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KATHLEEN MCGOWAN LA PROMESSA Il segreto per trasformare la tua vita interiore piemme

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KATHLEEN McGOWAN

LA PROMESSAIl segreto per trasformare

la tua vita interiore

piemme

Titolo originale: The Source of Miracles. 7 Steps to Transforming Your Life Through the Lord’s Prayer © 2009 by McGowan Media, Inc. All rights reserved. First published by Fireside, a division of Simon & Schuster, Inc., New York.

Traduzione di Roberta Maresca / Grandi & Associati

Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

I Edizione 2010

© 2010 - EdIzIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

Stampa: Mondadori Printing Spa - Stabilimento NSM - Cles (TN)

LA ROSA A SEI PETALI: la mappa della fonte dei miracoli

amore

altruismo abbondanza

perdono

superamento degli

ostacolifede

sottomissione

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I

IntroduzioneIl Padre Nostro

La domenica di Pasqua dell’anno 2007, il «Los Angeles Times» riferì che due miliardi di persone in tutto il mondo erano legate da un unico e potente comune denominatore: il Padre Nostro. Quel giorno quasi un terzo degli abitanti del pianeta recitò que-sta preghiera nella sua lingua madre per esprimere la propria fede.

Sebbene la cristianità sia stata divisa fin dalle origini in corren-ti teologiche differenti, questa preghiera riunisce tutte le Chiese. Il contenuto del Padre Nostro non può essere influenzato dal dogma o dalla politica. Anche se le diverse confessioni possono apportare piccole modifiche, le parole fondamentali, con gli inse-gnamenti che esse impartiscono, sono rimaste immutate sin dal giorno in cui Gesù le insegnò ai suoi discepoli. I due miliardi di anime che si definiscono cristiane spesso presentano più differen-ze che analogie, tuttavia il Padre Nostro costituisce il loro punto d’incontro. Gesù ci ha dato una preghiera così universale e inci-siva affinché durasse migliaia di anni e malgrado qualsiasi diffi-coltà. Questa preghiera è indelebile, eterna.

Il Padre Nostro oggi, come ai tempi di Gesù, è la formula incorruttibile per la trasformazione personale e globale.

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Quasi tutti i cristiani imparano il Padre Nostro nella prima infanzia e sono in grado di recitarlo a memoria senza alcuno sforzo. È talmente scolpito nella nostra mente che per ripeterlo non dobbiamo nemmeno riflettere.

È proprio questo il problema. Non dobbiamo nemmeno riflet-tere.

Nonostante la maggior parte di noi sia capace di recitare il Padre Nostro e sappia che è la pietra angolare del cristianesi-mo, spesso non ne comprende appieno il senso. Molti di noi hanno dimenticato il potere e il significato straordinari nascosti in quelle parole, sempre ammesso che vi si siano mai soffermati. Io ho imparato il Padre Nostro quando avevo tre anni, all’asi-lo, molto tempo prima di sapere cosa volessero dire parole co-me santificato, peccato o tentazione. Non c’era un bambino in tutta la mia classe che sarebbe stato in grado di spiegare il sen-so di quella preghiera, eppure la recitavamo tutti alla perfezio-ne per la festa di fine anno. Ci insegnavano a recitarla con un tempismo impeccabile, come pappagallini ubbidienti che riu-scivano a pronunciare i suoni giusti dopo averli ripetuti infinite volte, ma che erano incapaci di comprendere quelle parole astruse.

Posso assicurarvi che quando eravamo bambini nessuno ci spiegò le origini della preghiera e, se pure qualcuno ci avesse provato, eravamo decisamente troppo piccoli per intenderla co-me una pratica spirituale e una ricetta infallibile per avere una vita felice e piena di soddisfazioni.

Così siamo cresciuti senza sapere che, con il Padre Nostro, Gesù ci aveva donato la formula per ottenere miracoli, non solo nei momenti di maggior bisogno, ma in modo continuativo.

Intervistando vari cristiani scelti a caso tra le diverse confes-sioni, ho scoperto con grande stupore che solo pochissimi sape-

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vano che questa preghiera ci è stata insegnata direttamente da Gesù. Quasi tutti replicavano scioccati: «Un momento... è stato Gesù a creare il Padre Nostro?». Persino alcuni devoti prati-canti mi hanno guardata sorpresi, quando ho detto loro che le sue parole sono opera di Gesù. Alcuni non mi hanno creduto, neppure quando ho citato i passi del Vangelo che ne attestano l’origine. Uno ha obiettato: «Ma a scuola non ce l’hanno mai spiegato», come se questa omissione fosse l’unica nella nostra educazione spirituale!

Tuttavia Gesù è davvero l’autore di questo programma di rin-novamento spirituale costruito in modo assolutamente perfetto. Nel Nuovo Testamento, il Padre Nostro si trova nel Vangelo di Matteo al capitolo 6, versetti 9-13, come parte del discorso della Montagna, e poi ancora nel Vangelo di Luca, al capitolo 11, ver-setti 1-4, quando uno dei discepoli dice a Gesù: «Insegnaci a pregare». E lui ci ha insegnato. Facendolo, ci ha donato questo inestimabile tesoro: una serie di indicazioni semplici e immuta-bili, sotto forma di preghiera, per scoprire il segreto autentico per avere la vita che desideriamo veramente: una vita colma di amore, felicità e, sì, persino di ricchezza. La preghiera ci mostra che tutti questi meravigliosi doni ci si offrono attraverso un au-mento della fede: fede in dio, fede in noi stessi e fede nel pros-simo, in quest’ordine.

