interni magazine 618

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Ecco dunque un ricco palinsesto di contenuti trasversali, che ancora una volta sceglie il pluralismo quale strumento di proficuo confronto culturale. So here is a variegated offering of versatile contents, once again choosing pluralism as a method of fertile cultural confrontation.

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INterNIews

INitaly produzione productIoNdesign in equilibrio/Design in balancesaving water projectil mall del design/The Design mallarflex:una sede multifunzionearflex: a mulTifuncTional heaDquarTers fortepiano: i designer siamo noi/Designers are usdesignersenso ludico/a sense of playfulnessconvegni coNfereNcessmart city, smart homeconcorsi competItIoNsactive architecture e/anD active designil rame e la casa 2012premi prIzesexpopack, i vincitori/The winners fiere faIrsgli eventi di abitami/The evenTs of abiTamimutable spirit

INternationalfiere faIrsqubique berlinhÁbitat valenciamoscow design weekmaison&objet e/anD paris design weekprojectuno spettacolo italiano/an iTalian specTaclel’herbarium tessile di/The TexTile herbarium of gunilla

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IN copertINa: il tavolo macaone di alessandro mendini, un progetto del 1985 che ZaNotta ha inserito a catalogo nel 1987 e riproposto

nel 2011 in serie numerata e firmata. il piano, in mdf, e le gambe, in poliuretano rigido con struttura in acciaio, sono laccati nei colori

rosso, blu, giallo, verde. i piedini sono in lega di alluminio lucidato.oN the cover: The macaone Table by alessanDro menDini, a projecT from

1985 ThaT ZanoTTa inserTeD in iTs caTalogue in 1987, anD has reissueD in 2011 in a signeD, numbereD eDiTion. The Top in mDf anD The legs in rigiD

polyureThane wiTh sTeel sTrucTure are painTeD in reD, blue, yellow or green. feeT in polisheD aluminium alloy.

INdice/coNteNtsgennaIo-febbraIo/january-february 2012

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INtertwinedgiovani designer youNg desIgNersmega ideamostre exhIbItIoNsenel Contemporanea award 2011info&techvisualizzazioni 3d/3D visualizations

creative junctions

INservicetraduzioni traNslatIoNsindirizzi fIrms dIrectory

lImIted editioN

INtopics

editoriale edItorIal di/by gilda bojardi

INteriors&architecture

ospitalità d’autore sIgNature hospItalIty a Cura di/eDiteD by antonella boisi

mongolia, cina, ordos museumprogetto di/Design by mad arChiteCts foto di/photos by iwan baantesto di/text by antonella boisi

mentone, francia, musée jean cocteau progetto di/Design by agenCe rudy riCCiottifoto di/photos by olivier amsellemtesto di/text by matteo verCelloni

beirut, libano, s.t.a.y. restaurant-bar & sweet tea progetto di/Design by agenCe moatti-rivièrefoto di/photos by niColas buissontesto di/text by matteo verCelloni

shanghai, tajima kitchen houseprogetto di/Design by kengo kuma & assoCiatesfoto di/photos by naCasa & partnerstesto di/text by antonella boisi

londra, roca london gallery progetto di/Design by zaha hadid arChiteCtstesto di/text by andrea pirruCCio

milano e londra, dodo paradise progetti di/Design by paola navonefoto di/photos by enriCo Contitesto di/text by antonella boisi

tirolo, splendid kitzbühel progetto di/Design by nina sChmid/splendid arChiteCture foto di/photos by ralf busCher testo di/text by alessandro roCCa

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INdice/coNteNts II

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INsight

INscapequella francia che vede il mare The FraNce ThaT sees The sea di/by andrea branzi

INartssfasamento sensoriale seNses ouT oF phase di/by germano celant

INdesign

INcentertavol-ini LITTLe TabLes a cura di/edited by nadia lionellotesto di/text by michele de lucchi

miniarchitetture MINI-archITecTure di/by nadia lionellofoto di/photos by miro zagnoli

la luce puntuale puNcTuaL LIghT di/by andrea pirrucciofoto di/photos by maurizio marcato

INprofilealessandro mendini, robot sentimentaleseNTIMeNTaL roboT di/by cristina morozzi

INproject / autoproduzioneistruzioni per l’uso seLF-producTIoN: a MaNuaL di/by Valentina croci

le nuove piattaforme produttive The New producTIoN pLaTForMsdi/by stefano maffei

quelli che... Those who... di/by stefano caggiano

e quelli che... aNd Those who... di/by maddalena padoVani

il design a modo mio desIgN, My way di/by stefano maffei INviewinterni mobili MobILe INTerIors di/by enrico leonardo fagone

INproductionwood mood di/by katrin cosseta

INservice

traduzioni TraNsLaTIoNs

indirizzi FIrMs dIrecTorydi/by adalisa uboldi

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INdice/coNTeNTs III

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Rimbocchiamoci le maniche: inizia un nuovo anno di progetti che si preannuncia impegnativo, se non altro per la responsabilità che la parola “progetto” riveste nei momenti cruciali come questo. Vogliamo comunque iniziare con un buon ottimismo, guardando al lato più stimolante che la sfida della contemporaneità offre a chi, per scelta o per vocazione, ama immaginare un’alternativa a una realtà a cui eravamo impreparati. Ecco dunque un ricco palinsesto di contenuti trasversali, che ancora una volta sceglie il pluralismo quale strumento di proficuo confronto culturale. La sezione delle architetture celebra tendenze e modi di vivere internazionali, con particolare attenzione al tema dell’ospitalità d’autore: quella legata al progetto museale in senso stretto (da Rudy Ricciotti a Mentone a MAD Architects a Ordos, in Mongolia), ma riferita anche alla cultura gastronomica (con Moatti-Rivière a Beirut e Kengo Kuma a Shanghai) e al retail internazionale, con Paola Navone. Le pagine del design vedono protagonista un maestro internazionale, Alessandro Mendini, che introduce un tema di grande attualità: l’autoproduzione. Le esperienze di vari designer e associazioni evidenziano alcuni degli aspetti progettuali innovativi di questo fenomeno, che oggi non si contrappone all’industria ma la completa con alternative competitive. La sezione specificamente dedicata alla produzione d’arredo esplora le ultime novità nel settore delle lampade da tavolo e propone un focus sui ‘coffee table’, interpretati (Michele De Lucchi insegna) come piccole e utili micro-architetture. Per finire, una rassegna di mobili e oggetti esprime una nuova fase di protagonismo del legno, in un inedito incontro tra progetto industriale e alta ebanisteria che ben sintetizza la ricchezza di ispirazioni del design contemporaneo. Gilda Bojardi BAR-RISTORANTE S.T.A.Y. A BEIRUT, PROGETTO DI AGENCE MOATTI-RIVIÈRE (FOTO DI NICOLAS BUISSON).

EDiToriaLe

INTERNI gennaio-febbraio 2012 INtopics / 1

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IL soLe sorGe semPre suLLa PraTerIafoto di Iwan Baan - testo di Antonella Boisi

A Ordos, Mongolia, CINA, IL NUOVO MUSEO DELL’ARTE

E DELLA CITTÀ, FIRMATO DALLO STUDIO CINESE MAD ARCHITECTS: UN involucro

ARCHITETTONICO fuoriscala E DI FORTE impatto

scenografico, MA MOLTO PIÙ correlato AL SUO contesto

DI QUANTO POSSA SEMBRARE DI PRIMO ACCHITO

progetto di MAD Architects

INteriors&architecture / 3INTERNI gennaio-febbraio 2012

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Hanno scelto l’acronimo MAD Architects per firmare i loro lavori, dalle torri residenziali di Toronto al padiglione itinerante per Vertu, dal vassoio The floating earth in acciaio inox e mogano per Alessi (un prototipo) al Conrad Hotel di Beijing (in via di realizzazione).

Ma, l’approccio visionario, scenografico, ironico e internazionale che caratterizza l’opera del giovane studio cinese è intimamente connesso ad un’idea pragmatica delle potenzialità demiurgiche dell’architettura nella trasformazione e modificazione dell’intorno. Non disattende le aspettative anche il recente Ordos Museum in Mongolia, un progetto iniziato nel 2005 per volontà della municipalità di Ordos, a testimonianza della crescita economica della città e dell’intera regione e concluso qualche mese fa. Un building che supera il valore del manufatto architettonico per focalizzare le prospettive di un quadro più ampio. Lo ‘scrigno’ alto 40 metri e ampio 41.227 mq vestito di una texture di doghe in metallo brunito, che raccoglie le tradizioni locali e la storia culturale della Mongolia, valori e ricordi di un popolo, è molto di più infatti che il bronzeo contenitore espositivo amorfo, un tutto pieno interrotto da piccole bucature verso l’esterno, dichiaratamente ispirato “alla Manhattan Dome di Buckminster Fuller”. Nell’impegnativa terra di Gengis Khan, fino a poco tempo fa perlopiù deserto, Gobi Desert, quindi tabula rasa, ma, dal 2004, oggetto di un masterplan, battezzato The Ever Rising Sun on the Grassland, rigorosamente impostato su matrici ortogonali, l’Ordos Museum si propone infatti con la forza di un autentico landmark, in grado di imprimere alla sua monolitica figura scultorea il ruolo di catalizzatore e di vettore propulsivo della nuova città di fondazione della Mongolia interna.

“È stato concepito proprio come una reazione al city plan” spiega Ma Yansong fondatore di MAD, “non è una macchina estetica e neppure il modello per una vertical city, piuttosto una presenza inaspettata e destabilizzante, dentro quel centro città con cui si relaziona per contraltare: restituisce nella sua fisicità organica, che rieccheggia una distesa di dune modellata dal vento, proprio la nostra interpretazione simbolica del sole che sorge sempre sulla prateria, configurando il nucleo di una piazza centrale che consentirà alla cultura locale di incontrare la visione della città del futuro”.

NELLE PAGINE PRECEDENTI, VISTA ESTERNA DELL’INVOLUCRO ARCHITETTONICO CON UNA ‘PELLE’ DI DOGHE DI METALLO BRUNITO CHE SI ERGE NEL CENTRO DI ORDOS CON UN’ALTEZZA DI 40 METRI E UNO SVILUPPO DI 41.227 MQ. LA LUNGA GRADINATA CONDUCE ALL’ AREA D’INGRESSO VEICOLATA DA UNA PORTA D’INGRESSO VETRATA DI DIMENSIONI MOLTO CONTENUTE.

LA COMPOSIZIONE DEGLI SPAZI INTERNI È ANIMATA DA ONDULAZIONI E BUCATURE VARIABILI DELLE PARETI CHE SEMBRANO FRUTTO DI DEFORMAZIONI NATURALI E CHE INTEGRANO PASSERELLE AEREE, RAMPE, SCALE E BLOCCO-ASCENSORI IN UN CONTINUUM DI FORTE IMPATTO VISIVO.

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MUSEO ORDOS / MONGOLIA / 5INTERNI gennaio-febbraio 2012

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Certo, si tratta di un segno decontestualizzato rispetto al luogo in cui sembra calato per caso, come è stato già osservato, e portatore di una dimensione fuori scala in rapporto alla figura umana, ma proprio per questo ancora più denso di valori. Perché raccoglie la sfida della ricerca di una nuova naturalità contemporanea, risvegliando nei fruitori il piacere di “restare in contatto con il sole e il vento, con nuove luci e nuovi colori”. La esprime bene la composizione degli interni, che si propongono come un prolungamento dello spazio esterno originario, sotto la protettiva copertura-cupola alla Buckminster Fuller. Un ampio taglio vetrato effonde luce zenitale negli ambienti, mentre una serie di louvers in metallo lucido fungono da schermatura e altresì consentono la ventilazione naturale delle sale espositive, coadiuvando una politica di risparmio energetico supportata dall’installazione di pannelli solari sul building. La zona d’ingresso-lobby è il ‘biglietto da visita’ della complessa regia d’insieme: una sinuosa promenade che connette gli ambienti espositivi, l’auditorium-spazio eventi e gli uffici all’interno di una costruzione fluida definita da pareti curvilinee continue, che ruotano di vari gradi sui differenti livelli con ondulazioni avvolgenti, talvolta interrotte da bucature che sembrano frutto di deformazioni naturali. Non ci sono spigoli ortogonali canonici ad accentuare le altezze, ma si percepisce forte il ritmo serrato di rampe e passerelle aeree che contengono anche le scale e che consentono ai visitatori sguardi e prospettive percettive mutevoli, trovando il loro coronamento nei nuovi belvedere panoramici sulla città di Ordos.

UNA SALA SOTTO LA COPERTURA-CUPOLA CON L’ AMPIA ASOLA VETRATA CHE EFFONDE LUCE ZENITALE NELL’AMBIENTE, RESTITUENDO UN COSTANTE RAPPORTO CON LA NATURA ALL’ESTERNO.

DETTAGLIO DELL’ AREA D’INGRESSO CONCEPITA COME UN ANTRO AVVOLGENTE E ACCOGLIENTE.

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UNA VISTA SERALE DALL’ALTO DEL MUSÈE JEAN COCTEAU DI MENTONE, UN GRANDE SCOGLIO ARCHITETTONICODI CEMENTO BIANCO CHE SEGNA LA CITTÀ VERSO IL MARE.

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Musée Jean CocTeau

A Mentone, PRIMO AVAMPOSTO DELLA Costa Azzurra ARRIVANDO DALL’ITALIA, È STATO INAUGURATO

LO SCORSO NOVEMBRE IL Museo Jean Cocteau FORMATOSI GRAZIE ALL’ECCEZIONALE donazione DI SÉVERIN WUNDERMAN DELLE OPERE DEL POETA E ARTISTA FRANCESE. RUDY RICCIOTTI HA CREATO

UN edificio enigmatico E affascinante, ANTICELEBRATIVO E SORTA DI complesso incrocio

TRA architettura E mondo naturale, IN GRADO DI PORTARE LA CITTÀ VERSO IL MARE

progetto di Agence Rudy Ricciotti capo progetto Marco Airoldi

foto di Olivier Amsellem testo di Matteo Vercelloni

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Ègià stato definito come una conchiglia abbandonata dal mare e trasformata in grotta architettonica per la cultura; per altri appare come un frammento di scogliera lasciato sulla spiaggia e scolpito dalla brezza del vento; alcuni vi leggono un carapace radicato sul bordo della città o un ragno di mare indeciso tra la sabbia e l’acqua. Il critico d’arte Paul Ardenne va oltre e vi identifica un tempio misterioso e senza tempo dedicato a divinità sconosciute di una civilizzazione ancora da scoprire, ma che forse Cocteau, a cui questo museo è dedicato, portava all’interno del suo cuore e della sua poesia.

Certo l’ultimo lavoro di Rudy Ricciotti, risultato vincitore di un concorso di progettazione internazionale bandito dalla città di Mentone nel 2007, è opera che senza dubbio stupisce, ma non per autoreferenzialità iconica. Più che ‘esibizione muscolare’ in chiave di composizione architettonica, il Musée Jean Cocteau ci affascina per forza poetica. Un edificio dedicato ad un grande poeta e artista francese che in fondo traduce nella sua immagine e nella sua calibrata soluzione microurbanistica, il carattere, la tensione, la qualità dell’opera che contiene.

PARTICOLARI DEI TAGLI DELLA SUPERFICIE ARCHITETTONICA CHE DISEGNANO UNA SERIE DI PILASTRI SINUOSI E TUTTI DIVERSI TRA LORO CHE, COME DITA DI UNA GRANDE MANO, AFFONDANO NELLA SABBIA, PROLUNGANDO LE FENDITURE SUL PERIMETRO DELLA COPERTURA COMPLESSIVA.

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MUSEO JEAN COCTEAU/ MENTONE / 11INTERNI gennaio-febbraio 2012

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UNA GRANDE VETRATA SI APRE DALL’INTERNO VERSO LA PROMENADE DU SOLEIL, SCHERMATA DAL RITMO DEI VOLUMI VERTICALI CHE DISEGNANO UNO STRETTO E POSSENTE PORTICATO.

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L’edificio, di forma trapezoidale, non supera i cinque metri di altezza ponendosi rispetto all’immagine della città storica sul mare, alla preesistenza del Mercato del XIX secolo, come una sorta di nuovo possente ‘basamento’ di cemento bianco scolpito da sinuosi tagli verticali che si prolungano sulla copertura come dita, tutte diverse tra loro, di una grande mano che affonda nella sabbia. Tagli che incorniciano brani di paesaggio osservabili dagli spazi interni, scorci plastici in grado di creare un nuovo rapporto visivo con la città e il mare di cui il Museo si offre come dialettica cerniera di raccordo. Nuovo

mare è dedicato ai disegni di Cocteau e alle proiezioni dei film cui l’artista aveva collaborato. Al suo fianco e separato da un blocco servizi, si trova l’ambiente riservato alle esposizioni temporanee, che fronteggia l’ingresso e la cafeteria rivolti verso il giardino. Nell’interrato sono ubicati l’atelier pedagogico, il cabinet d’arte grafica, uno spazio per la raccolta di documenti legati alla vita di Cocteau, uffici e depositi.

Negli interni si conserva l’idea di unitarietà che l’edificio denuncia nella sua figura urbana. Le esposizioni sono organizzate con setti che non raggiungono la copertura, in modo da valorizzare i tagli dei bordi perimetrali che incorniciano l’azzurro del cielo.

Jean Cocteau non si fidava dei musei, spaventato di vedere la sua opera e il suo pensiero, costretti in modo claustrofobico, in sale e gallerie aperte al pubblico. Come ci ricorda Celia Bernasconi conservatrice del Museo, Cocteau scriveva: “spesso succede che invece di sospendere le tele, le si appenda, le si appenda in alto con una corta corda e che esse muoiano”. Rudy Ricciotti ha liberato dalle corde l’opera dell’artista, creando uno spazio in grado di proiettarla verso il mare, la città, il cielo. Un’architettura che rifiuta la dittatura di una modernità tirannica e considera il valore della narrazione, l’atteggiamento onirico, e il disegno, come una possibile fuga architettonica in grado di configurare risposte progettuali che superino il tempo e gli ‘stili’ del momento.

