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Frederick Forsyth. DOSSIER ODESSA. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973. Traduzione di Marco Tropea. Copyright Danesbrook productions Ltd 1972. Titolo dell'opera originale: "The Odessa File". Pubblicato da Hutchinson & Co (Publishers) Ltd Londra. NOTE A PAGINA 492. "A tutti i reporters". NOTA DELL'AUTORE. E' consuetudine degli autori ringraziare le persone che hanno collaborato alla preparazione di un libro, in particolare su un argomento difficile, e così facendo citarli. Tutti coloro che mi hanno aiutato, anche limitatamente, a raccogliere le informazioni necessarie per scrivere "Dossier Odessa" hanno diritto ai miei più sentiti ringraziamenti, e se non li cito è per tre ragioni. Alcuni, ex-membri delle S.S., non erano a conoscenza né dell'identità del loro interlocutore del fatto che le loro testimonianze

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Frederick Forsyth. DOSSIER ODESSA. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973.

Traduzione di Marco Tropea.

Copyright Danesbrook productions Ltd 1972.

Titolo dell'opera originale: "The Odessa File". Pubblicato da Hutchinson & Co (Publishers) Ltd Londra.

NOTE A PAGINA 492.

"A tutti i reporters".

NOTA DELL'AUTORE.

E' consuetudine degli autori ringraziare le persone che hanno collaborato alla preparazione di un libro, in particolare su un argomento difficile, e così facendo citarli. Tutti coloro che mi hanno aiutato, anche limitatamente, a raccogliere le informazioni necessarie per scrivere "Dossier Odessa" hanno diritto ai miei più sentiti ringraziamenti, e se non li cito è per tre ragioni. Alcuni, ex-membri delle S.S., non erano a conoscenza né dell'identità del loro interlocutore né del fatto che le loro testimonianze sarebbero state riportate in un libro. Altri hanno specificamente richiesto che i loro nomi non fossero menzionati come fonti d'informazione sulle S.S. Nel caso di altri ancora, la decisione di non citare i loro noi è stata presa da me solo, e spero più a loro beneficio che a mio.

F. F.

PREFAZIONE.

L'"Odessa" del titolo non è la città della Russia meridionale, e neppure la piccola cittadina americana. E' una parola composta di sei lettere iniziali, che in tedesco stanno per "Organisation Der Ehemaligen S.S.-Angehörigen": "Organizzazione degli ex-membri delle

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S.S.". Le S.S., come la maggior parte dei lettori saprà, furono l'esercito dentro l'esercito, lo stato dentro lo stato, concepite da Adolf Hitler, comandate da Heinrich Himmler, incaricate di compiti speciali sotto i nazisti che governarono la Germania dal 1933 al 1945. In teoria questi compiti riguardavano la sicurezza del Terzo Reich; nella realtà includevano la realizzazione del progetto ambizioso di Hitler di ripulire la Germania e l'Europa di tutti quegli elementi che egli considerava "indegni di vivere", di ridurre in schiavitù perpetua le "razze inferiori delle regioni slave", e di sterminare ogni ebreo, uomo donna o bambino, in tutto il continente. Nel portare a compimento questi incarichi le S.S. organizzarono ed eseguirono il massacro di circa quattordici milioni di esseri umani, dei quali sei milioni erano ebrei, cinque milioni russi, due milioni polacchi, mezzo milione zingari e, benché di rado sia ricordato, quasi duecentomila tedeschi e austriaci non ebrei. Questi erano minorati fisici o mentali; oppure i cosiddetti nemici del Reich, comunisti, socialdemocratici, liberali, redattori, giornalisti, sacerdoti che si erano pronunciati in modo troppo compromettente, uomini di coscienza e coraggio, e più tardi ufficiali dell'esercito sospettati di infedeltà a Hitler. Prima di essere sconfitte, le S.S. fecero delle due iniziali del loro nome e della coppia di fulmini simbolo del loro stendardo dei sinonimi di crudeltà, in un modo che nessun'altra organizzazione, prima o dopo di loro, ha mai potuto eguagliare. Prima della fine della guerra, i loro membri più alti in grado, perfettamente consapevoli della sconfitta e senza alcuna illusione sul giudizio degli uomini civili, al momento della resa dei conti fecero preparativi segreti per scomparire e costruirsi una nuova vita, lasciando l'intero popolo tedesco a sopportare e a dividersi le responsabilità al posto dei colpevoli. A questo scopo, ingenti somme in oro furono contrabbandate fuori dal paese e depositate in conti bancari numerati, furono preparati documenti d'identità falsi, furono aperte possibili vie di fuga. Quando gli alleati invasero finalmente la Germania, la maggior parte dei massacratori se n'era andata. L'Odessa fu creata per assicurare agli assassini la fuga verso climi più ospitali. Quando questo primo incarico fu portato a termine, le ambizioni degli assassini crebbero a dismisura. Molti non avevano lasciato la Germania, preferendo fermarsi sotto la copertura di nomi e di documenti falsi, mentre comandavano gli alleati. Altri tornarono, convenientemente protetti da nuove identità. I pochi uomini al vertice della piramide gerarchica rimasero all'estero, nel loro confortevole esilio, a dirigere i fili dell'organizzazione. L'obiettivo dell'Odessa era e rimane articolato in cinque parti: riabilitare gli ex-membri delle S.S. nelle professioni della nuova repubblica federale creata nel 1949 dagli alleati; infiltrarsi, perlomeno nei quadri meno importanti, all'interno dei partiti politici; pagare per la migliore assistenza legale possibile a favore di ogni assassino S.S. incriminato da un tribunale e rendere vano con qualsiasi mezzo il corso della giustizia quando questa agisca nei confronti di un ex-"Kamerad";

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rendere possibile agli ex-membri delle S.S. di farsi una posizione nell'industria e nel commercio, in tempo utile per godere i frutti del miracolo economico che dal 1945 ha reso ricco il paese; e per finire, propagandare tra il popolo tedesco l'idea che gli assassini S.S. in realtà non erano altro che semplici soldati patriottici, che assolvevano il loro dovere verso la patria e che non meritavano affatto le persecuzioni alle quali la giustizia e la coscienza li avevano inutilmente sottoposti. In tutti questi compiti, con le spalle protette da fondi considerevoli, gli uomini dell'Odessa hanno ottenuto sensibili successi, soprattutto nel ridicolizzare le condanne emesse dai tribunali della Germania occidentale. Cambiando di nome molte volte, l'Odessa ha cercato di negare la sua stessa esistenza come organizzazione, con il risultato che molti tedeschi sono convinti dell'inesistenza dell'Odessa. La risposta è immediata: l'Odessa esiste, e i "Kameraden" dall'insegna della Testa di Morto sono ancora uniti al suo interno. Nonostante i suoi successi in quasi tutti gli obiettivi prefissati, l'Odessa subisce talvolta qualche sconfitta. La peggiore di tutte s'è verificata quando, all'inizio della primavera del 1964, un pacco di documenti arrivò inaspettato e anonimo al Ministero della Giustizia di Bonn. I pochi funzionari che videro l'elenco dei nomi su questi fogli, battezzarono il plico "Dossier Odessa".

Capitolo 1.

Tutti sembrano ricordare con grande precisione quello che stavano facendo il 22 novembre 1963, nel preciso istante in cui apprendevano la notizia della morte di Kennedy. Il presidente era stato colpito alle 12.22 ora di Dallas, e l'annuncio della sua morte era arrivato mezz'ora dopo, in base allo stesso fuso orario. A New York erano le 2.30, a Londra le 19.30 e ad Amburgo le 20.30 di una sera fredda e spazzata dal nevischio. Peter Miller stava ritornando in automobile verso il centro della città dopo aver fatto visita alla madre nella sua casa di Osdorf, uno dei sobborghi della città. Andava sempre a trovarla, il venerdì sera, in parte per assicurarsi che avesse tutto quello che le occorreva per il week-end e in parte perché sentiva il dovere di quella visita una volta la settimana. Le avrebbe telefonato, se sua madre avesse avuto il telefono, ma siccome non era così, Miller era costretto ad andare di persona. Ed era proprio per questo che sua madre rifiutava di far installare il telefono. Come al solito teneva la radio accesa, e stava ascoltando un programma musicale messo in onda dalla radio della Germania occidentale. Alle

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20.30 si trovava sulla strada di Osdorf, a dieci minuti dall'abitazione di sua madre, quando la musica s'interruppe nel mezzo di una battuta e si interpose la voce dell'annunciatore, carica di tensione. «"Achtung, Achtung". Interrompiamo la trasmissione: il presidente Kennedy è morto. Ripetiamo, il presidente Kennedy è morto». Miller fissò lo sguardo lungo il bordo superiore della radio, sulla serie debolmente illuminata delle frequenze, come se i suoi occhi potessero negare quello che le sue orecchie avevano udito, e rassicurarlo che era sincronizzato sulla stazione radio sbagliata, una stazione che trasmetteva assurdità. «Mio Dio» sussurrò, pigiando il pedale del freno e accostando al lato destro della strada. Lungo l'ampia autostrada diritta, che attraversava Altona verso il centro di Amburgo, altri automobilisti avevano appreso la stessa notizia e si stavano fermando, come se d'un tratto la guida e l'ascolto della radio fossero diventate due attività incompatibili, il che in un certo senso era vero. Sulla sua carreggiata, poteva vedere le luci d'arresto accendersi mentre gli automobilisti davanti a lui deviavano verso destra per parcheggiare e ascoltare ulteriori comunicati. Sulla sinistra, le automobili che si dirigevano fuori città lampeggiarono confusamente, mentre a loro volta si accostavano al bordo della strada. Due macchine lo sorpassarono, la prima strombazzando con rabbia, ed egli intravide il conducente battersi la fronte nella sua direzione con il gesto abituale con cui gli automobilisti tedeschi danno del demente a chi li indispettisce. "Anche lui lo verrà a sapere, prima o poi" pensò Miller. La musica leggera trasmessa dalla radio era stata interrotta, sostituita da una marcia funebre, evidentemente tutto quello che il disc-jockey aveva a disposizione. Di tanto in tanto, l'annunciatore leggeva frammenti di altre notizie, a mano a mano che arrivavano dall'ufficio stampa. Cominciava a delinearsi un quadro più particolareggiato: l'automobile scoperta nel suo giro per le vie di Dallas, il cecchino appostato alla finestra dello School Book Depository. Nessun accenno ad arresti. L'uomo nella macchina davanti a Miller scese e si diresse verso di lui. Si avvicinò al finestrino sinistro, poi s'accorse che stranamente il posto di guida si trovava sulla destra e fece il giro dell'automobile. Indossava un giubbotto di nailon con il bavero di pelliccia. Miller abbassò il finestrino. «Ha sentito?» chiese l'uomo. «Sì» rispose Miller. «Davvero incredibile» disse l'uomo. In tutta Amburgo, in Europa, nel mondo, la gente abbordava perfetti sconosciuti per commentare l'attentato. «Lei pensa che siano stati i comunisti?» chiese l'uomo. «Non so.» «Potrebbe significare la guerra, sa, se sono stati loro» disse l'uomo. «Forse» disse Miller. Sperava che se ne andasse. Come giornalista, immaginava il caos dentro le redazioni del paese, mentre ogni giornalista veniva richiamato in servizio per preparare la

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sensazionale edizione straordinaria destinata a comparire sulle tavole della prima colazione. Ci sarebbero stati necrologi da compilare, migliaia di tributi improvvisati da ordinare e impaginare, linee telefoniche assediate da uomini vocianti in cerca di dettagli sempre più particolareggiati su un uomo dalla gola lacerata che in quel momento giaceva su una lastra di marmo in una città del Texas. In un certo senso rimpiangeva di non essere ancora nella redazione di un quotidiano, ma da quando aveva scelto la libera professione, tre anni prima, si era specializzato in servizi giornalistici sulla vita tedesca, riguardanti soprattutto il crimine, la polizia, la malavita. Sua madre, che odiava quel mestiere, lo accusava di mischiarsi con "brutta gente", e a niente valevano le sue proteste: il fatto che stava per diventare uno degli autori di inchieste giornalistiche più conosciuti del paese non serviva certo a convincerla che la professione di giornalista era degna del suo unico figlio. A mano a mano che la radio comunicava nuovi particolari, la sua mente correva, cercando di mettere a fuoco qualche altra "angolatura" dell'accaduto che potesse essere trovata in Germania, un particolare secondario dell'evento principale. Delle reazioni del governo di Bonn si sarebbe occupato il personale delle redazioni, e così delle rievocazioni della visita di Kennedy a Berlino nel giugno precedente. Sembrava che non esistesse niente da scovare e da vendere a uno qualunque dei numerosi periodici tedeschi, i suoi migliori clienti. L'uomo appoggiato al finestrino sentì che l'attenzione di Miller era lontana e pensò che lui fosse sconvolto dalla morte del presidente. Smise subito di blaterare di guerre mondiali e adottò lo stesso grave contegno. «"Ja, ja, ja"» mormorò con aria saputa. «Gente violenta, questi americani, badi a quello che dico, gente violenta. C'è una componente di violenza in loro, che noi qui non capiremo mai.» «Certo» disse Miller, distratto. L'uomo, alla fine, capì l'antifona. «Be', devo tornare a casa» disse risollevandosi. «"Grüss Gott".» E si avviò verso la sua auto. Miller si rese conto che se ne stava andando. «"Ja, gute Nacht"» gridò dal finestrino aperto, poi lo richiuse a difesa del nevischio che arrivava volteggiando dall'Elba. La musica alla radio era stata sostituita da una lenta marcia, e l'annunciatore informò che non ci sarebbe stata più musica leggera quella notte, ma solo notiziari intervallati da musica appropriata. Miller si appoggiò alla comoda imbottitura di pelle del sedile della sua Jaguar e accese una Roth-Händl, sigaretta senza filtro dal tabacco scuro e puzzolente, altro motivo di lamentela per sua madre nei confronti di quel figlio deludente. C'è sempre la tentazione di domandarsi quello che sarebbe successo se... o se non. Di solito è un'esercitazione oziosa, dato che quello che sarebbe potuto essere è il più grande di tutti i misteri. Ma è probabilmente giusto dire che se quella notte Miller non avesse avuto la radio accesa non sarebbe rimasto fermo per mezz'ora sul lato della strada. Non avrebbe visto l'ambulanza, né avrebbe mai sentito parlare di Salomon Tauber e di Eduard Roschmann, e quaranta mesi più tardi la repubblica d'Israele avrebbe probabilmente cessato di esistere. Finì di fumare la sigaretta, ascoltando la radio, abbassò il

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finestrino e gettò via il mozzicone. A una pressione sul pulsante il motore da 3,8 litri che si trovava sotto il lungo cofano inclinato della Jaguar X.K. 150 S rombò una volta, per poi attutirsi al suo abituale e tranquillo brontolio di animale fremente che cerca di uscire dalla gabbia. Miller accese le luci di posizione, controllò la strada alle proprie spalle e s'immerse nel crescente fiume di traffico lungo la strada per Osdorf. Era arrivato al semaforo della Stresemanstrasse, che segnava rosso, quando udì l'ambulanza dietro di sé. Lo affiancò sulla sinistra, con l'urlo della sirena che si alzava e si abbassava, rallentò un attimo prima di avventurarsi nell'incrocio contro la luce rossa, poi gli sfrecciò davanti agli occhi, verso destra in Daimlerstrasse. Miller reagì d'istinto. Mollò il pedale della frizione e la Jaguar scattò sulla scia dell'ambulanza, a venti metri di distanza. Subito desiderò di essere andato direttamente a casa. Probabilmente era una faccenda da niente, ma non si poteva dire. Un'ambulanza significava guai, e guai potevano significare un articolo, soprattutto se uno si trovava per primo sul luogo dell'accaduto e se tutta la faccenda veniva messa in chiaro prima che arrivassero i cronisti dei giornali. Poteva trattarsi di un grosso incidente stradale, o dell'incendio di una banchina, di un edificio in fiamme con bambini intrappolati dentro. Poteva essere niente. Miller portava sempre con sé una piccola Yashica con flash incorporato, in uno scomparto del cruscotto, pronta a ogni occasione. Il 6 febbraio 1958, una persona di sua conoscenza era in attesa di partire dall'aeroporto di Monaco, e l'aereo che trasportava la squadra di football del Manchester United si era schiantato a poche centinaia di metri di distanza. Questa persona non era nemmeno un fotografo professionista, ma aveva fuori dalla custodia la macchina fotografica che portava con sé per una vacanza in una stazione sciistica e aveva scattato le prime fotografie in esclusiva dell'aereo in fiamme. I periodici gliele avevano pagate più di 5000 sterline. L'ambulanza serpeggiò attraverso il labirinto di piccole e anguste strade di Altona, lasciandosi alla sinistra la stazione ferroviaria e dirigendosi verso il fiume. Chiunque fosse alla guida dell'ambulanza Mercedes dal muso piatto conosceva Amburgo e sapeva guidare. Nonostante la sua grande accelerazione e le sospensioni rigide, Miller sentiva le ruote posteriori della Jaguar slittare sull'acciottolato reso viscido dalla pioggia. Miller riconobbe il magazzino di Menck, dove si vendevano pezzi di ricambio per auto, mentre gli sfrecciava davanti e, due strade dopo, ebbe la risposta ai suoi dubbi. L'ambulanza arrivò in una misera viuzza, scarsamente illuminata e lugubre nel nevischio che scendeva obliquo, fiancheggiata da edifici cadenti e da casermoni. S'arrestò di fronte a uno di questi, dove era già ferma un'automobile della polizia. La luce azzurra sul tetto della macchina irradiava un riflesso spettrale sulle facce dei curiosi che si accalcavano attorno al portone. Un corpulento sergente di polizia, con indosso una mantellina impermeabile, gridò alla folla di tirarsi indietro e di lasciar passare l'ambulanza. La Mercedes s'infilò in uno stretto varco. Il

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conducente e un infermiere smontarono, raggiunsero di corsa il retro dell'ambulanza e tirarono fuori una barella vuota. Dopo un breve scambio di parole con il sergente, salirono in fretta le scale. Miller parcheggiò accanto al marciapiede opposto, una trentina di metri più avanti, la fronte aggrottata. Nessun incidente stradale, nessun incendio, nessun bambino intrappolato. Probabilmente solo un infarto. Scese dalla Jaguar e si avvicinò alla folla che il sergente teneva indietro a semicerchio attorno alla porta del casermone, per mantener sgombro il passaggio fino al retro dell'ambulanza. «Le dispiace se salgo?» chiese Miller. «Certo che mi dispiace. Non è successo niente che possa interessarla.» «Sono un giornalista» disse Miller, esibendo la sua tessera. «E io sono un poliziotto» disse il sergente. «Non passa nessuno. Quelle scale sono già abbastanza strette, e nemmeno troppo sicure. Gli uomini dell'ambulanza scenderanno tra un momento.» Era grande e grosso, come si conviene ai sergenti di polizia delle sezioni più dure di Amburgo. Con il suo metro e novanta di altezza, la mantellina impermeabile e le braccia spalancate per tenere indietro la folla, sembrava inamovibile come una porta di granaio. «Che cosa è successo su, allora?» chiese Miller. «Non posso rilasciare dichiarazioni. Provi più tardi, alla stazione di polizia.» Un uomo in abiti civili scese le scale e sbucò sul marciapiede. La luce girevole sul tetto dell'autopattuglia Volkswagen gli passò sulla faccia e Miller lo riconobbe. Erano stati a scuola insieme al liceo di Amburgo. L'uomo era ora un vice ispettore investigativo della polizia di Amburgo, di stanza alla centrale di Altona. «Ehi, Karl.» A sentire il proprio nome, il giovane ispettore si voltò, scrutando la folla dietro il sergente. Al lampeggiare della luce sull'automobile della polizia scorse Miller e la sua mano destra tesa. La faccia gli si schiuse in un sogghigno, in parte di piacere in parte di irritazione. Rivolto al sergente, fece un cenno con la testa. «Tutto bene, sergente. Quello è più o meno innocuo.» Il sergente abbassò il braccio. Miller scattò in avanti e strinse la mano di Karl Brandt. «Che cosa fai qui?» «Seguivo l'ambulanza.» «Dannato avvoltoio. Che cosa stai combinando di questi tempi?» «Le solite cose da giornalista indipendente.» «E ti stanno andando parecchio bene, a quanto pare. Continuo a vedere il tuo nome sulle riviste.» «Si vive. Hai sentito di Kennedy?» «Già. Brutta faccenda. Staranno mettendo Dallas sottosopra, questa sera. Sono contento che non sia capitata a me, una gatta da pelare del genere.» Miller indicò con un cenno l'atrio semibuio del casermone, dove una debole lampadina gettava un riverbero giallognolo sulla tappezzeria scrostata. «Un suicidio. Gas. I vicini hanno sentito la puzza che filtrava sotto la porta e ci hanno chiamato. Se uno accendeva soltanto un fiammifero,

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l'intero caseggiato saltava per aria.» «Mica una stella del cinema, per caso?» chiese Miller. «Sì, certo. Quelle vivono tutte in buchi come questo. No, si tratta di un vecchio. Sembrava uno morto da anni, in ogni modo. Casi del genere ne succedono ogni notte.» «Be', dovunque sia andato a finire adesso, non starà certo peggio che in un posto così.» L'ispettore accennò un sorriso e si voltò mentre i due infermieri scendevano gli ultimi sette gradini delle scale scricchiolanti e arrivavano nell'atrio con il loro carico. Brandt si guardò intorno. «Fate largo. Lasciate libero il passaggio.» Il sergente riprese a gridare e spinse ancor più indietro la folla. I due infermieri uscirono sul marciapiede e si avvicinarono alle porte spalancate della Mercedes. Brandt li seguì, con Miller alle calcagna. Non che Miller volesse dare un'occhiata al cadavere del vecchio, o ne avesse anche soltanto l'intenzione. Stava solo seguendo Brandt. Quando gli infermieri raggiunsero l'ambulanza, il primo dei due agganciò il suo lato della barella alle guide scorrevoli e il secondo si accinse a spingerla dentro. «Ferma» disse Brandt, e sollevò l'angolo di lenzuolo sopra la faccia del morto. E spiegò, girando appena la testa: «Solo una formalità. Nel mio rapporto devo dire di avere accompagnato il cadavere all'ambulanza e poi all'obitorio». Le luci interne dell'ambulanza erano vivide, e Miller intravide per due secondi il volto del suicida. La sua prima e unica impressione fu di non aver mai visto niente di così vecchio e repellente. Anche tenendo conto degli effetti del gas, le chiazzature opache della pelle e il colore bluastro delle labbra, l'uomo non doveva essere stato una bellezza, da vivo. I radi capelli lisci erano incollati sul cranio. Gli occhi erano chiusi. La faccia era scavata, emaciata e, senza la dentiera, le guance sembravano risucchiate quasi al punto di toccarsi all'interno della bocca, dandogli l'aspetto di un mostro da film dell'orrore. Le labbra, che quasi non esistevano, erano raggrinzite in profondi solchi verticali, e ricordavano a Miller le bocche ricucite delle teste mozzate dagli indigeni del bacino delle Amazzoni. Per completare l'effetto, due cicatrici livide e frastagliate gli attraversavano la faccia, dalle tempie fino agli angoli della bocca. Dopo una rapida occhiata, Brandt riabbassò il lenzuolo e fece un cenno all'infermiere alle sue spalle. Si tirò indietro, e l'altro spinse la barella all'interno, chiuse le porte e raggiunse il collega nella cabina di guida. L'ambulanza partì di scatto, e la folla cominciò a disperdersi accompagnata dai sordi borbottii del sergente: «Su, è tutto finito. Non c'è nient'altro da vedere. Perché non ve ne tornate a casa?» Miller guardò Brandt e inarcò le sopracciglia. «Spettacolo affascinante, eh?» «Sì, povero vecchio. Niente che ti possa interessare, allora?» Miller sembrava addolorato. «Proprio niente. Come dici tu, di questi casi ne capita uno per notte. Gente che sta morendo ce n'è in tutto il mondo, e non fa notizia per nessuno. Non con Kennedy morto.»