Il Padre Nostro affronta le questioni che ci feriscono, ci con-fondono e ostacolano i nostri progressi, e ci indica in che modo superare questi ostacoli. La preghiera è la nostra guida per pu-rificare lo spirito da qualunque cosa lo turbi e ci impedisca di diventare persone “pienamente realizzate”; ovvero individui che sfruttino al massimo il proprio potenziale, un potenziale che conduce direttamente alla felicità e all’abbondanza. Ricorrere con regolarità a questa preghiera come pratica spirituale produ-

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ce un reale e durevole cambiamento a livello interiore, che si manifesta però in modi del tutto terreni e visibili.

Se pronunciate con fede e intenzione, queste parole sono let-teralmente magiche.

Alla vigilia del mio trentesimo compleanno, nella primavera del 1993, divenni un ministro ordinato: espressi così il mio im-pegno a studiare e approfondire gli insegnamenti di Gesù. Quindici anni, migliaia di pagine lette e centinaia di ore di ani-mate discussioni dopo, sono giunta a quella che alcuni potreb-bero considerare una visione semplicistica – e pertanto forse contestabile – della dottrina cristiana. Io credo che se si studia e ci si attiene strettamente al Padre Nostro, alle beatitudini, ad alcune parabole e a quanto Gesù dice nel capitolo 22 del Van-gelo di Matteo, ai versetti 37-39 («Amerai il Signore dio tuo con tutto il cuore» e «Amerai il prossimo tuo come te stesso»), si ha sostanzialmente tutto quello che è necessario a condurre un’esistenza perfetta e a favorire il diffondersi della pace nel mondo. Ma il più importante fra questi doni, il centro da cui scaturiscono tutte le benedizioni, è il Padre Nostro. Mentre gli altri elementi ci offrono preziose lezioni spirituali, questa gran-de preghiera è lo strumento che ci collega in modo immediato e diretto alla sorgente che è in ognuno di noi: la fonte della fede, la fonte dell’amore, la fonte del perdono. E questi ele-menti, nel loro insieme, sono all’origine di veri e propri mira-coli.

La mia vita ha subìto un radicale mutamento da quando ho cominciato a ricorrere costantemente al Padre Nostro come pratica spirituale. di conseguenza, ho assistito agli eventi più prodigiosi, comprese le meraviglie della vita e della morte. Sono stata benedetta da un’abbondanza e da una gioia straordinarie. Ma non è stato sempre così.

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Per mostrarvi il mio cammino verso la rivelazione che il Padre Nostro è la formula perfetta per i cambiamenti radicali – e che ognuno di voi può fare lo stesso – devo prima condurvi nel mio passato, oltre le porte di una società segreta un tempo chiuse a chiave, nel cuore di una scuola misterica medievale.

devo prima farvi conoscere il mistero della rosa a sei petali.

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II

Il mistero della rosa a sei petali

Los angeLes, 17 agosto 2001

Il nostro splendido bambino appena nato sarebbe morto en-tro un’ora.

Questo ci dissero i medici. E se io avessi dato loro ascolto, probabilmente il suo cuore avrebbe smesso di battere secondo le loro previsioni. Io però mi rifiutai di crederci, grazie a quanto avevo imparato dalla rosa a sei petali.

Il minore dei nostri tre figli, Shane Francis, venne alla luce in un pomeriggio di agosto nel 2001, sano e perfetto. O almeno così pensavamo. A poche ore dal suo arrivo sulla terra, pareva presentasse un piccolo problema respiratorio, ma ci dissero che non era insolito per i bambini nati con un parto cesareo. In quella fase nessuno era troppo preoccupato. Fu messo in incu-batrice e tenuto in osservazione per qualche ora.

Poi, però, diventò cianotico, e subito dopo assunse una livi-dezza innaturale. Non riusciva più a respirare da solo. I suoi polmoni all’improvviso avevano smesso di funzionare. Più tardi avremmo scoperto che era nato con una malattia potenzialmen-te mortale che impediva ai polmoni di dilatarsi. Ma al momento

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questo non era il problema più impellente. La crisi arrivò quan-do ci si rese conto che era rimasto privo di ossigeno per diverse ore senza che nessuno se ne accorgesse e che i suoi piccoli orga-ni, compreso il cervello, avevano subìto danni permanenti.

Anche se l’ospedale in cui Shane nacque aveva un reparto di terapia intensiva neonatale, i medici non erano ottimisti riguar-do alle sue possibilità di sopravvivenza. Non reagiva a nessuno dei respiratori a cui veniva attaccato: era troppo tardi per salvar-lo, ecco tutto.