A FIANCO PLANIMETRIA COMPLESSIVA: L’INSERIMENTODEL MUSEO TRA IL MARE E LA CITTÀ.SOTTO DUE IMMAGINI DEGLI SPAZI MUSEALI INTERNI.

spazio pubblico in grado di riattivare la Promenade du Soleil, organizzando alle sue spalle un giardino con padiglioni leggeri, sentieri e aiuole verdi, un parcheggio en plein air. Il monolite scolpito si inserisce nel tessuto urbano come un contrappunto gentile e deciso che, senza rinunciare al suo carattere fortemente contemporaneo, definisce un giusto rapporto di scala sul bordo del mare; dove uno stretto, quanto possente porticato funge da filtro alla vetrata a tutt’altezza aperta verso gli spazi interni declinati in un articolato programma museale. Lo spazio espositivo di dimensioni maggiori affacciato sul

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A Beirut due NUOVI spazi D’ECCEZIONE DEDICATI ALLA cultura del cibo PENSATI DA Moatti-Rivière con LO chef FRANCESE PLURISTELLATO Yannick Alléno. “S.T.A.Y.” (SIMPLE TABLE ALLÉNO YANNICK) GIOCANDO SUL SIGNIFICATO DELLA PAROLA ESPRIME LA filosofia DI ricerca culinaria DELLO CHEF FRANCESE declinata IN UNA sala da tè E IN UN bar ristorante NEL NUOVO Souk DI Rafael Moneo. UN progetto d’interni CONTEMPORANEO DI grande eleganza CALATO ALL’INTERNO DELLA ricostruzione DI UNA città SFREGIATA DALLA guerra, IL CUI centro urbano SI PROPONE COME UN laboratorio di architettura A SCALA INTERNAZIONALEprogetto di Agence Moatti-Rivière

foto di Nicolas Buissontesto di Matteo Vercelloni

S.T.A.Y.

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UNA VISTA SERALE DEL GIARDINO SEGRETO DELLO SWEET TEA.

PAGINA ACCANTO, UNO SCORCIO DEL CENTRO DI BEIRUT RICOSTRUITO.

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Iniziata diciassette anni fa, la ricostruzione del centro di Beirut sta man mano prendendo forma e significato anche se alcuni ‘fantasmi edilizi’ segnati dai proiettili e dalle bombe di un non lontano passato, ci ricordano il dramma di una guerra che proprio in questa parte della città segnava l’epicentro del conflitto, delle battaglie per le strade, della devastazione delle bombe. Il progetto di ricostruzione del centro della città, gestito dalla società privata SOLIDERE, nonostante le polemiche insorte sulle modalità di controllo, costituisce un modello di riferimento per l’area del Mediterraneo, in cui al recupero dei palazzi storici, delle tracce antiche (là dove possibile per lo stato degli edifici e le loro potenzialità di ‘rinascita’), si è miscelata la cultura architettonica contemporanea chiamando progettisti internazionali a disegnare ‘pezzi’ di città, non tanto icone autorefenziali isolate, ‘spot’ di richiamo come molte volte accade, ma opere parte di una regia complessiva integrate tra passato e presente per ricostruire una città che vuole porsi come centro nodale di riferimento dell’area mediorientale. Jean Nouvel, Zaha Hadid, Norman Foster, la nuova passeggiata a mare con Yacht Club pressoché terminati di Steven Holl, sono solo alcuni dei progetti parte dello schema direttore di ricostruzione e rilancio del centro urbano della città. Qui sorge anche la vasta zona commerciale pedonale dei Souks, che affianca all’articolata immagine contemporanea pensata da Rafael

SOPRA: UN RITRATTO DI ALAIN MOATTI E DELLO CHEF YANNICK ALLÉNO. NEI DISEGNI: SEZIONE E PIANTA DELLO SPAZIO SWEET TEA.

VISTA DEL GIARDINO SEGRETO DELLO SWEET TEA DALLA TERRAZZA DEL RISTORANTE (FOTO M.V.).

PAGINA A FIANCO, UN’IMMAGINE DELLA PASTICCERIA AL PIANO TERRENO, DOVE SI TROVA L’INGRESSO.

Moneo una serie di limitrofi riusciti restauri di palazzi storici che testimoniano il programma di integrazione tra architettura moderna, tradizionale e contestuale, all’interno di una miscela di attività che evita il concetto di zoning, proprio all’urbanistica modernista, per favorire piuttosto quella varietà di funzioni che da sempre la città storica ha posseduto. La pratica dei concorsi ad inviti è stata perseguita in questa operazione di attenta pianificazione per ottenere livelli progettuali sempre più alti e portare il ‘modello Beirut’ di SOLIDERE anche fuori dai confini del Libano, per essere proposta in altre realtà dei Paesi limitrofi mediorientali.

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VISTA DELLA SALA RISTORANTE CON ‘LA NAVE’ COLOR PORPORA SOSPESA. TUTTI GLI ARREDI SONO SU DISEGNO

E CONCORRONO ALLA DEFINIZIONE DELL’IDEA DI UNO SPAZIO UNITARIO E MONOCROMATICO.

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Anche i due progetti d’interni che pubblichiamo ricadono per qualità e regia d’insieme nelle norme che SOLIDERE ha bandito per creare due luoghi d’eccezione dedicati alla cultura del cibo e alle modalità della sua degustazione, chiamando a collaborare da subito nell’idea un architetto e un grande chef quale coppia artefice dell’idea dello spazio e del programma gastronomico/culinario da offrire alla giuria. Alain Moatti con lo chef Yannick Alléno hanno convinto e affascinato con la loro proposta il gruppo SOLIDERE collocando in due edifici che si fronteggiano all’ingresso del Souk lo Sweet tea, prima sala da tè di Alléno e lo S.T.A.Y. il grande ristorante/bar al primo livello, completamente trasformato, di un palazzo per uffici. La sala da tè si sviluppa su due piani offrendosi come una ‘bomboniera in scala architettonica’, ben rapportata al carattere di pasticceria contemporanea e arricchita da una palette cromatica di grande freschezza declinata in vetrate colorate traslucide, in sedie su disegno che ne riprendono le tonalità, e in un sorprendente ‘giardino segreto’ organizzato al primo livello. Questo è stato ottenuto scoperchiando uno spazio chiuso e inventando così una stanza verde senza soffitto, con i muri trasformati in quinte fisse vestite di verde. Il ‘giardino verticale’ ritaglia il cielo offrendo un quadro sospeso di stelle scintillanti, che nelle ore del giorno, quando il sole è troppo forte, si ripetono sulla tenda scorrevole insieme alla luna e al sole. La cornice architettonica è in perfetta sintonia con i prodotti di pasticceria pensati da Alléno che nella zona d’ingresso diventano parte dell’architettura che li contiene e che nella stanza–giardino reinventano il tema del déjeuner sur l’herbe.

Lo S.T.A.Y. si sviluppa in uno spazio più ampio reso a doppio livello liberando un’intera soletta di calpestio per contenere una figura sospesa in una sorta di incastro compositivo che gioca sull’idea di un’architettura nell’architettura. Nell’involucro ottenuto, reso monocromatico e avvolgente con arredi su disegno e la scelta di un colore grigio argento che appare neutro e prezioso allo stesso tempo, è stato inserito una sorta di lungo vascello sospeso sulle tre travi orizzontali rimaste a scandire il ritmo dell’ambiente unitario affacciato su una terrazza conclusiva e su una lunga balconata laterale. La nave color porpora è un omaggio all’antica storia del Libano, ai Fenici esperti navigatori, commercianti e inventori appunto di questa sensuale tonalità.

IL GRANDE TAVOLO COLLETTIVO DI MARMO NELLA SALA DEL RISTORANTE, AL LIVELLO DEL PRIMO PIANO,

ORGANIZZATA CON DIVERSE SOLUZIONI DI ACCOGLIENZA.

SOTTO, PIANTA E SEZIONE LONGITUDINALE DEL RISTORANTE S.T.A.Y. TRASFORMATO IN UNO SPAZIO

A DOPPIO LIVELLO IN CUI SI INSERISCE IL VASCELLO SOSPESO CHE CONTIENE IL BAR.

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Lo scafo esterno di questa nave immaginaria, simbolo e icona del ristorante, è stato realizzato con un materiale plastico impiegato per le costruzioni navali che offre una superficie liscia e riflettente, in grado di creare diverse sfumature dal giorno alla notte. Nella sala sono organizzate diverse soluzioni di accoglienza tra cui un lungo tavolo (Table de Partage) pensato come luogo d’incontro e di convivialità collettiva che si affianca ai sei grandi tavoli rotondi segnati da divani a circonferenza all’intorno che formano delle isole compiute e da una zona più tradizionale con tavoli scomponibili e affiancabili secondo le esigenze. A fianco dell’ingresso al primo piano, che avviene tramite due ascensori che salgono

dal foyer a livello stradale, si sviluppa la scala blu che porta all’interno della nave sospesa in cui è organizzato il bar dello stesso colore proiettato verso il fondo, enfatizzando la figura dello scafo e la prospettiva dell’ambiente complessivo.

Per Alain Moatti “la bocca deve gustare, ma deve anche saper baciare”; da questo punto di vista il progetto di un ristorante non si lega al solo fatto del piacere del cibo, ma anche al valore simbolico che lo spazio che ci accoglie è in grado di trasmetterci. Un appagamento del ‘gusto’ che lo Sweet Tea e il ristorante S.T.A.Y. sembrano estendere ai cinque sensi, sottolineando come la bellezza torni a essere un riferimento della nostra vita.

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A SINISTRA, L’INTERNO, BLU COME IL MARE, DEL BAR UBICATO NEL VASCELLO SOSPESO.

SOTTO, LA SCALA INTERNA CHE CONDUCE AL BAR. LA PLANIMETRIA DEL RISTORANTE S.T.A.Y. AL LIVELLO DEL BAR SOSPESO.

S.T.A.Y. / BEIRUT / 21INTERNI gennaio-febbraio 2012

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TaJIma KITcHen House

A Shanghai, LO SHOWROOM Tajima kitchen house, RISPECCHIA FEDELMENTE I paradigmi DELLA ricerca progettuale DI KENGO KUMA, NELLE SUE parole-chiave: L’ARCHITETTURA È FATTA DI vuoto, luce E DI UN tetto sopra la testa progetto di Kengo Kuma & Associates

foto di Nacasa & Partnerstesto di Antonella Boisi

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DALL’INGRESSO, VISTA D’INSIEME DELLO SPAZIO. SULLA DESTRA, L’AIUOLA DI BAMBÙ, A SINISTRA LA VASCA D’ACQUA E AL CENTRO IL TETTO DI LEGNO SOVRASTANTE,

LE TRE FIGURE DI RIFERIMENTO COMPOSITIVO DELLA KITCHEN HOUSE TAJIMA. SOLUZIONI

ILLUMINOTECNICHE DI IZUMI OKAYASU LIGHTING DESIGN.

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L’ ESILE FIGURA DELLA SCALA LINEARE CHE SI SNODA ALL’INTERNO DELLO SHOWROOM COLLEGANDONE I TRE

LIVELLI DI SVILUPPO SEMBRA SMATERIALIZZARSI NELLA DIMENSIONE RAREFATTA E DILATATA

CHE CARATTERIZZA LO SPAZIO VUOTO E CONTINUO.

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ALTRI SCORCI DEL ‘TETTO’ LIGNEO, L’ELEMENTO FIGURATIVO-SIMBOLICO PORTANTE DELLA COMPOSIZIONE, CHE SPORGE A SBALZO DALLA SOLETTA

DEL PRIMO LIVELLO (QUASI OTTO METRI), ALLA QUALE È AGGANCIATO, INCLINANDOSI SUL BACINO D’ACQUA QUADRATO SOTTOSTANTE.

Kengo Kuma è un architetto giapponese noto internazionalmente e uno dei tratti salienti del suo lavoro è la capacità di muoversi con elasticità tra le diverse scale di progetto, sperimentando soluzioni tipologiche-espressive anticonvenzionali nelle sue realizzazioni. Sia che si tratti di case o di musei, di padiglioni temporanei o di spazi retail. Il punto di partenza della sua ricerca resta sempre il rapporto tra l’architettura e la natura, perché compito della prima è proteggere la fisicità dell’uomo dalle incognite non friendly della seconda. Con grande rispetto e con una vera passione per i materiali (soprattutto il bambù) nelle loro percezioni visive,

tattili, uditive e olfattive. È stato così anche per questo progetto: l’interior design di uno spazio di circa 1000 mq, su tre livelli, destinato a uffici e a esposizione dei modelli di cucina del marchio giapponese Tajima. Una planimetria dalla geometria regolare, un’elementare scatola di cemento dall’altezza vertiginosa che ha stimolato il progettista a sviluppare l’idea di una ‘favola’, con la messa in scena di una casa concepita come un’avvolgente guscio di legno profumato completato da un piccolo giardino di relax zen.

La casa resta un’ossessione di Kuma e la parola casa in giapponese significa ombrello. O, per rimando, tetto, quel tetto che protegge da un esterno talvolta inospitale e che, in virtù di questo preciso ruolo, va vestito di un’espressione gentile e invitante. “La casa non è mai una scatola, ma un tetto” ha spiegato. Così, dall’ingresso, il suo racconto narrativo si è dispiegato attraverso una serie di segni che sollecitano la dimensione sensoriale dei visitatori proprio intorno al tetto: l’elemento di riferimento figurativo-simbolico portante della composizione, restituito da una superficie di legno levigato, una calibrata

sommatoria di esili doghe a persiana, che si inclina, agganciato alla soletta del primo livello, fluttuando liberamente nello spazio, sopra un bacino d’acqua artificiale, affiancato da un sentiero-ponte. “Nelle case tradizionali giapponesi e cinesi, l’acqua con i suoi effetti riflettenti gioca il ruolo primario di filtro di decontaminazione rispetto all’esterno” continua Kuma “e nello specifico rappresenta un invito a entrare in un altro mondo, lasciandosi alle spalle le congestionate strade di Shanghai per lasciarsi cullare da una dimensione di decelerazione, vuoto e luce”. Dunque accanto al bacino d’acqua, soltanto un’aiuola perimetrale con alti bambù si propone di catturare l’attenzione. Null’altro. “Perché se un giardino non ha né muri né finestre”, la spazialità nuda e silenziosa dello showroom, la scala lineare e grafica di collegamento tra i vari livelli, i pannelli bianchi di tamponamento perimetrale a tutta altezza, accesi da tagli di luce radente, gli specchi sistemati ad hoc sui pilastri preesistenti, diventano il setting ideale per sottolineare gli accenti di colore monocromatico delle cucine esposte. “La luce è rassenerante, il pranzo sarebbe pronto”.

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“Il nostro lavoro coniuga l’architettura con la complessità e la bellezza delle forme naturali. Utilizzando un linguaggio formale derivato dal movimento dell’acqua, la Roca London Gallery mette in primo piano il concetto di fluidità e propone una sequenza di spazi dinamici contraddistinti dalla fascinazione generata dall’interazione tra artefatto e natura”. Con queste parole Zaha Hadid illustra il progetto sviluppato dal suo studio per il nuovo flagship Roca, sorto nei pressi del Chelsea Harbour, nel cuore di Londra: uno spazio altamente spettacolare e in grado di aiutare i visitatori a comprendere il rapporto tra le soluzioni architettoniche adottate e il design delle collezioni per il bagno firmate da Roca.

PORTA LA FIRMA DI Zaha Hadid IL NUOVO SPAZIO Roca SORTO NEL CUORE DELLA CAPITALE inglese: UN’ARCHITETTURA fluida, ISPIRATA AL MOVIMENTO DELL’acqua

Roca LonDon GaLLerYprogetto di Zaha Hadid Architectstesto di Andrea Pirruccio

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GLI SCENOGRAFICI INTERNI DEL NUOVO SPAZIO LONDINESE DI ROCA, PROGETTATO DALLO STUDIO ZAHA

HADID ARCHITECTS.

NELLA PAGINA ACCANTO, I PORTALI DI DERIVAZIONE ORGANICA ALL’ESTERNO DELLA GALLERY.

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Sviluppata su un unico livello di oltre mille metri quadrati, la Roca Design Gallery è stata concepita come un’opera in cui ogni singolo dettaglio sembra essere stato scolpito dall’acqua, proprio a partire dai tre portali di ispirazione organica che definiscono la facciata esterna e mettono in comunicazione la Gallery con la città. Realizzato in GRC (Glass Reinforced Concrete, mentre gli arredi sono in GRP, Glass Reinforced Plastic, e i pavimenti in resina e piastrelle) lo spazio, all’interno, si presenta come un ambiente futuribile di un bianco quasi abbagliante, mentre un sistema di illuminazione all’avanguardia connette le diverse aree e, allo stesso tempo, funge da asse centrale attorno a cui ruota l’intera struttura. Funzionale, flessibile e scenografica, la galleria può contare anche su strumenti audio-visivi interattivi all’avanguardia, che offrono ai visitatori la possibilità di scoprire la storia di Roca, i suoi obiettivi futuri e tutti i valori attorno a cui ruota l’identità del marchio: l’impegno su temi quali la sostenibilità, l’innovazione, il design, il benessere e la salvaguardia delle risorse idriche. Pensata per essere una struttura che non si limiti alla mera funzione espositiva, la Roca Design Gallery ospiterà in futuro uno sfaccettato ventaglio di attività come mostre, meeting, presentazioni, seminari e dibattiti che prendano in esame quei principi che, da sempre, appartengono allo spirito dell’azienda.

FUTURISTICO E CONNOTATO DALLA SCELTA DI UN BIANCO ABBACINANTE, LO SHOWROOM È REALIZZATO IN GRC (GLASS REINFORCED CONCRETE).