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L'ispettore Brandt rise con aria canzonatoria. «Voi giornalisti, siete proprio incredibili.» «Comunque, quello che ho detto risponde a verità. E' di Kennedy che la gente vuol leggere. E sono loro a comprare i giornali.» «Sicuro. Be', devo tornare in sede. Ci vediamo, Peter.» Si strinsero di nuovo la mano e si separarono. Miller tornò in automobile verso la stazione ferroviaria, imboccò la strada principale che portava al centro della città e venti minuti dopo infilava la Jaguar nel garage sotterraneo di Hansaplatz, a duecento metri dal caseggiato in cui aveva il suo attico. Era dispendioso tenere l'automobile per tutto l'inverno nel garage sotterraneo, ma questo era uno dei lussi che egli si concedeva. Gli piaceva il suo attico piuttosto costoso perché si trovava in alto e di lì si poteva dominare il traffico dello Steindamm. Non gli importava molto dell'abbigliamento e del cibo, e a ventinove anni, più di un metro e ottanta d'altezza, con quei capelli castani e arruffati e occhi dello stesso colore che piacevano tanto alle donne, non aveva certo bisogno di vestiti costosi. Una volta un amico invidioso gli aveva detto: «Riusciresti a farti anche le suore di clausura» e lui aveva riso, ma nello stesso tempo si era sentito compiaciuto perché sapeva che era vero. Le vere passioni della sua vita erano le macchine sportive, la professione di giornalista e Sigrid, anche se a volte doveva ammettere con un certo senso di colpa che se fosse stato costretto a scegliere tra Sigi e la Jaguar, Sigi avrebbe dovuto cercare l'amore altrove. Parcheggiata la Jaguar, rimase a guardarla alla luce del garage. Non ne aveva mai abbastanza, di ammirarla. Gli capitava addirittura, quando si avvicinava alla Jaguar per la strada, di fermarsi a covarla con gli occhi; a volte, veniva apostrofato da un passante che, ignaro di parlare al proprietario della macchina, commentava: «Gran bel motore, quello!». Di solito, un giovane giornalista indipendente non possiede una Jaguar X.K. 150 S. Era quasi impossibile trovare i pezzi di ricambio ad Amburgo, specialmente della serie X.K., di cui il modello S era l'ultimo in ordine di tempo, che non veniva più prodotta dal 1960. Provvedeva lui stesso alla manutenzione, trascorrendo ore e ore delle domeniche disteso in tuta sotto il telaio o sepolto nel motore. La benzina che i tre carburatori S.U. bevevano, era l'onere maggiore per il suo portafoglio, anche a causa del prezzo della benzina in Germania; ma lui pagava volentieri. La ricompensa era sentire il ruggito furioso dei tubi di scappamento quando pigiava l'acceleratore sull'autostrada, o la spinta in avanti quando sfrecciava fuori da una curva su una strada di montagna. Aveva anche rinforzato la sospensione indipendente delle ruote anteriori ed essendo ad assale rigido le sospensioni delle ruote posteriori, la macchina affrontava le curve stabile come una roccia, lasciando gli altri automobilisti a sobbalzare sulle molle dei loro sedili se solo tentavano di tenergli dietro. Subito dopo aver acquistato la Jaguar, l'aveva fatta riverniciare in nero, con una lunga striscia gialla su ambedue le fiancate. Essendo Stata costruita a Coventry, in Inghilterra, e non per l'esportazione, il posto di guida era sulla destra, il che causava

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a volte qualche problema nei sorpassi, ma gli permetteva di ingranare le marce con la sinistra e di tenere saldo il volante con la destra; e ormai questa posizione gli era diventata più congeniale. Il ricordo di come gli era stato possibile acquistarla lo faceva ancora meravigliare della propria fortuna. L'estate precedente aveva casualmente sfogliato una rivista pop mentre aspettava il suo turno dal barbiere. Di solito non leggeva mai i pettegolezzi su divi del momento, ma non c'era nient'altro sotto mano. L'intera pagina centrale era dedicata alla mirabolante ascesa alla fama e alla celebrità internazionale di quattro ragazzi inglesi dai capelli arruffati. L'ultima faccia sulla destra della fotografia, quella di un giovane con il nasone, gli giungeva assolutamente sconosciuta, ma le altre tre avevano fatto squillare un campanello nella sua memoria-archivio. Anche i titoli dei due dischi che avevano portato il quartetto al successo, "Please Please Me" e "Love Me Do", non gli dicevano niente, ma l'enigma di quelle tre facce lo aveva seguito per due giorni. Finché si era ricordato: due anni prima, nel 1961, quei tre ragazzi cantavano in un piccolo cabaret sul Reeperbahn, per sbarcare il lunario. Gli ci era voluto un altro giorno per ricordare anche il nome del locale, perché ci era entrato solo una volta per scambiar due chiacchiere con un tale della malavita che poteva fornirgli le informazioni di cui aveva bisogno sulla banda di Sankt Pauli. Lo Star Club. Era andato laggiù e, dopo aver frugato tra le scritto ture del 1961, aveva scoperto i loro nomi. Erano in cinque, allora, i tre che aveva riconosciuto e altri due, Pete Best e Stuart Sutcliffe. Di là, si era recato dal fotografo che aveva fatto le diapositive pubblicitarie per l'impresario Bert Kaempfert, e aveva comprato i diritti di tutte quelle che aveva. Il suo servizio "Come Amburgo scoprì i Beatles" era stato pubblicato in Germania da quasi tutte le riviste specializzate e non, e da molte all'estero. Con il ricavato si era potuto permettere la Jaguar che da tempo teneva d'occhio: il proprietario, un ufficiale dell'esercito inglese, si era visto costretto a disfarsene perché la moglie incinta non riusciva più ad entrarci. Per gratitudine, aveva anche acquistato alcuni dischi dei Beatles, ma Sigi era l'unica persona che li ascoltava. Lasciò la macchina e salì in strada per tornare al suo attico. Era quasi mezzanotte, e benché sua madre gli avesse ammannito alle sei il solito pranzo pantagruelico che preparava per il suo arrivo, aveva di nuovo fame. Si cucinò un paio di uova strapazzate e rimase in ascolto del notiziario notturno. Era dedicato a Kennedy e accentuava prevalentemente gli aspetti relativi alla Germania, dato che c'erano poche notizie nuove da Dallas. La polizia era sempre alla ricerca dell'assassino. L'annunciatore si dilungò alquanto sull'amicizia di Kennedy per la Germania, la sua visita a Berlino l'estate prima, e la sua dichiarazione in tedesco: "Ich bin ein Berliner". C'era poi un messaggio registrato del borgomastro di Berlino Ovest, Willi Brandt, la cui voce era rotta dall'emozione, e poi altri ancora del cancelliere Ludwig Erhard e dell'ex-cancelliere Konrad Adenauer che si era dimesso il 15 ottobre precedente. Peter Miller spense la radio e si infilò a letto. Desiderò che Sigi fosse a casa perché aveva voglia di tenerla stretta a sé quando si

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sentiva depresso, e poi facevano l'amore, dopo di che egli cadeva in un sonno senza sogni, con grande disappunto di lei che desiderava sempre parlare di matrimonio e di figli. Ma il cabaret dove si esibiva restava aperto fin quasi alle 4 del mattino, spesso anche più tardi la notte del venerdì quando i provinciali e i turisti invadevano il Reeperbahn, pronti a comprare champagne a dieci volte il suo prezzo di ristorante per una ragazza dai seni grossi e dalla scollatura vertiginosa, e Sigi aveva i seni più grossi di tutte e la più vertiginosa scollatura. Fumò un'altra sigaretta, poi si addormentò alle 1.45 sognando l'orribile faccia del vecchio morto nel sobborgo di Altona.

Mentre ad Amburgo Peter Miller mangiava a mezzanotte le sue uova strapazzate, cinque uomini stavano seduti nel confortevole salotto di una casa attigua a una scuola di equitazione nei pressi delle piramidi fuori del Cairo. Erano le 1 del mattino. I cinque uomini avevano cenato bene ed erano di buon umore, per via delle notizie da Dallas che avevano ascoltato quattro ore prima. Tre erano tedeschi, gli altri due egiziani. La moglie dell'ospite e proprietario della scuola d'equitazione, uno dei luoghi d'incontro preferiti dell'alta società cairota e dei maggiorenti della colonia tedesca composta di parecchie migliaia di persone, era andata a letto lasciando i cinque uomini a chiacchierare fino alle ore piccole. Seduto in una comoda poltrona di pelle, accanto alla finestra con le imposte chiuse, c'era Peter Bodden, un tempo esperto della questione ebraica al Ministero della Propaganda nazista del dottor Joseph Goebbels. Essendosi stabilito in Egitto subito dopo la fine della guerra, trasportato là misteriosamente dall'Odessa, Bodden aveva preso il nome egiziano di El Gumra e lavorava come esperto sugli ebrei al Ministero egiziano dell'Orientamento. Aveva in mano un bicchiere di whisky. Alla sua sinistra c'era un altro ex-esperto dello staff di Goebbels, Max Bachmann, anche lui impiegato al Ministero dell'Orientamento. Nel frattempo si era fatto musulmano, aveva compiuto un viaggio alla Mecca ed era chiamato El Hadj. Per rispetto verso la sua nuova religione teneva in mano un bicchiere di succo d'arancia. Tutti e due erano fanatici nazisti. Gli egiziani erano il colonnello Chams Edine Badrane, aiutante di campo del maresciallo Abdel Hakim Amer che doveva diventare ministro della Difesa prima di essere condannato a morte per tradimento dopo la guerra dei sei giorni nel 1967. Il colonnello Badrane era destinato a cadere in disgrazia assieme a lui. L'altro era il colonnello Ali Samir, capo del Moukhabarat, il servizio segreto egiziano. C'era stato un sesto ospite a cena, l'ospite d'onore, che, alle 21.30 ora del Cairo, era tornato in gran fretta alla capitale, alla notizia della morte del presidente Kennedy. Egli era il portavoce dell'assemblea nazionale egiziana, Anwar El Sadat, uno stretto collaboratore del presidente Nasser e più tardi suo successore. Peter Bodden alzò il bicchiere verso il soffitto. «E così Kennedy, l'amico degli ebrei, è morto. Signori, propongo un brindisi.» «Ma i nostri bicchieri sono vuoti» protestò il colonnello Samir.

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Il padrone di casa si affrettò a rimediare, riempiendo i bicchieri vuoti con una bottiglia di scotch presa da una credenza. La definizione del presidente Kennedy come amico degli ebrei non stupì nessuno dei cinque uomini presenti nella stanza. Il 14 marzo 1960, quando Dwight Eisenhower era ancora presidente degli Stati Uniti, il primo ministro israeliano, David Ben Gurion, e il cancelliere della Germania, Konrad Adenauer, si erano incontrati segretamente al Waldorf-Astoria di New York, un incontro che dieci anni prima sarebbe stato ritenuto impossibile. Ma anche nel 1960 era ritenuto impossibile quello che in effetti accadde durante l'incontro: per questo motivo ci vollero anni prima che venisse fatta qualche indiscrezione; e sempre per questo motivo alla fine del 1963 il presidente Nasser si rifiutò di prendere seriamente in considerazione il rapporto che l'Odessa e il Moukhabarat del colonnello Samir gli misero sullo scritto toio. I due statisti avevano siglato un accordo in base al quale la Germania occidentale si impegnava ad aprire un credito finanziario di cinquanta milioni di dollari all'anno a favore d'Israele, senza condizioni. Ben Gurion, tuttavia, doveva presto scoprire che avere del denaro era una cosa, e avere una fonte sicura di armi era un'altra. Sei mesi più tardi, l'accordo del Waldorf veniva perfezionato da un altro accordo, firmato dai ministri della Difesa di Germania e d'Israele, Franz Josef Strauss e Shimon Peres, in base al quale Israele era autorizzato a impiegare il denaro tedesco per l'acquisto di armi in Germania. Adenauer, conscio del carattere molto più controverso del secondo accordo, ne rimandò per mesi l'applicazione, fino a quando, nel novembre 1961, si recò a New York per incontrare il nuovo presidente, John Fitzgerald Kennedy. Kennedy esercitò una certa pressione nei suoi confronti. Non voleva che i rifornimenti di armi arrivassero a Israele direttamente dagli Stati Uniti, ma voleva che in un modo o nell'altro arrivassero. Israele aveva bisogno di aerei da caccia, da trasporto, pezzi d'artiglieria Howitzer da 105 millimetri, autoblindo, veicoli corazzati per il trasporto di truppe, ma soprattutto carri armati. La Germania aveva tutto questo, principalmente di fabbricazione americana, sia acquistato dall'America per controbilanciare i costi delle truppe americane di stanza in Germania in base all'accordo NATO sia fabbricato in Germania su licenza. Grazie alla pressione di Kennedy l'accordo Strauss-Peres fu reso operante. I primi carri armati tedeschi cominciarono ad arrivare ad Haifa verso la fine del giugno 1963. Era difficile tenere la notizia segreta a lungo; c'erano di mezzo troppe persone. L'Odessa ne venne a conoscenza sul finire del 1962 e prontamente informò gli egiziani con i quali i suoi agenti al Cairo avevano strettissimi legami. Negli ultimi mesi del 1963, le cose cominciarono a cambiare. Il 15 ottobre Konrad Adenauer, la volpe di Bonn, il "cancelliere di acciaio", dava le dimissioni e si ritirava a vita privata. Il suo posto veniva preso da Ludwig Erhard, abile procacciatore di voti come padre del miracolo economico tedesco, ma debole e vacillante in materia di politica estera. Anche quando era in carica Adenauer, un gruppo di ministri del gabinetto tedesco-occidentale aveva rumoreggiato in favore

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dell'archiviazione dell'accordo sulle armi a Israele e del blocco delle forniture belliche prima che queste cominciassero. Il vecchio cancelliere li aveva messi a tacere con poche semplici frasi, e la sua autorità era tale che essi si erano zittiti. Erhard era un uomo molto differente e si era già meritato l'appellativo di "leone di gomma". All'atto del suo insediamento il gruppo anti-accordo, il cui punto di forza era il Ministero degli Esteri, avendo presenti le eccellenti relazioni in via di sempre maggiore miglioramento con il mondo arabo, aveva fatto sentire la sua voce. Erhard aveva vacillato. Ma più forte di tutti loro era la determinazione di John Kennedy che Israele ottenesse le sue armi via Germania. E poi lo avevano ucciso. Il grosso interrogativo, in quelle prime ore del mattino del 23 novembre, era questo: il presidente Lyndon Johnson avrebbe allentato la pressione sulla Germania e avrebbe permesso che l'indeciso cancelliere di Bonn revocasse l'accordo? In effetti la cosa non si verificò, ma al Cairo le speranze in questo senso erano molte. L'anfitrione dell'allegro convegno di quella notte, alla periferia del Cairo, riempì i bicchieri dei suoi ospiti, poi si voltò verso la credenza per riempire il proprio. Si chiamava Wolfgang Lutz, nato a Mannheim nel 1921, ex-maggiore dell'esercito tedesco, fanatico antisemita: era emigrato al Cairo nel 1961 e aveva aperto la sua scuola di equitazione. Biondo, occhi azzurri, lineamenti grifagni, godeva di molti favori sia tra le personalità politiche influenti del Cairo sia tra gli espatriati tedeschi, prevalentemente nazisti, della comunità lungo le rive del Nilo. Si voltò verso il centro della stanza e fece un largo sorriso alle persone presenti. Se in quel sorriso c'era qualcosa di falso, nessuno lo notò. Ma qualcosa di falso c'era. Lutz era un ebreo, nato a Mannheim, ma emigrato in Palestina nel 1933 all'età di dodici anni. Si chiamava Ze'ev e aveva il grado di Rav-Seren (maggiore) dell'esercito israeliano. A quell'epoca era anche il più importante agente del servizio segreto israeliano in Egitto. Il 28 febbraio 1965, dopo un'incursione in casa sua, durante la quale sarebbe stata scoperta una radio trasmittente, Lutz sarebbe stato arrestato, processato il 26 giugno 1965, e condannato ai lavori forzati a vita. Rilasciato alla fine del 1967 in cambio di migliaia di prigionieri di guerra egiziani, lui e sua moglie sarebbero arrivati all'aeroporto di Lod, di ritorno a casa, il 4 febbraio 1968. Ma la notte in cui Kennedy morì questo apparteneva ancora al futuro, l'arresto, le torture, le molteplici violenze alla moglie. Lutz sollevò il bicchiere verso le quattro facce sorridenti di fronte a lui. In realtà, non vedeva l'ora che i suoi ospiti se ne andassero, perché quello che uno di loro aveva detto a tavola era di vitale importanza per il suo paese, e lui desiderava soltanto di essere lasciato solo, per poter salire in bagno, estrarre dal nascondiglio la trasmittente e inviare un messaggio a Tel Aviv. Ma si sforzò di sorridere. «Morte agli amici degli ebrei.» brindò. «"Sieg Heil".»

Peter Miller si svegliò il mattino dopo, poco prima delle 9, e si

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rigirò pigramente sotto l'enorme piumino che copriva il letto a due piazze. Anche se non era ancora del tutto sveglio, avvertiva il tepore del corpo di Sigi addormentata, e di riflesso si rannicchiò più vicino a lei in modo che le natiche della ragazza erano appoggiate alla base del suo stomaco. Automaticamente, ebbe un'erezione. Sigi, ancora addormentata dopo solo quattro ore di sonno, borbottò disturbata e si allontanò verso la sponda del letto. «Va' via» brontolò senza svegliarsi. Miller sospirò, si girò sulla schiena e prese l'orologio, controllandolo con gli occhi semichiusi a causa del debole chiarore. Poi scivolò fuori dal letto, s'infilò un accappatoio e ciabattò fino in salotto per aprire le tende. La grigia luce di novembre inondò la stanza accecandolo. Si stropicciò gli occhi e guardò giù nello Steindamm. Era un sabato mattina, e il traffico era scarso lungo il nero nastro d'asfalto bagnato. Sbadigliando, si diresse verso la cucina per prepararsi la prima delle sue innumerevoli tazze di caffè. Sia sua madre sia Sigi gli rimproveravano di vivere quasi solo a base di caffè e di sigarette. Mentre in cucina beveva il caffè e fumava la prima sigaretta della giornata, pensò se aveva da fare qualcosa di particolare. Decise di no. Tutti i quotidiani e le varie edizioni dei rotocalchi avrebbero avuto spazio solo per il presidente Kennedy, forse per molti giorni e settimane ancora. E lui non aveva trovato nessuna idea degna di nota, fino a quel momento. Inoltre, il sabato e la domenica sono pessimi giorni per contattare le persone negli uffici, e raramente qualcuno ha piacere di trovarsi gente fra i piedi a casa. Aveva appena finito una serie di articoli, che avevano destato un certo interesse, sulla costante infiltrazione di gangster austriaci, parigini e italiani nella miniera d'oro del Reeperbahn, quasi un chilometro di Amburgo caratterizzato da night-club, bordelli e vizio, e non aveva ancora visto compensi. Pensò di farsi vivo con il giornale al quale aveva venduto il servizio, ma preferì soprassedere. Lo avrebbero pagato entro pochi giorni, e per il momento non era a corto di quattrini. L'estratto conto della sua banca, che gli era arrivato tre giorni prima, gli annunciava un credito di più di 5000 marchi, con i quali poteva andare avanti ancora per qualche tempo. "Il tuo problema, amico," disse a se stesso specchiandosi in una delle pentole splendidamente lucidate da Sigi, mentre risciacquava la tazza con l'indice "è che tu sei pigro." Dieci anni prima, al termine del suo servizio militare, un funzionario dell'ufficio collocamento militari in congedo gli aveva chiesto che cosa avrebbe desiderato fare nella vita. Aveva risposto: «Il ricco sfaccendato»; e a ventinove anni, benché non ci fosse riuscito e nonostante avesse zero probabilità di riuscirci mai, la considerava ancora un'ambizione perfettamente ragionevole. Portò in bagno la radiolina a transistor, chiuse la porta per non disturbare Sigi, e ascoltò i notiziari mentre faceva la doccia e si radeva. L'argomento principale era l'arresto di un uomo per l'omicidio del presidente Kennedy. Come prevedeva, l'intero programma non comprendeva altre notizie che quelle riguardanti l'assassinio di Kennedy.