Quando dissi loro che si sbagliavano, i medici pensarono che in quanto madre mi trovassi in una comprensibile fase di rifiuto della realtà. di conseguenza un gentile assistente sociale dell’ospe-dale fu mandato ad “assisterci”. In sostanza, il suo compito con-sisteva nel farci capire che il nostro bambino stava per morire.

«Non è colpa sua» mi assicurò sorridendo, dandomi un col-petto di incoraggiamento sulla schiena. «Lei non ha fatto niente. È una di quelle cose che non si possono prevedere. Ma se avete un sacerdote, un ministro o un altro consigliere spirituale, vi suggerisco di chiamarlo subito in modo che vi aiuti ad affronta-re la situazione. Al bambino restano solo pochi minuti di vita.»

Sapevo che quell’uomo era convinto di agire a fin di bene, ma desideravo solo che stesse zitto. Ero furiosa perché tutti aveva-no gettato la spugna, perché consideravano mio figlio già morto, quando invece era ancora vivo, lì nella stanza insieme a noi.

Ma sapevo anche una cosa che loro ignoravano. Sapevo che il mio bambino sarebbe sopravvissuto, non contava quello che di-cevano gli altri, perché lo avevo visto tre mesi prima, mentre pregavo al centro di un labirinto. In realtà, dei miracoli che sa-rebbero accaduti avevo già avuto una prima visione sei anni pri-ma, a oltre diecimila chilometri di distanza, in una cattedrale francese.

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chartres, Francia, maggio 1995

Una leggenda narra che quando Napoleone entrò per la pri-ma volta nella cattedrale di Notre-dame de Chartres, lo splen-dore del luogo lo lasciò attonito. divenne molto taciturno – fat-to assai raro – mentre si guardava intorno, assaporando la maestosità, la bellezza e la sacralità che lo circondavano. Con voce sommessa annunciò al suo seguito: «Chartres non è un po-sto per gli atei».

Se permettete, non sono d’accordo. Penso che Chartres sia un posto perfetto per un ateo. La gloria e la grazia della struttu-ra hanno una carica mistica tale da convincere della presenza di dio anche lo scettico più incallito. Se mai è esistito un monu-mento la cui costruzione è stata guidata e ispirata da dio per il-lustrare il concetto «come in cielo, così in terra», questo è la cattedrale francese.

Vidi Chartres per la prima volta da circa trenta chilometri di distanza, mentre giravo in macchina per la Francia nel 1995, “casualmente” nel giorno della festa della mamma. Le guglie asimmetriche eppure magnifiche svettavano dalla cima del colle su cui si trovavano, un’altura naturale che l’umanità venerava da migliaia di anni. descrivere nel dettaglio la maestosità di Char-tres esula dall’ambito di questo libro; probabilmente non sarei in grado di trovare le parole adatte a renderle giustizia. Orson Welles, che di genio ne sapeva qualcosa, disse che la cattedrale di Chartres era «la più importante opera dell’umanità... una ce-lebrazione della gloria di dio e della dignità dell’uomo». Trovo che la sua descrizione calzi a pennello, ora che ho visto quali miracoli scaturiscono da quel luogo.

Ma nel maggio del 1995, più che una pellegrina ero una turi-sta. Se fossi stata una pellegrina, avrei avuto la consapevolezza

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di quanto quel posto fosse sacro e speciale. In realtà, malgrado sapessi che la cattedrale era patrimonio mondiale per la sua glo-riosa architettura, antica di otto secoli, e per le centinaia di ma-gnifiche vetrate istoriate, all’epoca tutte le mie conoscenze in proposito derivavano da una mezza pagina che avevo letto in una guida di Parigi.

Entrai nella cattedrale attraverso l’imponente portale occi-dentale, passando sotto un altorilievo di Cristo sul trono. Restai senza fiato davanti alla pura immensità di quel luogo, alla travol-gente bellezza e alla solennità che emanava.

Come tanti altri visitatori prima e dopo di me, una volta var-cata la soglia abbassai raramente lo sguardo. Le meraviglie delle vetrate istoriate non si trovano all’altezza degli occhi ma molti metri più in alto, perciò ammirando quelle bellezze capita di scontrarsi con altre persone che camminano anch’esse con lo sguardo rivolto al cielo. A quei tempi non sapevo quello che ora è così fondamentale per la mia vita, ovvero che ai miei piedi mi aspettava altrettanto splendore. Purtroppo, gran parte dei visita-tori non scopre mai questo segreto in grado di cambiare la vita.

Tuttavia non appena messo piede nell’edificio, per una fra-zione di secondo, un disegno insolito sul pavimento catturò la mia attenzione. Era lì in un angolo della mia mente che mi sol-leticava, sapevo che era importante, così tornai sui miei passi per esaminarlo. Al centro del pavimento campeggiava un mo-saico in pietra, abbastanza grande da contenere almeno dieci adulti in piedi. Rappresentava una sorta di fiore, una rosa con sei petali rotondi che si diramavano da un cerchio. Gran parte dell’antico disegno era coperto da file di sedie, perciò era diffi-cile riuscire a vederlo nella sua interezza. Il resto del motivo raffigurato intorno al fiore occupava una porzione enorme del pavimento della navata, ma anche quello era nascosto dalle se-

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die. La parte del disegno che potevo distinguere era bella ed elegante, ma anche curiosa. Andai a posizionarmi nel cerchio centrale, nel cuore della rosa, poiché era l’unica zona libera da elementi estranei.