NELLA PAGINA ACCANTO, UN ALTRO SCORCIO DELLO SPAZIO ROCA, IN CUI RISULTA EVIDENTE

L’ISPIRAZIONE ‘FLUIDA’, DERIVATA DAL MOVIMENTO DELL’ACQUA, CHE INNERVA L’INTERO PROGETTO.

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LONDRA / 29

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foto di Enrico Contitesto di Antonella Boisi

DoDo ParaDIse

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Ci sono progetti che più di altri consentono agli autori di esprimersi con libertà, senza troppi compromessi e vincoli, restituendo nei risultati il grado di divertissment e di piacere che ha accompagnato il briefing da cui sono nati. Questo vale anche per Paola Navone, architetto e designer di statura internazionale, da sempre in viaggio infinito nei territori della creatività e degli stili di vita fuori da schemi precostituiti. Nella fattispecie, la sfida era impegnativa. Il pennuto Dodo, originario dell’isola di Mauritius, non ama stare solo e cerca sempre nuovi amici: la gallinella, il coniglio, il serpente, il panda, l’agnello, la tartaruga marina, la farfalla, il delfino, il falco, la rondine, la balena, il pinguino…un’allegra compagnia. Soprattutto ha ben chiaro lo spirito della sua casa, ‘come scrive all’adorata Doda’:

LE ‘case’ di DoDo, BUFFO PENNUTO ESOTICO, A Milano E A Londra INTERPRETATE

DA Paola Navone CON UN APPROCCIO fumettistico, giovane E ironico CHE focalizza

LE potenzialità E IL racconto narrativo DEL brand DEL gruppo Pomellato

progetti di Paola Navone

Milano

VISTE DELLO SPAZIO MILANESE. LE PARETI FINITE CON UNO SPECIALE TRATTAMENTO COME FOSSERO DI SABBIA BAGNATA COSTITUISCONO IL FONDALE DELL’INVOLUCRO, ACCESO DAL LAMPADARIO-SCULTURA DELL’ OLANDESE FREDERIK MOLENSCHOT E DAL MURO TAPPEZZATO DI FIORI ROSSI E FUCSIA CHE CATALIZZANO L’ATTENZIONE DEI PASSANTI OLTRE LA VETRINA CON L’INGRESSO SU CORSO MATTEOTTI. SI NOTA ANCHE L’ORIGINALE PARETE RICOPERTA DA FILI D’ERBA IN SILICONE TRASLUCIDO.

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“Finalmente siamo in due, le mie coccole e le tue, vivere insieme ora è il progetto. Bagno, cucina, due sedie, un letto. Ci arrangeremo in qualche modo. Porta fortuna la casa di Dodo”. Resta un ‘piccolo’ dettaglio: Dodo non è riuscito a sfuggire all’estinzione per mano dell’uomo. “Estinto, ma fortunato, ha trovato casa ovunque” racconta Paola Navone che, intenerita dalla storia del povero pennuto esotico, committente piuttosto esigente ma simpatico, deve avergli sussurrato: “Esprimi un desiderio... e sarai esaudito”. Ed è così che la sua fata turchina, torinese di nascita ma milanese d’adozione “da buona sognatrice eclettica con un’inesauribile curiosità per ogni cosa” come ama definirsi, ha pensato per lui tante case sparse nel mondo, piccole e grandi. Le ultime in ordine di tempo sono quelle di Milano in Corso Matteotti e di Londra in Sloane Square, due monostore inaugurati quasi in contemporanea lo scorso anno. “La mia avventura professionale-regressione infantile con il brand del gruppo Pomellato e concepito come una linea di gioielli giovani e ironici che nel 2010 ha celebrato i suoi 15 anni al fianco di WWF Italia nella

difesa della natura è iniziata nel 2008, con il negozio di Firenze” ricorda. Ma come si fa a progettare la casa di un Dodo che incontra una Doda ed è subito 100% Amore (suggellato da una collezione di anelli con un cuore rosso di rubino ecologico, una pietra di sintesi)? “L’ho fatto anche questa volta, restituendo, con una serie di elementi ricorrenti – la natura, il colore, l’acqua – il collegamento con il suo habitat elettivo e il quadro di riferimento compositivo corale” spiega. Se queste tre parole-chiave restano per Dodo i segni di una ‘rinascita’ che esce dall’antinomia tra locale e globale per ritrovare la dimensione di un’unicità universale (Unique & Universal, nella visione del sociologo Francesco Morace sui paradigmi per il mercato dei prossimi venti anni), per Paola Navone sono state ancora una volta la conferma del valore di un’interpretazione: i luoghi di vendita hanno bisogno di una stretta relazione con il brand che rappresentano in termini comunicativi per dare ai prodotti una maggiore opportunità di affermazione. Anche quando si tratta di animaletti, in forma di ciondoli da regalare e da collezionare.

IL MONOSTORE MILANESE SI SVILUPPA SU TRE LIVELLI. AL PIANO INFERIORE LA ROMANTICA PARETE A POIS CON IL “GRANDE CUORE ROSSO DI NEON” CHE È IL LOGO DELLA COLLEZIONE 100% AMORE. POUF DI GERVASONI, TAVOLO A FORMA DI BACELLO SU DISEGNO, IN LEGNO DI RECUPERO, LAMPADE DA TAVOLO DI FONTANAARTE.

PAGINA A FIANCO, VISTA DI UNO SPAZIO INTERNO DEL NEGOZIO LONDINESE. RITORNANO GLI ELEMENTI DI RIFERIMENTO ELETTIVI DELL’HABITAT DI DODO (NATURA, COLORE E ACQUA) CHE DEFINISCONO LO SCENARIO NARRATIVO, MA I POUF

SONO DIVENTATI IN PELLE ECOLOGICA CAPITONNÉ E IL PRATO VERDE IN FILAMENTI DI SILICONE TRASLUCIDO MUTEVOLE GRAZIE AI GIOCHI DELLA LUCE È STATO REALIZZATO SUL SOFFITTO.

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Londra

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“Sono quasi degli sms ante-litteram: ogni disegno di questo gioiellino nano ha infatti una storia, un significato, un messaggio da inviare: mi piaci, mi sei antipatico, non ti perdere, ecc.”. Ecco allora a Milano, in un importante spazio sviluppato su tre livelli, gli espliciti riferimenti alla natura: enormi fili d’erba appesi al soffitto “un prato verde alla rovescia fatto di filamenti in silicone traslucido, un materiale ignifugo reso mutevole da giochi di luce e di ombra”; e poi fiori rossi e fucsia a parete, muri finiti come sabbia bagnata modellata dal vento. Il colore è rappresentato dal grande ‘cuore rosso’ di neon – il logo per l’appunto della linea 100% Amore – sulla romantica parete a pois del piano inferiore e dai pouf rossi, che, in un sapiente mix-and-match, si affiancano ad altre punteggiature cromatiche-materiche-figurative: dalla scultura-lampadario di un giovane olandese al grande tavolo con forma a bacello in legno di recupero. A Londra il registro percettivo della mise en scene non cambia: il paesaggio da fiaba si snoda ancora su tre livelli (con un piano interrato concepito come spazio-eventi), ma forse qui in un esercizio progettuale di accostamenti più estremi, i materiali

organici e alternativi adottati sperimentano con maggiore intensità le gamme di riferimento percettive: il pavimento del piano d’ingresso è diventato una superficie di ceramica monocottura simile a una fusione di alluminio intercalata a sentieri in ciottoli di fiume. La cromia appare più forte: il prediletto blu, un rimando diretto al mare, all’acqua e al cielo, si declina con prezioso mosaico veneziano blu klein sulle pareti a contrasto che incastonano le vetrine. Il rosso, l’altro colore primario guida insieme al verde, si accentua infuocato sulle teche espositive in metallo, e poi sulle panche e sui pouf in pelle ecologica. Al centro dell’ambiente principale, un massicio bancone di legno grezzo attorniato da sgabelli in metallo nero, catalizza un’attenzione che al piano superiore è veicolata dal soffitto a mosaico di specchietti. Ma, l’effetto sorpresa maggiore resta ben impresso sulla facciata del building, dove una grande struttura protetta da cristalli e rivestita di brillanti fili d’erba realizzati sempre in silicone verde sembra perennemente irrorata da una sorgente d’acqua che dall’alto cade a terra per poi nascondersi nelle fessure del pavimento.

IL BUILDING DI SLOANE SQUARE CON LA SCENOGRAFICA VETRINA ‘VERDE’ CHE SOVRASTA L’INGRESSO. LO STORE È SVILUPPATO SU TRE LIVELLI COLLEGATI DA UN’ESSENZIALE SCALA DI METALLO. ALL’ ULTIMO LIVELLO, COLORI PRIMARI

ACCESI DA SOTTOLINEATURE CHE SPERIMENTANO MATERIALI ORGANICI O ALTERNATIVI, COME IL MOSAICO DI SPECCHI SUL SOFFITTO, DECLINANO LA FORZA ESPRESSIVA DELLA SCENA. I GIOIELLI SONO ESPOSTI IN TECHE VETRATE RITAGLIATE

NELLA PARETE O FREESTANDING CON STRUTTURA IN METALLO ROSSO FUOCO. L’AREA DI SOSTA SI SNODA INVECE INTORNO AL MASSICCIO TAVOLO SU DISEGNO IN LEGNO DI RECUPERO CORREDATO DA ALTI SGABELLI NERI ALL’INTERNO

DELLO SPAZIO FLUIDO E ININTERROTTO.

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DODO PARADISE / 35INTERNI gennaio-febbraio 2012

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IL RIVESTIMENTO È IN ASSI DI LEGNO TIROLESE DI RECUPERO; L’ACCESSO PEDONALE CONDUCE ALL’INTERNO DI UNA CORTE PRIVATA, AFFACCIATA SUL PENDIO, CHE DIVIDE LA VILLA IN DUE PARTI DISTINTE E COMUNICANTI.

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SPLenDID KITzBÜHeL

foto di Ralf Buschertesto di Alessandro Rocca

UNA villa, IN CUI FIGURE, MATERIALI E PROPORZIONI INVENTANO UN nuovo dialogo

TRA L’ambiente DELL’alpe tirolese E UN concetto spaziale CONTEMPORANEO. GLI assi di legno

RIVESTONO UN’architettura duttile E ORIGINALE CHE SI ADATTA AL ripido pendio E AL clima,

IN SINTONIA CON I COLORI E LE VIBRAZIONI DEL PAESAGGIO MONTANO

progetto di Nina Schmid / Splendid Architecture

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Non è facile mescolare stili ed epoche, tradizioni e riferimenti, senza cadere nell’effetto vetrina o, ancor peggio, nel disordine più incoerente. Nina Schmid, giovane titolare dello studio amburghese Splendid Architecture, ha affrontato il problema con molto coraggio e i risultati le danno ragione. Siamo nel cuore del Tirolo, in una regione antica e orgogliosa dove le tradizioni, il rispetto dei luoghi e del paesaggio sono interpretati con religiosa attenzione. Ma siamo a Steuerberg, quartiere chic di Kitzbühel che è una stazione di gran classe sotto l’aspetto sportivo – la

pista dello Streif è un classico del campionato del mondo di sci – ma anche un centro di vita mondana elegante e cosmopolita. La villa disegnata da Nina Schmid interpreta con soluzioni originali le sollecitazioni del contesto e riesce a realizzare gli ampi spazi richiesti dal programma. La dimensione non piccola, circa 530 mq di superficie utile, si modella in rapporto al terreno in pendenza e alle proporzioni ridotte degli edifici che la circondano. E il volume complessivo si articola in tre parti distinte che quindi si presentano come tre edifici, di taglia ridotta, e in questo modo si attenua di molto l’impatto paesaggistico. Quindi, il progetto lavora con attenzione con il dislivello del terreno, facendo in modo che la villa, dalla strada e da molti altri punti di vista, abbia un’altezza apparente di uno o due piani mentre i livelli reali sono tre. Per di più, il corpo di collegamento tra le due ali, un atrio spazioso e inondato di luce, è una scatola trasparente che si percepisce come un vuoto, come un riflesso luminoso piuttosto che come un volume. E le due ali, anch’esse giocano a scomparire, una sprofonda nel terreno che scende mentre l’altra

SOPRA, LE PLANIMETRIE DELL’ABITAZIONE. IL PIANO INFERIORE RACCOGLIE LE STANZE PER GLI OSPITI, AFFACCIATE VERSO LA PISCINA E VERSO VALLE, E I VOLUMI TECNICI. IL PIANO INTERMEDIO ACCOGLIE TUTTE LE FUNZIONI PRINCIPALI, LA CAMERA DA LETTO PADRONALE, LA SALA DA PRANZO E PICCOLE SALE DI SOGGIORNO; AL LIVELLO SUPERIORE SI TROVANO IL GRANDE LIVING, LA BIBLIOTECA E LA TERRAZZA PANORAMICA.

LA VEDUTA, DALL’ACCESSO PEDONALE, CON L’INGRESSO ALLO STUDIO, A SINISTRA, E L’ATRIO VETRATO CHE COLLEGA I DUE CORPI PRINCIPALI; E IL CONTROCAMPO, CON LA VETRATA DELL’ATRIO CHE INQUADRA LA SCALA DI ACCESSO.

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guadagna un piano in più, seguendo in modo naturale il declivio che sale. E poi, la scelta che perfeziona questo delicato inserimento ambientale è il rivestimento. Perché, nonostante la struttura sia in cemento armato e gli infissi scorrevoli in alluminio, la villa è completamente rifasciata, a eccezione dell’atrio, da vecchie assi tirolesi, un materiale di recupero che conserva le tracce del tempo e degli usi passati e che assomiglia in tutto e per tutto, nel colore e nella grana, ai fienili e alle baite di Steuerberg. E il rivestimento non è usato in senso mimetico ma con un piccolo tradimento molto interessante perché, con un tocco in puro stile decostruttivista, le assi sbordano dalle cornici delle finestre, con uno strano effetto di rustico estremo o di non finito. Negli interni, troviamo la stessa oscillazione tra informalità locale e preziosità internazionale. Si delinea un gusto trasversale, un’atmosfera che non disdegna i materiali grezzi, mescolando gli assi di legno naturale, usati anche nelle pareti divisorie, al cemento a faccia vista di memoria modernista e alle sofisticate tappezzerie londinesi di Osborne & Little.

IL SOGGIORNO PRINCIPALE COL CAMINETTO A SOSPENSIONE FOCUS E IL SOFFITTO IN CEMENTO A VISTA VERNICIATO BIANCO. I TAPPETI

SONO DI G.T.DESIGN COLLEZIONE LIMITED EDITION DI DEANNA COMELLINI, MENTRE LE SEDUTE, COME MOLTI ALTRI ARREDI

E COMPLEMENTI, SONO SU DISEGNO DI SPLENDID ARCHITECTURE.

LA SALA DA PRANZO CON LE SEDIE LOU LOU GHOST DI PHILIPPE STARCK, PRODOTTE DA KARTELL, IL TAVOLO DI ROCHE

BOBOIS E LE LAMPADE DI OCHRE; CUCINA REALIZZATA INTERAMENTE SU DISEGNO.

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Nell’arredamento Nina, che è anche designer e che ha curato il progetto in ogni dettaglio, sceglie produzioni sofisticate che tracciano un quadro molto personale perché rispecchia il suo percorso europeo con infanzia in Baviera, studi in Francia e Austria, esperienze a Graz, da Günther Domenig, in Italia e poi ad Amburgo dove nel 2008 ha fondato, con il marito Stephan, questo studio dal nome luminoso e certamente ambizioso. Quindi forse è per questo background che, nell’arredo, le produzioni italiane sono presenti, con Kartell e Agape, ma l’assortimento dei fornitori è ampio e internazionale e privilegia un’eleganza figurativa che mitiga il tono contemporaneo, che pure è indiscutibile, con i decori caldi dei tappeti e delle tappezzerie, con gli ori delle lampade di Ochre e la persistente presenza, tranquillizzante, dei nodosi assi di quercia che, a intermittenza, rivestono pareti e pavimenti in efficace contrasto con i soffitti in cemento brut. Questa propensione di Nina all’accostamento inedito e all’improvviso cambio di registro, si salda con la capacità di scorgere relazioni e sintonie tra materiali e storie apparentemente inconciliabili che qui si incontrano e condividono il linguaggio di una comune contemporaneità.

UNA DELLE CAMERE PER GLI OSPITI CON VISTA SUL GIARDINO E PISCINA; LAMPADE NOON 2, DI ZEITRAUM.

BAGNO CON TINOZZA TRADIZIONALE TEDESCA, PRODUZIONE NODERER HOLZFASS-HANDEL, LAVABI AG.STAHLFORM, DI ALAPÉ, E LAMPADE A PARETE NOON.

PAGINA A FIANCO,NEL BAGNO PRINCIPALE, LAVABI AGAPE E VASCA DI RAPSEL, LAMPADARIO DI BRAND VAN EGMOND

E TAPPEZZERIA DI OSBORNE & LITTLE.

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QueLLa FrancIa cHe veDe IL mare

di Andrea Branzi

Sfogliando i progetti di Ronan ed Erwan Bouroullec non posso non ricordare il nostro primo incontro nel 2003, sul Tgv tra Parigi e Colonia, dove andavamo, in occasione della locale Design Week, per organizzare una mostra comune alla Bluhende luke di Martin Rendel e René Spitz. Si trattava di una strana galleria d’arte, ricavata da un lungo vicolo tra due edifici: una sorta di cunicolo urbano, uno spazio interstiziale difficile da interpretare.

Vi collocammo dentro un lungo tronco di albero dalla cui punta usciva una fiamma perenne (alimentata a gas), di fronte alla quale si apriva una sottile fessura da cui si scorgeva un giardino sterminato, realizzato con un gioco di specchi, pieno di rose.

Dentro il giardino e in giro per la galleria galleggiavano le misteriose strutture colorate dei fratelli; lungo le pareti c’erano delle mensole, su cui ‘dormivano’ anonimi personaggi.