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Dopo essersi asciugato tornò in cucina e preparò dell'altro caffè, due tazze questa volta. Le portò in camera da letto, appoggiandole sul comodino, e dopo essersi sfilato l'accappatoio si rimise sotto le coperte accanto a Sigi, la cui testa di vaporosi capelli biondi spuntava sul cuscino. Sigi aveva ventidue anni e a scuola era stata una campionessa di ginnastica, così diceva lei, che avrebbe potuto raggiungere livelli olimpionici se il suo seno non si fosse sviluppato fino al punto che nessun reggiseno poteva efficacemente contenerlo. Terminati i suoi studi, era diventata insegnante di educazione fisica in una scuola femminile. La decisione di diventare spogliarellista ad Amburgo era stata presa un anno dopo per la più convincente e semplice delle ragioni economiche. La paga era cinque volte superiore allo stipendio di un'insegnante. Anche se in un night-club si spogliava senza molte difficoltà fino a rimanere completamente nuda, la imbarazzavano i commenti di qualsiasi genere sul suo corpo se partivano da persone che lei poteva vedere mentre i commenti venivano fatti. «Il punto è» aveva detto una volta con grande serietà a Peter Miller che l'ascoltava divertito «che quando sono sul palcoscenico non vedo il pubblico per via delle luci. Per questo non provo imbarazzo. Se vedessi anche una sola persona, credo che scapperei via.» Questo non le impediva più tardi di sedersi a uno dei tavolini del locale, quando si era rivestita, e di aspettare di essere invitata a bere da qualche cliente. L'unica bevanda permessa era lo champagne, in mezze bottiglie o preferibilmente bottiglie intere. Su queste, aveva diritto a una percentuale del quindici per cento. Benché quasi senza eccezione i clienti che la invitavano sperassero di ricavarci qualcosa di più che un'ora di stupida ammirazione del canyon tra i suoi seni, i loro desideri non venivano mai soddisfatti. Era una ragazza gentile e comprensiva, e il suo atteggiamento di fronte alle goffe attenzioni dei clienti era di cortese dispiacere, mentre le altre ragazze nascondevano il disgusto e il disprezzo dietro i loro sorrisi al neon. «Poveri ometti» aveva detto una volta a Miller. «Dovrebbero avere tutti una bella donna che li aspetta a casa.» «Che cosa vuoi dire, con poveri ometti?» aveva protestato Miller. «Sono vecchi sporcaccioni con un sacco di soldi da buttar via.» «Be', non lo sarebbero se avessero qualcuno che si prendesse cura di loro» aveva risposto Sigi, con la sua logica femminile che non faceva una grinza. Miller l'aveva notata per caso, durante una visita al bar di Madame Kokett, sotto il Café Keese sul Reeperbahn, una volta che era andato a scambiar quattro chiacchiere con il proprietario, suo vecchio amico e informatore. Era un gran pezzo di ragazza, alta uno e settantacinque, e una figura adeguata. Si spogliava al suono della musica, con i movimenti sforzatamente sensuali e l'espressione da camera da letto tipica delle spogliarelliste. Miller aveva assistito molte volte prima d'allora a questo genere di spettacoli e aveva sorseggiato la sua bibita senza batter ciglio. Ma quando anche il reggiseno era caduto, lui aveva dovuto fermarsi a guardare, il bicchiere a mezz'aria. Il suo ospite gli aveva lanciato

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un'occhiata divertita. «Costruita bene, eh?» aveva detto. Miller aveva dovuto ammettere che al suo confronto le donnine del mese su "Playboy" apparivano come casi gravi di denutrizione. Ma i muscoli della ragazza erano così sodi che il seno le era rimasto teso verso l'alto senza niente che lo sorreggesse. Al termine del numero, quando erano scrosciati gli applausi, la ragazza, abbandonando la posa annoiata della danzatrice professionista, aveva accennato un timido impacciato inchino verso il pubblico e si era prodotta in un ampio sorriso malizioso come quello che può fare un cane da riporto non ancora addestrato che, contro ogni previsione, ha appena riportato una pernice abbattuta. Era stato quel sorriso a conquistare Miller, non i movimenti della danza o le misure della ragazza. Aveva domandato se lei avrebbe gradito un bicchierino, e l'avevano mandata a chiamare. Dato che Miller era in compagnia del padrone del locale, lei aveva evitato la bottiglia di champagne e aveva chiesto un gin-fizz. Con grande sorpresa, Miller aveva scoperto che era davvero una persona simpatica, e si era offerto di accompagnarla a casa dopo lo spettacolo. Lei aveva accettato con ovvie riserve. Giocando con freddezza le sue carte, quella sera Miller non si era presa nessuna libertà. Era l'inizio di primavera, e quando il cabaret aveva chiuso, lei era uscita infagottata in un orrendo montgomery pesante. Miller aveva pensato che la cosa fosse intenzionale. Si erano limitati a prendere un caffè insieme e avevano chiacchierato, e i loro discorsi avevano allentato la tensione iniziale. Miller aveva così saputo che le piacevano la musica pop, l'arte, le passeggiate lungo le rive dell'Alster, la casa e i bambini. Poi avevano cominciato a incontrarsi nell'unica sera libera che lei aveva alla settimana: andavano insieme a cena o a qualche spettacolo, ma non a letto. Dopo tre mesi, Miller se la portava a letto e più tardi le proponeva di andare a vivere con lui. Con il suo fermo atteggiamento nei confronti delle cose importanti della vita, Sigi aveva già deciso di voler sposare Miller: l'unico problema era se doveva catturarlo andando a letto con lui o con la tattica opposta. Sapendo perfettamente che lui poteva portarsi a letto quante ne voleva, aveva deciso di trasferirsi in casa sua e rendergli la vita così piacevole da indurlo a desiderare di sposarla. Alla fine di novembre, stavano ormai assieme da sei mesi. Anche Miller, non molto versato nelle faccende domestiche, doveva ammettere che lei curava la casa alla perfezione e faceva l'amore con sano e vivace godimento. Non parlava mai direttamente di matrimonio, ma cercava di comunicare il suo messaggio in altri modi. Miller fingeva di non accorgersene. Passeggiando sotto il sole lungo il lago Alster, lei faceva di tanto in tanto amicizia con qualche bimbo ai suoi primi passi, sotto lo sguardo benevolo dei genitori. «Oh, Peter, non è un angelo?» Miller borbottava: «Sì. Meraviglioso.» Poi se ne stava sulle sue per un'ora, per non avere raccolto l'allusione. Ma erano felici insieme, specialmente Peter Miller, al quale le comodità del matrimonio e le delizie dell'amore regolare,

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senza i legami del matrimonio, andavano a pennello. Mentre beveva il suo caffè, Miller scivolò nel letto e l'abbracciò da dietro, accarezzandole dolcemente il ventre, per svegliarla. Dopo pochi minuti, Sigi rantolò di piacere e si rigirò sulla schiena. Continuando a massaggiarla, egli le si chinò sopra e prese a baciarle i seni. Ancora mezzo addormentata, la donna emise una serie di lunghi mugolii e le sue mani cominciarono a muoversi pigramente lungo la schiena e le natiche di Miller. Dieci minuti dopo facevano l'amore, strillando e vibrando di piacere. «E' il modo di svegliarmi, questo?» gorgogliò lei, dopo. «Ne esistono di peggiori» disse Miller. «Che ore sono?» «Quasi mezzogiorno» mentì Miller, sapendo che gli avrebbe tirato qualcosa in testa se avesse saputo che erano le 10.30 e che aveva dormito solo per cinque ore. «Ma non importa. Torna a dormire se ne hai voglia.» «Mmm. Grazie, caro, sei buono con me» disse Sigi, e si riaddormentò. Dopo aver bevuto il resto del proprio caffè e quello di Sigi, Miller era a metà strada dalla stanza da bagno quando il telefono squillo. Deviò verso il soggiorno e alzò il ricevitore. «Peter?» «Sì, con chi parlo?» «Karl.» Aveva ancora la testa obnubilata e non riconobbe la voce. «Karl?» La voce era impaziente. «Karl Brandt. Che ti succede? Stai ancora dormendo?» Miller si riprese. «Oh, sì. Certo, Karl. Mi dispiace, mi sono appena alzato. Che c'è di bello?» «Senti, si tratta di quell'ebreo che è morto. Vorrei parlarti. " Miller era confuso. «Quale ebreo morto?» «Quello che si è ucciso con il gas ieri sera, ad Altona. Ce la fai a ricordare un episodio così lontano nel tempo?» «Sì, certo che mi ricordo di ieri sera» disse Miller. «Non sapevo che era ebreo. Di che cosa si tratta?» «Voglio parlarti» disse l'ispettore di polizia. «Ma non al telefono. Possiamo vederci?» Il cervello di Miller si mise immediatamente in funzione. Se uno ha qualche notizia da comunicare ma non desidera parlarne per telefono deve giudicarla importante. Nel caso di Brandt, Miller non aveva motivo di sospettare che un agente investigativo fosse così abbottonato per una faccenda di poco conto. «Certo» disse. «Sei libero per l'ora di colazione?» «Posso esserlo» rispose Brandt. «Bene. Ti darò una mano se pensi che ne valga la pena.» Fece il nome di un piccolo ristorante al Gansemarkt, dando appuntamento per le 13, e riagganciò. Era ancora sorpreso, perché non riusciva a immaginare niente di particolare nel suicidio di un vecchio, ebreo o no, in un decrepito caseggiato popolare ad Altona.

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Per tutto il tempo della colazione, il giovane ispettore evitò l'argomento per il quale aveva richiesto quell'incontro, ma arrivato al caffè, disse semplicemente: «L'uomo di ieri sera». «Sì» fece Miller. «Di che cosa si tratta?» «Devi aver saputo anche tu, come noi tutti, d'altronde, di quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei durante la guerra e anche prima, no?» «Naturalmente. Ce l'hanno fatto ingoiare a scuola, no?» Miller era confuso e imbarazzato. Come la maggior parte dei giovani tedeschi, si era sentito raccontare dai suoi insegnanti, quando aveva nove o dieci anni, che lui e il resto dei suoi compatrioti si erano resi colpevoli di grandi crimini di guerra. Allora aveva accettato quello che gli dicevano, senza nemmeno sapere di che cosa stessero parlando. Più tardi, era stato difficile appurare quello che gli insegnanti avevano voluto dire nell'immediato dopoguerra. Non c'era nessuno a cui porre domande, nessuno disposto a parlare, né gli insegnanti né i genitori. Soltanto in età più adulta, aveva potuto leggere qualcosa sull'argomento, e pur restando disgustato da quello che leggeva, non se ne sentiva coinvolto. Era un'altra epoca, altri luoghi, molto lontani. Lui non era presente, quando era successo, suo padre non era presente e nemmeno sua madre lo era. Qualcosa dentro di lui lo aveva convinto che questi fatti non avevano nulla a che vedere con Peter Miller, così non aveva chiesto nomi, date, particolari. Si domandò come mai Brandt tirasse fuori l'argomento. Brandt mescolò il caffè dentro la tazzina, anche lui imbarazzato, senza sapere come proseguire. «Il vecchio di ieri sera» disse alla fine. «Era un ebreo tedesco. E' stato in un campo di concentramento.» Miller ripensò a quell'immagine di morte composta sulla barella, la sera precedente. Era in quel modo che venivano ridotti? Ridicolo, quell'uomo doveva essere stato liberato dagli alleati diciotto anni prima e aveva continuato a vivere fino a tarda età. Ma l'immagine continuava a ritornare. Prima, non aveva mai visto nessuno che fosse stato in un campo di concentramento, o almeno non se n'era reso conto. E non aveva nemmeno incontrato uno dei massacratori delle S.S., di questo era sicuro. Dopotutto, uno se ne accorgerebbe. Un uomo di quel genere non potrebbe che essere diverso. La sua mente tornò indietro nel tempo, alla propaganda che aveva accompagnato due anni prima il processo di Eichmann a Gerusalemme. I giornali gli avevano dato grandissimo risalto, per settimane fino alla conclusione. Pensò al volto nella gabbia di vetro, e si ricordò che allora era rimasto impressionato di quanto fosse comune, così tristemente comune. E leggendo i vari servizi giornalistici riguardanti il processo, per la prima volta si era fatta un'idea di come le S.S. avessero agito, e di come fossero riusciti a scamparla. Ma si trattava di avvenimenti accaduti in Polonia, in Russia, in Ungheria e in Cecoslovacchia, in luoghi lontani e molto tempo prima. La cosa non lo toccava personalmente. Interruppe le proprie divagazioni e riportò l'attenzione al presente, avvertendo il disagio di Brandt nel trattare questi argomenti. «Di che cosa si tratta?» domandò all'ispettore.

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Per tutta risposta, Brandt tirò fuori dalla sua valigetta un pacco avvolto in carta marrone e lo spinse sul tavolo. «Il vecchio ha lasciato un diario. In realtà, non era così vecchio. Cinquantasei anni. A quanto pare, ha preso degli appunti a quell'epoca, nascondendoli nelle fasciature dei piedi. A guerra finita, li ha trascritto ti tutti. E così è venuto fuori questo diario.» Miller guardò il pacco con scarso interesse. «Dove l'hai trovato?» «Era accanto al cadavere. L'ho raccolto e l'ho portato a casa mia. L'ho letto ieri sera.» Miller scrutò con aria canzonatoria il suo ex-compagno di scuola. «Un brutto effetto?» «Orribile. Non avevo la minima idea di quante cose terribili hanno dovuto sopportare tutti loro.» «Perché l'hai portato proprio a me?» Adesso Brandt sembrava imbarazzato. Si strinse nelle spalle. «Pensavo che ci potessi ricavare qualcosa.» «A chi appartiene, adesso?» «Da un punto di vista giuridico, agli eredi di Tauber. Ma non li troveremo mai. Quindi credo che appartenga al dipartimento di polizia. Ma quelli si limiterebbero ad archiviarlo. Puoi tenerlo tu, se vuoi. Solo non dire che te l'ho dato io. Non voglio grane, al dipartimento.» Miller saldò il conto, e i due uscirono insieme. «D'accordo, lo leggerò. Ma non ti prometto di prendermela troppo a cuore. Tutt'al più potrei cavarci un articolo per qualche rivista.» Brandt si voltò verso di lui con un sorrisetto. «Sei un maledetto cinico» disse. «No» replicò Miller. «E' che come la maggior parte della gente mi interesso solamente delle cose che avvengono qui adesso. E tu? Dopo dieci anni di servizio, pensavo che fossi diventato un duro. Questa faccenda ti ha proprio sconvolto, vero?» Brandt era tornato serio. Guardò il pacco che Miller teneva sotto il braccio e annuì lentamente. «Sì. Sì, mi ha proprio sconvolto. Non pensavo davvero che fosse stato così terribile. E d'altronde, non è tutta storia passata. Quella storia è finita qui ad Amburgo soltanto ieri notte. Arrivederci, Peter.» L'ispettore si voltò e si allontanò, senza sospettare di quanto si sbagliava.

Capitolo 2.

Peter Miller portò il pacco avvolto in carta marrone a casa, dove arrivò poco dopo le 15. Gettò il pacco sul tavolo del soggiorno e andò a prepararsi una grossa cuccuma di caffè prima di sedersi a leggere. Sistematosi nella sua poltrona favorita, dopo essersi acceso una sigaretta e con accanto una tazza di caffè, aprì il pacco. Il diario aveva la forma di raccoglitore di fogli sciolti con una rigida copertina di cartone rilegata in vinile nero e opaco e una fila di ganci lungo la costa in modo che le pagine del libro potessero essere

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estratte, o se necessario altre pagine inserite. Il contenuto consisteva di centocinquanta pagine dattiloscritto te, probabilmente con una macchina vecchia, dato che alcune lettere erano disallineate verso l'alto o verso il basso, e altre alterate o sbiadite. Il grosso dei fogli sembrava essere stato scritto to molti anni prima, o in un arco di anni, perché la maggior parte delle pagine, benché ordinate e pulite, aveva l'inequivocabile sfumatura della carta vecchia. Ma all'inizio e alla fine c'erano alcuni fogli nuovi, evidentemente scritto ti da pochi giorni. All'inizio del dattiloscritto to c'era una prefazione battuta su pagine nuove e in fondo una specie di epilogo. Un controllo alla prefazione e all'epilogo indicava che tutt'e due le parti erano datate 21 novembre, due giorni prima. Miller immaginò che il morto le aveva scritto te dopo aver preso la decisione di suicidarsi. Una rapida occhiata ad alcuni paragrafi della prima pagina meravigliò Miller, in quanto erano scritto ti in un tedesco corretto e preciso, nella lingua di un uomo istruito e di ottima educazione. All'esterno, sulla copertina, era stato incollato un rettangolo di carta bianca, e sopra questo un altro rettangolo un po' più grande di cellofan per tenere pulito il primo. Sul rettangolo di carta, in grossi caratteri stampatello vergati di inchiostro nero, era stato scritto to IL DIARIO DI SALOMON TAUBER. Miller sprofondò ancor più nella poltrona, aprì alla prima pagina e cominciò a leggere.

IL DIARIO di SALOMON TAUBER. Prefazione.

Il mio nome è Salomon Tauber, sono ebreo e prossimo a morire. Ho deciso di porre fine alla mia vita perché non ha più significato, e non c'è più nulla che io debba fare. Le cose che ho cercato di fare durante la mia esistenza non hanno avuto alcun risultato, e i miei sforzi non sono stati ripagati. Poiché il male che ho visto è sopravvissuto e prosperato e solo il bene se ne è andato fra le umiliazioni e l'inganno. Gli amici che ho avuto, gli sventurati e le vittime, sono tutti morti e soltanto i persecutori rimangono attorno a me. Di giorno vedo le loro facce nelle strade, la notte vedo la faccia di mia moglie Esther che è morta tanto tempo fa. Sono rimasto in vita così a lungo solo perché c'era un'altra cosa che desideravo fare, una cosa che desideravo vedere, e adesso so che non vedrò mai. Non porto odio né rancore nei confronti del popolo tedesco, perché è un popolo buono. I popoli non sono malvagi; soltanto gli individui sono malvagi. Il filosofo inglese Burke aveva ragione quando diceva: "Non conosco i mezzi per indire un processo a un'intera nazione." Non esiste la colpa collettiva: infatti la Bibbia riferisce di come il Signore voleva distruggere Sodoma e Gomorra per i peccati commessi dagli uomini che vivevano in quelle città, con le loro donne e i loro figli, ma tra essi viveva un uomo giusto, e poiché era giusto egli fu risparmiato. Pertanto la colpa è individuale, al pari della salvezza. Quando sono uscito dai campi di concentramento di Riga e Stutthof, quando sono sopravvissuto alla Marcia della Morte fino a Magdeburgo,

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quando i soldati inglesi hanno liberato là il mio corpo nell'aprile del 1945, lasciando in catene soltanto la mia anima, ho odiato il mondo. Ho odiato la gente, gli alberi e le rocce, poiché essi avevano cospirato contro di me per farmi soffrire. E soprattutto ho odiato i tedeschi. Mi sono domandato allora, come già mi ero domandato molte volte nei quattro anni precedenti, come mai il Signore non li fulminasse tutti, fino all'ultimo uomo, donna o bambino, cancellando per sempre le loro città e le loro case dalla faccia della terra. E poiché Egli non l'ha fatto, ho odiato anche Lui, ho gridato che Egli aveva abbandonato me e il mio popolo, indotto da Lui a credere di essere il Suo popolo prediletto, e sono arrivato persino ad affermare che Egli non esisteva. Ma con il passare degli anni ho imparato ancora ad amare; ad amare le rocce e gli alberi, il cielo lassù e il fiume che scorre oltre la città, i cani randagi e i gatti, le radici che crescono negli interstizi tra i ciottoli, e i bambini che scappano lontano da me per la strada a causa della mia bruttezza. Ma loro non sono da condannare. Un proverbio francese dice: "Comprendere tutto significa perdonare tutto". Quando si riesce a comprendere la credulità e la paura degli uomini, l'ambizione e il desiderio di potere, l'ignoranza e la docilità nei confronti dell'uomo che grida più forte, allora si può perdonare. Sì, uno può anche perdonarli per quello che hanno commesso. Ma dimenticare non si può mai. Esistono uomini i cui crimini sfuggono alla comprensione e quindi al perdono, e qui sta il vero fallimento. Essi infatti sono ancora tra noi, passeggiano per le città, lavorano negli uffici, vanno a mangiare nei ristoranti, sorridendo e stringendo mani e chiamando "Kamerad" le persone per bene. Che essi debbano continuare a vivere, non come emarginati ma come cittadini rispettati, insudiciando per l'eternità un'intera nazione con la loro malvagità individuale, questo è il vero fallimento. Ed in questo abbiamo mancato, tu e io, noi tutti abbiamo mancato, e abbiamo mancato miseramente. Alla fine, con il passare del tempo, ho ricominciato ad amare il Signore, e a chiedere il Suo perdono per le colpe che ho commesso contro le Sue leggi, che sono molte. SHEMA YISROEL, ADONAI ELOHENU, ADONAI EHAD... [Ascolta, o Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è Unico...]

"Il diario iniziava con venti pagine nelle quali Tauber descriveva la sua nascita e la sua infanzia ad Amburgo, il padre operaio eroe di guerra, e la morte dei genitori subito dopo l'ascesa di Hitler al potere nel 1933. Verso la fine degli Anni Trenta, si era sposato con una ragazza di nome Esther, lavorava come architetto, ed era stato risparmiato dall'epurazione fino al 1941 grazie all'intervento del suo datore di lavoro. Alla fine era stato preso a Berlino, dove si era recato in visita a un cliente. Dopo un periodo trascorso in un campo di smistamento era stato rinchiuso con altri ebrei nel vagone piombato di un treno bestiame diretto a Est".