Restai lì, feci un profondo respiro... e caddi in ginocchio. Una calda ondata di energia mi sommerse e mi trascinò a terra. do-podiché per qualche istante mi girò la testa e fui costretta a se-dermi su una delle sedie di legno che coprivano il resto del mo-saico a forma di rosa. Quando il capogiro passò, ormai ero completamente stregata.

La rosa raffigurata sul pavimento della cattedrale continuò a riaffacciarsi nella mia mente per molto tempo, anche dopo il mio rientro negli Stati Uniti. La fascinazione si trasformò in os-sessione, e tutto ciò mi condusse a un’importante e inattesa ri-cerca spirituale. Sarebbe diventato un viaggio lungo una vita, un viaggio che continua ancora oggi.

Nel mio percorso per comprendere il mistero della rosa a sei petali, scoprii che quell’immagine costituiva il cuore di un enorme labirinto che si estendeva sul pavimento della cattedra-le di Chartres per oltre dodici metri. I costruttori delle grandi cattedrali gotiche francesi avevano realizzato labirinti nei pavi-menti di molti dei loro monumenti, anche se pochissimi sono rimasti integri. Si tratta di disegni complessi, progettati con precisione geometrica da mastri scalpellini. A volte vengono chiamati anche dedali, ma questa definizione è erronea. I deda-li sono luoghi in cui ci si perde. I labirinti sono luoghi in cui ci si ritrova.

Studiosi e teologi non hanno mai concordato sul motivo della presenza dei labirinti nelle cattedrali francesi. Secondo alcuni rappresentavano un viaggio metaforico verso la Terra Santa per coloro che in epoca medievale non potevano compiere tale pel-

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legrinaggio. Altri, me compresa, credono siano stati creati come strumenti di preghiera, sentieri da percorrere in meditazione per raggiungere un centro in cui dio ci attende. I labirinti pre-sentano tutti un solo percorso che conduce al luogo centrale: il sancta sanctorum destinato alla preghiera. La cattedrale di Char-tres – ho scoperto in seguito questa sua singolarità – contiene l’unico labirinto medievale in cui il centro è rappresentato dalla rosa a sei petali.

Il labirinto di Chartres e la rosa centrale a sei petali

All’inizio del Medioevo, e forse anche molto prima, esisteva a Chartres una grande scuola spirituale, che rappresentava il cuo-re della teologia e dei culti misterici ormai diventati materia di leggenda. Nel suo eclettico gruppo di allievi e insegnanti, la scuola annoverava santi, mistici, filosofi, politici e persino qual-che famigerato eretico. Anche se gran parte di ciò che vi veniva insegnato è andato perso nel tempo e nella storia, alcuni resti significativi di quel sapere sono a disposizione di chi vuole sca-vare più a fondo.

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La mia ricerca è stata implacabile.Così, lungo il mio cammino ho avuto la fortuna di incontrare

insegnanti che mi hanno invitata a tornare al passato attraverso le antiche porte della scuola misterica di Chartres. Mi hanno indicato come percorrere il labirinto e mostrato come la rosa al centro sia un portale che conduce all’ultimo e più prezioso teso-ro in assoluto: la trasformazione spirituale.

Nelle pagine che seguono condividerò con voi alcune delle lezioni più importanti e determinanti, ma l’essenza di ciò che ho appreso è questa:

Il segreto della rosa a sei petali è la sua perfetta correlazione con il Padre Nostro. Ogni petalo rappresenta un diverso insegna-mento presente nella preghiera, mentre il cerchio centrale rap-presenta l’essenza e la sorgente dell’amore, perché l’amore deve inserirsi in tutti gli aspetti della nostra vita se vogliamo ottenere la piena realizzazione. La rosa è il simbolo della pratica spiritua-le perfetta così come ce l’ha lasciata Gesù. È la mappa per rag-giungere la fonte dei miracoli.

La rosa custodita dal labirinto della cattedrale di Chartres è il cuore di un tempio ineguagliato, costruito per onorare il potere della preghiera. La rosa era centrale nella dottrina della scuola misterica medievale, e in questa straordinaria e sacra tradizione cristiana di cui ai giorni nostri si sono quasi smarrite le tracce.

durante i miei studi, ho imparato a usare il Padre Nostro come pratica continuativa, proprio come gli allievi della scuola misterica di Chartres. da quando ho introdotto questa preghie-ra nella mia vita quotidiana, non sono più la stessa persona, e nemmeno vorrei tornare a esserlo. Così facendo, ho ristabilito la mia fede: in dio, in me stessa e negli altri esseri umani.