Si trattava di una mostra difficile da capire per il pubblico, ma che, in realtà, riassumeva alcuni principi fondamentali del loro e del mio modo di capire il design, come frutto di un’energia naturale e generatore di spazi poetici: un design che non si occupava di questioni d’arredamento, ma lasciava che ciascuno dormisse e vivesse come meglio credeva.

In quella (strana) mostra cercavamo dunque di affermare alcuni statement del design all’inizio del nuovo secolo, principi teorici che, in forme diverse, ciascuno di noi ha cercato successivamente di sviluppare.

I fratelli Bouroullec, RONAN (CLASSE 1971) ED ERWAN (1976), HANNO INIZIATO A LAVORARE INSIEME NEL 1999. MALGRADO L’APPARENTE ingenuità, OGGI I FRATELLI BRETONI SONO DEGLI astri del design INTERNAZIONALE, CON ORIZZONTI AMPI E vivo senso della natura E DEL CICLO DELLE STAGIONI, ANCHE CULTURALI

IN QUESTE PAGINE, IMMAGINI DALLA MOSTRA RONAN ET ERWAN BOUROULLEC – BIVOUAC AL CENTRE

POMPIDOU DI METZ, DAL 5 OTTOBRE AL 30 LUGLIO (WWW.CENTREPOMPIDOU-METZ.FR).

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Una sorta di statuto privato, quindi, frutto di un’intuizione ancora molto acerba, ma che nel tempo s’è diffusa e consolidata, tacitamente condivisa da una vastissima generazione di progettisti che hanno deciso di superare la frontiera degli scenari generali, per scegliere la ‘strada stretta’ dei piccoli luoghi domestici, degli spazi dismessi dalla de-industrializzazione, nei ritagli dimenticati dalla modernità. Una generazione che sta lavorando ‘sotto traccia’ per entrare in quei nuclei molecolari che nel loro insieme costituiscono la vera qualità, non solo dell’habitat privato, ma della città odierna.

Un modo di fare design che i Bouroullec hanno interpretato nella maniera più spontanea; un modo poco interessato alle questioni stilistiche, alle nuove

tecnologie e alle strategie di marketing, perché solo parzialmente disposto a confrontarsi con le logiche industriali delle grandi produzioni di massa, scegliendo piuttosto la loro dimensione familiare come fosse garanzia della qualità antropologica del progetto, piattaforma consolidata dentro allo scenario caotico dei mercati globalizzati e della concorrenza internazionale.

Nell’epoca della globalizzazione, il design sembra non corrispondere più sia alle varie culture nazionali, sia a ipotetici principi internazionali, come lo abbiamo conosciuto nel XX secolo, ma, piuttosto, a singole persone, a relazioni private, a storie soggettive; quindi, un design più vero e più certo, meno razionale ma più inteligente.

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I Bouroullec hanno interrotto queste tradizioni ormai logore. I due fratelli bretoni elaborano altre qualità, eredi di una Francia diversa, contadina, pre-illuminista, che mi ricorda Molière più che Voltaire.

Una Francia meno parigina, più provinciale, meno fanatica, apparentemente più modesta, ma più realistica e gentile. Una Francia che ama i giardini più dei parchi, che guarda ai recinti agricoli più che ai velluti damascati di corte. Questa apparente ingenuità appartiene a quella grande Francia che vede il mare, ha orizzonti più ampi e un vivo senso della natura e del ciclo delle stagioni (anche culturali).

I fratelli Bouroullec sono i protagonisti migliori di questa modernità nuova che caratterizza il XXI secolo, meno isterica, meno esibizionista, attenta a lavorare sui sotto-sistemi ambientali, che ben si adattano ai processi di ri-funzionalizzazione interna della città moderna, che nasce già vecchia.

I loro sono sistemi leggeri, provvisori, si pongono in quel vuoto che esiste tra l’interior design e l’architettura, e appartengono a un universo merceologico del tutto originale, che, utilizzando tecnologie semplici, è in grado di assecondare il destino variabile delle destinazioni d’uso, dentro una città progettata per funzioni definitive e che deve adattarsi a un mondo diverso, non previsto, spesso improvvisato, costituito dal lavoro post-fordista, dall’imprenditorialità di massa e dall’economia creativa.

Un universo urbano e sociale dove il progettista deve creare micro-ambienti, costituiti da filtri trasparenti leggeri come alghe o nicchie protettive come conchiglie di mare.

Un design che finalmente opera per una città che non è più definibile con un sistema architettonico, ma, piuttosto, come un territorio caratterizzato da “un personal computer ogni 20 metri quadrati”…

IN QUESTE PAGINE: UN RITRATTO DEI FRATELLI BOUROULLEC E ALCUNE IMMAGINI TRATTE DA RONAN

ET ERWAN BOUROULLEC – BIVOUAC, MOSTRA PERSONALE (SU 1.000 MQ) AL CENTRE POMPIDOU DI METZ.

Si tratta di una ‘rifondazione’ non programmata, silenziosa, che sta revisionando i parametri di un’attività ereditata dal secolo scorso.

Fino alla fine del XX secolo, il design francese aveva due grandi matrici storiche: la prima consisteva nel persistere della tradizione neo-gotica, che confluiva nella forte influenza dell’industria e dalla cultura aerospaziale francese, che, dal Tgv al Concorde, ha caratterizzato l’idea di una modernità aerodinamica.

La seconda tradizione era costituita dal mito delle maison della haute couture francese, dove la griffe è sempre stata molto più potente dell’industria che la produce, un modo d’operare a cui molte star del design francese fa (o ha fatto) riferimento.

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SFasamenTosensorIaLe

L’urgenza esistenziale A FARE ESPERIENZA

DI SÉ COME FULCRO E confine tra dentro e fuori, TRA città

e ambiente PRIVATO, TRA natura naturale e natura artificiale

È UNA DELLE CONDIZIONI CHE INFLUENZANO LA RICERCA

ARTISTICA DI Dough Wheeler

di Germano Celant

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La densità tra automobili e abitanti a Los Angeles è quasi identica. La città ha un’auto ogni abitante e mezzo. Questo significa che, quotidianamente, ogni individuo passa diverse ore sulle freeways o sulle strade cittadine.È solo, e il continuo ritmo di spostamento lo portaa una perdita del centro spazio/temporaleLa condizione di solitudine e di dimensione irreale sono determinate, oltre che dal continuo spostamento, da un altro elemento astratto: la musica. Questa accompagna sistematicamente, attraverso le decine di radio locali, il viaggiatore. Di conseguenza, la configurazione di uno spazio che si identifichi con il proprio corpo, nei suoi limiti organici, viene gradatamente corrosa e dilatata all’involucro della macchina ed impregnata di suoni, mentre il senso di spostamento personale, non essendo attuato a piedi, ma tramite lo strumento meccanico, diventa senza confini e sembra svolgersi in un nulla. Questo nulla è la città di Los Angeles, la cui area urbana uguaglia quasi una media regione italiana.

Data l’ampiezza, la struttura urbanistica delle città è difficilmente esperibile. Tutto è organizzato secondo le linee irraggianti delle freeways, per cui il sintomo di precarietà spaziale è continuo. Esso può essere superato soltanto da una ricognizione aerea. L’aereo è una delle altre particolarità della città californiana, poiché Los Angeles comprende le più grandi industrie aereospaziali americane, nonché il

maggior numero di aerei e di aeroporti personali.A questo si aggiunga la possibilità spazio/

temporale di passare, in poco più di un’ora, tra situazioni climatiche e naturali completamente diverse, quali dal deserto all’oceano e dalla città alle montagne rocciose, per capire che tutto ciò comporta l’impossibilità individuale a configurarsi un proprio spazio, nonché la conseguente necessità a realizzarne uno, in cui fermarsi e sentirsi, come situazione corporale stabile.

Infatti, dopo essersi mosso in uno spazio e in un tempo non logico e irreale, ogni individuo sente la spinta ad esperirsi secondo caratteristiche spaziali e temporali che siano determinabili secondo il suo corpo, non più come cosa in movimento, ma come corpo sensibile e quieto. Quest’urgenza esistenziale a fare esperienza di sé come fulcro e confine da dentro a fuori, tra città e ambiente privato, tra natura naturale e natura artificiale è una delle condizioni che regolano e influenzano anche la ricerca artistica, in particolare i lavori, dal 1967 al 1970, di Asher, Irwin, Nordman, Turrell, Nauman e Wheeler. Questi artisti al fine di provare una dimensione individuale ed energetica su scala umana hanno costruito una serie di spazi percettivi, la cui finalità è il rinvenimento della propria esperienza sensoriale.

Innanzitutto, negli anni suddetti, ogni spazio è in generale costruito indipendentemente dall’architettura esistente, anche se a volta ne utilizza la memoria e il ricordo architettonico. Normalmente tende a produrre una situazione aspaziale, così da risultare fuori dimensione percettiva. L’a-dimensionalità, causata dalla mancanza di punti di riferimento, quali angoli e pareti, si accompagna spesso all’utilizzazione

SA MI DW SM 2 75, 1975. SPAZIO A VOLTA, LUCI ULTRAVIOLETTE E ALOGENE AL QUARZO CON VARIATORE DI INTENSITÀ.

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di pigmenti afìsici e di materiali anecoici, capaci di eliminare il senso del limite fisico e sonoro. All’interno di questi spazi è necessario far intercorrere un certo intervallo di tempo per percepire suono e luce. Sono infatti creati in maniera tale da polarizzare e da amplificare gli eventi naturali o artificiali, cosi da creare un campo sonoro e luminoso, la cui esperienza è fondamentalmente regolata a livello elementare e primario. Tendenzialmente ogni spazio, a secondo del grado di riduzione o espansione dei fenomeni semplici, permette la discesa in sé, tipica del rimando culturale dell’oriente sulla “filosofìa” californiana. Producendo un campo aspaziale e afìsico, lo stadio esperenziale risulta analogo ad una condizione vitale prelogica e prenatale.

Ci si sente deprivati sensorialmente, quasi ogni disturbo ottico e sonoro fosse completamente abolito. E poiché la condizione di deprivazione e svuotamento sensoriale funziona da isolante, la persona si trova di fronte alla sua stessa individualità ed al suo stesso modo di esperire, oppure riesce a filtrare i fenomeni sensoriali minimi. Riconduce le sue sensazioni ad una concentrazione su di sé e fruisce degli stimoli elementari come di nuove esperienze.

La mutazione del proprio stato esperienziale senza stimoli o con stimoli ridotti, a causa degli spazi costruiti a forma riducente o amplificante, spinge poi ogni individuo ad ascoltarsi e a sentirsi. Sente l’esperienza interiore e privata di trovarsi in uno

spazio completamente buio e asonoro. Mette alla prova il suo modo di percepire, acustico ed ottico, dinnanzi a pareti immateriali che sembrano avere perso la loro funzione di limite. Fa esperienza di sé ed entra nel proprio esperire per scoprirvi suoni, luci, fantasie e visioni. Quasi un feedback esperenziale. Sino al 1970, negli ambienti di Nauman, Wheeler, Asher, Irwin, Nordman e Turrell non è possibile sfuggire all’identità della propria esperienza.

Inizialmente tutto si riduce a percepire un fenomeno che oscilla dall’interno all’esterno e viceversa, senza fermarsi su alcun oggetto o prodotto cristallizzato e quantificato. Riducendo al massimo i rimandi alle immagini e polarizzando la consapevolezza sensoriale e analitica, sugli avvenimenti semplici, di struttura e di contesto, di suono e di luce, questi artisti vogliono far si che la periferia del corpo riduca la sua attenzione agli oggetti esterni e si porti sui processi interni, cosicché la sensibilità enterocettiva esalti le sensazioni e i loro modi di associazione. Questi spazi, al contrario di quelli europei e newyorkesi, carichi di implicazioni ottiche e visuali, basandosi sul vuoto e sull’assenza, sull’immobilità e sul non-oggetto, sollecitano uno stato di concentrazione e di meditazione interiore. In essi sembra di entrare nell’a-materia, ma questa sensazione si rivela piena di senso. La presenza elementare e minima della luce e del suono, poi se stessi. Dopo aver sentito e provato le alterazioni minime degli effetti di luce, di suono e di calore, si sente infatti la necessità di stare soli con se stessi,

senza muoversi, ed attendere che qualcosa accada. In questa maniera si raggiunge quello che, in situazioni di deprivazione sensoriale, si chiama stato alfa. Uno stato “calmo, vigile, rilassato, aperto ad ogni esperienza piacevole”, in cui “si rimane vigili, allargando la propria attenzione in tutte le direzioni”. In questo stato si “indica” l’esperienza, in modo che lo spazio, nel suo dentro e nel suo fuori, si confonda e l’esperienza rimanga se stessa: un’esperienza dell’esperienza. In complesso queste indicazioni, pur fra loro complementari, sono lungi dall’esaurire l’intera gamma di proprietà presenti nelle singole ricerche, ne identificano solo alcune fra le più cospicue. Le soluzioni individuali differiscono invece per caratteristiche basilari, in generale a partire dal biennio 1969-1970, periodo in cui le singole ricerche escono dalla studio ed invadono, differenziandosi, gli ambienti pubblici. A questa percezione della realtà periferica corrisponde la conoscenza riflessiva, che trae profitto dall’annullamento percettivo del contesto esterno al proprio corpo. Doug Wheeler cerca di stabilire uno sfasamento sensoriale tra la persona ed il proprio ambiente. Attraverso un sistema di luce che muta la propria intensità dal buio all’abbaglio e produce un campo spaziale in cui si annullano i contorni e i confini architettonici. La persona rimane in seno a se stessa e sente la contingenza del suo essere fisico e comportamentistico. La caduta dei fondamenti architettonici, quali angoli e pareti, si accompagna altresì alla creazione di un pulviscolo luminoso che

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DW 68 VEN MCASD 11, 1968/2011. WHITE UV NEON LIGHT.

rende nebuloso ogni contorno. Questo, oltre a confondere i passaggi dal vuoto al pieno, impregna di luce coerente e atmosferica tutto lo spazio, quasi questo si tramutasse in un collettore di energia pura.

Era questo il caso degli Ambient Light Environments, allo Staedelijk Museum di Amsterdam e al Forth Worth Museum nel 1969 e, nel 1974, da Salvatore Ala a Milano. “Il bianco totale di questi ambienti” – scrive Wheeler – “ha eliminato tutto il rumore visivo perché concentra tutto il riflesso della luce, mantenendone in tal modo viva l’energia insita e facendo sì che la totalità dello spazio sia permeata e attivata della presenza positiva, o dall’assenza positiva, di energia luminosa che crea uno spazio di luce suggestivo mutevole. L’atmosfera così creata è stata ulteriormente rafforzata dalla forma e dall’essenza fisica di questi ambienti, come avveniva nell’installazione a forma di ventaglio alla Tate Gallery nel 1970. In questo ambiente, l’entrata era stretta rispetto alla dimensione della stanza e presentava un pavimento convesso inclinato, discendente verso il muro principale degli anni Cinquanta. Entrando nella stanza, lo spazio si allargava sempre di più e la parete curva avvolgeva la visione periferica. La sensazione fisica di scendere lungo il pavimento in pendenza sembrava tirarti dentro in un mondo infinito, intangibile, luminifero di spazio vuoto positivo creato dalla proiezione della luce lungo al bordo della parete curva principale”. La materia

evanescente e mutante della luce può essere anche plasmata, per dividere in due una stanza (Diagonal Light Passage, 1975), in modo che la metà sia percepibile come una zona senza sostanza altra che la luce. La situazione che si offre al visitatore è quella di uno spazio esistente ed uno spazio mancante, complementari l’uno all’altro. E poiché entrambe le zone sono della stessa natura, basta un capovolgimento della situazione per invertire i ruoli tra lo spazio assente e quello presente: in Suspended volume in reflected spectrum, del 1975, il progetto ambientale di Wheeler prevede la ‘costruzione’ di un parallelepipedo di luce, dello stesso formato di una stanza. È certo che queste brevi osservazioni rischiano di portare il lavoro verso una concezione esoterica e magica dell’architettura. Tuttavia il continuo riferimento che Wheeler fa alla struttura energetica delle piramidi, sembra confermare questa lettura.

Il ricorso al ‘mistero’ s’accompagna, però, all’adozione di materiali tecnologici. La California è l’estremo confine tra Occidente e Oriente: “Altri progetti cui ho lavorato – scrive ancora Wheeler – sono stati esperimenti per arrivare ad ambienti post-immagine, ambienti suggestivi con cambiamenti visibili di luce a ultra-violetti, grazie all’utilizzo di proiettori reostatici e fosfori che diventano fluorescenti spruzzati sulla parete. Un altro dei miei esperimenti riguardava la possibilità di condizioni ambientali uniformi per temperatura e per un limitato uso del colore. Inoltre, spazi

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non-ecoici, un campo di luce invisibile attraverso una proiezione intensa e combinata di lampade allo xeno di 36.000 watts installate in parallelo e un eloignement che provoca un disorientamento spaziale grazie all’uso di luce xenon stroboscopica pulsante”.

Più recentemente, in occasione di manifestazioni quali PS1 a New York e Ambiente Arte a Venezia, Wheeler ha progettato ambienti, la cui esperienza fosse definita dalla luce naturale, variabile per l’immissione — alle finestre o a lucernario — di filtri trasparenti di gradazione diversa. Questi lavori sembrano riguardare sempre “l’eliminazione di materialita’ percepita fisicamente per creare o proiettare una presenza intangibile completa o un’esperienza spaziale”, soltanto con il ricorso all’atmosfera naturale dello spazio dato.

Si potrebbe aggiungere che quest’insistere sul fatto, che il rapporto di reciprocità con lo spazio e l’ambiente fa la realtà, può essere tacciato di idealismo, bisogna però stare attenti alla diversa natura del misticismo orientale, di radice Zen e buddista, caratteristico della cultura californiana.