Non riesco davvero a ricordare il giorno in cui il treno, finalmente, s'arrestò sferragliando in una stazione. Penso che fossero trascorsi

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sei giorni e sette notti da quando eravamo stati rinchiusi in quel vagone a Berlino. D'improvviso, il treno si era fermato, la luce chiara che filtrava all'interno mi indicava che fuori era giorno, e la testa mi girava per la stanchezza e il puzzo. Dall'esterno si sentivano grida, e lo stridore dei catenacci che venivano sfilati, poi le porte vennero aperte. Meno male che non potevo vedermi, io che una volta indossavo la camicia bianca e pantaloni ben stirati. Della cravatta e della giacca, me ne ero sbarazzato già da tempo. La vista degli altri era fin troppo deprimente. Quando la vivida luce del giorno invase il vagone, gli uomini si coprirono gli occhi con le braccia urlando di dolore. Vedendo le porte che si aprivano, avevo chiuso gli occhi per proteggerli. Sotto la pressione dei corpi, metà del vagone si vuotò automaticamente, rovesciando sul marciapiede una valanga di umanità puzzolente. Io mi ero sistemato in fondo al vagone, su un lato delle porte centrali, ed evitai così di rimanere coinvolto nella caduta. Arrischiandomi a socchiudere un occhio, nonostante il bagliore, riuscii a scendere in piedi. Le S.S. che avevano aperto i portelli, uomini brutali dalle facce dure, che borbottavano e urlavano in una lingua che non riuscivo a comprendere, arretrarono con un'espressione di disgusto. All'interno del vagone, trentun uomini giacevano calpestati sul pavimento. Non si sarebbero mai più rialzati. I superstiti, affamati, semiaccecati, coperti di brandelli fetidi, si sforzavano penosamente di mettersi in piedi. A causa della sete le nostre lingue erano incollate al palato, gonfie e annerite; le nostre labbra erano screpolate e bruciate. Lungo il marciapiede, altri quaranta vagoni da Berlino e diciotto da Vienna scaricavano i loro occupanti, la metà dei quali erano donne e bambini. Molte donne e quasi tutti i bambini erano nudi, sporchi di escrementi, e in condizioni ancora peggiori delle nostre. Alcune donne avevano in braccio i corpi senza vita dei loro bambini, mentre uscivano barcollando alla luce. Le guardie correvano su e giù lungo il marciapiede, incolonnando i deportati a colpi di bastone, prima di metterci in marcia verso la città. Ma quale città? E che lingua parlavano quegli uomini? Più tardi dovevo scoprire che la città era Riga e le guardie S.S. erano reclutate sul luogo tra i lettoni, ferocemente antisemiti quanto le S.S. tedesche, ma molto meno intelligenti, in pratica bestie dalle sembianze umane. In piedi dietro le guardie c'era un gruppo di persone dall'aria sottomessa, vestite con una camicia e un paio di calzoncini sporchi, ognuna delle quali portava sul petto e sulla schiena una pezza nera quadrata con una grande J. Questo era un gruppo speciale raccolto nel ghetto, e portato lì per vuotare i carri bestiame dai morti e seppellirli fuori città. Anche loro erano sorvegliati da una mezza dozzina di uomini che a loro volta avevano la J sul petto e sulla schiena, ma che cingevano un bracciale e portavano il manico di un piccone. Erano kapo ebrei, che ricevevano un vitto migliore degli altri internati per fare il mestiere che facevano. Alcuni ufficiali tedeschi delle S.S. stavano in piedi all'ombra della

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pensilina della stazione, riconoscibili solo quando i miei occhi si abituarono alla luce. Uno di essi stava in disparte, su una cassa da imballaggio, e sorvegliava con un leggero sorriso di soddisfazione le migliaia di scheletri umani che si rovesciavano fuori dal treno. Si batteva uno stivale con un frustino da equitazione, di pelle nera intrecciata. Indossava l'uniforme verde dalle mostrine nere e argento delle S.S. come se fosse stata fatta apposta per lui e sul risvolto destro del colletto portava la coppia di fulmini, insegna delle Waffen-S.S. Sulla sinistra era indicato il suo grado di capitano. Era alto e asciutto, i capelli color biondo-chiaro e gli occhi azzurri slavati. Più tardi dovevo scoprire che era un sadico incallito, già noto con il soprannome che più tardi gli alleati useranno a loro volta per riferirsi a lui: il macellaio di Riga. Era la prima volta che vedevo il capitano delle S.S. Eduard Roschmann...

"Alle 5 del 22 giugno 1941, 130 divisioni hitleriane suddivise in tre gruppi d'armata, avevano oltrepassato il confine per invadere la Russia. Dietro a ciascun gruppo d'armata, sciamavano le squadre di sterminio delle S.S., incaricate da Hitler, Himmler e Heydrich di ripulire le vaste aree conquistate dall'esercito dai commissari comunisti e dalle comunità rurali ebraiche, e di rinchiudere le grosse comunità ebraiche urbane dentro i ghetti delle principali città, in attesa di un successivo "trattamento speciale". Il primo luglio 1941, l'esercito occupò Riga, capitale della Lettonia, e nello stesso mese vi entrò il primo reparto delle S.S. La prima unità locale delle sezioni S.D. e S.P. delle S.S. si stabilì a Riga il primo agosto 1941, e diede inizio all'opera di sterminio che avrebbe fatto dell'Ostland (così erano stati ribattezzati i tre stati baltici occupati) un territorio senza ebrei. Poi venne deciso a Berlino di utilizzare Riga come campo di transito verso la morte per gli ebrei provenienti dalla Germania e dall'Austria. Nel 1938 erano internati 320 mila ebrei tedeschi e 180 mila austriaci, in tutto circa mezzo milione. Nel luglio 1941 ne erano già stati sterminati decine di migliaia, nei campi di concentramento all'interno della Germania e dell'Austria, in particolare in quelli di Sachsenhausen, Mauthausen, Ravensbrück, Dachau, Buchenwald, Belsen e Theresienstadt in Boemia. Ma stavano diventando troppo affollati, e le oscure terre dell'Europa orientale sembravano un posto eccellente per accogliere gli altri. Furono allora iniziati i lavori per ampliare o per costruire i sei campi di sterminio di Auschwitz, Treblinka, Belzec, Sobibor, Chelmno e Maidanek. In attesa che fossero pronti, tuttavia, bisognava trovare un posto dove sterminare il maggior numero possibile di ebrei e "immagazzinare" gli altri. Fu scelta Riga. Tra il primo agosto 1941 e il 14 ottobre 1944, quasi 200 mila ebrei esclusivamente tedeschi e austriaci vennero imbarcati con destinazione Riga. 80 mila morirono là, 120 mila furono spediti ai sei campi di sterminio della Polonia meridionale menzionati sopra e 400 ne uscirono vivi, la metà circa per morire a Stutthof o durante la Marcia della Morte per tornare a Magdeburgo. Il convoglio di Tauber era il primo che arrivava a Riga dal Reich tedesco, e vi giunse il 18 agosto 1941, alle 15.45".

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Il ghetto di Riga era parte integrante della città ed era stato in un primo tempo la residenza degli ebrei di Riga, dei quali solo poche centinaia erano sopravvissuti all'epoca in cui arrivai io. In meno di tre settimane Roschmann e il suo aiutante, Krause, avevano diretto lo sterminio della maggior parte di loro. Il ghetto si stendeva nella zona nord della città, ai limiti dell'aperta campagna. Il lato meridionale era delimitato da un muro, e gli altri tre lati erano chiusi da sbarramenti di filo spinato. C'era un cancello sul lato nord, attraverso il quale bisognava passare per entrare e uscire. Era sorvegliato da due torrette, occupate da S.S. lettoni. La Mase Kalnu Iela, o strada della Collinetta, correva da questo cancello fino al muro del lato sud passando per il centro del ghetto. Sulla destra di questa strada (guardando da sud a nord verso il cancello principale) si trovava la Blechplatz, o piazza della Latta, dove avevano luogo le selezioni per lo sterminio, assieme alle adunate, alla selezione dei gruppi di lavoro forzato, alle fustigazioni e alle impiccagioni. Il patibolo, con i suoi otto ganci d'acciaio e i cappi ondeggianti in permanenza al vento, era stato eretto nel centro della piazza. Era occupato ogni sera da almeno sei disgraziati, e spesso gli otto ganci dovevano effettuare parecchi turni prima che Roschmann si ritenesse soddisfatto del lavoro della giornata. L'intero ghetto doveva misurare meno di cinque chilometri quadrati, un quartiere che un tempo aveva ospitato da 12 mila a 15 mila persone. Prima del nostro arrivo gli ebrei di Riga, o almeno i 2000 che rimanevano, avevano tolto le macerie, così che l'area assegnata al nostro convoglio di poco più di 5000 uomini, donne e bambini, era spaziosa. Ma altri convogli continuarono ad affluire, dopo il nostro, giorno per giorno, fino a quando la popolazione della nostra parte del ghetto aumentò tanto da comprendere tra le 30 mila e le 40 mila persone, e a ogni convoglio che arrivava un numero di internati pari a quello dei nuovi prigionieri sopravvissuti veniva mandato all'esecuzione per fare posto agli altri. In caso contrario il sovraffollamento sarebbe diventato una minaccia per la salute di quelli tra noi che lavoravano, e Roschmann non l'avrebbe permesso. E così quella notte ci sistemammo, scegliendo le case più confortevoli, una stanza a testa, usando le tende e i soprabiti come coperte e dormendo in veri letti. Dopo aver bevuto a sazietà da una brocca, il mio vicino di camera osservò che dopo tutto non ce la passavamo affatto male. Non avevamo ancora incontrato Roschmann...

Mentre l'estate diventava autunno e l'autunno inverno, le condizioni nel ghetto continuavano a peggiorare. Ogni mattina l'intera popolazione, soprattutto uomini, dato che le donne e i bambini erano stati sterminati al loro arrivo in percentuale molto maggiore dei maschi abili al lavoro, veniva convogliata per l'appello in piazza della Latta, spinta a colpi di calcio di fucile dai lettoni. Non eravamo chiamati per nome, ma contati e divisi in gruppi di lavoro. Quasi tutti, uomini, donne e bambini, lasciavano in colonne il ghetto per andare a fare dodici ore di lavoro forzato nelle fabbriche vicine

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sempre più numerose. Avevo dichiarato, all'inizio, di essere carpentiere. Non era vero, ma essendo architetto avevo già visto i carpentieri al lavoro e ne sapevo abbastanza per cavarmela. Avevo immaginato, e con ragione, che ci sarebbe sempre stato bisogno di carpentieri: mi mandavano a lavorare in una vicina segheria dove i pini venivano segati per costruire dei baraccamenti prefabbricati per le truppe. Il lavoro spezzava la schiena, abbastanza per sfiancare un uomo di robusta costituzione, dato che lavoravamo estate e inverno, generalmente all'aperto, in balia del gelo delle basse regioni costiere della Lettonia...

Le nostre razioni alimentari si limitavano a mezzo litro di cosiddetta zuppa, più che altro acqua colorata, a volte con un pezzo di patata dentro, al mattino prima di andare al lavoro; la sera, quando si ritornava nel ghetto, ricevevamo un altro mezzo litro di zuppa con una fetta di pane nero e una patata rancida. Chi portava cibo nel ghetto era punito con l'impiccagione immediata di fronte alla popolazione riunita in piazza della Latta per l'appello della sera. Tuttavia, correre quel rischio era l'unico modo per mantenersi in vita. Quando le colonne degli internati arrancavano ogni sera attraverso il cancello principale, Roschmann e alcuni dei suoi scagnozzi di solito se ne stavano accanto all'ingresso, per il controllo di quelli che entravano. Sceglievano a caso un uomo o una donna o un bambino, e dopo averlo fatto uscire dalla colonna gli ordinavano di spogliarsi. Se veniva sorpresa, con addosso una patata o un pezzo di pane, la persona doveva fermarsi mentre gli altri proseguivano verso piazza della Latta per l'appello serale. Quando tutti erano riuniti, Roschmann percorreva impettito la stessa strada, seguito dalle altre S.S. e da una dozzina di condannati. I maschi dovevano salire sul patibolo e attendere con il cappio al collo la fine dell'appello. Poi Roschmann risaliva la fila dei condannati, sogghignando a quei volti che lo guardavano dall'alto e rovesciando con un calcio gli sgabelli sotto i loro piedi, uno dopo l'altro. Si compiaceva di farlo stando di fronte ai condannati, in modo che la persona sul punto di morire potesse vederlo in faccia. Qualche volta faceva finta di dare il calcio allo sgabello e ritirava il piede all'ultimo momento. Sghignazzava, vedendo tremare l'uomo che, nel momento in cui si aspettava di penzolare dalla corda, si accorgeva di aver ancora lo sgabello sotto i piedi. A volte i condannati pregavano il Signore, a volte imploravano pietà. A Roschmann piaceva sentirli. Fingeva di essere un po' sordo, avvicinava l'orecchio e domandava: «Non puoi parlare più forte? Che cosa hai detto?». Dopo aver dato un calcio allo sgabello - in realtà, una cassetta di legno - si voltava verso i suoi scagnozzi e diceva: «Povero me, devo proprio procurarmi un cornetto acustico...». Nel giro di qualche mese Eduard Roschmann era diventato per noi prigionieri l'incarnazione del demonio. Erano poche le aberrazioni che non riusciva a escogitare.

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Quando una donna era sorpresa a introdurre cibo nel campo, dapprima doveva assistere all'impiccagione degli uomini, soprattutto se uno di questi era suo marito o suo fratello. Dopo di che, Roschmann la faceva inginocchiare di fronte a tutti noi, schierati a semicerchio su tre lati della piazza, mentre il barbiere del campo la radeva completamente. Dopo l'appello, veniva portata al cimitero oltre il filo spinato, doveva scavare una fossa poco profonda e inginocchiarsi lì davanti, poi Roschmann o uno degli altri le sparava con la Lüger d'ordinanza alla base del cranio. A nessuno era permesso d'assistere a queste esecuzioni, ma correva voce tra le guardie lettoni che egli spesso si divertiva a sfiorarle un orecchio con la pallottola. Atterrita, la donna cadeva nella fossa, ma era costretta a uscire e a mettersi di nuovo in ginocchio. Altre volte sparava senza il colpo in canna, in modo che la donna udisse solo un clic quando invece s'aspettava di morire. I lettoni erano dei bruti, ma Roschmann riusciva a stupire anche loro con le sue trovate...

A Riga c'era una ragazza che aiutava i prigionieri a proprio rischio e pericolo. Si chiamava Olli Adler, era di Monaco, credo. Sua sorella Gerda era già stata uccisa nel cimitero per aver portato cibo nel campo. Olli era una ragazza di rara bellezza; e aveva acceso le fantasie di Roschmann. Ne aveva fatto la propria concubina - la qualifica ufficiale era cameriera, perché i rapporti tra una S.S. e una ebrea erano proibiti. Era solita contrabbandare medicine all'interno del ghetto quando le era permesso di visitarlo, dopo averle rubate dai magazzini delle S.S. Ovviamente, questa cosa era punibile con la morte. L'ultima volta che l'ho vista, è stato al porto di Riga, quando siamo stati imbarcati...

Sul finire di quel primo inverno ero ormai sicuro di non poter sopravvivere ancora per molto. La fame, il freddo, l'umidità, la fatica e le costanti brutalità avevano intaccato la mia costituzione un tempo robusta, riducendola a un ammasso di pelle e ossa. Guardandomi allo specchio, vedevo un vecchio macilento dalla barba lunga, con gli occhi cerchiati di rosso e le guance scavate. Avevo appena compiuto trentacinque anni e ne dimostravo il doppio. Ma era così anche per tutti gli altri. Avevo assistito alla partenza di decine di migliaia di persone verso la foresta delle tombe collettive, alla morte di centinaia di compagni per il freddo, l'esposizione alle intemperie e la fatica estenuante, e di innumerevoli altri per impiccagione, fucilazione, frustate e percosse. Sopravvivendo per cinque mesi, avevo oltrepassato ogni limite sperabile. La volontà di vivere che si era manifestata in me sul treno si era sgretolata: ora mi lasciavo vivere meccanicamente sapendo che quella routine prima o poi si sarebbe spezzata. Poi, in marzo, era accaduto qualcosa che mi aveva restituito la volontà per un altro anno. Ancora oggi ricordo la data esatta. Era il 3 marzo 1942, il giorno del secondo convoglio per Dünamünde. Circa un mese prima avevamo assistito per la prima volta all'arrivo di uno strano furgone. Aveva più o meno

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le dimensioni di un autobus a un piano, dipinto di grigio e senza finestrini. Aveva parcheggiato appena fuori dei cancelli del ghetto, e all'appello del mattino Roschmann aveva annunciato che c'era una nuova fabbrica per la salatura del pesce a Dünamünde, una città sul fiume Düna, a circa centoventi chilometri da Riga. Il lavoro era leggero, aveva proseguito, il vitto abbondante e le condizioni di vita buone. Dato che il lavoro era così leggero, la possibilità era concessa solo ai vecchi e alle donne, ai bambini piccoli, agli ammalati e ai più deboli. Naturalmente, molti erano ben disposti a lavorare a condizioni così favorevoli. Roschmann era passato lungo le nostre file, selezionando le persone da mandare, e questa volta i vecchi e gli ammalati, invece di cercare di nascondersi per essere trascinati poi tra urla e proteste nelle marce forzate verso la collina delle esecuzioni, si mettevano in mostra spontaneamente. Alla fine, i prescelti erano stati più di un centinaio, e tutti erano saliti sul furgone. Le portiere erano state chiuse, e i presenti avevano notato che erano fissate ermeticamente. Il furgone si era allontanato, senza emettere gas di scarico. In seguito, era circolata la voce che a Dünamünde non esisteva nessuna fabbrica per la salatura del pesce; il furgone era una camera a gas. Da allora in poi, nel gergo del ghetto, l'espressione "convoglio per Dünamünde" aveva significato la morte col gas. Il 3 marzo nel ghetto si mormorava che ci sarebbe stato un altro convoglio per Dünamünde, e, come previsto, Roschmann l'annunciò durante l'appello del mattino. Ma nessun volontario si fece avanti, e così Roschmann, sfoderando un largo sorriso, passò lungo le nostre file, battendo col suo frustino sul petto delle persone che dovevano andare. Cominciò dalla quarta e ultima fila, dove pensava di trovare i deboli, i vecchi e gli inabili al lavoro. C'era una vecchia che l'aveva previsto e si era piazzata in prima fila. Doveva avere un sessantacinque anni, ma per rimanere in vita aveva indossato un paio di scarpe con i tacchi alti, calze di seta nera, una gonna corta che non le copriva nemmeno le ginocchia e un vivace cappellino. Si era passata il rosso sulle guance, incipriata il viso e dipinta le labbra con un rossetto di carminio. In realtà si sarebbe fatta notare in qualsiasi gruppo di prigionieri del ghetto, ma sperava di passare per una ragazza. Quando le arrivò di fronte nel corso della sua ispezione, Roschmann si fermò a fissarla. Poi fece un ghigno di gioia. «Be', guardate un po' che cosa abbiamo qui!» gridò, puntando verso di lei il frustino per attirare l'attenzione dei suoi scagnozzi che al centro della piazza sorvegliavano le cento e più persone già scelte. «Non ti va di fare un viaggetto a Dünamünde, giovane signora?» Tremante di paura, la vecchia sussurrò: «No, signore». «E quanti anni hai?» tuonò Roschmann mentre i suoi amici ridacchiavano. «Diciassette, venti?» Le nodose ginocchia della vecchia cominciarono a tremare. «Sì, signore!» mormorò. «Ma che meraviglia!» gridò Roschmann. «Be', a me le ragazze graziose sono sempre piaciute. Esci fuori dalla fila e mettiti al centro della

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piazza, in modo che possiamo tutti ammirare la tua bellezza.» Così dicendo l'afferrò per un braccio e la spinse verso il centro di piazza della Latta. Poi la fece fermare, bene in vista a tutti i presenti, e disse: «E adesso, ragazza mia, dato che sei così giovane e graziosa forse non ti dispiacerà danzare per noi, eh?». La donna rimase immobile, tremando per il vento pungente e per la paura. Sussurrò qualcosa che non riuscimmo a capire. «Che cosa?» urlò Roschmann. «Non puoi danzare? Oh, sono sicuro che una ragazza così graziosa può danzare, vero?» I suoi compari delle S.S. tedesche ridevano a crepapelle. I lettoni non potevano capire, ma accennarono dei sorrisi. La vecchia scosse la testa. Il sorriso scomparve dalla faccia di Roschmann. «Balla» ruggì. La donna abbozzò qualche passo strascicato, per poi fermarsi. Roschmann tirò fuori la Lüger, tolse la sicura e fece fuoco nella sabbia, a pochi centimetri dai piedi della vecchia che sobbalzò per la paura. «Balla... balla... balla per noi, schifosa cagna ebrea» gridava sparando un colpo nella sabbia accanto ai piedi della donna ogni volta che pronunciava la parola "balla". Inserendo uno dopo l'altro i tre caricatori che aveva nella giberna, egli la fece danzare per mezz'ora con salti sempre più alti, e a ogni salto la gonna le roteava attorno alle anche, finché la vecchia s'accasciò sulla sabbia, incapace di rialzarsi. Roschmann sparò le ultime tre pallottole davanti alla faccia di lei, facendole schizzare la sabbia negli occhi. Negli intervalli fra uno sparo e l'altro, ci giungeva l'ansimare affannoso della donna, che si poteva udire in tutta la piazza. Quando fini le munizioni, Roschmann urlò ancora "balla" e la colpì al ventre con un calcio. Noi avevamo assistito a tutto questo in assoluto silenzio, finché l'uomo accanto a me cominciò a pregare. Era un ebreo hasidico, piccolo e barbuto, coperto ancora dagli stracci della sua lunga tunica nera, nonostante il freddo che costringeva la maggior parte di noi ad indossare dei paraorecchi sopra i berretti, egli aveva il cappello a tesa larga della sua setta. Cominciò a recitare lo "Shema", ripetendolo più volte senza mai fermarsi, con una voce tremula che divenne a mano a mano più alta e ferma. Sapendo che Roschmann era di pessimo umore, anch'io cominciai a pregare, in silenzio, che il mio vicino si mettesse tranquillo. Ma quello continuava. «Ascolta, Israele...» «Zitto» sibilai a denti stretti. «"Adonai elohenu"... Il Signore è il nostro Dio...» «Vuoi startene zitto. Ci farai uccidere tutti.» «Il Signore è Uno... "Adonai eha-a-ad".» Trascinava l'ultima sillaba, come un cantore secondo la tradizione, come aveva fatto il rabbino Akiva quando era morto nell'anfiteatro di Cesarea per ordine di Tinio Rufo. In quel momento, Roschmann cessò di urlare contro la vecchia. Sollevò la testa come una belva che fiuta il vento e si girò dalla nostra parte. Dato che superavo in altezza il mio vicino, guardò verso di me.

