così come ci è tramandata dalla pagina talmudica, non è che lo specchio di quel-la trepidazione etica che coglie il soggetto agente di fronte al volto dell’altro, di quell’esitazione che mette tra parentesi il suo diritto naturale ad esistere, per in-terrogarsi sulla sua possibile usurpazione del posto altrui e sulle molteplici forme che essa può assumere. La possibilità di una sospensione etica del conatus essendi è infatti fondata nelle stesse Scritture:

L’inizio del Genesi […] è oggetto di stupore: perché la Rivelazione inizia con il rac-conto della Creazione, dal momento che i comandamenti di Dio riguardano solo l’uo-mo? […] E la risposta antica che Ra!i [Rashi] ci propone consiste nel sostenere che è importante per l’uomo – per possedere la terra promessa – sapere che Dio creò la terra. Perché, senza questo sapere, egli possiederà solo attraverso l’usurpazione51.

Contro ogni istinto alla ricerca del proprio spazio vitale, contro ogni pretesa di radicamento in un suolo ridotto a proprietà, la Parola sradica l’uomo, ne fa un nomade in quanto creatura abitante in un creato che originariamente non gli appartiene, ma gli è consegnato in dono, gli è offerto gratuitamente e con la stessa gratuità chiede di essere considerato nel momento in cui entra in scena l’altro, che è sempre il povero, l’orfano, la vedova. Se, secondo l’insegnamento letterale della Bibbia, «la terra non è posseduta individualmente, ma è possesso di Dio»52, se «l’uomo comincia nel deserto in cui abita nelle tende»53, allora il rapporto con

49 «Abbiamo affermato che il comando è Parola o che la vera parola, la parola nella sua essenza, è comandamento» (E. Lévinas, Liberté et commandement, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1953, pp. 264-272; trad. it. di F. Ciaramelli, Libertà e comando in E. Lévinas - A. Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, A. Guerini e Associati, Milano 1989, pp. 16-29, cit. p. 29)

50 E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, cit., p. 179.51 Ivi, pp. 33-34.52 Ivi, p. 40.53 Ibidem.

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la Parola, il suo studio, è all’origine di quella libertà rispetto alle forme egoistiche, prevaricatrici del conatus in cui l’io si trova ad essere interessato solo di sé. Me-glio ancora, la Parola giustifica teoreticamente l’istanza etica proveniente dal volto d’altri, dà fondamento a quello che potrebbe rimanere un puro slancio emotivo, un sentimento altruistico del tutto estemporaneo di fronte all’indigenza dell’altro. Allo stesso tempo, consente a questo sentimento di farsi meditazione, di acquisire la profondità di una riflessione matura capace di concretizzarsi in un modus vi-vendi. Il rito, che traduce la Parola in una pratica esteriore e quotidiana, assicura per l’appunto questo passaggio non improvvisato né emotivo dal Testo all’agire, consentendo il superamento di quelle forme intimistiche della fede che in Lévinas attengono esclusivamente alla sfera del sacro, all’estasi che trascina fuori di sé, e non a quella del Santo, in cui la consapevolezza diventa responsabilità. In altri ter-mini, la Parola per essere interpretata, ossia intesa ed incarnata, necessita di edu-cazione, nella duplice accezione di istruzione e di condotta disciplinata da regole, che si dà innanzitutto nella forma della ritualità, per poi svilupparsi nello studio della tradizione esegetica: la forma del suo sradicamento è quella della meditata fedeltà ad un impegno, non della facile evasione o della fuga da sé. Il nomadismo che si fonda nel Testo è una deportazione alla volta di una terra promessa che non è il “paradiso terrestre” dell’innocente inconsapevolezza, delle risorse a portata di mano, disponibili senza sforzo né scrupolo alcuno – situazione che definisce la piena soddisfazione del conatus, non la sua negazione –, bensì la “terra arida” di un deserto in cui non si può smettere di vagare, rispondendo all’appello di una severa norma morale e di una giustizia che sorge solo dopo che si è presa coscienza della propria usurpazione del posto altrui.