Per questa filosofìa dell’esistenza, l’esperienza è un sistema di relazioni in cui l’osservatore è incluso. Ne consegue che la persona e l’ambiente sono una

realtà fisica indissolubile. Al Guggenheim Bilbao, nell’ambiente SA MI

DW SM 2 75, 1975, nella collezione Panza di Biumo, come recentemente al Museum of Contemporary Art, San Diego, in DW 68 VEN MCASD 11, 1968/2011, si fa forma un flusso luminoso. Anche qui le coordinate spaziali della stanza sono azzerate e lo spettatore entra in un limbo assoluto, la cui dinamica è la variazione di luce. Quasi un volume assoluto e sublime che passa dal buio all’accecante, dove il vuoto si fa atmosfera pulsante, che assorbe i corpi e li fa vagolare in un pulviscolo di luce.

Sono varianti luminose dalle oscillazioni ridotte in cui il visitatore ‘transita’ quasi senza accorgersene, quindi viene dislocato visualmente in un’architettura di luce, ottenuta con il ricorso a white uv neon light, mentre il suo corpo rimane ancorato a terra. L’effetto è spiazzante anche perché l’ombra viene dissolta e con essa l’ancoraggio ad una componente che sottolinea la proiezione volumetrica della persona. Quasi una cancellazione di un dualismo tra tattile e immateriale, così da entrare in un’architettura capace di rimuovere i contenuti fisici del proprio esistere, per lasciare solo protagonista l’essere umano.

UNTITLED, 1965. ACRYCLIC ON CANVAS WITH TUBING.

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UNTITLED, 1964. ACRYCLIC ON CANVAS.

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MInIarcHITeTTurea cura di Nadia Lionello - foto di Miro Zagnoli

NELLA PAGINA ACCANTO: SURFACE, TAVOLINI IN ROVERE CHIARO SPAZZOLATO E ROVERE GRIGIO CON INSERTI VERNICIATI SATINATI CON BASAMENTO E FIANCHIIN ALLUMINIO VERNICIATO NICKEL BRONZATO. DESIGN VINCENT VAN DUYSEN PER B&B ITALIA.TAZZA DA TÈ IN PORCELLANA DI SAMI RUOTSALAINENCON DECORO HENNIKA DI VUOKKO ESKOLIN-NURMESNIEMI PER MARIMEKKO DA JANNELLI&VOLPI.

SBILENCO, TAVOLINO CON STRUTTURA IN LEGNO IMPIALLACCIATO FRASSINO O TANGANIKA TINTO E PIANO

IN CRISTALLO. DI MAISON MARTIN MARGIELA PER CERRUTI BALERI. TAIKA,TAZZINA DA TÈ-CAFFÈ

IN PORCELLANA. DI KLAUS HAAPANIEMI PER IITTALA.

SIXTY LOW, TAVOLINO CON STRUTTURA IN ALLUMINIO VERNICIATO E TOP IN ACRILICO BIANCO OPACO

O NELLA COLLEZIONE VETRI LACCATI ECOLORSYSTEM. DI GIUSEPPE BAVUSO PER RIMADESIO. LANDSCAPE,

DECORO SHIBORI, TAZZINA DA CAFFÈ IN PORCELLANA. DI PATRICIA URQUIOLA PER ROSENTHAL STUDIO-LINE.

UN’ analogia FORMALE CON L’Architettura MODERNA PER UN PAESAGGIO immaginario. UN gioco BIZZARRO DI proporzioni PER RACCONTARE I tavolini, COMPLEMENTI pratici E servizievoli PER INDOLE,IN ORIGINE SUBORDINATI ALLA zona living...OGGI non solo

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SECRETO, TAVOLINO CON GAMBE IN ROVERE MASSELLO CURVATO NATURALE O TINTO NERO, PIANO IN ROVERE LISTELLARE NATURALE O BIANCO E PIANO SUPERIORE IN LEGNO LACCATO LUCIDO IN CINQUE COLORI. DI CATHARINA LORENZ E STEFFEN KAZ PER COLÉ. CHALK, TAZZINA DA CAFFÈ IN CERAMICA CON INSERTO A DECALCO EFFETTO LAVAGNA SU CUI È POSSIBILE SCRIVERE. DI BITOSSI HOME.

W-TABLE, TAVOLINO IN TONDINO DI OTTONE, BRUNITO CON TECNICA TRADIZIONALE, SENZA USO DI PRODOTTI

CHIMICI, CON PIANO IN EUCALIPTO TERMOTRATTATO CON FINITURA A OLIO, IN PELLE, IN PIETRA METEORUS

E PIETRE DELLA GAMMA HENGE. DI MASSIMO CASTAGNA PER HENGE.TRAVEL, TAZZINA DA CAFFÈ IN PORCELLANA.

PRODOTTA DA BITOSSI HOME.

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GRID, TAVOLINO IN TONDINO DI FERRO VERNICIATO E PIANO IN CRISTALLO EXTRACHIARO. DI KENSAKU OSHIRO

PER VARASCHIN. MY CHINA!, TAZZINE PER TÈ E CAPPUCCIO IN PORCELLANA CON DECORO WUNDERKAMMER.

DISEGNATA E PRODOTTA DA SIEGER BY FÜRSTENBERG.

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NELLA PAGINA ACCANTO, DANZANTE, TAVOLINO IN METALLO VERNICIATO BIANCO, BLU, ROSA O VERDE, DISPONIBILE QUADRATO O RETTANGOLARE. DI GIORGIO SORESI PER ERBA ITALIA. TAZZINA DA TÈ IN PORCELLANA CON DECORO SIIRTOLAPUUTARHA DI MAIJA LOUEKARI.DI SAMI RUOTSALAINEN PER MARIMEKKO, DA JANNELLI&VOLPI.

LIPA, TAVOLINO IN MASSELLO DI ROVERE, FRASSINOO NOCE. DI MARKO MACURA E INGEBORG VAN UDEN PER STUDIO MACURA. FORMAT, TAZZINA DA CAFFÈIN PORCELLANA CON DECORO GUILLOCHE. DI CHRISTOPHE DE LA FONTAINE PER ROSENTHAL STUDIO-LINE.

POODLE, TAVOLINO IN MARMO BIANCO DI CARRARA CON FINITURA LEVIGATA. DI NAOTO FUKASAWA PER MARSOTTO. DRESSED, TAZZINA DA CAFFÈ

IN PORCELLANA BIANCA. DI MARCEL WANDERS PER ALESSI.

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VITAE SMALL, TAVOLINO-SGABELLO IN NOCE MASSELLO TORNITO. DI NATURA COLLECTION BY RIVA1920. KORENTO, TAZZINA DA TÈ-CAFFÈ IN PORCELLANA. DI KLAUS HAAPANIEMI PER IITTALA.

PENTATABLE, TAVOLINO SOVRAPPONIBILE PROGETTATO SU GEOMETRIE PENTAGONALI, IN MDF LACCATO BIANCO, NERO O ROSSO. DI ANDREA LUCATELLO PER MINIFORMS.

TAZZINA DA CAFFÈ IN CERAMICA SMALTATA LAVORATA A MANO DI ASTIER DE VILLATTE. DA ROSSANA ORLANDI.

NELLA PAGINA ACCANTO, OFFSET, TAVOLINO IN VETRO FUMÈ TEMPERATO INCOLLATO. DI SACHA LAKIC

PER ROCHE BOBOIS. EUFEMIA, TAZZINA DA CAFFÈ DELLA COLLEZIONE HYBRID IN PORCELLANA BONE CHINA

CON DECORO EAST/WEST. DI CTRLZAK PER SELETTI.

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foto di Maurizio Marcato - testo di Andrea Pirruccio

STUDIARE, lavorare O LEGGERE GRAZIE A UNA LUCE concentrata, anabbagliante E IN GRADO DI ARRIVARE ESATTAMENTE

DOVE serve. SPESSO DISTANTI PER ESITI formali, LE NUOVE LAMPADE DA tavolo CONDIVIDONO UN cuore DI ALTISSIMA tecnologia,

MESSO AL SERVIZIO DELLE MIGLIORI PRESTAZIONI luminose

La Luce PunTuaLe

SOPRA: UNMETRO DI MARCO MERENDI PER DAVIDE GROPPI, LUCE CHE SI ‘SROTOLA’ PER LA LUNGHEZZA DI UN METRO GRAZIE A UN PARTICOLARE SNODO BREVETTATO; A DESTRA, DI BENJAMIN HUNERT PER ÖRSJÖ BELYSNING, CRANE, LAMPADA ISPIRATA ALLE SAGOME DELLE GRU UTILIZZATE IN EDILIZIA, CHE RACCHIUDE UN INSIEME

DI LED IN UN TUBO DI ALLUMINIO PERFORATO.

NELLA PAGINA ACCANTO: CAIO, DESIGN MARIO NANNI PER VIABIZZUNO, LAMPADA DA TAVOLO PER INTERNI COSTITUITA DA UNA BASE CIRCOLARE IN ACCIAIO CON SENSORE PER ACCENSIONE E SPEGNIMENTO. SOTTO LA BASE, È PREVISTO UN LED BLU DI SEGNALAZIONE CHE RIMANE ACCESO IN PRESENZA DI TENSIONE DI RETE E PERMETTE DI TROVARE LA LAMPADA AL BUIO.

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SOPRA IN SENSO ORARIO: PROGETTATA DA ALBERTO MEDA E PAOLO RIZZATTO PER LUCEPLAN, OTTO WATT È UNA LAMPADA DA SCRIVANIA A LED CON TESTA SNODABILE A 360°, RIFLETTORE CON FILTRO ANTIABBAGLIAMENTO E CHE, COME SUGGERISCE IL NOME, CONSUMA APPENA 8 WATT; PRODOTTA E DISEGNATA DA TOBIAS GRAU, FALLING STAR SI DISTINGUE PER LA TESTA SFERICA ILLUMINATA CON LED REGOLABILI, CHE GARANTISCONO UNA LUCE CONCENTRATA E RESA ANABBAGLIANTE DALLA LENTE OTTICA; LED BIOLITE, DI MAKIO HASUIKE PER YAMAGIWA, LAMPADA DA TAVOLO IN ESTRUSO D’ALLUMINIO CONNOTATA DALL’ESTREMA FLESSIBILITÀ DEL BRACCIO E DELLA TESTA.

NELLA PAGINA A FIANCO: LOOKSOFLAT, DI STEFAN GEISBAUER PER INGO MAURER, LAMPADA DA TAVOLO IN ALLUMINIO ILLUMINATA A LED CON INTERRUTTORE INTEGRATO NELLA TESTA DELLA LAMPADA.

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SOPRA: DI EMILIANA MARTINELLI PER MARTINELLI LUCE, IL MODELLO DA TAVOLO DELLA COLLEZIONE COLIBRÌ. REALIZZATA IN ALLUMINIO ANODIZZATO NERO, LA LAMPADAÈ DISPONIBILE IN NUMEROSE VERSIONI, FRA CUI PARETE, SOFFITTO, SOSPENSIONE E TERRA; A DESTRA, DALLO STUDIO FOSTER +PARTNERS PER LUMINA, LE VERSIONI TAVOLO E COMODINO

DI FLO, LAMPADA DOTATA DI TESTA RUOTABILE DI 300° E BRACCI CHE RUOTANO SULLE BASI DI 120°. L’INTERRUTTORE, POSTO SULLA TESTA DI OGNI MODELLO, PERMETTE DI SPEGNERE LA LUCE O ACCENDERLA AL 50 E AL 100%.

NELLA PAGINA ACCANTO: MAGNETO, DESIGN GIULIO IACCHETTI PER FOSCARINI, LAMPADA CARATTERIZZATA DALLA PRESENZA DI UNA CALAMITA SFERICA CHE UNISCE DUE SEMPLICI ELEMENTI, UN’ASTA DI SOSTEGNO CON BASE CIRCOLARE E UN CORPO ILLUMINANTE A LED SIMILE A UNA TORCIA. È DISPONIBILE NELLE VERSIONI DA TERRA E DA TAVOLO E NEI COLORI GRIGIO E ROSSO.

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SOPRA: DI MICHELE DE LUCCHI PER ARTEMIDE, JUNIPER È UNA LAMPADA A LED LA CUI DOPPIA EMISSIONE LUMINOSA PERMETTE DI AVERE CONTEMPORANEAMENTE UNA LUCE CONTROLLATA SUL PIANO DI LAVORO E UNA DIFFUSA D’AMBIENTE; A DESTRA, PROGETTATA DA PHILIPPE STARCK PER FLOS, NET, È UNA LAMPADA DA TAVOLO IN ALLUMINIO LUCIDATO CHE OSPITA, SUL DIFFUSORE LUMINOSO, UNA PRESA USB DEDICATA A IPOD, IPHONE E IPAD. L’EFFICIENZA DELLA FONTE LUMINOSA È GARANTITA DA 28 TOP LED 3000K.

NELLA PAGINA ACCANTO, DALL’ALTO E IN SENSO ORARIO: CREATA DA BENJAMIN HUBERT PER FABBIAN, PADDLE PRESENTA STRUTTURA PORTANTE IN ALLUMINIO O ALLUMINIO E LEGNO, STELO E BRACCIO ORIENTABILI, ILLUMINAZIONE CON 84 MICROLED E CONTROLLO DINAMICO DELLA LUCE; STRING, DI DANTE DONEGANI E GIOVANNI LAUDA PER ROTALIANA, LAMPADA

A DUE BRACCI A LUCE DIRETTA CON SORGENTE LED. IL MOVIMENTO È COMPENSATO DAL CAVO ELASTICO CHE SCORRE NELLA SEZIONE DELL’ESTRUSO; DI ORAZIO SPADA PER METAL SPOT, ARIA, LAMPADA NELLA VERSIONE DA TAVOLO CON STELO E DIFFUSORE IN METALLO CROMATO E BASE IN ALLUMINIO ANODIZZATO; DA CATELLANI & SMITH, GIULIETTA, LAMPADA DA TAVOLO

CON BASE IN METALLO NICHELATO, ASTINA IN RAME NICHELATO E DISCO IN METALLO LUCIDO SPECCHIATO.

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ALessanDro MenDInI

RITRATTO DI ALESSANDRO MENDINI SEDUTO SULLA SUA POLTRONA DI PROUST.

NELLA PAGINA ACCANTO: SET DI VASSOI ANNA GONG E CAVATAPPI ANNA G, ENTRAMBI PRODOTTI DA ALESSI IN ACCIAIO INOX. APPARTENGONO

ALLA CATEGORIA DEL DESIGN-PERSONA DI MENDINI.

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roBoT senTImenTaLedi Cristina Morozzi

SI DEFINISCE “UN uomo moderno ESTREMAMENTE sensibile MA PARZIALMENTE meccanizzato”. E CONSIDERA IL SUO LAVORO COME UN metodo BASATO SUL paradosso, LA METAFORA, L’eccesso, LO SPIAZZAMENTO E IL grottesco

Alessandro Mendini è architetto e designer, ma anche scrittore e direttore di riviste (Casabella, Modo, Domus); è progettista di abiti e scenografie, di edifici e di oggetti. Nel suo Atelier di via Sannio a Milano, aperto assieme al fratello Francesco nel 1989, nel tempo anche teatro di eventi, conserva sparse le tracce della sua multiforme attività. Teorico visionario, nei suoi oggetti, che più che cose inerti sono “teorie tridimensionali”, condensa pensieri provocatori sulla disciplina dell’architettura e del design. Nei suoi Scritti (Skira, Milano, 2004) sostiene di “non lavorare per motivi direttamente ideologici, né per creare oggetti funzionali. La mia vocazione è un istinto: quello di cercare dentro e fuori di me (nella memoria, nella storia, nei luoghi, nelle persone, raramente nella natura) dei segnali visivi, di elaborarli e di restituirli secondo una certa logica, di trasformarli in realtà (1988)”. Si considera un progettista che applica all’architettura e al design metodi tipici dell’artista; e viceversa, un pittore che per dipingere usa metodi tipici del progetto. Ritiene la sua “un’attività ibrida, in bilico fra queste e altre discipline (grafica, scultura, moda, performance, critica) che trova fra di esse, non una esigua linea di confine, ma grandi spazi liberi dove operare”. Dichiara di “usare l’attività progettuale non coerentemente al proprio fine, ma al fine di svolgere il suo naturale atto vitale che è quello di produrre immagini” (Scritti, ibidem). Sussurra con voce tenue verità fondamentali e, porgendole con rara gentilezza, pare voglia scusarsi d’essere così radicale e definitivo. Incontrarlo regala stimoli per allargare gli orizzonti del pensiero e per ampliare lo spettro della visione.

A chi non ti conosce come ti presenteresti?“La prima parola che dico è che sono un

architetto, poi preciso che faccio il designer e che sono una persona che si esprime parallelamente sia attraverso immagini, sia attraverso la parola scritta, per me due attività parallele e complementari. Immagini non vuol dire solo architettura e design, ma intendo dire che creo della comunicazione poetica in maniera ibrida, talvolta anche pittorica e scultorea. Tanto è vero che negli oggetti che faccio prevalgono gli aspetti artistici. L’altro aspetto che mi caratterizza è una specie di forza centrifuga, perché tendo a disperdere energie in tutte le direzioni, cambiando materiali, misure, colori, funzioni, tipologie. La mia attività è una specie di palcoscenico di

spezzoni di cose che si contraddicono, anche molto, tra di loro. Sono un dispersivo. Ho ansia di esprimermi. Dato che sono introverso, timido e pessimista, ho bisogno di comunicare sentimenti, in maniera da antico romantico. I miei scritti, anche se sono di critica, hanno sempre un aspetto che tende al letterario. E negli oggetti la presenza della decorazione è un alfabeto, cioè un specie di approccio letterario alle cose. Pertanto i miei oggetti fanno parte di un romanzo autobiografico”.

Dirigere una rivista equivale ad avere una lente d’ingrandimento per inquadrare la realtà. Nel tuo recente anno di direzione di Domus (2010), cosa hai visto, con quella lente, nel design e nell’architettura?