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«Chi stava parlando?» gridò, avanzando sulla sabbia nella mia direzione. «Tu... fuori dalla fila.» Indicava me inequivocabilmente. Pensai: "Questa è proprio la fine. E allora? Non importa, doveva accadere, prima o poi". Feci un passo avanti, quando mi arrivò di fronte. Non pronunciò parola, ma la sua faccia era contratta come quella di un pazzo furioso. Poi si distese in quel sorriso tranquillo e feroce che terrorizzava chiunque nel ghetto, anche i lettoni delle S.S. La sua mano scattò cosi con tanta fulmineità che nessuno riuscì a vederla. Avvertii soltanto una specie di colpo sordo lungo la guancia sinistra, accompagnato da un'esplosione tremenda come se una bomba mi fosse scoppiata vicino al timpano. Poi, distinta ma lontana, la sensazione che la mia pelle si squarciasse come un pezzo di tela lisa, dalla tempia alla bocca. Ancora prima che uscisse sangue, la mano di Roschmann scattò ancora, questa volta dalla parte opposta, e l'altro lato della mia faccia fu lacerato con lo stesso secco botto nell'orecchio e la sensazione di qualcosa che si strappava. Il frustino era lungo sessanta centimetri, con un'anima elastica d'acciaio nel manico e i restanti trenta centimetri di strisce di cuoio intrecciate, e quando sferzava trasversalmente o verticalmente la pelle poteva lacerarla come carta velina. L'avevo visto fare. Nel volgere di pochi istanti avvertii il rivolo di sangue caldo che mi gocciolava dal mento sul davanti della giacca, formando due fontanelle rosse. Roschmann s'allontanò da me, poi ritornò sui suoi passi, indicando la vecchia che singhiozzava in mezzo alla piazza. «Raccatta quella vecchia strega e portala al furgone» abbaiò. E così, pochi minuti prima che arrivassero le altre cento vittime, sollevai la vecchia e l'accompagnai lungo la strada della Collinetta fino al cancello dove era parcheggiato il furgone, imbrattandola del sangue che mi colava dal mento. Quando la feci sedere sul retro del furgone e mi girai per andarmene, ella si aggrappò al mio polso con le dita contratte dall'ansia e con una forza che non avrei mai immaginato possedesse ancora. Mi tirò in giù verso di lei, rannicchiata sul pavimento del furgone della morte, e con un piccolo fazzoletto di percalle, che doveva essere il ricordo di tempi migliori, tamponò un po' del sangue che continuava a colare. Alzò lo sguardo verso di me, la faccia rigata dal mascara, dal belletto, dalle lacrime, dalla sabbia, ma i suoi occhi scuri splendevano come stelle. «Ebreo, figlio mio,» sussurrò «tu devi vivere. Giurami che vivrai. Giurami che uscirai vivo da questo posto. Devi vivere, per poter riferire a loro, a quelli che stanno fuori nell'altro mondo, che cosa è successo al nostro popolo qui dentro. Promettimelo, giuralo sul "Sefer Torah".» E così giurai che sarei vissuto, in qualche modo, a qualsiasi costo. Poi mi lasciò andare. M'incamminai con passo incerto lungo la strada che portava al ghetto, e a metà percorso svenni...

Poco dopo essere tornato al lavoro, presi due decisioni. La prima fu quella di tenere un diario segreto, tatuandomi di notte parole e date con uno spillo e dell'inchiostro nero sulla pelle dei piedi e delle

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gambe, così che un giorno sarei stato in grado di trascrivere tutto quello che era successo a Riga e fornire prove precise contro i responsabili. La seconda decisione fu quella di diventare un kapo, cioè membro della polizia ebraica. Fu una decisione dura da prendere, dato che questi uomini scortavano i loro compagni ebrei al lavoro, e spesso ai posti di esecuzione. Inoltre, avevano sempre con sé un manico di piccone e talvolta lo usavano per spingere i compagni a lavorare con maggior lena, quando si sentivano osservati da qualche ufficiale tedesco delle S.S. Tuttavia, il primo aprile 1942 mi presentai al capo dei kapo e mi offrii volontario, diventando così un reietto dalla compagnia dei miei amici ebrei. C'era sempre posto per un nuovo kapo, perché pochissimi accettavano un incarico del genere nonostante le razioni migliori, le condizioni di vita più favorevoli e la dispensa dal lavoro forzato...

A questo punto, dovrei descrivere i metodi d'esecuzione delle persone inabili al lavoro, dato che in questo modo a Riga furono sterminati dai 70 mila agli 80 mila ebrei su ordine di Eduard Roschmann. Quando il treno bestiame arrivava alla stazione con un nuovo carico di prigionieri, di solito circa 5000, un migliaio di essi era già morto durante il viaggio. Solo occasionalmente il numero dei cadaveri non superava le poche centinaia, disseminate in cinquanta vagoni. I nuovi arrivati venivano messi in fila in piazza della Latta e poi aveva luogo la selezione delle persone da eliminare, non solo tra i nuovi, ma tra noi tutti. Era questo lo scopo dell'appello numerato, ogni mattina e ogni sera. Tra i nuovi arrivi venivano giudicati inabili le persone di gracile costituzione, i vecchi e i malati, la maggior parte delle donne e quasi tutti i bambini. E venivano messi da parte. I superstiti venivano contati. Se questi erano 2000, allora 2000 degli internati precedenti venivano a loro volta selezionati, in modo che per 5000 nuovi arrivi altri 5000 andavano alla collina delle esecuzioni. In questo modo non c'era mai sovraffollamento. Un uomo poteva sopravvivere sei mesi al lavoro forzato, raramente di più; poi, quando la sua salute era compromessa, c'era il frustino di Roschmann a mandarlo a ingrassare le file dei morti...

Dapprima le vittime venivano fatte marciare in colonna fino alla foresta appena fuori della città. I lettoni la chiamavano Bickernicker Forest, e i tedeschi l'avevano ribattezzata Hochwald o Foresta Alta. Qui, in radure tra boschi di pini, gli ebrei di Riga scavavano enormi fosse prima di morire. E qui i lettoni delle S.S., agli ordini di Eduard Roschmann, li falciavano con le mitragliatrici in modo da farli cadere nelle fosse. Poi gli ebrei di Riga sopravvissuti gettavano dentro la terra che bastava per ricoprire i cadaveri, aggiungendo un altro strato di corpi a quello che stava sotto. Dal ghetto potevamo udire le scariche delle mitragliatrici quando ogni nuova spedizione veniva liquidata, e vedere Roschmann ritornare nella sua macchina scoperta giù per la collina e attraverso il ghetto quando tutto era finito...

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Dopo essere diventato un kapo tutti i contatti sociali tra me e gli altri internati cessarono. A niente sarebbe servito spiegare i motivi della mia decisione, che un kapo in più o in meno non faceva differenza, né aumentava di una sola unità il tributo di morte; ma che un solo testimone in più sopravvissuto faceva sì differenza, non per salvare gli ebrei tedeschi ma per vendicarli. Almeno, questa era l'argomentazione che ripetevo a me stesso, ma ero poi onesto fino in fondo? Comunque, la paura cessò presto di essere un fattore determinante, perché nell'agosto di quell'anno successe una cosa che fece morire la mia anima dentro il mio corpo, lasciando soltanto un involucro vuoto a lottare per la sopravvivenza...

Nel luglio 1942 un nuovo grande convoglio di ebrei austriaci arrivò da Vienna. In apparenza, era stato riservato a tutti loro il "trattamento speciale", perché l'intera spedizione non arrivò mai nel ghetto. Non li vedemmo, dato che marciarono tutti dalla stazione verso la Foresta Alta dove furono mitragliati. Più tardi, verso sera, scesero dalla collina quattro camion pieni di vestiti, che furono scaricati in piazza della Latta. Formavano una montagna alta come una casa, finché vennero ordinati in pile di scarpe, calze, mutande, pantaloni, vestiti, giacche, rasoi, occhiali, dentiere, fedi, anelli con sigillo, berretti e così via. Naturalmente, questa era una procedura standard. Tutte le persone uccise sulla collina delle esecuzioni venivano spogliate davanti alla fossa, e i loro effetti personali erano riportati indietro in un secondo tempo. Questi erano poi catalogati e rimandati nel Reich. L'oro, l'argento, i gioielli erano presi in consegna personalmente da Roschmann...

Nell'agosto 1942 arrivò un altro convoglio da Theresienstadt, un campo della Boemia dove erano detenuti decine di migliaia di ebrei tedeschi e austriaci in attesa di essere inviati a est per lo sterminio. Io me ne stavo su un lato di piazza della Latta, e osservavo Roschmann che effettuava la sua selezione. I nuovi arrivi erano già stati rasati a zero, nel loro vecchio campo, e non era facile distinguere gli uomini dalle donne, se non per i grembiuli che la maggior parte delle donne indossava. Una donna, sull'altro lato della piazza, attirò la mia attenzione. C'era qualcosa nell'insieme dei suoi lineamenti che fece suonare un campanello nella mia mente, anche se era magra come un chiodo e continuava a tossire. Arrivato di fronte a lei, Roschmann le batté sul petto e proseguì oltre. I lettoni che lo seguivano, immediatamente afferrarono la donna per le braccia e la spinsero fuori dalla fila a raggiungere gli altri al centro della piazza. Erano molti gli inabili al lavoro in quel convoglio, e la selezione si protrasse a lungo. Questo significava che un numero minore di noi sarebbe stato scelto per essere mandato a morire, ma il problema non mi toccava direttamente. In qualità di kapo cingevo un bracciale e portavo un bastone, e le razioni extra di cibo avevano un po' aumentato le mie forze. Benché Roschmann avesse visto la mia faccia, non sembrava ricordarsene. Ne aveva frustate così tante che una in più o una in meno non attirava la sua attenzione.

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Quasi tutte le persone selezionate quella sera estiva furono ordinate in colonna e condotte in marcia dai kapo fuori dal cancello del ghetto. Poi, la colonna fu rilevata dai lettoni per gli ultimi sei chilometri verso la Foresta Alta e la morte. Ma dato che c'era anche un furgone-camera a gas parcheggiato davanti al cancello, un gruppo di un centinaio dei più malridotti fu separato dagli altri. Stavo per scortare il grosso degli uomini e delle donne condannati, quando il tenente delle S.S. Krause fece un cenno a quattro o cinque di noi kapo. «Ehi, voi», gridò «accompagnate questi al convoglio per Dünamünde.» Dopo che gli altri se ne furono andati, noi cinque scortammo gli ultimi cento; quasi tutti zoppicavano, arrancavano o tossivano, diretti al cancello dove il furgone attendeva. La donna magra era tra questi, con il petto scheletrito dalla tubercolosi. Sapeva dove stava andando, tutti loro lo sapevano, ma come gli altri avanzò incespicando fino al retro del furgone con rassegnata obbedienza. Era troppo debole per salirvi da sola, dato che la predella era alta, e allora si voltò verso di me perché l'aiutassi. Rimanemmo immobili a guardarci, impietriti dallo stupore. Dietro di me, sentii qualcuno che si avvicinava, e gli altri due kapo vicini alla predella scattarono sull'attenti, togliendosi i berretti con una mano. Capii che doveva essere un ufficiale delle S.S. e feci come loro. La donna continuava a fissarmi, senza battere ciglio. L'uomo alle mie spalle si fece avanti. Era il capitano Roschmann. Con un cenno ordinò agli altri due kapo di continuare, e mi fissò con i suoi occhi azzurri slavati. Pensai che poteva solo significare che quella sera sarei stato frustato per non essermi tolto il berretto con sufficiente prontezza. «Come ti chiami?» chiese dolcemente. «Tauber, signor capitano» dissi io, sempre rigido sull'attenti. «Be', Tauber, sembra che tu sia un po' lento. Non pensi che dovremmo renderti un tantino più scattante, questa sera?» Dire qualche cosa non sarebbe servito a nulla. La sentenza era stata emessa. Gli occhi di Roschmann guizzarono sulla donna, stringendosi sospettosi, poi lentamente quel sorriso feroce si distese sulla sua faccia. «Conosci questa donna?» mi domandò. «Sì, signor capitano» risposi. «Chi è?» domandò ancora. Non potei rispondere. La mia bocca era chiusa come se fosse incollata. «E' tua moglie?» continuò. Annuii in silenzio. Il suo ghigno si fece più evidente. «E allora, mio caro Tauber, dove sono le tue buone maniere? Aiuta la signora a salire sul furgone.» Rimasi immobile, incapace di muovermi. Lui avvicinò la sua faccia alla mia e sibilò: «Hai dieci secondi per spedirla là dentro. Altrimenti, ci finisci anche tu». Lentamente allungai il braccio e Esther vi si appoggiò. Con il mio aiuto riuscì a salire nel furgone. Gli altri due kapo aspettarono a richiudere le porte. Lei abbassò lo sguardo verso di me, e le spuntarono due lacrime, una per ciascun occhio, che le scivolarono

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lungo le guance. Non disse una parola, non ci siamo detti niente per tutto il tempo. Poi le porte furono richiuse e il furgone si allontanò. L'ultima cosa che vidi furono i suoi occhi che mi fissavano. Per vent'anni ho cercato di dare un'interpretazione a quello sguardo. Era amore o odio, disprezzo o pietà, sgomento o comprensione? Non lo saprò mai. Quando il furgone se ne fu andato, Roschmann si voltò verso di me, sempre col sogghigno sulle labbra. «Puoi continuare a vivere, finché non decideremo di farla finita con te, Tauber» disse. «Però, tu sei già morto fin d'ora.» E aveva ragione. Fu quel giorno che la mia anima morì dentro di me. Era il 29 agosto 1942. Dopo l'agosto di quell'anno diventai un robot. Ormai non mi importava più di niente. Non sentivo né il freddo né il dolore, non avevo sensazioni di alcun genere. Osservavo le brutalità di Roschmann e dei suoi compari S.S. senza batter ciglio. Ero assuefatto a tutto quello che poteva toccare lo spirito umano e alla maggior parte delle cose che potevano toccare il corpo. Mi limitavo ad annotare qualsiasi cosa, ogni minimo dettaglio, catalogandoli nel mio cervello o incidendo le date nella pelle delle mie gambe. I deportati arrivavano, marciavano verso la collina delle esecuzioni o verso i furgoni-camere a gas, venivano sterminati e sepolti. Talvolta guardavo negli occhi la gente che se ne andava, camminandole accanto fino al cancello con il mio bracciale e il mio bastone. Mi venivano in mente i versi di un poeta inglese che una volta avevo letto: un anziano marinaio, condannato a vivere, aveva guardato negli occhi i suoi compagni d'equipaggio mentre morivano di sete, e aveva letto in essi la maledizione. Ma per me non c'era maledizione, perché ero immune anche ai sensi di colpa. Questi sarebbero arrivati dopo alcuni anni. C'era solo il vuoto di un uomo morto che camminava ancora...

"Peter Miller lesse fino a tardi, quella notte. L'effetto del racconto delle atrocità su di lui era allo stesso tempo monotono e mesmerico. Parecchie volte si appoggiò allo schienale della poltrona, respirando profondamente per riprendere fiato. Poi proseguiva nella lettura. Una volta soltanto, verso mezzanotte, depose il libro e andò a prepararsi dell'altro caffè. Rimase in piedi accanto alla finestra prima di chiudere le tende, e guardò nella strada. A distanza le vivide luci al neon del Café Cherie sfavillavano sullo Steindamm, ed egli vide una delle ragazze che frequentavano a mezzo servizio il locale per incrementare i loro introiti uscire tra le braccia di un uomo d'affari. Scomparvero in una pensione poco distante, dove l'uomo d'affari sarebbe stato alleggerito di cento marchi in cambio di mezz'ora di accoppiamento. Miller tirò le tende, finì di bere il suo caffè e tornò al diario di Salomon Tauber".

Nell'autunno 1943 da Berlino arrivò l'ordine di riportare alla luce le decine di migliaia di cadaveri sepolti nella Foresta Alta e distruggerli in un modo più completo, sia con il fuoco sia con la

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calce viva. Era più facile a dirsi che a farsi, con l'inverno in arrivo e la terra che cominciava a ghiacciare. Questo mise Roschmann di pessimo umore per giorni e giorni, ma i dettagli amministrativi dell'esecuzione dell'ordine lo tennero occupato abbastanza da stare lontano da noi. Giorno dopo giorno, si potevano vedere squadre di lavoro appena formate marciare su per la collina verso l'interno della foresta con picconi e badili, e giorno dopo giorno ampie volute di fumo nero si alzavano sopra la boscaglia. Come materiale venivano usati i pini della foresta, ma i corpi in stato di avanzata decomposizione non bruciano facilmente, così il lavoro procedeva a rilento. Infine si passò alla calce viva, coprendo con essa ogni strato di corpi e nella primavera del 1944, quando il terreno divenne più soffice, fu completata la sepoltura (nota 1). Le squadre che eseguirono il lavoro non provenivano dal ghetto. Erano persone totalmente isolate da ogni altro contatto umano. Erano ebrei, ma erano rinchiusi in uno dei peggiori campi delle vicinanze, Salas Pils, dove furono sterminati: venne interrotta la distribuzione del cibo e morirono tutti di inedia, nonostante molti si dedicassero al cannibalismo...

Quando bene o male il lavoro fu portato a termine nella primavera del 1944, il ghetto fu finalmente liquidato. Per la maggior parte, i 30 mila superstiti furono condotti nella foresta per diventare le ultime vittime che il bosco di pini era destinato a ricevere. Cinquemila circa di noi furono trasferiti al campo di Kaiserwald mentre il ghetto veniva dato alle fiamme e le ceneri venivano spianate dai bulldozer. Di quello che c'era stato una volta, non restava altro che un'area di centinaia di ettari di ceneri spianate... (nota 2).

"Per una ventina di pagine, Tauber descriveva la sua lotta per sopravvivere nel campo di concentramento di Kaiserwald alla denutrizione, alle malattie, alla fatica e alle brutalità delle guardie del campo. In questo periodo, non veniva fatta alcuna menzione del capitano delle S.S. Eduard Roschmann. Ma a quanto pareva, doveva essere ancora a Riga. Tauber proseguiva descrivendo i preparativi, agli inizi dell'ottobre 1944, delle S.S., in preda al panico al pensiero di essere catturate dai russi desiderosi di vendetta, per una disperata evacuazione da Riga via mare, portando con sé un pugno dei prigionieri superstiti come lasciapassare che assicurasse loro il ritorno nel Reich".

Fu nel pomeriggio dell'11 ottobre che arrivammo, ormai appena 4000 persone, nella città di Riga, e la colonna si diresse verso il porto. In lontananza si sentiva uno strano brontolio, come un tuono all'orizzonte. Per un po' ne fummo sorpresi, perché non avevamo mai sentito il fragore delle granate e delle bombe. Poi si fece strada nelle nostre menti inebetite dal freddo e dalla fame l'intuizione che si trattava dei mortai russi che martellavano la periferia di Riga. Quando vi giungemmo, la zona del porto era affollata di ufficiali e soldati delle S.S. Non ne avevo mai visti tanti tutti insieme nello

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stesso posto. Dovevano essere più loro di noi. Fummo messi in fila davanti a uno dei magazzini e di nuovo la maggior parte di noi pensò che fosse questo il posto dove saremmo morti sotto il fuoco delle mitragliatrici. Non fu così. Pareva che le S.S. intendessero servirsi di noi, gli ultimi superstiti delle centinaia di migliaia di ebrei che erano passati per Riga, come alibi per sfuggire all'avanzata dei russi e tornare nel Reich. Ormeggiata al molo numero sei, c'era una nave da carico, l'ultima rimasta per uscire da quella zona ormai circondata. Mentre aspettavamo, cominciarono a essere caricati alcuni delle centinaia di soldati tedeschi feriti che giacevano sulle barelle in due dei magazzini più avanti lungo il molo...

Era quasi buio quando arrivò il capitano Roschmann. Si arrestò di colpo quando vide che i feriti venivano caricati sulla nave. Si voltò. urlando ai barellieri: «Fermatevi». Attraversò il molo e prese a ceffoni uno di essi. Poi si rivolse a noi prigionieri e ruggì: «Voialtri, pezzenti, salite sulla nave e portate giù quegli uomini. Portateli qui giù. La nave è nostra». Pungolati dalle canne dei mitra delle S.S. che erano scese con noi, cominciammo a muoverci verso la passerella. Centinaia di altre S.S., soldati semplici e sottufficiali, che erano rimaste indietro a osservare il trasbordo di feriti, balzarono in avanti e seguirono i prigionieri sulla nave. Arrivati sul ponte, cominciammo a raccogliere le barelle per riportarle sul molo. O meglio, stavamo per farlo, quando un altro grido ci fermò. Ero sull'imbocco della passerella e stavo per salire quando udii il grido e mi voltai per vedere che cosa era successo. Un capitano dell'esercito stava correndo lungo il molo e venne a fermarsi proprio vicino a me, accanto alla passerella. Guardando in su verso gli uomini che portavano le barelle che intendevano scaricare, il capitano gridò: «Chi ha ordinato di scaricare questi uomini?». Roschmann si fece largo dietro di lui e disse: «Io. Questa nave è nostra». Il capitano si voltò. Si frugò in tasca e mostrò un foglio di carta. «Questa nave è stata mandata per raccogliere i feriti dell'esercito» disse. «E prenderà i feriti dell'esercito.» Detto questo, si rivolse agli infermieri e gridò loro di riprendere le operazioni di carico. Lanciai un'occhiata a Roschmann. Tremava: di rabbia, pensai. Poi vidi che era paura. Aveva paura di essere lasciato ad affrontare i russi. A differenza di noi, essi erano armati. Cominciò a gridare agli infermieri: «Lasciateli stare. Ho requisito questa nave in nome del Reich». Gli infermieri lo ignorarono: obbedivano al capitano della Wehrmacht. Potevo vedere la faccia del capitano poiché era a soli due metri da me. Grigia di stanchezza, con delle macchie scure sotto gli occhi. Aveva alcune rughe profonde su entrambi i lati del naso, e la barba era di parecchie settimane. Vedendo che le operazioni di carico ricominciavano, passò alle spalle di Roschmann per controllare i barellieri. Dalla folla delle barelle distese sulla neve del molo, udii una voce gridare nel dialetto di Amburgo: «Bravo capitano! Gliele ha cantate, a quel porco».