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Le rivelazioni del Padre Nostro che mi aspettavano all’inter-no della rosa mistica hanno cambiato in modo irrevocabile il corso della mia vita e di quella delle persone intorno a me. Han-no anche portato al miracolo che ha salvato la vita al mio bam-bino appena nato.

san Francisco, caLiFornia, maggio 2001

Era di nuovo la festa della mamma, sei anni dopo, ed ero a quasi diecimila chilometri da Chartres. Mi trovavo nella San Francisco Bay Area ospite della mia cara amica Stacey, la quale, non a caso, mi aveva accompagnata durante il fatidico viaggio a Chartres del 1995. E come me era rimasta affascinata dai labi-rinti e da tutto ciò che essi offrivano in termini di progresso spirituale attraverso la preghiera e il percorso di meditazione. Perciò fu in questa domenica di festa che Stacey e io ci inerpi-cammo sulla ripida collina verso la Grace Cathedral, un monu-mento che contiene non una, ma due copie perfette del labirinto di Chartres e del suo cuore a forma di rosa a sei petali, una all’interno e una all’esterno. Progettavamo di percorrere en-trambi i labirinti, per ognuno avevamo i nostri motivi. da ma-dre in dolce attesa sulla quarantina, con terribili aborti sponta-nei alle spalle, ero molto preoccupata per la mia gravidanza. La mia intenzione principale, accostandomi ai labirinti, era quella di pregare affinché il bambino nascesse senza complicazioni.

La mia intenzione secondaria era quella di chiedere aiuto per il libro che stavo scrivendo all’epoca, un romanzo sulla vita illu-minante di Maria Maddalena e sul suo rapporto unico con Gesù. Per vari motivi quest’opera mi stava causando tutta una serie di problemi relativi alla fede. Scrivere della vita di Gesù era una

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grande responsabilità, che a volte mi opprimeva. Inoltre, le mie ricerche avevano portato alla luce alcuni elementi singolari sul ruolo di Maria Maddalena nella vita e nella predicazione di Ge-sù, che non trovavano riscontro nelle fonti tradizionali o acca-demiche. Avrei avuto il coraggio di raccontare la verità che ave-vo scoperto? E come potevo descrivere nel romanzo in modo letterale i miracoli che Gesù aveva compiuto, quando ero con-vinta che dovessero essere visti in chiave simbolica, come allego-rie? Speravo di far luce su quei dubbi creativi e spirituali attra-verso il percorso di preghiera medievale. Ma non potevo certo prevedere in quali forme i chiarimenti mi si sarebbero presentati.

Ero incinta di sei mesi quando entrai nel labirinto della Grace Cathedral e percorsi i suoi undici cerchi sinuosi. Appena rag-giunsi la rosa, cominciai a pregare intensamente per la salute del mio bambino, spostandomi da un petalo all’altro. Nel momento in cui arrivai al centro, accadde una cosa che non si era mai ve-rificata prima: ebbi una visione di Maria Maddalena, che mi aspettava al cuore del labirinto. E sentii la sua voce forte, chiara e insistente, che mi si rivolgeva con queste parole: «Non impor-ta cosa ti diranno gli altri, il tuo bambino starà bene. Verrai mes-sa alla prova, ma devi ricordarti sempre che il tuo bambino so-pravviverà, e sarà sano. Non pensare mai il contrario, non ti arrendere mai. Qualunque cosa accada, devi continuare ad ave-re fede».

Los angeLes, 17 agosto 2001

Tre mesi dopo, il mio minuscolo e perfetto bambino era den-tro un’incubatrice con innumerevoli tubi e aghi, nessuno dei quali sembrava poterlo aiutare.

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«Non è colpa di nessuno» mi ripeté l’assistente sociale, anco-ra deciso a convincermi che il mio bambino stava morendo e che il suo ospedale non aveva alcuna responsabilità al riguardo. Io non gli davo più retta. Sentivo solo la voce femminile che tre mesi prima mi aveva parlato nel labirinto e che mi aveva prean-nunciato quella prova, assicurandomi però anche che l’avrem-mo superata, il piccolo e io, grazie alla forza della fede.

I medici mi avevano detto di non toccare Shane, perché era «troppo delicato». Ma, dato che secondo loro sarebbe morto da un momento all’altro, smisi di ascoltarli e presi in mano la situa-zione. Mi alzai dalla sedia a rotelle, allontanai tutti e abbracciai il mio bambino. Cominciai a parlargli, per dirgli che non lo avrei mai abbandonato, e mi misi a pregare nel suo orecchio. Mentre pregavo, ci fu una visibile, seppur lieve, risposta clinica da parte di Shane. I valori su tutti i macchinari a cui era collegato, sino a quel momento piatti e senza speranze, guizzarono per la prima volta. Stava lottando per rimanere con me, lo sentivo. E io stavo lottando per mantenerlo in vita con ogni briciolo di forza che mi restava. Shane era inerte e freddo, minuscolo e cianotico, lo ave-vamo quasi perso. La fede era una delle poche cose che mi era-no rimaste, la fede e l’amore per quella preziosa creaturina.

Quella notte imparai che queste due cose sono tutto ciò che ci serve per cambiare il mondo. Con la fede e l’amore, tutto è possibile.