“Non so se ho avuto una lente di ingrandimento, magari l’ho usata alla rovescia, cioè rimpicciolendo, perché mi sono prefissato un obiettivo di ricerca dell’utopia oggi, con una ipotesi aprioristica non verificabile. E ho selezionato e cercato le cose attraverso questa lente alla rovescia. I temi che ho trattato erano sempre finalizzati a questo scopo. È stata una parabola breve e condensata, molto faticosa: sempre sui tavoli di lavoro a scegliere e impaginare, senza mai fare un viaggio”.

Ci sono dei temi, sui quali oggi nel mondo del design si discute e sui quali tutti s’interrogano: design artistico o seriale, produzione industriale o autoproduzione, rapporto tra arredare e abitare, stili e tendenze.

“Design artistico e seriale non si contraddicono, dipendono dalle attitudini dell’autore e dalla tipologia degli oggetti. L’oggetto artigianale e quello industriale hanno due DNA diversi. Esistono anche dei casi misti, come quello dello Swatch. Andrea Branzi, ad esempio, vede nella metodologia dell’approccio artistico all’oggetto una gran novità di comportamento.

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DALL’ALTO: VASSOIO DISCO CESELLATO PER ALESSI, 2011; GUERRIERO DI VETRO PER VENINI, 2000; DISEGNO PER IL TAVOLO MACAONE, RIEDIZIONE ZANOTTA, 2011; SET DI POSATE IN ACCIAIO ASTA BAROCCA, PRODUZIONE ALESSI, 2011; INSTALLAZIONE SOLI, PROGETTO CON ALCHIMIA MUSEO, MILANO, 1990; VASSOIO IN ACCIAIO ANNA GONG, PRODUZIONE ALESSI, 2011; VASI IN VETRO DI MURANO ARSOS PER VENINI, 1990; MOBILE QUI PER LA GALLERIA PAOLO CURTI/ANNAMARIA GAMBUZZI, MILANO, 2008; STAZIONE DELLA METROPOLITANA DI NAPOLI, 2011 (CON FRANCESCO MENDINI, INTERIOR DESIGN KARIM RASHID); COPPA IN VETRO DI MURANO GRANDE ALZATA PER VENINI, 2000; GUERRIERO DI DURER, SCULTURA IN MOSAICO PER BISAZZA, 2011; ESTERNO DEL MUSEO DI GRONINGEN, RESTAURO DEL 2011 (CON FRANCESCO MENDINI); LA POLTRONA DI PROUST NELLA VERSIONE IN PLASTICA ROTAZIONALE, PRODUZIONE MAGIS, 2011; INTERNO DEL MUSEO DI GRONINGEN, RESTAURO DEL 2011 (CON FRANCESCO MENDINI); SCULTURE MOBILI PER UOMO, IN MOSAICO DORATO PER BISAZZA, 2006/2011; TORRE DEL FILOSOFO PER LA MOSTRA ARTINMOSAICO INSTALLATA A NAPOLI IN PIAZZA DEL PLEBISCITO, 1996.

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AuToProDuzIone:istruzioni per l’uso

di Valentina Croci

L’autoproduzione collega direttamente l’attività creativa a quella produttiva, senza intermediari. È una modalità in cui il fare coincide con il pensare e progettare. Non è una novità, nonostante eventi come le mostre-mercato Opendesign Italia a Bologna e Operae a Torino lo rendano di attualità. È un fenomeno che raccoglie l’eredità delle avanguardie degli anni Settanta, passando per l’Autoprogettazione di Enzo Mari e i piccoli editori come Memphis. Sono cambiati però i paradigmi di produzione e consumo.

CADUTO IL MERCATO DI MASSA, SI DELINEANO nuove modalità DI produrre e consumare BASATE SU UN sistema aperto DI PROCESSI E RELAZIONI. UNO SCENARIO CHE non si contrappone ALL’INDUSTRIA MA LA COMPLETA. CON INTERESSANTI vantaggi competitivi

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IL DIAGRAMMA DI ALESSANDRO MENDINI PER MISAD CHE SPIEGA L’AUTOPRODUZIONE E LE POTENZIALITÀ DELLA CREATIVITÀ DIFFUSA NEL TERRITORIO. NELLA PAGINA ACCANTO: L’APPENDIABITI ‘UN PENNELLO’ DI CARMINE DEGANELLO PER RECESSION DESIGN, ESIBITO A OPERAE, LA MOSTRA-MERCATO TORINESE SULL’AUTOPRODUZIONE.

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È caduto il mercato di massa e le tradizionali economie di scala. E la polverizzazione della domanda apre nuovi scenari merceologici, in cui trovano spazio prodotti non primariamente performanti e con qualità differenti: segniche, narrative e autoriali. L’attenzione all’autoproduzione, e più in generale al lavoro artigiano, rappresenta l’occasione per capirne il vantaggio competitivo. Non a caso, è appena nata a Milano l’associazione Misad (Milano si autoproduce design), fondata tra gli altri da Alessandro Mendini, per mettere in rete la creatività diffusa di Milano, vista come patrimonio tangibile e opportunità di sviluppo.

Che cosa sia il lavoro artigiano in relazione all’economia globale ce lo spiega Stefano Micelli, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore del libro Futuro artigiano (ed. Marsilio, 2011).

PROGETTI PRESENTATI A OPENDESIGN ITALIA, LA MOSTRA MERCATO BOLOGNESE

SULL’AUTOPRODUZIONE E LA PICCOLA SERIE. DALL’ALTO IN SENSO ORARIO: LA MANIGLIA CON POMELLO IN CARTA E LA LAMPADA CON DIFFUSORE IN PLEXIGLASS E PIETRA

DELLO SVEDESE NICOLAS CHENG; PILASTRO, LAMPADA TELESCOPICA IN STOFFA DI RUDY DAVI; TEIERE

IN CERAMICA E FELTRO DI GAETANO DI GREGORIO; BICCHIERE PER BIRRA MEDIA O PICCOLA DI ACQUACALDA;

I TESSUTI PROGETTATI DA GIULIA CIUOLI. SOTTO, MODELLO DEL SISTEMA LIBRERIA MODULARE

PROGETTATO DA SARA BOSCHELLO.

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“L’autoproduzione non è in contrapposizione con l’industria ma ne è il completamento all’interno di un sistema manifatturiero che va letto in un’ottica di filiera ampia e disarticolata. Bisogna superare la rivendicazione autarchica del made in Italy e pensare a forme diverse di collaborazione con il mondo: ad esempio, nuove cooperazioni con l’estremo oriente che non siano solo l’export o la terziarizzazione di parte della produzione”. Continua Micelli: “Ci arriva una lezione profonda dal mondo del web e del digitale: il sistema aperto che crea processi e relazioni. Se ripensiamo alle geometrie delle filiere in termini di parcellizzazione, dall’ideazione alla post-produzione, e immettiamo il lavoro ‘artigiano’ nei punti di snodo dei processi globali, valorizziamo ogni fase e otteniamo vantaggio competitivo”. Ma in che modo? “Pensando a una divisione del lavoro in tre attività: Creazione, aperta e connessa

con il mondo, non più nell’ottica corporativa o protezionistica; Traduzione, ovvero trasformazione del lavoro altrui come ha fatto Giovanni Sacchi con i suoi modelli in legno, oppure come stanno facendo i tecnoartigiani e i fabber che impiegano le tecnologie digitali per prototipizzare le creazioni di altri; Personalizzazione intesa come ‘tuning’, ovvero trasformazione creativa di componenti che già esistono e, pertanto, all’interno di economie di scala di terzi. È il caso del refitting o del retrofit”. Il design non è più volto alla produzione di massa. Il futuro dell’autoproduzione e della piccola serie sta, appunto, in queste nuove filiere globali, nella creatività, nella trasformazione dell’esistente e nella custom proximity. Ancorati al nostro patrimonio culturale e industriale, ma rinnovando l’immagine produttiva del nostro Paese.

PROGETTI IN MOSTRA ALL’EVENTO TORINESE OPERAE. DALL’ALTO IN SENSO ORARIO: LIBRERIA MODULARE MINIMUM BOOK DI GIUSEPPE AMATO; LAMPADA MICOL DI CRISTIANO MINO; CONTENITORE MODULARE SEDICI DI FRANCESCO DI CANDIO (FACTORY DESIGN CONCEPT); LAMPADA HEXA DELL’UNGHERESE ÁDÁM JUHÁSZ; VASI IN CARTONE DI ANDREA GIANNI; SEDIA TMU IN FOGLI DI LEGNO DA ASSEMBLARE DI LAM. SOTTO, 1PORTANONBASTA, ARMADIO CON ELEMENTI DI RISULTA DI STUDIO 6M.

ISTRUZIONI PER L’USO / 77INTERNI gennaio-febbraio 2012

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Le nuove piattaforme produttive

di Stefano Maffei

IL FENOMENO DELL’AUTOPRODUZIONE DISEGNA UNO SCENARIO DI industrialesimo connettivo BASATO SU MODELLI INNOVATIVI DI abilitazione DELLA PROGETTUALITÀ

Sono sempre più numerose le esperienze in Italia che mettono in luce un processo di rapidissima evoluzione delle forme d’impresa collegate al fare design (microPMI artigiane, designer-impresa, imprese-piattaforma virtuali) verso nuove modalità di produzione-distribuzione. Non più industria, né artigianato né design come eravamo abituati a pensare. Quella che sta pulsando ed emergendo è una nuova realtà legata a un cambiamento dei luoghi (microfabbriche e nuovi atelier artigiani, gallerie di design atipiche), delle tecnologie di fabbricazione (dall’artigianato ultraspecializzato ai fablab – ovvero fabrication laboratories, piccoli atelier dove viene realizzato un processo di fabbricazione digitale attraverso

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SOPRA: L’HOME PAGE DI DESIGNHUB, PIATTAFORMA D’INCONTRO TRA DESIGN E IMPRESE, TRA UNIVERSITÀ E TERRITORIO.

A DESTRA, LA VETRINA DELLA GALLERIA SUBALTERNO1 A MILANO, “IL LUOGO DOVE SI RENDE VISIBILE IL DISCORSO

SULL’AUTOPRODUZIONE ITALIANA”.

SOTTO: LO SCHEMA DEL PROCESSO DALL’ORDINE ALLA CONSEGNA DI GARAGEDESIGN, UN’IMPRESA SPERIMENTALE IMPEGNATA NELLA PRODUZIONE

E DISTRIBUZIONE DI EDIZIONI LIMITATE DI MOBILI, LAMPADE, OGGETTI D’ARREDO, PICCOLI OGGETTI E DESIGN ARTISTICO.

LA MAPPA DEI PROGETTI DI DEA – DESIGN & ARTIGIANATO PER IL TRENTINO, UNA INIZIATIVA DI CEII TRENTINO E POLITECNICO DI MILANO NATA ALLO SCOPO DI SVILUPPARE PROGETTI INNOVATIVI CON LE IMPRESE ARTIGIANE TRENTINE ATTRAVERSO LO SCAMBIO TRA LE IMPRESE E I GIOVANI DESIGNER. INFOGRAFICA DI MASSIMO BIANCHINI,IN VENANZIO ARQUILLA, INTENZIONI CREATIVE-CREATIVE WAYS, MAGGIOLI 2011.

stampanti 3D e macchine a taglio laser), dei luoghi della sperimentazione temporanea (makerspaces temporanei – ovvero luoghi fisici in cui si sperimentano attività di progettazione/costruzione collettiva). È uno scenario di industrialesimo connettivo che realizza una produzione distribuita, fatta con nuovi attori e in nuovi territori, e che si basa su nuove forme di abilitazione della creatività e della progettualità.

Un esempio è la piattaforma web DesignHUB del Dipartimento INDACO del Politecnico di Milano che ha l’obiettivo di favorire l’incontro tra domanda e offerta di progetti di design innovativi, nonché quello tra imprese e giovani designer. Ma anche Subalterno1, galleria atipica che promuove e

vende i designer-impresa il cui principio di autoproduzione va oltre il concetto tradizionale di lavoro artigianale e si configura come “…un insieme di attività che comprende l’autorganizzazione della progettazione, della costruzione/produzione, della promozione, della distribuzione. Tutte queste operazioni possono essere compiute in modo differente e libero ma devono coesistere per poter parlare realmente di autoproduzione. Non necessariamente quanto sopra elencato deve essere compiuto in prima persona da un individuo, ma quando non lo realizza direttamente, deve averlo almeno come committente-organizzatore…”.

La casistica comprende anche piattaforme online come Garage Design (http://www.garagedesign.it/) che ridisegna il processo tradizionale del design italiano lavorando come un abilitatore (si veda in questo senso l’esperienza seminale giapponese di elephant design, http://www.elephant-design.com/en_index.html): attraverso un bando viene prima effettuata un’operazione di talent scouting internazionale, ovvero una selezione di designer/progetti; si passa poi alla fase di materializzazione mediante la produzione di un prototipo che viene realizzato utilizzando il network produttivo disperso nel territorio; si arriva così a un’offerta, che si realizza con la costruzione di una vetrina-shop online che mostra i prototipi dei prodotti e ne raccoglie gli ordini d’acquisto; infine si giunge a una scelta-produzione che si attiva una volta raggiunta la quantità minima richiesta per ottimizzare i costi produttivi (variabile da progetto a progetto) e si conclude con una consegna. In modo analogo, la proposta di fabbricazione digitale di Vectorealism (http://www.vectorealism.com/) nasce con l’idea di mettere a disposizione di progettisti e autoproduttori un sistema di taglio e incisione laser professionale e un’ampia scelta di materiali. Ciò

avviene grazie alla collaborazione con la neozelandese Ponoko (www.ponoko.com) di cui utilizza la piattaforma software di gestione; tutto il processo può essere gestito online (e facilitato da tutorial) attraverso una pagina di personal factory che consente di caricare il disegno vettoriale da realizzare, ottenere una verifica dello stesso e una quotazione, quindi la realizzazione e la consegna del pezzo finito. I servizi offerti da Ponoko USA vanno oltre e consentono la preparazione di modelli 3D che possono essere realizzati con stampa 3D o predisposti per la realizzazione con macchine utensili a controllo numerico.

Giunti ormai alla personal fabrication, sembra dunque avverarsi lo scenario prefigurato dal sociofuturologo Alvin Toffler, che in The third wave del 1980 ipotizzava la nascita di una popolazione di prosum er (neologismo che integra le parole producer e consumer e sta ad indicare un utente-consumatore che esercita un ruolo attivo nel processo di creazione, produzione, distribuzione e consumo di prodotti e servizi). A testimoniare l’emergere dei nuovi processi di fabbricazione avanzata sono state anche due recentissime mostre allestite al Victoria&Albert Museum di Londra: Industrial Revolution 2.0: How the Material World Will Newly Materialise, curata da Murray Moss, e Power of making curata da Daniel Charny.

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Quelli che...

di Stefano Caggiano

Mai come oggi la capacità specifica della filosofia di interrogare il proprio tempo e la capacità di penetrazione visionaria del design sono state così intimamente legate. Mentre la filosofia è chiamata a rovesciare criticamente le pieghe del presente, compito del progetto è infatti quello di lavorare sui nervi così scoperti per trasformarne i vincoli in svincoli.

È su una di questa nervature antropologiche che interviene il progetto Endless di Dirk van der Kooij, presentato per la prima volta come tesi di laurea alla Design Academy di Eindhoven e premiato con il Dutch Design Award 2011 come miglior oggetto autoprodotto. Dopo aver riadattato un robot industriale dismesso, van der Kooij ha trovato il modo di ottenerne sedute e tavoli a partire da una striscia di materiale riciclato

SPERIMENTANO LE forme più avanzate DI AUTOPRODUZIONE MEDIANTE L’APPLICAZIONE DELLA logica digitale AL reale E ATTRIBUISCONO ALLA CAPACITÀ VISIONARIA DEL DESIGN UN NUOVO rilievo filosofico

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LA SEDIA ENDLESS DI DIRK VAN DER KOOIJ È REALIZZATA DA FRIGORIFERI RICICLATI, ATTRAVERSO UNA ORIGINALE

VARIANTE DEI PROCESSI ADDITIVI TIPICI DELLO STAMPAGGIO TRIDIMENSIONALE OTTENUTA

RIPROGRAMMANDO UNA VECCHIA MACCHINA INDUSTRIALE (A DESTRA).

NELLA PAGINA ACCANTO: LA LAMPADA DESERT STORMDI NIR MEIRI, REALIZZATA IN SABBIA STAMPATA, FERRO E LED. IL PARALUME, RUVIDO ALL’INTERNO E LISCIO ALL’ESTERNO, DIFFONDE UNA LUCE MORBIDA CHE ACCENTUA I DISEGNI AMORFI PRESENTI NELLA SABBIA, EVOCANDO IL DESERTO DAL QUALE MEIRI HA RICAVATO LA SUA LAMPADA (FOTO SHAY BEN EFRAYIM).

proveniente da vecchi frigoriferi, tramite un processo che genera un flusso continuo di materialità e ‘chiude’ i pezzi con un taglio finale calato al punto giusto.

La forza di questa idea consiste nel fatto che l’agire progettuale, qui, non è informato dallo schema classico della messa in forma di una materia, ma da una logica del tutto nuova – e filosoficamente più spregiudicata – che entra a modificare la stessa genetica della materialità. Endless non interviene infatti sul ‘fenotipo’ dell’oggetto (la forma esteriore, l’anatomia), ma sul suo ‘genotipo’, lavorando progettualmente il DNA che codifica la genesi materiale delle cose.

Anche Solar Sinter di Markus Kayser, brillante studente del Royal College of Art di Londra, applica la combinatoria genetica del digitale alla realtà materiale, ma lo fa spingendosi ancora oltre, e supera perfino la separazione tra naturale e artificiale, sulla cui contrapposizione era stata costruita la modernità.