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In quel momento il capitano della Wehrmacht era a fianco di Roschmann. L'ufficiale delle S.S. lo afferrò per un braccio e lo schiaffeggiò con la mano guantata. Lo avevo visto migliaia di volte schiaffeggiare un uomo, ma mai con lo stesso risultato. Il capitano incassò il colpo, scosse la testa, strinse i pugni e allungò un destro alla mascella di Roschmann. Roschmann volò all'indietro di parecchi centimetri e cadde con la schiena sulla neve, un rivoletto di sangue che gli usciva dalla bocca. Il capitano si spostò verso gli infermieri. Sotto i miei occhi, Roschmann estrasse la sua Lüger, prese con cura la mira e fece fuoco fra le spalle del capitano. Allo sparo, tutto si fermò. Il capitano si voltò, barcollando. Roschmann fece fuoco ancora e la pallottola colpì il capitano alla gola. Era già morto prima di cadere sul molo. Il proiettile fece volar via qualcosa dal suo colletto; quando passai di lì, dopo che mi era stato ordinato di trasportare il corpo e buttarlo nel bacino, vidi che l'oggetto era una medaglia su un nastro. Non seppi mai il nome del capitano, ma la decorazione era la Croce di ferro con fronde di quercia...

"Miller lesse questa pagina del diario con crescente stupore, che si trasformò in incredulità, dubbio, e infine profonda collera. Rilesse la pagina una dozzina di volte per assicurarsi che non si fosse sbagliato, prima di andare avanti".

Dopo, ci ordinarono di scaricare i feriti della Wehrmacht e di deporli sulla neve che copriva il molo. Mi capitò di aiutare un giovane soldato a spostarsi dalla passerella al molo. Era rimasto cieco, e attorno agli occhi era fasciato con una benda sporca strappata dall'estremità di una camicia. Delirava e continuava a chiedere di sua madre. Credo che fosse sui diciott'anni. Alla fine furono portati tutti giù, e a noi prigionieri fu ordinato di salire a bordo. Fummo stipati nelle due stive, una a prua e una a poppa, così stretti che potevamo a malapena muoverci. Poi i boccaporti vennero chiusi, e le S.S. salirono a bordo. La nave salpò poco prima di mezzanotte, dato che evidentemente il capitano desiderava essere al largo nel golfo di Lettonia prima dell'alba per evitare di essere individuato e bombardato dagli Stormoviks russi...

Ci vollero tre giorni per arrivare a Danzica, bene al riparo delle linee tedesche. Tre giorni di beccheggio e di sballottamento nella stiva, senza cibo né acqua, tre giorni durante i quali un quarto dei 4000 prigionieri morì. Nessuno aveva ingerito cibo, ma tutti eravamo sconvolti dai conati di vomito a causa del mal di mare. Molti morirono per sfinimento, altri di fame e di freddo, altri soffocati, altri semplicemente perché persero la volontà di vivere, si sdraiarono e si arresero alla morte. Poi la nave venne di nuovo ormeggiata, si aprirono i boccaporti e raffiche di vento gelido invasero le stive fetide e puzzolenti. Quando fummo sul molo di Danzica, i cadaveri vennero allineati accanto ai superstiti, in modo che il numero dei passeggeri della nave corrispondesse a quello preso a bordo prima della partenza. Le S.S. erano sempre molto precise in fatto di numeri.

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Apprendemmo più tardi che Riga era caduta in mani russe il 14 ottobre, mentre noi eravamo ancora al largo...

"La dolorosa odissea di Tauber era quasi giunta al termine. Da Danzica, i prigionieri furono trasportati su una chiatta al campo di concentramento di Stutthof, fuori della città, e fino alle prime settimane del 1945 Tauber lavorò di giorno alle costruzioni di sommergibili di Burggraben, vivendo al campo di notte. A Stutthof, altre migliaia di persone morirono per denutrizione. Lui le vide tutte morire, ma in qualche modo riuscì a sopravvivere. Nel gennaio 1945, mentre i russi continuavano ad avvicinarsi, i sopravvissuti del campo di Stutthof furono portati via nella neve, nella famigerata Marcia della Morte verso Berlino. Da tutta la Germania orientale queste colonne di spettri, usati dalle loro guardie S.S. come lasciapassare per l'Occidente, erano trascinate verso ovest. Lungo la strada, nella neve e nel gelo, morivano come mosche. Tauber sopravvisse anche a questa esperienza, e alla fine i resti della sua colonna raggiunsero Magdeburgo, a ovest di Berlino, dove finalmente le S.S. li abbandonarono, cercando la propria salvezza. Il gruppo di Tauber finì nella prigione di Magdeburgo, affidati alla custodia dei vecchi e impotenti militi della milizia territoriale. Incapaci di procurare da mangiare ai prigionieri, terrorizzati dalle reazioni degli alleati che avanzavano, nel caso che avessero trovato i prigionieri in quello stato, i militi permisero agli uomini più in forza di andare a cercarsi un po' di cibo nella campagna circostante".

L'ultima volta che vidi Eduard Roschmann fu quando ci avevano contati sul molo di Danzica. Bene imbacuccato contro il freddo invernale, stava salendo su una macchina. Pensai che non l'avrei più incontrato, ma dovevo rivederlo ancora una volta. Era il 3 aprile 1945. Quel giorno, ero fuori insieme ad altri tre, dalle parti di Gardelegen, un villaggio a est della città, e avevamo raccolto un sacchetto di patate. Stavamo ritornando faticosamente indietro con il nostro bottino quando dietro di noi sopraggiunse un'automobile diretta verso ovest. Si fermò per contrattare il prezzo di un cavallo con carro lì sulla strada, e io mi guardai attorno senza alcun particolare interesse per veder passare la macchina. Dentro c'erano quattro ufficiali delle S.S., evidentemente in fuga verso ovest. Seduto a fianco dell'autista c'era Eduard Roschmann che indossava la giubba di un caporale dell'esercito. Non mi vide perché la mia testa era quasi tutta coperta da un cappuccio ritagliato da un vecchio sacco di patate, a protezione del freddo vento primaverile. Ma io lo vidi. Non c'era alcun dubbio. Tutti e quattro gli uomini nella macchina si stavano cambiando l'uniforme. Mentre l'automobile scompariva davanti a noi, dal finestrino fu gettato un indumento che volò nella polvere. Pochi minuti dopo eravamo sul posto, e ci chinammo per esaminarlo. Era la giacca di un ufficiale delle S.S., con i due fulmini gemelli simbolo delle Waffen-S.S. e i gradi di capitano. Roschmann delle S.S. era scomparso...

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Ventiquattro giorni dopo, venne la liberazione. Avevamo smesso di uscire, e preferivamo rimanercene affamati in prigione piuttosto che avventurarci lungo le strade, dove regnava la totale anarchia. Poi, la mattina del 27 aprile, tutto fu quieto in città. Verso metà mattina, io mi trovavo nel cortile della prigione a parlare con una delle vecchie guardie che sembrava terrorizzata e cercava di spiegarmi che lui e i suoi colleghi non avevano nulla a che fare con Adolf Hitler e tanto meno niente a che fare con le persecuzioni degli ebrei. Udii il rombo del motore di un'automobile che saliva, al di là dei cancelli chiusi a chiave, e poi qualcuno bussò con violenza. Il vecchio guardiano nazionale andò ad aprire. L'uomo che varcò il cancello cautamente, con la pistola in pugno, era un soldato in pieno assetto di battaglia, con indosso una divisa che non avevo mai visto prima. Era evidentemente un ufficiale, perché era accompagnato da un soldato con un elmetto piatto e rotondo, che imbracciava un fucile. Restarono lì, in silenzio, guardandosi intorno nel cortile della prigione. In un angolo era ammassata una cinquantina di cadaveri, i morti delle ultime due settimane, che nessuno aveva avuto il coraggio di seppellire. Altri, soltanto un po' più vivi, se ne stavano contro il muro di cinta cercando di assorbire un po' del sole primaverile, con le ferite in suppurazione che mandavano un fetore terribile. I due uomini si scambiarono un'occhiata, poi guardarono il vecchio settantenne della milizia territoriale. Questi li guardò a sua volta, con imbarazzo. Poi disse qualcosa che doveva avere imparato durante la prima guerra mondiale. Disse: «Salve, Tommy.» L'ufficiale rimase a fissarlo, poi si guardò ancora intorno nel cortile e disse in modo molto chiaro, in inglese: «Tu, fottuto maiale tedesco». E improvvisamente io cominciai a piangere...

Non so davvero come feci a tornare ad Amburgo, ma ci arrivai. Penso che volessi vedere se era rimasto qualcosa della vecchia vita. Non c'era niente. Le strade dove ero nato e cresciuto erano scomparse nella grande Tempesta di Fuoco dei raid dei bombardieri alleati, e così l'ufficio dove avevo lavorato, il mio appartamento, ogni cosa. Gli inglesi mi ricoverarono in un ospedale di Magdeburgo per un certo tempo, ma me ne andai di mia spontanea volontà e feci l'autostop per tornare a casa. Ma quando vi arrivai e vidi che non era rimasto nulla, alla fine ebbi, con ritardo, il collasso totale. Trascorsi un anno in ospedale come paziente, assieme ad altri che erano usciti da un posto chiamato Bergen-Belsen, e poi un altro anno lavorando nell'ospedale come inserviente, curando coloro che ne erano venuti fuori in condizioni peggiori delle mie. Quando me ne andai trovai una stanza ad Amburgo, dove ero nato, per passarci il resto della mia vita...

"Il libro terminava con altri due fogli nuovi, evidentemente dattiloscritto ti da poco, che costituivano l'epilogo".

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Ho vissuto in questa piccola stanza di Altona fin dal 1947. Poco dopo essere uscito dall'ospedale, cominciai a scrivere la storia di quello che era accaduto a me e agli altri di Riga. Ma già molto tempo prima che terminassi, era diventato chiaro che anche altri erano sopravvissuti, altri meglio informati e più capaci di offrire una testimonianza su quello che era stato fatto. Centinaia di libri sono ora apparsi per descrivere l'olocausto, per cui non ci sarebbe alcun interesse per il mio. Non l'ho mai fatto leggere a nessuno. Vista retrospettivamente, è stata tutta una perdita di tempo e di energie, questa battaglia per sopravvivere e per scrivere la mia testimonianza; altri l'hanno già fatto e molto meglio. Ora vorrei essere morto a Riga insieme con Esther. Anche il mio ultimo desiderio, di vedere Eduard Roschmann di fronte a un tribunale, a render conto alla corte di quello che ha fatto, non sarà mai realizzato. Ora so che è così. Qualche volta cammino per le strade e mi ricordo dei vecchi tempi in questo luogo, ma non potrà mai essere la stessa cosa. I bambini mi prendono in giro e scappano quando tento di farmeli amici. Una volta sono riuscito a parlare a una ragazzina, ma è saltata fuori la madre strillando e l'ha trascinata via. Così non parlo con molta gente. Un giorno è venuta a trovarmi una donna. Mi ha detto che era dell'ufficio indennizzi e che avevo diritto a del denaro. Le ho detto che non volevo denaro. Lei è stata molto esplicita e ha insistito che era mio diritto essere risarcito per quello che mi era stato fatto. Ho continuato a rifiutare. Hanno mandato qualcun altro a trovarmi, e ho rifiutato di nuovo. Questi ha detto che era anormale rifiutare di essere risarcito. Ho intuito che voleva dire che questo avrebbe sconvolto i loro libri contabili. Ma io prendo da loro solo quello che mi è dovuto. Quando mi trovavo all'ospedale uno dei medici inglesi mi ha chiesto perché non emigravo in Israele, che presto sarebbe stato indipendente. Come potevo spiegarglielo? Non potevo dirgli che non potrò mai andare nella Terra Promessa, dopo quello che ho fatto a Esther, mia moglie. Ci ho pensato spesso e a volte ho sognato come dev'essere, ma non sono degno di andarci. Ma se mai queste righe dovessero essere lette in terra di Israele, che io non vedrò mai, ci sarà qualcuno che vorrà recitare il "kaddish" per me? Salomon Tauber Altona, Amburgo, 21 novembre 1963.

Peter Miller depose il diario e si appoggiò allo schienale della poltrona, rimanendo a lungo in quella posizione, fissando il soffitto e fumando. Poco prima delle 5, udì aprirsi la porta dell'appartamento: era Sigi che tornava dal lavoro. Si stupì di trovarlo ancora sveglio. «Che cosa ci fai in piedi a quest'ora?» domandò. «Leggevo» disse Miller. Più tardi, quando la prima luce dell'alba illuminò la guglia di San Michaelis, giacquero nel letto; Sigi sonnecchiava soddisfatta come tutte le giovani donne che sono state appena amate, Miller, silenzioso

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e preoccupato, fissava il soffitto. «Un soldo per i tuoi pensieri» disse Sigi dopo un po'. «Stavo soltanto pensando.» «Lo so. Me ne sono accorta. A che cosa?» «Alla prossima inchiesta che farò.» Sigi si spostò e gli lanciò un'occhiata. «Che cosa hai intenzione di fare?» gli chiese. Miller si allungò per schiacciare il mozzicone della sigaretta. «Ho intenzione di rintracciare un uomo» disse.

Capitolo 3.

Mentre Peter Miller e Sigi dormivano abbracciati nella loro casa di Amburgo, un gigantesco Coronado delle linee aeree argentine passò sulle colline ancora buie della Castiglia e stabilì il contatto definitivo per l'atterraggio all'aeroporto Barajas di Madrid. Un uomo che aveva appena passato la sessantina, i capelli color grigio-ferro e i baffetti sottili, era seduto accanto al finestrino, nella terza fila della prima classe. Esisteva soltanto una sua fotografia, di quando aveva quarant'anni, i capelli cortissimi, niente baffi a nascondere la bocca simile a una trappola per topi, e una scriminatura diritta come una lama di rasoio lungo il lato sinistro della testa. Difficilmente, qualcuno dei pochi uomini che avevano potuto vedere questa fotografia avrebbe riconosciuto l'uomo dell'aereo, che adesso portava i capelli lunghi pettinati all'indietro senza scriminatura. Il nome sul passaporto lo identificava come il señor Ricardo Suertes, cittadino argentino, e quel nome rappresentava la sua beffarda irrisione al mondo. Suerte in spagnolo significa fortuna, e in tedesco fortuna si dice "Glück". Il passeggero del Coronado era nato col nome di Richard Glücks, per diventare poi generale di corpo d'armata delle S.S., capo della direzione economica del Reich e ispettore generale di Hitler per i campi di concentramento. Sull'elenco delle persone ricercate dalla Germania occidentale e da Israele, era il numero tre dopo Martin Bormann e l'ex-capo della Gestapo, Heinrich Müller. Era ritenuto più importante persino di Josef Mengele, il "medico diabolico" di Auschwitz. Nell'Odessa era il numero due, vice di Martin Bormann sul quale era caduta l'investitura del Führer nel 1945. Il ruolo svolto da Richard Glücks nei crimini delle S.S. era stato unico ed eguagliato solo dal modo in cui Glücks era riuscito a sparire dalla circolazione nel maggio 1945. Ancor più di Adolf Eichmann, Glücks era stato uno dei più importanti ideatori e realizzatori dell'olocausto, e tuttavia non aveva mai premuto un grilletto. Se un passeggero non informato avesse saputo chi era l'uomo seduto vicino a lui, probabilmente si sarebbe chiesto perché mai l'ex-capo di un ufficio amministrativo fosse in cima all'elenco dei ricercati. Se si fosse informato, avrebbe saputo che il novantacinque per cento dei crimini contro l'umanità commessi dai tedeschi tra il 1933 e il 1945 potevano essere attribuiti alle S.S. Di questo novantacinque per cento, tra l'ottanta e il novanta per cento risaliva a due

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Dipartimenti all'interno delle S.S.: la direzione dei servizi di sicurezza del Reich e la direzione economica del Reich. Se l'idea di un ufficio amministrativo implicato in uno sterminio può sembrare strana, bisogna capire in che modo veniva intesa l'esecuzione di questo compito. Non solo esso aveva l'obiettivo di eliminare tutti gli ebrei dalla faccia dell'Europa, e con gli ebrei la maggior parte delle razze slave, ma intendeva pure che le vittime pagassero per questo privilegio. Prima che si aprissero le camere a gas, le S.S. avevano già perpetrato il più grande misfatto della storia. Nel caso degli ebrei, il pagamento avveniva in tre fasi. Prima li si derubava dei loro commerci, delle case, delle fabbriche, dei conti in banca, dei mobili, delle macchine e dei vestiti. Li si imbarcava verso l'est, ai campi di lavoro forzato e ai campi di sterminio, assicurandoli che avrebbero avuto un'altra sistemazione: in genere ci credevano, e partivano con quello che potevano portare, di solito due valigie. Nel cortile del campo venivano privati anche di queste, assieme ai vestiti che indossavano. Dai bagagli di sei milioni di persone, si ricavò un bottino di milioni di dollari, perché a quel tempo gli ebrei viaggiavano portandosi addosso le loro ricchezze, soprattutto quelli che arrivavano dalla Polonia e dai paesi orientali. Dai campi furono spediti al quartier generale delle S.S. in Germania interi treni carichi di monili d'oro, diamanti, zaffiri, rubini, lingotti d'argento, luigi d'oro, dollari in oro e banconote di ogni genere. Nel corso della loro storia, le S.S. hanno tratto sempre profitto dalle loro operazioni. Una parte di questi profitti, in forma di lingotti d'oro su cui era stampigliata l'aquila del Reich e il simbolo dei due fulmini gemelli, fu depositata verso la fine della guerra in banche della Svizzera, del Liechtenstein di Tangeri e di Beirut a costituire la fortuna su cui più tardi doveva basarsi l'organizzazione dell'Odessa. Gran parte di quest'oro è tutt'ora depositata in camere blindate sotto le strade di Zurigo, custodita dai compiacenti e sussiegosi banchieri della città. La seconda fase dello sfruttamento veniva effettuata sui corpi viventi delle vittime. In essi c'erano calorie energetiche, che potevano essere usate con profitto. A questo punto venivano messi sullo stesso piano dei russi e dei polacchi, anche se questi, al tempo della cattura, non avevano il becco di un quattrino. Le persone che, fra le varie categorie, erano inabili al lavoro venivano sterminate perché inutili. Quelle in grado di lavorare erano affittate fuori dai campi, o alle fabbriche di proprietà delle S.S. oppure ai complessi industriali tedeschi come quelli di Krupp, di Thyssen, di von Opel e altri, a tre marchi al giorno per i lavoratori non specializzati e a quattro marchi per gli specializzati. "Al giorno" significava tutto il lavoro che era possibile ottenere da un corpo vivente in cambio della minima quantità di cibo nell'arco delle ventiquattro ore. In questo modo, ne morirono sui posti di lavoro centinaia di migliaia. Le S.S. erano uno stato dentro lo stato, che possedeva fabbriche e laboratori, una divisione progetti, una sezione costruzioni, officine di riparazione e manutenzione e un settore vestiario. Costruiva per sé quasi tutto quello che gli era necessario, usando come schiavi i prigionieri, che per decreto di Hitler erano proprietà delle S.S.