Lo ucLa Medical Center, il centro medico dell’Università di Los Angeles, si trova a una trentina di chilometri dall’ospedale in cui era nato Shane, nel Westwood Village, la zona universitaria nella parte occidentale di Los Angeles. Il suo reparto di terapia intensiva neonatale è uno dei migliori al mondo ed è un ospeda-le pionieristico nell’impiego di tecniche innovative per salvare vite umane. Vista la nostra insistenza, i medici chiamarono que-

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sto centro d’eccellenza come ultima spiaggia, ma mi dissero di non farmi illusioni. L’elicottero che doveva trasportarci non era ancora disponibile e l’équipe medica sarebbe dovuta arrivare in ambulanza, attraversando la città nel traffico congestionato del venerdì pomeriggio, sempre ammesso che fosse stata disponibi-le, il che non era sicuro. Mi assicurarono che Shane non sarebbe mai sopravvissuto fino all’arrivo della cavalleria di Westwood. E se anche, per un improbabilissimo miracolo, ci fosse riuscito, non avrebbe sopportato il trasferimento in ambulanza.

Ma io lo tenni stretto a me e pregai per circa due ore, il tempo che l’équipe impiegò ad arrivare. Shane lottò insieme a me e continuò a farlo finché non lasciò quell’ospedale di periferia per mettersi nelle mani degli angeli terreni dello ucLa Medical Cen-ter.

Io però non potei andare con lui. Avevo appena subìto un importante intervento chirurgico e

avevo avuto anch’io le mie complicazioni, peggiorate dall’im-previsto ed estenuante impegno al reparto di terapia intensiva neonatale. Quando la compassionevole infermiera del centro medico addetta al trasferimento mi tolse Shane dalle braccia per collocarlo nell’incubatrice portatile, il bambino fece una cosa che nessuno si aspettava. Aprì gli occhi.

«Impossibile!» A lanciare questa esclamazione fu lo stesso medico che lo aveva quasi dichiarato morto. Ma Shane li sfidò tutti. Guardò prima me per diversi secondi e poi suo padre, che era sconvolto, prima di richiudere gli occhi, sfinito. In quel mo-mento, vidi davvero mio figlio per la prima volta. Era vivo, e sarebbe tornato da noi. Quello fu il primo degli innumerevoli doni che Shane ci fece.

Era fisicamente impossibile per me lasciare l’ospedale con Shane quella sera, anche se lo desideravo con tutta me stessa.

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Rimasi lì ad affrontare un nuovo incubo, quando i medici ven-nero a “prepararmi” per la loro versione della verità. dato che Shane era rimasto così a lungo senza ossigeno, l’entità dei danni riportati dal suo organismo non poteva ancora essere stimata. Il cervello ne aveva risentito e mio figlio probabilmente non sa-rebbe mai stato in grado di vedermi o di sentirmi, tanto meno di riconoscermi. dissero che al reparto di terapia intensiva ave-va aperto gli occhi per puro caso, che era stato un riflesso invo-lontario e che non dovevo interpretarlo come un segno di atti-vità cerebrale. I suoi polmoni erano una massa inservibile simile a tessuto cicatriziale e, se mai fosse sopravvissuto, avrebbe avu-to bisogno di utilizzare continuamente un respiratore. Le sue ghiandole surrenali avevano subìto un’emorragia, e non sareb-bero state in grado di produrre gli ormoni necessari a farlo vive-re e crescere. Era probabile che anche gli altri organi fossero stati compromessi in modo irreparabile.

Un medico addirittura mi rivolse queste parole: «Non è ne-cessariamente una cosa positiva che suo figlio superi la notte».

Vorrei poter dire che la mia fede era tanto forte da impedirmi di credere a una sola parola di tutto ciò, ma mentirei. Allora non avevo ancora assistito ai miracoli che mi avrebbero dato la fede assolutamente incrollabile che ho oggi. dovevo ancora essere messa alla prova.

Quella fu la notte più buia della mia vita. Il mio povero bam-bino era dall’altra parte della città che soffriva e io non potevo stare con lui. Ero da sola in quel luogo deprimente con i medici che mi prospettavano i peggiori scenari possibili, mentre la mia famiglia si trovava con Shane nel reparto di terapia intensiva neonatale all’altro capo della città. Non avevo mai provato una sofferenza e una paura simili.

Il giorno dopo, fui dimessa dall’ospedale e raggiunsi i miei

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cari al capezzale di Shane, dove rimasi per i successivi dodici giorni.

Non lasciammo mai il bambino, tranne che per un’ora al gior-no in cui le pazienti infermiere del reparto di terapia intensiva ci davano il cambio. Forse fu una coincidenza che le tre infermiere che fornivano le principali cure a Shane si chiamassero Mary, Magdalena e Mary Ann. Tuttavia ognuna emanava la stessa compassione e grazia della loro antica omonima, ed è stato con il loro aiuto che abbiamo vegliato nostro figlio.

Vivevamo sulle poltrone accanto al letto di Shane, gli parlava-mo, gli cantavamo delle canzoni e soprattutto pregavamo. Pre-gavamo nel reparto di terapia intensiva, pregavamo nella cap-pella dell’ospedale, pregavamo nel giardino e invitavamo i nostri amici e i nostri parenti sparsi in tutto il mondo a pregare con noi per telefono e via internet. C’erano migliaia di persone che uni-vano le loro energie spirituali per la salvezza del nostro bimbo. Non ci arrendemmo mai.