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Da Matrix alla prototipazione rapida, l’idea che gli atomi possano venire ‘programmati’ come bit è ormai entrata nel nostro sentire; Solar Sinter applica questa idea non a un materiale artificiale (come i granuli di polimero), ma ai granelli di sabbia del deserto, proponendo a un mondo preoccupato dalla carenza di energia un modo per sfruttare le potenzialità produttive del ‘deserto manifatturiero’, in cui si trova grande disponibilità di energia (solare) e di materiale (silice sotto forma di quarzo nella sabbia). Canalizzando la luce del sole tramite un sistema di lenti la macchina di Kayser sinterizza la sabbia attraverso un processo di stampa 3D, e ottiene come output veri e propri oggetti in vetro. Già ideatore di Sun Cutter (macchina da taglio al laser ad energia solare), Kayser è ben consapevole della portata filosofica del suo progetto: “Anche se non fornisce risposte definitive, questo esperimento propone un punto di partenza per una nuova riflessione”. Riflessione simile a quella che deve aver attraversato la mente del giovane designer israeliano Nir Meiri, il quale ha sfruttato la stessa abbondanza di materiale sabbioso del deserto nella lampada Desert Storm, la cui luce, alimentata a LED, filtra morbidamente dal solido paralume di sabbia stampata evidenziando l’estetica amorfa delle irregolarità presenti nell’impasto.

Esperienze di autoproduzione come queste (che pure, come tutti i pionieri, necessitano di ulteriori messe a punto) sembrano avverare ciò che era stato previsto da Martin Heidegger, uno dei massimi filosofi del Novecento: e cioè che il ‘fondo’, inteso come la terra su cui poggiamo i piedi, a seguito del potenziamento oltre misura della tecnologia e della sua capacità di infiltrazione nel quotidiano perde il suo ruolo di riferimento ‘fondamentale’, per divenire materia interamente ‘a disposizione’ del progetto. E consegnandoci a una terra che non è mai stata così ricca di potenzialità progettuali, e mai così priva di stabilità ‘fondazionale’ .

IN ALTO, IL PRIMO OGGETTO DI MARKUS KAYSER IN SABBIA DEL DESERTO SINTERIZZATA DA SOLAR SINTER,

UNA MACCHINA (NELLA FOTO IN BASSO È RITRATTA NEL DESERTO SAHARIANO VICINO A SIWA, IN EGITTO) CHE STAMPA LA SABBIA IN 3D A PARTIRE DA UN FILE,

USANDO IL SOLE COME FONTE DI ENERGIA (FOTO AMOS FIELD REID).

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L’AUTOPRODUZIONE L’HANNO SCELTA PER ragioni etiche O LA APPLICANO COME metodo di progetto,

OPPURE LA SPERIMENTANO COME STRADA alternativa all’industria. LE ESPERIENZE DI Matteo Ragni,

Massimiliano Adami E Sonia Pedrazzini

E quelli che ...di Maddalena Padovani

Nel suo ruolo di progettista a 360 gradi, che si occupa di prodotto ma anche di strategia e immagine d’impresa, che si dedica all’innovazione quanto all’etica del fare progettuale, Matteo Ragni rappresenta uno dei protagonisti più completi ed evoluti del design italiano contemporaneo. Un costante e fruttuoso percorso di maturazione, il suo, ‘salutato’ nel 2001 da un Compasso d’Oro (vinto assieme all’amico Giulio Iacchetti per la posata Moscardino) e oggi approdato alla collaborazione con aziende importanti per cui ha svolto e svolge anche il ruolo di art director (è recentissimo l’incarico conferitogli da Alpi), che non poche volte lo ha visto impegnato anche in coraggiose operazioni di autoproduzione. Dimostrazione che per Ragni i progetti non sono esercizi formali ma innanzitutto idee in cui crede fermamente, a tal punto da rischiare e investire egli stesso per vedere la loro effettiva realizzazione. La prima esperienza, Sinequanon, risale al 2000 e alla sua convivenza professionale con Iacchetti con cui aveva fondato lo studio Aroundesign. Con

ACCANTO, ALCUNI MODELLI DELLA COLLEZIONE DI MACCHININE ARTIGIANALI TOBEUS, UN’AUTOPRODUZIONE DI MATTEO RAGNI A CUI HANNO COLLABORATO

100 NOTI DESIGNER; LA COLLEZIONE DARÀ VITA QUEST’ANNO ALLA MOSTRA 100% TOBEUS. SOTTO, DA SINISTRA: OCCHIALI DELLA LINEA W-EYE,

IN MULTISTRATO DI LEGNO CON ANIMA DI ALLUMINIO; IL TAPPETO ‘LOOKING FOR SEED’ DISEGNATO PER NODUS; L’OROLOGIO VIGORELLI PER LORENZ.

Giulio aveva disegnato una collezione di utensili ‘piatti’, realizzati in lamina di acciaio fotoinciso, che potevano essere piegati e spediti. In apparenza un divertissement, che in realtà sfruttava una tecnologia all’avanguardia e applicava la logica industriale a “un pensiero poetico ben lungi dal confondersi con espressioni ascrivibili al mondo artigianale o artistico”. A questa prima operazione ne sono seguite altre, diverse per genere tipologico ma sempre accomunate dall’idea che il design possa dare dignità a qualsiasi oggetto d’uso quotidiano e che anche lo spirito d’impresa si può conciliare con una visione etica del progetto e del lavoro: So Far, creata con Fernando Contreas Wood, è sulla carta una società per lo sviluppo della cultura di progetto fra Italia e Cile, ma in pratica diventa un marchio di ceramiche che si prefigge di innovare e migliorare, mediante il principio della serialità, i tradizionali processi di lavorazione degli artigiani cileni; Strativari, del 2005, è una collezione di vasi che recupera gli scarti di lavorazione del Corian DuPont e applica a un materiale moderno e tecnologico una tecnica

tradizionale quale è la lavorazione al tornio. Arriviamo così a TobeUs, l’ultima sfida, un progetto ascrivibile all’autoproduzione che in realtà esula dalle logiche dell’imprenditorialità e che, nella sua semplicità, diventa il manifesto del Ragni-pensiero. Pochi ma precisi i valori su cui si basa questa collezione di macchinine artigianali in legno: l’idea di un consumo responsabile, orientata verso oggetti che durino nel tempo; la sostenibilità ambientale; l’importanza della memoria trasferita attraverso gli oggetti. “Ero stufo delle montagne di giochi made in China arrivati in casa con la nascita di Elio e Tobia, che dopo poche ore di utilizzo si trasformavano in rottami di plastica e ferro inutilizzabili e irreparabili. Così, quando una rivista mi ha invitato a disegnare il regalo che avrei voluto ricevere, ho pensato a una macchinina solida, indistruttibile, che potesse essere tramandata di padre in figlio. L’idea ha riscontrato subito un successo inaspettato. Arrivavano le mail dei genitori che chiedevano dove potesse essere acquistato questo giocattolo. Ho quindi deciso di produrre in prima persona i primi modelli inizialmente disegnati da me, Giulio e Odoardo Fioravanti, che via via si sono arricchiti grazie al contributo generoso dei più importanti designer italiani”. Presto la collezione comprenderà ben 100 macchinine d’autore, tutte realizzate a mano da un esperto artigiano della Brianza a partire un blocco di profumatissimo cedro del Libano, sempre della stessa misura, modellato con un unico taglio e poi corredato di ruote in legno di mogano. Tutti insieme, i modelli daranno vita alla mostra 100 % TobeUs; sarà un’occasione per festeggiare l’importante e inaspettato traguardo, ma anche per ricordare quanto diceva Munari: il gioco è una cosa seria.

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SOTTO, UNA DELLE LAMPADE DA TERRA CHE HANNO DI RECENTE AMPLIATO LA COLLEZIONE FOSSILI MODERNI, UN SISTEMA IDEATO DA MASSIMILIANO ADAMI PER REALIZZARE MOBILI

UTILIZZANDO CONTENITORI E OGGETTI DI RICICLO E SCHIUMA POLIURETANICA. IN BASSO, ALCUNI DEI PROGETTI SVILUPPATI DA ADAMI PER L’INDUSTRIA. DA SINISTRA: IL MOSAICO

CERAMICO BESIDE PER REFIN; L’OPERA RICOSTRUZIONE REALIZZATA PER ZERODISEGNO PER I 150 ANNI DELL’UNITÀ D’ITALIA; IL PROGETTO ALCANTARA REMIX PER ALCANTARA.

Massimiliano Adami si è sempre sentito e definito un designer. Eppure sono tanti i critici del settore che lo ritengono uno dei pochissimi italiani ad avere, nella sua visione materica del progetto e nel suo approccio fortemente manuale, una personalità di respiro internazionale paragonabile a quella dei più noti esponenti della design art di area nord europea. Di fatto, anche quando smette i panni di autoproduttore e indossa quelli di industrial designer che progetta per le aziende dei grandi

numeri, Adami non può fare a meno di pensare con le mani. Ogni sua idea nasce nel laboratorio dove Massimiliano sperimenta, costruisce, disassembla, ricompone; dove prendono forma gli arredi lunari che compongono ed evolvono la sua celebre collezione Fossili Moderni, ma anche dove avvengono le ricerche materiche finalizzate alla realizzazione di un nuovo prodotto industriale. L’ultima sviluppata per Refin, per esempio, aveva come brief lo sviluppo di una nuova idea per un

mosaico ceramico. Adami, come sempre, parte dalla materia, ovvero da una piastrella: la prende tra le mani, la osserva, la studia, la colora, la manipola, la rivolta. Se nel progetto precedente l’ispirazione era nata da una crepa, adesso è proprio il retro della piastrella a indicare l’innovativa soluzione: la caratteristica struttura a quadri diventa un pattern grafico per far riaffiorare la geometria del mosaico giocando con i colori e i riflessi degli smalti ceramici. Analogo approccio per Alcantara Remix; anche qui la sfida è evolvere la bidimensionalità del materiale, l’Alcantara, in tridimensionalità, ovvero definirne una nuova identità espressiva senza aggiungere segni alla superficie e senza attribuirgli quella di un altro oggetto. Adami si concentra sugli scarti del non tessuto, li sovrappone, li compatta, li mixa e con un collante ne fa una massa che poi seziona a mo’ di tranciato. Il risultato è un materiale che qualitativamente presenta le caratteristiche dell’Alcantara ma ha un’estetica del tutto inedita. Grazie ai progetti realizzati per queste e altre aziende, Massimiliano si può permettere di proseguire il suo percorso di autoproduttore. I suoi ultimi pezzi sono una serie di lampade che il gallerista Murray Moss gli aveva chiesto per allestire una mostra. “Per me” spiega il designer “è stata l’occasione per sperimentare nuove tecniche costruttive e per esprimere un’idea della luce a cui pensavo da tempo; ma anche per trarre stimoli e spunti per tutti quelli che saranno i miei prossimi lavori di industrial design”.

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SOTTO, LA COLLEZIONE DI CANDELE LE MORANDINE ISPIRATE ALLE NATURE MORTE DI GIORGIO MORANDI, UN PROGETTO INTERAMENTE

AUTOPRODOTTO DI SONIA PEDRAZZINI (FOTO MATTEO IMBRIANI). IN BASSO, ALCUNI LAVORI DELLA DESIGNER PER L’INDUSTRIA. DA SINISTRA: IMPACKT,

UN PROGETTO EDITORIALE DI SONIA PEDRAZZINI E MARCO SENALDI PER EDIZIONI DATIVO (2002-2009); VADEMECUM, SPAZZOLINO DA DENTI

PER HENKEL; PACKAGING COSMETICO PER MAKE UP FACTORY.

Sonia Pedrazzini è una vera e propria industrial designer, nel senso che ha speso tanti anni pensando e progettando per l’industria dei grandi numeri. Non sedie né tavoli, ma spazzolini da denti e altri prodotti destinati a essere distribuiti in milioni di pezzi. Inoltre, si è occupata per tanto tempo di packaging, non solo come designer ma anche come ideatrice e coordinatrice della rivista Impackt che sino all’anno passato ha rappresentato un raffinato strumento di approfondimento critico delle tematiche legate al mondo dell’imballaggio. Un’esperta di mass market, la potremmo dunque definire, che oggi, però, si presenta sulla scena del design in una veste tutta nuova: quella di autrice e produttrice di una collezione di candele decorative per la casa realizzate artigianalmente in serie limitata. Si chiamano Le Morandine perché nascono da un’attenta ricerca filologica sul lavoro di Giorgio Morandi; non solo le loro forme richiamano quelle delle celebri nature morte morandiane, ma anche gli schemi proposti per la loro composizione – rappresentati da un pattern che suggerisce all’utilizzatore varie possibilità di abbinamento – sintetizzano i concetti di spazio, luce e movimento seguiti dall’artista per combinare gli oggetti che poi ritraeva. Dunque, un progetto colto e raffinato, che Sonia Pedrazzini aveva sviluppato più di dieci anni fa ma era rimasto nel cassetto proprio perché giudicato

troppo intellettuale da chi lo aveva commissionato. “Come industrial designer” spiega la progettista “ho sempre approcciato il disegno di un prodotto in una logica globale, pensando tanto alle esigenze di produzione delle aziende, quanto a quelle di distribuzione. Penso sia importante capire come si muove il mondo delle merci; solo così si possono individuare gli spazi e le modalità di inserimento. Sapevo che Le Morandine rappresentavano un prodotto di

nicchia, ma non mi rassegnavo all’idea che non potessero funzionare sul piano commerciale. Per questo ho deciso di autoprodurle. Si è trattato di un’esperienza decisamente interessante, che secondo me ogni designer dovrebbe fare: concede la massima libertà espressiva e nello stesso tempo porta a contatto con problematiche e dinamiche che determinano il successo di un progetto ma quasi sempre sono sconosciute ai progettisti”.

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L’ACQUERELLO FABBRICA ESPOSTO ALLA MOSTRA FABIO BORTOLANI. MY WAY, ALLESTITA LO SCORSO NOVEMBRE PRESSO LA GALLERIA SUBALTERNO1 DI MILANO.

IN BASSO, DUE PRODOTTI DISEGNATI DA FABIO BORTOLANI PER LAPALMA: A SINISTRA, LO SGABELLO GIRO D’ISPIRAZIONE INDUSTRIALE, CON TELAIO IN ACCIAIO E SEDILE IN ROVERE; A DESTRA, LO SGABELLO CONTINUUM CON TELAIO IN TUBOLARE D’ACCIAIO CHE SI SVOLGE SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ E SEDILE IN ROVERE.

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Queste immagini, inquadrate in una serie di ecocornici anch’esse autoprodotte, partono da uno sguardo che radiografa la realtà e ne propone una versione scarnificata e poetica in un continuum originale e unico tra arte, design, artigianato, industria.

Bortolani costruisce così un personale ponte tra occhio e mano, realizzando la sintesi perfetta tra faber e designer e traducendo negli artefatti il suo saper fare coltivato nello studio-atelier-falegnameria in quel di Spilamberto, vicino a Modena. È un vero maker, un autoproduttore che in My Way svela il suo backstage creativo e personale, fatto di disegni, progetti, oggetti, prototipi, pezzi unici, edizioni limitate che testimoniano anni di sperimentazione continua, ossessiva, appassionata.

Questo è il senso della serie di mobili in edizione limitata disegnata per Emilio Mazzoli, grande gallerista d’arte italiano; le sue Mazzoli Chair e Bench ricordano per assonanza estetica e concettuale la ricerca e la sperimentazione di un grande artista come Donald Judd. La stessa attitudine progettuale si esprime, linguisticamente e materialmente, anche nel suo recente lavoro senza tempo per Lapalma: con lo sgabello Giro, realizzato con un telaio in acciaio e un sedile circolare in rovere (nero o bianco), Fabio ci riporta a un’eleganza e a una semplicità da archetipo modernista. La stessa emerge anche nello sgabello ad altezza fissa Continuum, costruito con un tubo di sezione rettangolare che attraverso una piegatura a nastro continuo crea il dettaglio funzionale del poggiapiedi.

Con questi progetti Bortolani riallinea alla contemporaneità una serie di archetipi del disegno industriale che appartengono alla nostra memoria.Ma lo fa con una sensibilità progettuale unica, costante, riconoscibile. Con un pennello sottile, che dipinge e immagina per velature successive il mondo che lo circonda. A modo suo, appunto.

A DESTRA, DALL’ALTO: SEDIA MAZZOLI CHAIR (AUTOPRODUZIONE IN SERIE LIMITATA); LA COLLEZIONE DI ECOCORNICI, REALIZZATE SENZA COLLANTI MA SOLO CON ELASTICI, DISPOSTE SOPRA LA MAZZOLI CHAIR; DETTAGLIO DI UN’ECOCORNICE APERTA (AUTOPRODUZIONE IN SERIE LIMITATA).

SOTTO: ACQUERELLO MY WAY CON UN BREVE TESTO AUTOGRAFO DI FABIO BORTOLANI CHE INTRODUCE LA SUA MOSTRA MY WAY.

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testo di Enrico Leonardo Fagone

L’evoluzione dell’automobile, osservata da un punto di vista progettuale, è stata contrassegnata negli ultimi vent’anni da una radicale mutazione. Se in passato si attribuiva alla fi gura del carrozziere – e poi dello stilista prima ancora che del car designer – la defi nizione delle sue caratteristiche formali, conferendo sostanziale importanza al profi lo degli esterni, negli anni Ottanta l’attenzione del lavoro creativo-progettuale si è sempre più concentrata all’interno del veicolo.

SEMPRE PIÙ FOCALIZZATE SULLA definizione dell’abitacolo, INTESO COME LUOGO PRINCIPALE DELL’interazione tra utente e veicolo, LE ULTIME PROPOSTE DEL car design TRASFERISCONO A BORDO DELL’AUTO I MODELLI DELL’habitat domestico

In tempi più recenti, l’innovazione tecnologica e mutate esigenze di utilizzo in condizioni critiche – come la permanenza nel traffi co o l’allugamento delle distanze e dei tempi di percorrenza – hanno introdotto quella che potremmo defi nire una terza fase, ovvero di una maggiore interazione con il veicolo stesso determinata dalla ricerca costante di una condizione di benessere a bordo e dalla moltiplicazione dei dispositivi ausiliari alla guida e per la permanenza dei passeggeri.