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La terza fase dello sfruttamento riguardava i cadaveri dei defunti. Al momento della morte i corpi venivano denudati, e così si accumulavano vagoni di scarpe, calze, pennelli da barba, occhiali, giacche e pantaloni. E anche i capelli, che erano inviati al Reich per essere trasformati in stivali di feltro per i combattimenti invernali; e le capsule d'oro dei denti che, strappate con pinze, in seguito venivano fuse per essere depositate sotto forma di lingotti a Zurigo. Si tentò di usare le ossa come fertilizzanti e trasformare il grasso del corpo in sapone, ma questo procedimento risultò antieconomico. La responsabilità dei problemi economici e dei profitti derivanti dallo sterminio di quattordici milioni di persone risaliva alla direzione economica del Reich, diretta dall'uomo che quella notte occupava il posto 3-B dell'aereo. Glücks era uno di quelli che avevano preferito non mettere a repentaglio la propria vita o la propria libertà, ritornando in Germania. Non ne aveva bisogno. Economicamente tranquillo, grazie ai fondi segreti, poteva vivere il resto della sua vita nel Sudamerica senza problemi, e così stava facendo. La sua devozione all'idea nazista non era stata scossa dagli eventi del 1945 e questo, associato ai suoi precedenti, gli assicurava una posizione di rilievo fra i nazisti riparati in Argentina, da dove veniva diretta l'Odessa. L'aereo atterrò senza difficoltà e i passeggeri passarono la dogana. L'assoluta padronanza della lingua spagnola del passeggero di prima classe della fila numero tre evitò ogni sospetto nei suoi confronti. Da lungo tempo, Glücks riusciva a farsi passare per sudamericano. Uscito dal Terminal, prese un taxi e diede un indirizzo che aveva già dato molte volte: quello di un albergo a un isolato dallo Zurburan Hotel, nel centro di Madrid. Qui pagò il taxi, prese la sua valigetta a mano e percorse a piedi i rimanenti duecento metri che lo separavano dall'albergo. Aveva prenotato via telex. Si fece registrare, salì nella sua stanza, si infilò sotto la doccia e si rase. Erano le 9 in punto quando alla sua porta vennero battuti tre colpi, seguiti da una pausa e da altri due. Andò ad aprire, riconobbe il visitatore e fece un passo indietro. Il nuovo arrivato richiuse la porta alle sue spalle, scattò sull'attenti e tese il braccio destro, a palma in giù, nel saluto nazista. «"Sieg Heil"» disse l'uomo. Il generale Glücks fece un cenno compiaciuto verso l'ufficiale più giovane ed alzò il braccio destro. «"Sieg Heil"» disse, con tono più basso. Con un gesto, invitò il suo visitatore a sedersi. L'uomo che gli stava di fronte, un altro tedesco, ex-ufficiale delle S.S., attuale capo della rete della Odessa all'interno della Germania occidentale, era profondamente conscio dell'onore che gli era stato fatto nel convocarlo a Madrid per un incontro con un ufficiale superiore di tanta importanza, e sospettava che questo avesse qualche cosa a che fare con la morte del presidente Kennedy avvenuta trentasei ore prima. Non si era sbagliato. Il generale Glücks si versò una tazza di caffè e si accese con cura un grosso Corona. «Lei avrà probabilmente indovinato la ragione di questo mio improvviso

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e in un certo senso rischioso viaggio in Europa» disse. «Poiché non desidero rimanere sul continente più a lungo del necessario, verrò subito al nocciolo e sarò breve.» Il subordinato proveniente dalla Germania si protese in avanti in atteggiamento d'attesa. «Kennedy è morto, il che per noi è un bel colpo di fortuna» continuò il generale. «Non dobbiamo assolutamente farci sfuggire i vantaggi che un'occasione del genere ci offre. Mi segue?» «In linea di principio, sì, Herr General» replicò il giovane, con ansia. «Ma più precisamente?» «Mi riferisco al traffico segreto di armi fra la feccia dei traditori e i porci di Tel Aviv. E' al corrente del traffico di armi? I carri armati, i mitra e altro che passano dalla Germania a Israele?» «Sì, certo.» «Ed è anche al corrente che la nostra organizzazione sta facendo tutto ciò che è in suo potere nell'appoggiare la causa egiziana, così che un giorno questi possano riportare una completa vittoria nello scontro che si avvicina?» «Certo. Abbiamo già organizzato a tal fine il reclutamento di numerosi scienziati tedeschi.» Il generale Glücks annuì. «Toccherò dopo questo punto. Per il momento intendo riferirmi alla nostra politica di tenere il più possibile informati i nostri amici arabi sui particolari di questo traffico traditore, in modo che essi, attraverso i canali diplomatici, possano fare le più forti rimostranze a Bonn. Le proteste arabe hanno portato, in Germania, alla formazione di un gruppo che si oppone recisamente, per motivi politici, al traffico di armi, perché questo disturba le relazioni con gli arabi. Questo gruppo, per lo più senza rendersene conto, sta facendo il nostro gioco, premendo su quell'idiota di Erhard per annullare il traffico di armi, perfino a livello di gabinetto ministeriale.» «La seguo, Herr General.» «Bene. Finora Erhard non ha annullato l'imbarco di armi, ma ha tentennato diverse volte. Il principale argomento impugnato da coloro che sostengono il traffico tra la Germania e Israele è stato finora l'appoggio di Kennedy. E quello che Kennedy vuole, Erhard glielo dà.» «Sì. Questo è vero.» «Ma adesso Kennedy è morto.» Il giovane ufficiale tedesco si appoggiò all'indietro, gli occhi accesi dall'entusiasmo man mano che l'attuale situazione internazionale gli offriva nuove prospettive. Il generale delle S.S. scosse la cenere del sigaro nella tazza, e agitò la punta incandescente in direzione del suo subordinato. «Per il resto dell'anno, quindi, il punto base dell'azione politica all'interno della Germania che i nostri amici e sostenitori devono portare avanti dovrà essere l'incitamento dell'opinione pubblica, su scala più vasta possibile, contro il traffico di armi e in favore dei veri e tradizionali amici della Germania, gli arabi.» «Sì, sì, questo può esser fatto.» L'uomo più giovane ebbe un largo sorriso. «Alcuni nostri contatti al Cairo assicureranno un flusso costante di

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proteste diplomatiche attraverso le loro ambasciate e quelle di altri paesi» continuò il generale. «Altri amici egiziani organizzeranno manifestazioni di protesta fra studenti arabi e tedeschi amici degli arabi. Il suo incarico sarà quello di coordinare la stampa e propaganda attraverso i vari pamphlets e riviste che noi segretamente appoggiamo, e comunicati sui quotidiani più diffusi, e di fare pressioni su alti funzionari governativi e su uomini politici, i quali devono essere convinti a tener conto della crescente indignazione dell'opinione pubblica contro il traffico di armi.» L'uomo più giovane inarcò le sopracciglia. «E' molto difficile promuovere sentimenti anti-Israele oggi in Germania» mormorò. «Invece non dovrebbero esserci problemi su questo punto» disse il generale, in tono aspro. «Esistono argomentazioni convincenti: per ragioni pratiche, la Germania non deve alienarsi stupidamente le simpatie di ottanta milioni di arabi a causa di queste presunte spedizioni di armi. Molti tedeschi saranno d'accordo, soprattutto i diplomatici. Potremmo compilare una lista dei nostri amici al Ministero degli Esteri. Un'impostazione così pratica del problema è facilmente sostenibile. Saranno messi a disposizione dei fondi, è ovvio. La cosa principale è che, con Kennedy morto e Johnson non ben disposto ad adottare la sua stessa politica estera in favore di Israele, Erhard deve essere sottoposto a una pressione costante ad ogni livello, incluso il suo governo, affinché metta la parola fine al traffico d'armi. Se possiamo dimostrare agli egiziani di aver fatto cambiare il corso della politica estera di Bonn, la nostra importanza al Cairo ne risulterà notevolmente accresciuta.» Il giovane ufficiale annuì varie volte, già prefigurandosi il suo piano d'azione. «Sarà fatto» disse. «Benissimo» approvò il generale Glücks. L'uomo di fronte a lui sollevò lo sguardo. «Herr General, lei ha accennato agli scienziati tedeschi che lavorano in Egitto...» «Ah, sì, ho detto che sarei tornato più tardi sulla questione. Essi rappresentano la seconda fase nel nostro piano per distruggere Israele una volta per tutte. Lei sa dell'esistenza dei missili di Helwan, vero?» «Sissignore. A grandi linee, perlomeno.» «Ma non conosce il loro vero scopo?» «Be', ovviamente immagino che...» «Che essi sarebbero usati per lanciare su Israele alcune tonnellate di esplosivo ad alto potenziale?» Il generale Glücks ebbe un largo sorriso. «Non potrebbe dare una valutazione più errata. Tuttavia, ritengo che il tempo sia maturo per informarla del perché questi missili e gli uomini che li hanno costruiti sono in realtà di vitale importanza.» Il generale Glücks si appoggiò allo schienale, fissò il soffitto, e raccontò al suo visitatore la "vera" storia dei missili di Helwan.

Nell'immediato dopoguerra, quando re Faruk comandava ancora in Egitto,

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migliaia di nazisti ed ex-membri delle S.S. erano fuggiti dall'Europa e avevano trovato un rifugio sicuro sulle rive del Nilo. Tra questi, c'era un certo numero di scienziati. Ancora prima del colpo di stato che provocò la caduta di Faruk, due scienziati tedeschi erano stati da lui incaricati di condurre i primi studi in vista dell'eventuale installazione di di una base per la costruzione di missili. Questo accadeva nel 1952, e i due professori erano Paul Görke e Rolf Engel. In seguito alla presa del potere da parte di Gamal Abdel Nasser il progetto venne insabbiato per alcuni anni ma dopo la sconfitta dell'esercito egiziano, nella campagna del Sinai del 1956, Nasser pronunciò un giuramento. Giurò che un giorno Israele sarebbe stata completamente distrutta. Nel 1961, quando ricevette da Mosca il "No" conclusivo alle sue richieste di missili, il progetto Görke-Engel di una base egiziana venne ripreso. Durante quell'anno, lavorando contro il tempo e con fondi illimitati a disposizione, gli scienziati tedeschi e gli egiziani costruirono e aprirono la base 333 ad Helwan, a nord del Cairo. Aprire una base è una cosa; progettare e costruire missili un'altra. Da lungo tempo, i più anziani collaboratori di Nasser, la maggior parte dei quali aveva un passato filonazista che risaliva alla seconda guerra mondiale, erano stati in stretto contatto con i rappresentanti dell'Odessa in Egitto. Da questi venne la risposta al principale problema degli egiziani: il problema di assumere gli scienziati necessari a costruire i missili. Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non avrebbero fornito un solo uomo per aiutarli. Ma l'Odessa fece notare che il tipo di missili di cui Nasser aveva bisogno era notevolmente simile per grandezza e portata alle V.2 che Werner von Braun e il suo gruppo avevano realizzato a Peenemunde per polverizzare Londra. E molti di quel gruppo erano ancora disponibili. Alla fine del 1961 iniziò il reclutamento degli scienziati tedeschi. Molti di questi erano impiegati a Stoccarda, all'Istituto tedesco- occidentale di ricerca aerospaziale. Ma si sentivano frustrati perché il Trattato di Parigi del 1954 proibiva alla Germania di dedicarsi alla ricerca e alla costruzione in certi settori, in particolare quello della fisica nucleare e dei missili. Erano anche cronicamente a corto di fondi per la ricerca. Per molti di questi scienziati l'offerta di un posto al sole, molto denaro per la ricerca, e la possibilità di progettare dei veri missili, era davvero allettante. L'Odessa nominò un ufficiale incaricato del reclutamento in Germania, e questi, a sua volta, utilizzò come collaboratore l'ex-sergente delle S.S. Heinz Krug. Insieme setacciarono la Germania in cerca di uomini disposti a recarsi in Egitto e costruire i missili per Nasser. Visti i compensi che potevano permettersi di offrire, non mancarono certo i volontari tra cui scegliere. Spiccava tra questi il professor Wolfgang Pilz, che era stato recuperato dai francesi nella Germania del dopoguerra ed era in seguito diventato il padre del missile francese Véronique e il pilastro del programma aerospaziale di de Gaulle. Il professor Pilz si recò in Egitto all'inizio del 1962. Un altro fu il dottor Heinz Kleinwachter; inoltre accettarono il dottor

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Eugen Saenger e la moglie Irene, entrambi appartenenti un tempo al gruppo di von Braun per le V.2, e i dottori Josef Eisig e Kirmayer, esperti in tecnica di propulsione e propellenti. Il mondo vide i primi risultati del loro lavoro durante una parata che si tenne al Cairo il 23 luglio 1962, in occasione dell'ottavo anniversario della caduta di Faruk. Due missili, l'El Kahira e l'El Zafira, la cui portata era rispettivamente di cinquecento e trecento chilometri, furono fatti passare tra la folla urlante. Benché fossero solo l'involucro, senza testata e propellente, questi missili dovevano però essere i primi di 400 armi analoghe che un giorno sarebbero state scagliate su Israele. Il generale Glücks fece una pausa, tese in avanti il sigaro e ritornò al presente. «Il problema è questo: abbiamo risolto la questione dell'involucro, delle testate e del propellente, ma il punto-chiave di un missile guidato è il sistema di teleguida.» Puntò il sigaro in direzione del tedesco-occidentale. «Ed è esattamente "questo" che non siamo stati capaci di dare agli egiziani» proseguì. «Per sfortuna, sebbene a Stoccarda e altrove lavorassero scienziati esperti in sistemi di guida, non siamo riusciti a persuaderne nemmeno uno di valore a trasferirsi in Egitto. Tutti gli esperti mandati là erano specialisti in aerodinamica, propulsione e nella progettazione di testate. «Ma avevamo promesso all'Egitto che avrebbe avuto i missili e li avrà. Il presidente Nasser ha deciso che un giorno ci sarà la guerra tra l'Egitto e Israele, e la guerra ci sarà. Lui è convinto che basteranno i carri armati e i soldati a dargli la vittoria. Le nostre informazioni ci rendono meno ottimisti. Gli egiziani potrebbero non riuscirci nonostante la loro superiorità numerica. Ma rifletta solo su quale sarebbe la nostra posizione se, nel caso in cui fallisse tutto l'armamento sovietico acquistato con miliardi di dollari, a vincere la guerra fossero i missili forniti dagli scienziati reclutati attraverso la nostra rete. La nostra diventerebbe una posizione inattaccabile. Saremmo riusciti ad assicurarci contemporaneamente un Medio Oriente grato per l'eternità, un rifugio di completa sicurezza per la nostra gente in qualsiasi momento, e inoltre la distruzione finale e totale dello stato dei porci ebrei, cosa che esaudirebbe l'ultimo desiderio del Führer. E' una sfida possente, in cui non dobbiamo fallire e non falliremo.» Perplesso e rispettoso, l'ufficiale più giovane guardò l'altro camminare su e giù per la stanza. «Mi perdoni, Herr General, ma quattrocento testate di media gittata potranno davvero farla finita con gli ebrei una volta per tutte? Una notevole quantità di danni, certo, ma la distruzione totale?» Glücks gli girò intorno e abbassò lo sguardo sul giovane con un sorriso trionfante. «Testate?» disse. «Non penserà che vogliamo sprecare dell'esplosivo puro ad alto potenziale per quei maiali. Abbiamo proposto al presidente Nasser, e lui ha accettato con prontezza, che le testate dei Kahira e dei Zafira siano di tipo diverso. Alcune conterranno

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colture concentrate di peste bubbonica, le altre esploderanno a mezz'aria infiammando l'intero territorio d'Israele con stronzio 90 radioattivo. Tempo poche ore moriranno tutti, o di peste bubbonica o per gli effetti dei raggi gamma. E' "questo" che abbiamo in progetto per loro.» L'altro lo fissò a bocca aperta. «Fantastico» disse. «Ora mi ricordo di aver letto qualcosa su un processo in Svizzera, l'estate scorsa. Solo dei riassunti, la maggior parte delle deposizioni avveniva a porte chiuse. Allora è vero. Un'idea affascinante, generale.» «Affascinante, sì, e realizzabile. Ammesso che noi dell'Odessa riusciamo a equipaggiare quei missili con i sistemi di teleguida necessari a dirigerli non solo nella direzione giusta ma anche sul punto esatto dove devono esplodere. L'uomo che controlla l'intera operazione di ricerca che ha lo scopo di ideare un sistema di teleguida per quei missili lavora ora nella Germania occidentale. Il suo nome in codice è Vulkan. Forse vi ricorderete che nella mitologia greca Vulcano era il fabbro che costruiva i fulmini di Giove.» «In Germania lavora come scienziato?» «No, no di certo. Quando nel 1955 è stato costretto a sparire sarebbe dovuto tornare, come è normale, in Argentina. Ma noi chiedemmo al suo predecessore di procurargli immediatamente un passaporto falso per poterlo far rimanere in Germania. Gli fu dato allora dai fondi di Zurigo un milione di dollari USA con cui avviare una fabbrica in Germania. Lo scopo originario era di usare la fabbrica come facciata per un altro tipo di ricerca in cui noi eravamo interessati in quel periodo, ma che ora è stata accantonata in favore dei sistemi di guida per i missili di Helwan. «La fabbrica Vulkan ora produce radio a transistor. Ma questa è una facciata. Nel settore ricerche della fabbrica, proprio ora, un gruppo di scienziati sta ideando i sistemi di teleguida che un giorno saranno applicati ai missili di Helwan.» «Non sarebbe più semplice farlo direttamente in Egitto?» chiese l'altro. Glücks sorrise ancora e continuò a camminare. «Questo è il colpo di genio che sta dietro all'intera operazione. Le ho detto che c'erano uomini in Germania esperti di sistemi di guida, ma che nessuno di loro era disposto a emigrare. Il gruppo che sta lavorando nel settore ricerche della fabbrica di Vulkan crede di lavorare con un contratto del Ministero della Difesa a Bonn, in circostanze di assoluta segretezza.» Questa volta l'ufficiale più giovane si alzò di scatto dalla sedia, rovesciando il suo caffè sul tappeto. «Dio del cielo, e come è stato possibile?» «In fondo è molto semplice. Gli accordi di Parigi vietano alla Germania di compiere ricerche nel settore dei missili. Gli uomini alle dipendenze di Vulkan hanno giurato di mantenere il segreto davanti a un autentico funzionario del Ministero della Difesa di Bonn, che è anche uno dei nostri. Questi era accompagnato da un generale, la cui faccia era nota agli scienziati dall'ultima guerra. Sono tutti disposti a lavorare per la Germania, anche contro i termini degli

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accordi di Parigi, ma non per l'Egitto. E adesso, sono convinti di lavorare per la Germania. «Naturalmente, le spese sono enormi. Di solito, ricerche di questo genere possono essere intraprese solo dalle grandi potenze. E l'intero programma ha prodotto enormi vuoti nei nostri fondi segreti. Si rende conto, ora, dell'importanza di Vulkan?» «Certamente» rispose il capo dell'Odessa in Germania. «Ma se gli accadesse qualcosa, il progetto potrebbe andare avanti?» «No. Lui è l'unico proprietario della fabbrica. Ed è presidente e consigliere delegato della società, unico azionista e ufficiale pagatore. Solo lui può continuare a consegnare le paghe agli scienziati e sostenere le enormi spese che le ricerche necessitano. Nessun altro conosce la vera natura di questa ricerca. Si crede che gli uomini della sezione segreta stiano lavorando su circuiti a microonde, con l'intenzione di sfondare nel mercato dei transistor. La segretezza è motivata come precauzione contro lo spionaggio industriale. L'unico nostro legame tra la fabbrica e le ricerche è rappresentato da Vulkan. Se se ne andasse lui, l'intero progetto crollerebbe.» «Può dirmi il nome della fabbrica?» Il generale Glücks rifletté un attimo, poi fece un nome. L'altro lo guardò sbalordito. «Ma io le conosco, quelle radio» protestò. «Certamente. La ditta esiste davvero e fabbrica radio.» «E il proprietario... è?» «Sì. E' Vulkan. Ora lei capisce l'importanza di quest'uomo e di quello che sta facendo. Per questa ragione, c'è un altro incarico per lei. Questo...» Il generale Glücks tirò fuori una fotografia dalla tasca interna della giacca e la porse all'uomo venuto dalla Germania. Dopo averla studiata con molta attenzione, questi la voltò e lesse il nome sul retro. «Buon Dio, pensavo che fosse in Sudamerica.» Glücks scosse la testa. «Al contrario. Questo è Vulkan. Attualmente, il suo lavoro ha raggiunto una fase davvero cruciale. Se, per qualsiasi circostanza, lei dovesse aver sentore che qualcuno fa domande sconvenienti sul conto di quest'uomo, la persona in questione deve essere... scoraggiata. Un avvertimento; e poi una soluzione definitiva. Sono stato chiaro, "Kamerad"? Nessuno, ripeto, nessuno deve avvicinarsi a scoprire la vera identità di Vulkan.» Il generale S.S. si alzò in piedi. Il suo visitatore fece altrettanto. «E' tutto» disse Glücks. «Lei sa quello che deve fare.

Capitolo 4.

«Ma non sai nemmeno se è vivo.» Peter Miller e Karl Brandt erano seduti l'uno a fianco dell'altro nella macchina di Miller, di fronte alla casa dell'ispettore. Era là che Miller aveva rintracciato l'ispettore, nel suo giorno libero, intento a consumare il pasto domenicale.

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«No, non lo so. Ed è la prima cosa che devo scoprire. Se Roschmann è morto, è ovvio che la storia finisce qui. Puoi aiutarmi?» Brandt considerò la richiesta, poi scosse lentamente il capo. «No, mi spiace, non posso.» «Perché no?» «Senti, quel diario te l'ho dato per farti un favore. Da amico. Perché mi aveva sconvolto, perché pensavo che te ne saresti potuto servire per un articolo. Ma non avrei mai pensato che avresti tentato di rintracciare Roschmann. Perché non ti accontenti di scrivere un pezzo sul ritrovamento del diario?» «Perché non c'è materiale per un pezzo» disse Miller. «Cosa dovrei dire? "Ma che bella sorpresa, ho trovato una cartelletta piena di fogli in cui un vecchio che si è appena suicidato con il gas descrive quello che ha passato durante la guerra"? Ma a chi vuoi che interessi? Personalmente, lo considero un documento agghiacciante, ma questa è solo la mia opinione. Dalla guerra in poi sono stati scritto ti centinaia di memoriali e la gente comincia ad averne piene le tasche. Nessun direttore di giornale tedesco saprebbe che farsene di un articolo basato solo su quel diario.» «In conclusione, che cosa vuoi?» chiese Brandt. «Semplicemente questo: scatenare una caccia all'uomo, convincere la polizia a organizzare una grossa operazione per ritrovare Roschmann. Solo allora avrò materiale per un articolo.» Brandt scosse lentamente la sigaretta nel portacenere del cruscotto. «Non ci sarà nessuna caccia all'uomo» disse. «Senti, Peter, tu conoscerai il giornalismo, ma io conosco la polizia di Amburgo. Il nostro compito ora, nel 1963, è di sbarazzare Amburgo dalla criminalità. I poliziotti sono già oberati di lavoro, e non ne troverai uno disposto a dare la caccia a un uomo per quello che ha fatto a Riga vent'anni fa. Non è pensabile.» «Ma potresti almeno sollevare la questione?» disse Miller. Brandt scosse la testa. «No, non ci penso neanche.» «Perché no? Qual è la difficoltà?» «La difficoltà è che non voglio grane. Tu non hai problemi. Sei scapolo, e non dipendi da nessuno. Puoi andartene a dar la caccia a chi ti pare, se vuoi. Io ho una moglie e due figli, e una buona posizione che non intendo mettere a repentaglio.» «Perché questo dovrebbe mettere a repentaglio la tua posizione nella polizia? Roschmann è un criminale, no? E la polizia ha il dovere di dare la caccia ai criminali. Dov'è il problema?» Brandt schiacciò il mozzicone. «E' difficile da spiegare. Diciamo che nella polizia c'è un certo atteggiamento. Nulla di concreto, intendiamoci... Forse è solo una sensazione. Ma questa sensazione è che se un giovane poliziotto tentasse di indagare a fondo sui crimini di guerra delle S.S., la sua carriera sarebbe finita. E in ogni caso, non ne ricaverebbe nulla. La richiesta verrebbe semplicemente respinta! Respinta e messa agli atti. Nessuno ne parlerebbe, ma tutti lo saprebbero. E così, niente più promozioni, per quel giovane poliziotto. Quindi, se vuoi muovere le acque, fa' pure, ma non contare su di me.»