Il Padre Nostro fu la mia ancora di salvezza in quel momento difficile e, mentre meditavo, mi figuravo la rosa. Mi sforzavo di avere fede e di abbandonarmi al volere di dio ogni singolo gior-no, come è prescritto nel primo e nel secondo petalo della pra-tica di preghiera. Per superare questa dura prova, dovevo crede-re che tutto stesse accadendo per una ragione, così mi aggrappai a questa convinzione con tutte le mie forze. E applicai il resto della pratica del Padre Nostro all’occorrenza. In quel periodo dovetti affrontare anche gravi preoccupazioni finanziarie: non potevamo permetterci di non lavorare a lungo, tuttavia non prendemmo neppure in considerazione l’ipotesi di lasciare Sha-ne da solo. Comunque fosse andata, avevamo la certezza che alla fine ci saremmo ritrovati con seri problemi economici. In altri momenti dovevo fare i conti con la rabbia che quelle circo-

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stanze mi provocavano e sforzarmi di perdonare i medici che erano stati sul punto di lasciar morire il mio bambino. Quei pe-santi fardelli divennero molto più sopportabili grazie alla pre-ghiera. E per tutto il tempo mi feci forza con la visione del labi-rinto e il messaggio che diceva di non perdere mai la fede.

La dodicesima notte al reparto di terapia intensiva, mi alzai per fare due passi. Ero indolenzita perché avevo dormito sulla sedia e provavo dolore per la ferita provocata dal taglio cesareo che non aveva ancora avuto il tempo e l’opportunità di rimargi-narsi. Mi rifiutavo di prendere antidolorifici perché non volevo avere la mente o lo spirito offuscati durante quell’esperienza. Shane poteva aver bisogno di me da un momento all’altro, e dovevo essere presente al cento per cento. Camminai un po’ per i corridoi prima di rendermi conto che non mi era d’aiuto, così tornai alla mia postazione al capezzale del piccolo.

Il reparto di terapia intensiva neonatale all’epoca era un gran-de stanzone aperto e il letto di Shane era nell’angolo in fondo a sinistra. Quando guardai in quella direzione, vidi che era cir-condato da una luce soffusa. dapprima pensai che ci fossero un medico o un’infermiera intenti a occuparsi di lui, perché vedevo anche qualcuno chino sul letto. Ma quando mi avvicinai di più e vidi meglio, mi fermai di colpo.

Chino sul letto di mio figlio, c’era un bell’uomo con i capelli lunghi.

Ora, Peter, il padre di Shane, è un bell’uomo con i capelli lunghi, perciò per un attimo pensai che fosse lui. Ma ben presto mi accorsi che Peter stava dormendo sulla sedia oltre il letto di Shane.

Non so per quanto tempo rimasi lì; è un momento perso nel tempo, eppure resterà impresso nella mia mente, nel mio cuore e nel mio spirito per sempre. Guardai l’uomo chinarsi e baciare

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mio figlio sulla testa. Un istante dopo... era semplicemente spa-rito.

L’indomani, Shane aprì gli occhi.Non riuscirò mai a spiegare nel dettaglio ciò che accadde nei

giorni successivi a quell’episodio. Un miscuglio confuso di gioia e stupore, di incredulità e gratitudine. Tutto quello che posso dire è che il 2 settembre 2001 portammo a casa il nostro bam-bino come se fosse nato il giorno prima e fosse perfettamente sano. Sembrava che i suoi organi si fossero rigenerati, e i suoi polmoni erano perfetti.

Lo ucLa Medical Center inserì il caso di Shane in uno studio della durata di due anni con un nome complicato, che riguarda-va la plasticità del cervello appena nato, una ricerca che – sup-pongo – cercava di quantificare ciò che non è quantificabile. Sha-ne fu sottoposto a risonanze magnetiche, ecografie e numerosi altri esami durante i suoi primi anni di vita. Fu visitato ed esami-nato da alcuni fra i più grandi luminari della medicina neonatale. Ma i professionisti interpellati concordavano su una sola cosa: anche se i portenti della medicina moderna avevano tenuto in vita Shane e non dovevano essere sminuiti, il fatto che i suoi organi si fossero rigenerati era quasi del tutto inspiegabile. Nel suo caso c’era un fattore che esulava dalla scienza.

Shane era un miracolo vivente, questa era la pura e semplice verità.

Malgrado avessimo tutti voglia di festeggiare, nel quadro cli-nico di Shane restava un elemento preoccupante che doveva essere tenuto sotto continua osservazione. Ci attenemmo a un cauto ottimismo, perché anche se i polmoni e il cervello di Sha-ne risultavano inspiegabilmente rigenerati, sembrava ci fosse ancora una seria difficoltà alle ghiandole surrenali. Una era completamente e irrimediabilmente distrutta. L’altra funziona-

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va, ma era danneggiata. La nostra prima visita da un endocrino-logo pediatrico smorzò subito l’entusiasmo per la ripresa di no-stro figlio. La prognosi dello specialista fu drastica: ci disse in modo brusco che secondo lui Shane non ce l’avrebbe fatta a vi-vere oltre i due anni. Le sue ghiandole surrenali erano troppo compromesse e pertanto non poteva produrre gli ormoni neces-sari ad affrontare la crescita. di nuovo ci trovavamo di fronte a uno scenario apparentemente senza scampo.