L’essere-davanti-al-Libro è dunque coerente con lo stare davanti al volto, ne integra l’immediatezza attraverso la mediazione di una riflessione che medita in profondità una Parola dal significato eminentemente etico, della quale la relazione con altri si sostanzia. Vi è una circolarità tra il volto e il Libro, che si illuminano a vicenda in base al principio per cui l’etica è l’autentica ottica spirituale, secondo la lezione della tradizione giudaica. È così che conoscere Dio attraverso le Scritture fondamentalmente significa non tanto trovare una canale privilegiato attraverso il quale stabilire con lui una relazione diretta, un rapporto di comunicazione/co-munione, una qualche intimità, quanto sapere quale atteggiamento assumere nei confronti dell’altro uomo:

Gli attributi di Dio sono dati non all’indicativo ma all’imperativo. La conoscenza di Dio ci raggiunge come un comandamento, come una mitsvah. Conoscere Dio significa sapere cosa bisogna fare54.

Conoscere Dio significa rispettare una regola esigente che in nessun momento «assume il valore di sacramento»55, che è cioè “affare” tutto umano: attraverso le Scritture come attraverso il volto Dio si manifesta all’uomo in quanto gli attribui-

54 Ivi, p. 34.55 Ivi, p. 35.

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sce un compito nel quale si afferma la sua piena dignità, ma allo stesso tempo se ne ritira, lasciandolo solo di fronte alla consegna della responsabilità o, meglio, con-segnandolo ad una responsabilità che più viene assunta più cresce. La questione centrale e paradossale in Lévinas dell’attribuzione ad un soggetto finito di un com-pito infinito – quello della responsabilità che non conosce limiti e che arriva fino al farsi ostaggio dell’altro – si ripropone inalterata nel rapporto con le Scritture: il carattere sottile, la scrupolosità senza limite dell’esegesi talmudica non è in fondo che il riflesso di questa situazione. Certamente in questa attribuzione di responsa-bilità vi è un’esaltazione dell’uomo che diventa adulto, non più cioè in uno stato di minoreità rispetto a Dio, ma capace di porsi al suo cospetto da “creditore”:

Nascondere il volto per esigere dall’uomo – sovrumanamente – tutto, aver creato un uomo capace di rispondere, capace di affrontare il suo Dio da creditore e non, come sempre, da debitore: grandezza davvero divina!56.

Lévinas arriva al punto di presupporre l’uguaglianza tra l’umano ed il divino:

[…] È in tale vigorosa dialettica che – nel cuore della loro sproporzione – si stabili-sce l’uguaglianza tra Dio e l’uomo. Eccoci dunque lontani sia dalla comunione calda e quasi sensibile con il Divino, sia dall’orgoglio disperato dell’ateo. Umanesimo integrale e austero, legato a un’adorazione difficile! E, inversamente, adorazione che coincide con l’esaltazione dell’uomo!57.

Eppure l’uomo non è uguale Dio, attribuirgli una responsabilità sovrumana non è forse ingiusto prima ancora che illusorio? Il confronto con la tradizione giudaica non fa che riproporre i problemi di fondo dell’etica levinassiana nei suoi estremi-smi. Del resto la tradizione parla secondo il modo in cui è interpellata: essa può essere letta in chiave ontologica così come dal punto di vista della filosofia dell’al-tro uomo in tutta la sua radicalità, non facendo che riconfermare le intuizioni ma anche le difficoltà che la caratterizzano. Detto in altri termini, la tradizione può essere sia trasmissione oggettivante di un messaggio cristallizzatosi in detto, morto strumento dell’ontologia, sia dialogo vivente con un passato infinitamente lontano, ma inesauribile nel suo dire. È questa la sua ambivalenza, fra totalità e Infinito, che l’opera di Lévinas ci restituisce in tutta la sua complessità.

Lucia StramaccioniUniversità degli Studi di Perugia

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56 Ivi, p. 182.57 Ivi, p. 183.

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Lucia Stramaccioni si è laureata a Perugia nel 2000 con una tesi su Hans Jonas. Per un’etica dell’era tecnologica. Dal 2000 insegna Italiano e Storia nella scuola me-dia superiore. Ha conseguito il Dottorato in “Filosofia e Scienze umane” nel 2010 con la tesi Dall’essere al senso. Il percorso filosofico di Emmanuel Lévinas.