L’interno dell’automobile è così divenuto il principale ‘luogo’ dell’interazione tra utente e veicolo, uno spazio opportunamente attrezzato per fornire la massima funzionalità possibile e livelli di confort e di sicurezza, attiva e passiva, sensibilmente maggiori se confrontati con quelli dei veicoli delle generazioni precedenti. L’evoluzione dei sistemi elettronici di bordo, dal controllo dei principali organi meccanici alla navigazione assistita e alla comunicazione in rete, hanno ridefi nito per molti aspetti modalità e ritualità di un rapporto simbiotico, quello tra utente e veicolo, ma anche complesso nelle sue dinamiche e articolazioni possibili. Da qui il costante trasferimento all’interno dell’auto di modelli propri di contesti ‘abitativi’ differenti: interni concepiti come spazi fl essibili, ispirati con sempre maggior frequenza da altri ambiti progettuali e messi a punto attraverso dispositivi evoluti in grado di estenderne le possibilità operative. Dai sistemi intelligenti per l’integrazione del veicolo con le infrastrutture della viabilità (prossimi ormai a sostituire il conducente alla guida) all’applicazione di nuovi materiali e tecnologie nella costruzione della carrozzeria e della componentistica (mediante processi di lavorazione sofi sticati), il mondo del design automobilistico sembra ormai stabilmente perseguire un’evoluzione tecnologica e formale il cui obiettivo principale è individuare una inedita dimensione estetica ma anche fortemente connotata per le dinamiche emozionali e relazionali che è in grado di attivare.

Prototipi e concept car

Nelle più recenti proposte presentate in occasione dei Saloni dell’automobile di Francoforte e Tokyo, è evidente lo sforzo compiuto per identifi care una nuova fi sionomia e per restituire un’immagine dell’automobile coerente con i nuovi scenari imposti dalle tematiche della sostenibilità e della tutela delle risorse ambientali, nello stesso tempo rivolta a garantire la massima effi cienza e integrazione nel proprio contesto di utilizzo. Una conferma di questa tendenza generalizzata viene da parte dei designer e tecnici delle maggiori case automobilistiche che tengono a sottolineare quanto alla base delle loro proposte vi sia spesso un approccio di tipo ‘olistico’ incentrato su una visione allargata dei problemi e mirato ad individuare contenuti realmente innovativi.

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DI CARBONIO PERMETTE L’INSTALLAZIONE DI UN TETTOCOMPLETAMENTE REMOVIBILE E GARANTISCE RIGIDITÀ

STRUTTURALE ALLA VETTURA.

L’ABITACOLO RIPROPONE LO STESSO COLORE DEGLI ESTERNI ED È CARATTERIZZATO DA SEDUTE MODULARI ELASTICHE

SOSPESE, COLLEGATE INSIEME ALLA CONSOLLE CENTRALE.

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Un modo di concepire l’automobile oggi così diffuso da spingere i progettisti Citroën ad affermare quanto l’esperienza del viaggio possa risultare coinvolgente per la sua valenza emozionale al pari della stessa meta finale. Se Tubik, l’ultimo concept presentato da Citroën al Salone di Francoforte propone così una riorganizzazione dell’allestimento interno privilegiando il tema del confort e del migliore sfruttamento dello spazio disponibile – accentuato dalla grande porta di accesso laterale che occupa quasi per intero la sezione della fiancata – Renault prova ad esplorare nuove possibili declinazioni formali per dare vita a interni ‘futuribili’ e flessibilmente adattabili in grado di ospitare dispositivi tecnologici evoluti.

Dalle volumetrie di R-Space, i cui interni sono stati concepiti a partire dal gioco delle modulazioni spaziali ottenibili riempiendo o vuotando l’abitacolo di morbidi solidi per configurare la disposizione ergonomica di passeggeri e bagagli, alle trame filiformi con le quali sono state realizzate le sedute, la plancia e i pannelli porta di Captur, dalle sinuose e luminescenti superfici in kevlar di DeZir ai rivestimenti tipicamente domestici di Frendzy – originale minivan multiuso provvisto di numerosi dispositivi interattivi con le infrastrutture del traffico e della viabilità oltre che di una sorta di lavagna-monitor, attraverso la quale diffondere informazioni all’esterno – i concept realizzati dall’azienda francese testimoniano di una vitalità e capacità propositiva che pare temporaneamente distaccarsi dall’attuale impasse economica dell’intero settore.

L’automobile tra evoluzione simbolica e innovazione tecnologica

Diverso ma egualmente significativo per il valore evocativo e ironico è Bamboo, il veicolo proposto da Rinspeed, costruttore svizzero indipendente, da anni impegnato nella realizzazione di prototipi e concept car sperimentali. Pensato per restituire all’automobile una funzione ricreativa, ispirato da alcune versioni speciali derivate da modelli in voga soprattutto negli anni Settanta – opportunamente riviste per quanto attiene il sistema di propulsione (elettrico) e la carrozzeria (in materiale sintetico ma ora ricilabile) – Bamboo richiama esplicitamente alla valenza simbolica dell’automobile, per recuperare una dimensione antropologica e socializzante forse perduta così da mettere in secondo piano ogni ulteriore connotazione in favore di una diretta fungibilità.

In un’altra direzione si collocano le ricerche di Bmw che persegue il proprio indirizzo tecnologico orientato nello studio di sistemi alternativi di propulsione elettrica correlati ad una mutazione delle caratteristiche strutturali e materiche del veicolo in vista della più alta efficienza possibile.

A DESTRA: RENAULT DEZIR, PROTOTIPO DI VETTURA A DUE POSTI, PROPULSORE ELETTRICO DA 110 KW, CARROZZERIA

IN MATERIALI COMPOSITI, COMPONENTI IN KEVLAR, 2011.

NELLA PAGINA ACCANTO: SMART FORVISION, PROTOTIPO, 2011. LA STRUTTURA DEL TETTO INTEGRA UN SISTEMA DI CELLE FOTOVOLTAICHE ESAGONALI PER LA RICARICA DELLE BATTERIE E UN APPARATO DI ILLUMINAZIONE OLED (ORGANIC LIGHT-EMITTING DIODES).

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i3 e i8, prototipi di veicoli a propulsione elettrica, stabiliscono nuovi termini di confronto possibili a partire dalla separazione della piattaforma tecnologica, costituita dal sistema propulsore-organi di trasmissione-batterie rispetto alla struttura del telaio e della scocca, progettata e ingegnerizzata mediante avanzate procedure di lavorazione che prevedono l’impiego diffuso di fibre di carbonio opportunamente trattate secondo i principi delle CFRP, “carbon fiber reinforced plastics”. Si tratta di specifici procedimenti basati sull’utilizzo di fibre di carbonio immerse in una matrice di plastica (resina) con evidenti vantaggi in termini di stabilità e leggerezza. A parità di funzione strutturale è stato riscontrato infatti un contenimento del peso pari al 50% rispetto alle tradizionali realizzazioni in acciaio. Inoltre il materiale resiste alla corrosione, agli acidi e ai solventi organici ed è quindi notevolmente più longevo del metallo. A queste peculiarità si aggiunge poi la stabilità dimensionale in tutte le condizioni

climatiche con lievissime deformazioni anche in presenza di elevate oscillazioni termiche. Lo studio di queste tecnologie prefigura secondo Bmw un’alta flessibilità produttiva grazie a metodologie di applicazione sempre più accurate che consentiranno di distribuire e orientare le fibre in maniera efficace e di mettere a punto tecniche di preformatura che renderanno concorrenziali le lavorazioni in carbonio per componenti di carrozzeria integrati e di grande superficie altrimenti realizzabili solo in alluminio o in lamiera d’acciaio ma con costi notevolmente maggiori. Esplicitare i contenuti tecnici e costruttivi che l’industria automobilistica è in grado di esprimere è un tema al quale sembra approssimarsi anche l’ultima realizzazione di Smart, Forvision, prototipo di vettura compatta concepita guardando all’evoluzione morfologica del fortunato veicolo destinato alle aree urbane di cui eredita i consueti parametri dimensionali ma anche una personalizzata fisionomia.

SOTTO: UN DETTAGLIO DEGLI INTERNI DELLA BMW i3, PROTOTIPO DI VETTURA A QUATTRO PORTE, CON SISTEMA DI PROPULSIONE ELETTRICO E CARROZZERIA

CON ELEMENTI IN FIBRA DI CARBONIO RINFORZATA (CFRP), 2011. NELLA VISTA D’INSIEME LA BMW i3 (A DESTRA) È RAFFIGURATA ACCANTO ALLA BMW i8 (A SINISTRA), PROTOTIPI DI VEICOLI A PROPULSIONE ELETTRICA E IBRIDA,

CON SISTEMA DI PROPULSIONE IBRIDO E CARROZZERIA CON ELEMENTI IN FIBRA DI CARBONIO RINFORZATA (CFRP), 2011.

DISEGNI PER LA NUOVA PANDA, MODELLO IN SERIE, FIAT GROUP AUTOMOBILES, 2011.

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Dalla ricerca alla produzioneSpostando il punto di osservazione dai

prototipi di ricerca alla produzione di serie, dove tutte le pulsioni creative devono misurarsi perentoriamente con le strategie e le logiche imposte dalle produzioni e dal mercato, una conferma di una diversa vitalità è testimoniata dalla nuova Fiat Panda. Incentrato sul tema dell’usabilità, la terza generazione del fortunato modello Fiat prova a dimostrare la valenza comunicativa di un disegno in grado di esprimere una fisionomia non anonima e votata al positivo recupero di una propria dimensione funzionale primaria. Come ha tenuto ad affermare Roberto Giolito, responsabile del design per il marchio Fiat, il progetto della nuova Panda esprime un nuovo concetto contemporaneo che associa all’auto una personale e riconoscibile identità e insieme una godibile fungibilità.

L’obiettivo è dunque stabilire nuovi termini di indagine sia dal punto di vista del ‘design’ sia per

mettere in relazione contesti apparentemente distanti tra loro come quello dell’automobile e dei mezzi di trasporto rispetto all’habitat domestico, all’universo della moda, passando per le ormai imprescindibili questioni che riguardano temi come l’energia e la salvaguardia dell’ambiente. Questa prospettiva si rivela appropriata per individuare nuove correnti di progetto ma anche per leggere positive relazioni e inedite modalità di fruizione: l’automobile come strumento indispensabile di mobilità, ‘specchio’ e ‘tramite’ di consuetudini di vita, di comportamenti e pure di contraddizioni, ma anche puntuale conferma dell’evoluzione tecnologica in atto, autentico emblema – come ha più volte ricordato il filosofo Roland Barthes – del nostro tempo.

SOPRA: CITROËN TUBIK, PROTOTIPO DI VEICOLO A NOVE POSTI, PROPULSIONE IBRIDA, 2011. I SEDILI, DISPOSTI

SU TRE FILE E DOTATI DI POGGIATESTA INTEGRATI NEL PADIGLIONE, SONO VOTATI ALLA MASSIMA FLESSIBILITÀ.

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RAYMOND TABLE. TAVOLO REALIZZATO DAL DESIGNER ISRAELIANO DAVID AMAR CON ASSIDA CANTIERE E MORSETTI METALLICI. DA GALLERIA ROSSANA ORLANDI.

POH (PATCHWORK OVAL HEMISPHERE), DI RAPHAEL NAVOT PER CAPPELLINI, PANCA REALIZZATA DA UN PATCHWORK

DI PEZZI DI LEGNO GREZZO VECCHI E NUOVI, ASSEMBLATI SECONDO UNO SCHEMA GENERATO AL COMPUTER

INVIATO A UNA MACCHINA A CONTROLLO NUMERICO CHE TAGLIA LA FORMA SULLE TRE DIMENSIONI. PROTOTIPO.

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wooD mooDdi Katrin Cosseta

IL DESIGN ESPRIME UNA NUOVA FASE

DI PROTAGONISMO DEL legno, IN UN INEDITO

INCONTRO TRA PROGETTO industriale E ALTA

ebanisteria. TECNOINTARSI

E LAVORAZIONI A CONTROLLO NUMERICO

SI ALTERNANO A CREAZIONI CON LEGNI

GREZZI O DI recupero, VICINO ALLA POETICA

DELL’objet trouvé

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A SINISTRA: IL MOBILE CONTENITORE PAESAGGI ITALIANI DI MASSIMO MOROZZI PER EDRA REINTERPRETATO DA FRANCESCO BINFARÈ CON ANTE IN MASSELLO DI MOGANO TAGLIATE A VIVO E CON CORTECCIA SUI LATI ESTERNI.

SOTTO: LE BUREAU DI PAOLO DI SAM BARON PER SECONDOME EDIZIONI, SCRIVANIA, CON CASSETTI INTEGRATI NELLE GAMBE, REALIZZATA IN TEAK MARINO VERNICIATO DAI MAESTRI D’ASCIA DI UN CANTIERE NAVALE. EDIZIONE DI 8 ESEMPLARI.

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WOODS, DI HÉCTOR SERRANO PER ARTURO ALVAREZ, LAMPADA A SOSPENSIONE CON DIFFUSORE COMPOSTO

DA BARRE DI LEGNO DI BETULLA DA FORESTAZIONE CONTROLLATA. FONTE LUMINOSA A RISPARMIO ENERGETICO.

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PAGINA A LATO. IN ALTO: AEI, DI CHI WING LO PER GIORGETTI, CONSOLLE IN NOCE CANALETTO CON CASSETTO E VASSOIO CIRCOLARE A INCASSO NEL PIANO.IN BASSO: OMAGGIO, DI NOÉ DUCHAUFOUR-LAWRANCE PER CECCOTTI, SCRIVANIA CON STRUTTURA IN MASSELLO DI NOCE AMERICANO, CASSETTIERA CON QUATTRO CASSETTI DI CUI UNO IN ACERO, PIANO IN VETRO.SULLO SFONDO: LOS, DI HÉCTOR ESRAWE PER PIRWI, PARAVENTO IN COMPENSATO DI BETULLA DISPONIBILE IN VARIE FINITURE.

DETTAGLIO DELLA STRUTTURA DI TARTAN T, DI FERRUCCIO LAVIANI PER EMMEMOBILI, TAVOLO RETTANGOLARE

COMPOSTO DA PANNELLI DI MULTISTRATO SAGOMATI AD INCASTRO E RIVESTITI IN VARIE ESSENZE. PIANO

IN VETRO EXTRACHIARO.

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A DESTRA: INLAY, DEL GRUPPO FRONT PER PORRO, CREDENZA CON FRONTALE A INTARSIO LIGNEO A EFFETTO TRIDIMENSIONALE, COMPOSTO DA QUATTRO DIVERSE TONALITÀ NATURALI DI ROVERE.

AL CENTRO: ZERO CODE DI MORELATO, MODULO PENSILE DALL’OMONIMO SISTEMA COMPONIBILE, CON STRUTTURA IN LEGNO DI CILIEGIO CON ANTE A LISTELLI A “CODE” DI VARIE ESSENZE (NOCE, ACERO, CILIEGIO E TOULIPIER). DESIGN CENTRO RICERCHE MAAM. IN BASSO: THUTU, DI PATTY JOHNSON PER MABEO, TAVOLINI E SGABELLI IN LEGNO PANGA PANGA, MASASA, MUKWA O QUERCIA BIANCA, ANCHE CON FINITURA VERNICIATA A STRISCE.

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ARMADILLO, DI LUIS ESLAVA STUDIO PER LZF, LAMPADA A SOSPENSIONE CON DIFFUSORE A ‘SCAGLIE’ DI LEGNO

BOLIVAR BLANCO.

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AGAPE srlVia Pitentino 646037 GOVERNOLO DI RONCOFERRARO MNTel. 0376250311Fax 0376250330www.agapedesign.itwww.agapecasa.itinfo@agapedesign.itALAPE GMBHAm Gräbicht 1 - 9D GOSLAR 38644Tel. +4953215580Fax [email protected]. in Italia: MARQUARDT sasVia G. Leopardi 1420019 SETTIMO MILANESE MITel. 0233512028Fax [email protected] spaVia Mecenate 8620138 MILANOTel. 02580301Fax [email protected] spaVia Privata Alessi 628887 CRUSINALLO DI OMEGNA VBTel. 0323868611Fax [email protected] DE LUCCHI srlVia Varese 1520121 MILANOTel. 026378681Fax [email protected] ARTEMIDE spaVia Bergamo 1820010 PREGNANA MILANESE MITel. 02935181Fax 0293590254nr verde 800 [email protected] ALVAREZSan Miguel de Sarandon 9E 15886 VEDRATel. +34 (98) 1814600www.arturo-alvarez.comcalor-color@arturo-alvarez.comASTIER DE VILLATTEwww.astierdevillatte.comB&B ITALIA spaStrada Provinciale 32, n.1522060 NOVEDRATE COTel. 031795111Fax [email protected] spaV.le Milano 5636075 ALTE DI MONTECCHIO MAGGIORE VITel. 04447075111Fax 0444492088www.bisazza.comwww.bisazzabagno.cominfo@[email protected] CERAMICHE Via A. Gramsci 1650056 MONTELUPO FIORENTINO FITel. 057151403Fax [email protected]

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NELL’IMMAGINE: VILLA A KARUIZAWA, NAGANO, GIAPPONE, COSTRUITA SU UN DECLIVIO DALLA FORTE PENDENZA E PROTETTA DA UNA COPERTURA DI CORTEN ROSSO A FORMA DI MEZZALUNA, PROGETTO DI SATOSHI OKADA ARCHITECTS. IN THE IMAGE: VILLA AT KARUIZAWA, NAGANO, JAPAN, BUILT ON A STEEP SLOPE AND PROTECTED BY A ROOF OF RED COR-TEN IN THE SHAPE OF A CRESCENT MOON. PROJECT BY SATOSHI OKADA ARCHITECTS. (FOTO DI/PHOTO BY SERGIO PIRRONE)

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N. 618 gennaio-febbraio 2012January-February 2012rivista fondata nel 1954review founded in 1954

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