Fu un grave colpo, che rischiò di farci ripiombare nella dispe-razione. Ma dopo tutto quello a cui avevamo assistito, mi rifiu-tavo di accettare che al mio bambino venisse decretata per la seconda volta una morte inevitabile. Rimasi ancorata alla mia fede e continuai a pregare, mentre cercavo i migliori pediatri. Credo fermamente che scienza e fede possano e debbano coesi-stere in armonia, e per tutta la prima infanzia di Shane mi sono attenuta a questa filosofia. Il mio fratello maggiore, Kelly, è un ginecologo di talento che mi ha insegnato molto con l’esempio della sua brillante mente scientifica. Mi aiutò a trovare i medici migliori in modo che Shane potesse avvalersi delle scoperte scientifiche più all’avanguardia, mentre la nostra famiglia conti-nuava con l’approccio spirituale basato sulla preghiera.

Una vecchia storia racconta di una famiglia che rimane ag-grappata a una barca a remi durante un’alluvione: pregano tutti con fervore, ma remano anche con tutta la forza che hanno. Questo è un esempio di fede attiva e illustra bene la massima: “Aiutati che dio t’aiuta”.

Nei due anni successivi, le ecografie delle ghiandole surrenali di Shane dimostrarono che i miracoli non erano finiti. Non solo la ghiandola surrenale destra funzionava alla perfezione, ma la sinistra, che in precedenza era completamente distrutta, si era rigenerata dal nulla. A quanto pareva, Shane e dio avevano solo

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aspettato il momento giusto per essere certi che avremmo com-preso bene la lezione: i miracoli accadono, e sono reali, fisici e il-limitati.

Nei terribili giorni della malattia di Shane, quando pregavo meditavo spesso sul terzo petalo della rosa al centro del labirin-to, il petalo che rappresenta il percorso dell’altruismo e queste parole del Padre Nostro: «Come in cielo, così in terra». Mi ri-promisi che, una volta superata quella prova, avrei aiutato gli altri condividendo il nostro miracolo con il mondo. In seguito pubblicai la storia di Shane su internet e nel corso degli anni numerose famiglie mi scrissero e-mail per dirmi che il mio rac-conto aveva ridato loro speranza nei momenti più bui, e le aveva incoraggiate a pregare per i loro miracoli. C’è addirittura la fa-miglia di un bambino molto speciale di Chicago che attribuisce alla storia di Shane il merito di aver miracolosamente salvato il loro piccolo da un disturbo simile.

Mentre scrivo questo libro, Shane ha appena festeggiato il suo settimo compleanno. È il bambino più bello, intelligente e felice del mondo. Non ha più avuto complicazioni né malattie, al di là dei normali raffreddori che a tutti i bambini capita di avere, e anche quelli sono stati molto rari.

E Shane recita il Padre Nostro alla perfezione, ogni giorno della sua benedetta e miracolosa vita.

La Fonte dei miracoLi

Ricordate quando, nel 2001, il giorno della festa della mam-ma, mi recai alla Grace Cathedral di San Francisco per percor-rere il labirinto, mentre il mio romanzo sulla vita di Gesù e Ma-ria Maddalena mi metteva in difficoltà rispetto alla fede?

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All’epoca della nascita di Shane, stavo scrivendo a proposito dei miracoli attribuiti a Gesù nel Nuovo Testamento, che dovevano essere un elemento chiave nel mio libro. Ingenua com’ero al tempo, cercavo di parlare di quei miracoli come se fossero me-tafore. Nessuno si aspettava davvero che credessimo che Gesù avesse trasformato sei giare d’acqua in vino, ovviamente, e di certo non si aspettavano che credessimo che fosse riuscito a sfa-mare cinquemila persone con due pesci e qualche pagnotta! Anche la resurrezione di Lazzaro doveva essere simbolica: rap-presentava la rinascita spirituale, non la resurrezione fisica dall’oltretomba. Nessuna mente del ventunesimo secolo avreb-be creduto davvero che quei miracoli fossero reali, giusto? do-vevano essere allegorie, giusto?

E poi arrivò Shane.La guarigione di Shane – la completa rigenerazione dei suoi

organi – non era una metafora. Non era un’allegoria. Era un miracolo reale, tangibile. E credo che uno dei tanti doni che Shane mi ha fatto sia avermi dimostrato che la forza della pre-ghiera è la fonte dei miracoli. Mi ha aiutata a comprendere che Gesù, il più grande maestro di preghiera nella storia umana, certamente conosceva l’origine di quegli eventi straordinari. E la grande compassione e l’amore che nutriva per noi lo hanno spinto a donarci la formula più infallibile per accedere a quella fonte.

Quella formula è il Padre Nostro.La fonte è inesauribile. I miracoli non finiscono mai.