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Miller guardò fuori dal finestrino. «Se le cose stanno così, agirò da solo» disse alla fine. «Ma devo pur cominciare da qualche parte. Quando è morto, Tauber ha lasciato qualche altro documento?» «Solo un appunto, che ho dovuto inserire nel mio rapporto sul suicidio. A quest'ora sarà già stato archiviato. E l'archivio è chiuso.» «E cosa diceva, Tauber, in quell'appunto?» chiese Miller. «Non molto» disse Brandt. «Diceva solo che aveva intenzione di suicidarsi. Oh, c'era anche un'altra cosa... diceva che lasciava i suoi effetti personali a un amico, certo Herr Marx. «Bene, è un punto di partenza. Dov'è questo Marx?» «Come diavolo faccio a saperlo?» disse Brandt. «Vuoi dire che l'appunto parlava solo di Herr Marx? Niente indirizzo?» «Proprio così» disse Brandt. «Solo Marx. Nessun'altra indicazione.» «Ma deve pur abitare da qualche parte. Non l'hai cercato?» Brandt sospirò. «Vuoi capirlo, sì o no, che noi poliziotti siamo molto occupati? Hai un'idea di quanti Marx esistano ad Amburgo? Centinaia solo nell'elenco telefonico. Non possiamo perdere delle settimane per cercare questo Marx. Tanto più che il vecchio ha lasciato un'eredità che a dir molto arriva a dieci pfennige.» «Tutto qui?» chiese Miller. «Nient'altro?» «Già. Se vuoi prenderti la briga di rintracciarlo tu, questo Marx, fa' pure.» «Grazie, lo farò» disse Miller. I due si strinsero la mano, e Brandt tornò a tavola con la famiglia.

La mattina dopo, Miller cominciò andando a vedere la casa dove Tauber aveva vissuto. La porta fu aperta da un uomo di mezz'età con indosso un paio di pantaloni bisunti, sorretti da un pezzo di corda e una camicia senza colletto tutta sbottonata. La barba dell'uomo doveva avere almeno tre giorni. «Buongiorno, è lei il padrone?» L'uomo squadrò Miller e annuì. Emanava un pungente odore di cavolo. «E' qui che si è suicidato un uomo, qualche notte fa?» disse Miller. «E' un poliziotto, lei?» «No, sono un giornalista.» Miller mostrò il tesserino. «Non ho niente da dire.» Miller fece scivolare nella mano dell'uomo una banconota da dieci marchi. L'uomo l'accettò senza reagire. «Voglio solo vedere la stanza.» «L'ho riaffittata.» «E dov'è finita la roba del vecchio?» «Nel cortile posteriore. Non sapevo che farmene.» La roba, ammassata sotto la pioggia sottile, odorava ancora di gas: una decrepita macchina da scrivere, due paia di scarpe sformate, un assortimento di vestiti, una pila di libri e una di quelle sciarpe di seta bianca con le frange che portavano gli ebrei. Miller esaminò ogni oggetto del mucchio, ma non trovò traccia né di rubriche con indirizzi, né di messaggi destinati a Marx.

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«E' tutto qui?» domandò. «Sì, tutto qui» disse l'uomo, guardandolo con aria irritata e restando al riparo, oltre la porta sul retro. «Senta, un'informazione. Lei ha per caso un inquilino di nome Marx?» «No.» «Ma conosce qualcuno con quel nome?» «No.» «Aveva amici, il vecchio Tauber?» «No, per quello che ne so io. Preferiva starsene da solo. Andava e veniva a tutte le ore, non stava mai fermo. Secondo me, aveva qualche rotella di meno. Ma pagava regolarmente l'affitto e non dava nessun fastidio.» «Lo ha mai visto in compagnia di qualcuno? Per la strada, voglio dire.» «No, mai. Non aveva amici. Per forza: continuava a parlare da solo. Doveva proprio avere qualche rotella di meno.» Miller si congedo per andare a interrogare i vicini di casa del vecchio. Molti ricordavano di aver visto Tauber che si trascinava a fatica, a testa bassa, avvolto in un cappotto pesante che gli arrivava alle caviglie, la testa coperta da un berretto di lana, le mani protette da guanti da cui spuntavano le punte delle dita. Per tre giorni Miller vagò nel quartiere in cui aveva abitato Tauber, parlando con il lattaio, con il fruttivendolo, con il macellaio, con il fabbro, con il barista, con il tabaccaio, con il postino. Era mercoledì pomeriggio quando trovò alcuni monelli che giocavano a pallone contro il muro del magazzino. «Chi, il vecchio ebreo? Solly il matto?» chiese il capo del gruppo, in risposta alla domanda di Miller. Gli altri fecero circolo. «Proprio lui» disse Miller. «Solly il matto.» «Era completamente svitato» disse un ragazzino. «Camminava così.» Il ragazzino ritrasse la testa fra le spalle, si strinse addosso la giacca e si trascinò di qualche passo, borbottando fra sé e lanciando occhiate intorno. Gli altri scoppiarono a ridere, e uno diede un violento spintone al ragazzino, che finì lungo disteso. «Nessuno l'ha mai visto con qualcun altro?» chiese Miller. «Nessuno l'ha mai visto parlare con qualcun altro?» «Perché vuole saperlo?» domandò il capo con aria sospettosa. «Non gli abbiamo mai fatto niente di male, noi.» Miller assunse un'aria distratta e cominciò a far saltellare nel palmo della mano due marchi. Otto paia di occhi osservarono il luccichio della moneta d'argento che rimbalzava. Otto teste dondolarono lentamente. Miller si voltò, incamminandosi come per andarsene. «Signore!» Miller si fermò e si voltò. Il più piccolo del gruppo l'aveva raggiunto di corsa. «Una volta l'ho visto insieme a un uomo. Parlavano. Erano seduti e parlavano.» «Dove?» «Giù al fiume. Sulla riva del fiume. Ci sono delle panchine, là. Loro erano seduti su una panchina e parlavano.» «Quanti anni aveva, l'altro?»

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«Era molto vecchio, con tantissimi capelli bianchi.» Miller gli gettò la moneta, convinto che fosse una generosità inutile. Ma andò ugualmente fino al fiume, e quando fu là, scrutò la riva erbosa nelle due direzioni. C'era una dozzina di panchine disposte lungo la riva, tutte vuote. In estate ci sarebbero state molte persone sedute lungo la Elbe Chaussée a guardare le grandi navi di linea che andavano e venivano, ma non alla fine di novembre. Alla sua sinistra, Miller vide un porticciolo con una mezza dozzina di motopescherecci del Mare del Nord ancorati al molo, che scaricavano il pesce appena pescato, aringhe e sgombri, o si preparavano di nuovo a prendere il mare. Miller era ritornato nella città distrutta da ragazzo, dopo aver vissuto in una fattoria dov'era sfollato durante i bombardamenti, ed era cresciuto in mezzo alle macerie e alle rovine. A quei tempi, il suo luogo di giochi preferito era il porticciolo di pescatori sul fiume di Altona. Gli piacevano, i pescatori, quegli uomini burberi e gentili che odoravano di catrame, di sale e di trinciato. Pensò a Eduard Roschmann a Riga e si chiese come lo stesso paese avesse potuto generare uomini tanto diversi. Poi la sua mente tornò a Tauber e riesaminò ancora una volta il problema. Dove si incontrava, il vecchio, con il suo amico Marx? Miller sapeva che c'era un elemento mancante, ma non riusciva a individuarlo. Risolse l'interrogativo solo quando, ritornato alla sua macchina, si fermò per fare benzina vicino alla stazione ferroviaria di Altona. Come spesso capita, tutto nacque da un'osservazione casuale. Il benzinaio gli comunicò che c'era stato un aumento di prezzo della benzina super, e aggiunse, tanto per dire qualcosa, che di quei tempi il denaro non bastava mai. Poi andò a prendere il resto, e lasciò Miller a fissare il portafoglio aperto che teneva in mano. Il denaro. Dove lo prendeva, Tauber, il denaro? Non lavorava, e si rifiutava di accettare aiuti dallo stato tedesco. Eppure pagava regolarmente l'affitto. Non solo: doveva pur aver avuto di che mangiare. Avendo solo cinquantasei anni, non poteva certo godere di una pensione d'anzianità, ma di una pensione d'invalidità, sì. Miller intascò il resto, mise in moto la Jaguar e guidò fino all'ufficio postale di Altona. Si avvicinò allo sportello con la scritto ta "Pensioni". «Può dirmi in che giorno vengono pagate le pensioni?» domandò alla donna grassa seduta allo sportello. «L'ultimo del mese» rispose lei. «Sabato, allora?» «No. Se l'ultimo cade di sabato, il pagamento viene anticipato al venerdì, cioè dopodomani.» «Sono inclusi anche quelli che usufruiscono di pensioni di invalidità?» domandò Miller. «Chiunque abbia diritto a una pensione, la riscuote l'ultimo giorno del mese.» «Qui, a questo sportello?» «Se la persona vive ad Altona, sì» rispose la donna. «A che ora?»

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«Dall'ora di apertura in avanti.» «Grazie.»

Miller ritornò il venerdì mattina, a osservare la coda di vecchi, uomini e donne, che cominciò a snodarsi attraverso le porte dell'ufficio postale, non appena aprì. Si appoggiò al muro della casa di fronte e prese nota della direzione che i vecchi prendevano quando se ne andavano. Molti avevano i capelli bianchi, e la maggior parte portava il cappello per difendersi dal freddo. La giornata si presentava asciutta e soleggiata, ma gelida. Poco prima delle 11, un vecchio con una folta capigliatura bianca simile a zucchero filato uscì dall'ufficio postale, contò il denaro per assicurarsi che ci fosse tutto, se lo infilò in tasca e si guardò attorno come se cercasse qualcuno. Dopo qualche minuto si voltò e cominciò ad allontanarsi camminando lentamente. All'angolo si guardò di nuovo attorno, poi si incamminò in direzione del fiume. Miller si staccò dal muro e lo seguì. Il vecchio impiegò venti minuti per percorrere gli ottocento metri fino all'Elbe Chaussée, poi risalì la riva, attraversò il prato e si sedette su una panchina. Miller gli si avvicinò lentamente dal di dietro. «Herr Marx?» Il vecchio si voltò mentre Miller aggirava la panchina. Non parve sorpreso; era come se fosse abituato a essere riconosciuto dai passanti. «Sì,» disse con voce profonda «sono Marx.» «Mi chiamo Miller.» Marx accettò la presentazione con un cenno della testa. «Sta... sta aspettando Herr Tauber?» «Sì» disse il vecchio, continuando a non mostrarsi sorpreso. «Posso sedermi?» «Prego.» Miller gli sedette accanto. Adesso tutti e due avevano di fronte il fiume Elba. Un mercantile gigantesco, il "Kota Maru" di Yokohama, scendeva il fiume seguendo la corrente. «Spiacente, ma Herr Tauber è morto.» Il vecchio fissò la nave che passava. Non mostrò né dolore né sorpresa, come se fosse abituato a ricevere brutte notizie. Probabilmente, si era abituato davvero. «Capisco» disse. Miller gli raccontò gli avvenimenti della sera del venerdì precedente. «Lei non sembra sorpreso che Tauber si sia suicidato.» «No,» disse Marx «era un uomo molto infelice.» «Ha lasciato un diario, sa?» «Sì, una volta me ne aveva parlato.» «Lo ha mai letto?» chiese Miller. «No, non l'ha mai lasciato leggere a nessuno. Me ne ha solo parlato.» «Il diario descrive il periodo che Tauber ha trascorso a Riga durante la guerra.» «Sì, mi ha detto che era stato a Riga.» «Era a Riga anche lei?»

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L'uomo si voltò a guardarlo con gli occhi vecchi e tristi. «No, io ero a Dachau.» «Vede, Herr Marx, ho bisogno del suo aiuto. Nel diario il suo amico parla di un uomo, un ufficiale delle S.S., un certo Roschmann. Capitano Eduard Roschmann. Non ne ha mai parlato con lei?» «Oh, sì certo che mi ha parlato di Roschmann. Era l'unica cosa che lo tenesse in vita: la speranza di riuscire a incriminare Roschmann.» «Sì, lo dice anche nel diario. L'ho letto dopo la sua morte. Sono un giornalista e intendo rintracciare Roschmann, trascinarlo in tribunale. Capisce?» «Sì.» «Ma non è possibile, se Roschmann è già morto. Ricorda se Herr Tauber ha mai saputo se Roschmann era ancora vivo e in libertà?» Marx fissò per parecchi minuti la poppa del "Kota Maru" che scompariva. «Il capitano Roschmann è vivo» disse semplicemente. «E libero.» Miller si chinò in avanti, interessato. «Come fa a saperlo?» «Tauber l'ha visto.» «Sì, l'ho letto. L'ha visto i primi d'aprile del 1945. 3 Marx scosse lentamente la testa. «No, è accaduto il mese scorso.» Il silenzio durò molti minuti. Miller fissò il vecchio, che aveva lo sguardo perso sull'acqua. «Il mese scorso?» ripeté infine Miller. «Le ha detto dove l'ha visto?» Marx sospirò, poi si voltò verso Miller. «Sì. Camminava, a notte inoltrata, com'era solito fare quando non riusciva a dormire. Stava tornando verso casa, ed era all'altezza dell'Opera di Stato, proprio mentre cominciavano a uscire gli spettatori. Tauber si è tirato da parte. In seguito, mi ha detto che era gente ricca, gli uomini in abito da sera, le donne in pelliccia e gioielli. C'erano tre file di taxi in attesa, e il portiere del teatro bloccava i passanti per permettere agli spettatori di salire sui taxi. E' stato allora che Tauber ha visto Roschmann.» «Tra la folla che usciva dall'Opera?» «Sì. Roschmann è salito su un taxi con altre due persone e si è allontanato.» «Senta, Herr Marx, è una cosa molto importante. Tauber era assolutamente sicuro che si trattasse di Roschmann?» «Sì, ha detto che lo era.» «Ma erano passati diciannove anni dall'ultima volta che lo aveva visto. Roschmann dev'essere cambiato. Come poteva essere così sicuro Tauber?» «Ha detto che l'uomo ha sorriso.» «Chi?» «Roschmann. Ha sorriso.» «E' significativo?» Marx annuì ripetutamente. «Secondo Tauber, chi aveva visto sorridere Roschmann anche una sola volta, non avrebbe più dimenticato quel sorriso. Tauber non sapeva descriverlo, ma era certo di riuscire a riconoscerlo tra milioni di

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altri, ovunque nel mondo.» «Capisco. E lei ci crede?» «Sì. Sì, credo che Tauber abbia visto Roschmann.» «Bene. Facciamo conto che gli creda anch'io. Tauber ha preso nota del numero del taxi?» «No. Ha detto che era così sconvolto che si è limitato a guardarlo mentre s'allontanava.» «Maledizione» disse Miller. «Probabilmente Roschmann s'è fatto accompagnare in un albergo. Se avessi il numero del taxi potrei andare a parlare con il conducente, e chiedergli dove l'ha portato. Quando le ha raccontato tutto questo, Herr Tauber?» «Il mese scorso, quando siamo andati a ritirare la pensione. Qui, su questa panchina.» Miller si alzò, sospirando. «Si rende conto, vero, che nessuno crederebbe mai alla sua storia?» Marx smise di fissare il fiume e sollevò lo sguardo sul giornalista. «Oh, sì» disse con dolcezza. «Anche Tauber se ne rendeva conto. Per questo si è ucciso.»

Quella sera, Peter Miller andò a trovare sua madre per la solita visita di fine settimana, e come al solito lei cominciò a chiedergli ansiosamente se mangiava abbastanza, quante sigarette fumava al giorno e se la sua biancheria era in ordine. Era una donna bassa e grassa, sui cinquantacinque anni, che non si era mai rassegnata all'idea che il suo unico figlio volesse fare il giornalista. Nel corso della serata, chiese al figlio cosa stesse facendo in quel periodo, e Miller la mise al corrente della situazione, accennando al fatto che intendeva cercare di rintracciare Eduard Roschmann. La donna rimase atterrita. Senza scomporsi, Peter terminò di mangiare, lasciando scorrere la marea delle recriminazioni. «E' già abbastanza orribile che tu non faccia altro che parlare delle azioni dei criminali» disse la donna. «Adesso ci manca solo che tu vada a immischiarti con quei nazisti. Non so che cosa avrebbe pensato il tuo povero padre, davvero non lo so...» Nella mente di Miller balenò un pensiero. «Mamma...» «Sì, caro?» «Durante la guerra... Le cose che le S.S. hanno fatto a quella gente... nei campi di sterminio. Lo hai mai sospettato... hai mai sospettato quello che stava accadendo?» La donna si alzò di scatto e cominciò a sparecchiare la tavola, in silenzio. Parlò solo dopo qualche minuto. «Cose orribili. Spaventose. Gli inglesi ci hanno fatto vedere dei film, dopo la guerra. Non voglio più sentirne parlare.» Uscì, tutta agitata. Peter si alzò e la seguì in cucina. «Ti ricordi, nel 1950, quando avevo sedici anni e sono andato a Parigi con la gita scolastica?» La donna si fermò, smettendo di riempire l'acquaio per lavare i piatti.

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«Sì, mi ricordo.» «Ci portarono a visitare una chiesa chiamata Sacré-Coeur. Quando arrivammo, stava terminando una messa, una messa in suffragio di un certo Jean Moulin. Alcune persone mi sentirono parlare in tedesco con un altro ragazzo. Una di loro si voltò e mi sputò addosso. Ricordo ancora la saliva che mi colava sulla giacca. Ricordo anche che quando tornai a casa te lo raccontai. E tu, ricordi quello che dicesti?» La signora Miller strofinava furiosamente i piatti della cena. «Dicesti che i francesi erano fatti così. Maleducati, dicesti.» «Be', è vero che sono maleducati. Non mi sono mai piaciuti.» «Senti, mamma, lo sai che cosa abbiamo fatto a Jean Moulin prima che morisse? Non tu, non papà, non io. Ma noi, i tedeschi, o piuttosto la Gestapo, il che per milioni di stranieri sembra che sia la stessa cosa.» «Non voglio saperlo! Ne ho abbastanza di queste cose.» «Be', io non posso dirtelo, perché non lo so. Ma senza dubbio è scritto to da qualche parte. Il punto è che mi hanno sputato addosso non perché ero della Gestapo, ma perché ero tedesco.» «E dovresti esserne fiero.» «Oh, lo sono. Credimi, lo sono. Ma questo non significa che devo essere fiero dei nazisti, e delle S.S. e della Gestapo.» «Be', nessuno lo è. Ma continuare a parlarne non serve a niente.» Era confusa, come accadeva sempre quando suo figlio discuteva con lei. Si asciugò le mani con lo straccio per i piatti prima di correre di nuovo verso il salotto. Miller la seguì. «Senti, mamma, cerca di capire. Fino a quando non ho letto quel diario, non ti ho mai chiesto che cosa, esattamente, ci accusavano di aver fatto. Ma adesso sto cominciando a capire. Ecco perché voglio trovare quell'uomo, quel mostro, se è ancora vivo. E' giusto che venga trascinato in tribunale.» La donna si sedette sul divano, sul punto di scoppiare in lacrime. «Ti prego, Peter caro, lascia stare. Smettila di frugare nel passato. Non servirà a niente. Ormai è tutto finito, finito per sempre. E' meglio dimenticare.» Peter Miller era di fronte al caminetto. Sulla mensola, c'erano un orologio e la fotografia del padre morto. Il padre di Miller indossava l'uniforme dell'esercito e fissava il vuoto con quel suo sorriso gentile e un po' triste che gli era abituale. La fotografia era stata scattata prima che Herr Miller ritornasse al fronte, prima della sua ultima partenza. Peter ricordava suo padre con stupefacente chiarezza, guardando la sua fotografia diciannove anni dopo, mentre la madre gli chiedeva di lasciar perdere il caso Roschmann. Riuscì perfino a ricordare che, prima della guerra, quando aveva cinque anni, suo padre l'aveva portato allo zoo di Hagenbeck e gli aveva indicato tutti gli animali, uno per uno, leggendo pazientemente i particolari sulla piccola targa di metallo appesa davanti a ogni gabbia, rispondendo all'inesauribile serie di domande del ragazzo. Ricordava anche quando era venuto a casa, dopo l'arruolamento, nel 1940. Sua madre aveva pianto, e lui aveva pensato che le donne erano ben stupide, a piangere per una cosa meravigliosa come avere un padre

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in uniforme. Poi gli tornò alla memoria quel giorno del 1944, quando aveva dieci anni, e un ufficiale dell'esercito si era presentato alla porta per dire a sua madre che suo marito, eroe di guerra, era stato ucciso sul fronte orientale. «E poi, la gente è stufa delle orribili rivelazioni e dei terribili processi che vengono fatti in continuazione e che riportano alla luce vecchie storie sepolte. Nessuno ti ringrazierà, neanche se tu lo trovassi davvero, quel Roschmann. Ti segneranno a dito per la strada, e basta. Ti ripeto, la gente è stufa di processi. E' passato troppo tempo. Lascia perdere, Peter, ti prego, per amor mio.» Miller ricordava la colonna listata a lutto degli annunci mortuari, sul giornale. Era lunga quanto le altre apparse quotidianamente in passato, ma quel giorno d'ottobre sembrava così diversa, con quel nome subito dopo la metà, verso il basso: "Caduto per il Führer e per la Patria. Miller Erwin, capitano. 11 ottobre. Fronte Orientale." Tutto qui. Nient'altro. Nessuna indicazione di dove, o quando, o perché. Solo uno dei tanti nomi che arrivavano a migliaia dall'oriente a riempire le colonne listate a lutto, di lunghezza invariabile. Poi il governo aveva smesso di stamparle perché le aveva considerate negative per il morale. «Insomma,» disse sua madre, dietro di lui «se non altro fallo per la memoria di tuo padre. Pensi che sarebbe contento di sapere che suo figlio intende scavare nel passato per imbastire un ennesimo processo per crimini di guerra? Pensi che vorrebbe questo?» Miller camminò avanti e indietro per la stanza, poi andò da sua madre, le mise le mani sulle spalle e guardò in basso, verso i suoi occhi azzurri e spaventati. Si chinò e la baciò leggermente sulla fronte. «Sì, "Mutti"» disse. «Penso che vorrebbe esattamente questo.» Se ne andò, salì in macchina e ritornò verso Amburgo, con la rabbia che gli ribolliva dentro.

Hans Hoffmann era considerato un uomo di classe da tutti quelli che lo conoscevano, compresi gli avversari. Sulla cinquantina, di una bellezza quasi femminea, aveva capelli grigi tagliati all'ultima moda e accuratamente pettinati, e mani sempre in perfetto ordine. Il vestito grigio-perla era stato acquistato in Savile Row, e la cravatta di seta pesante era di Cardin. In altri termini, Hoffmann aveva quell'aria di costoso buon gusto che solo il denaro può comprare. Hoffmann non sarebbe mai diventato uno degli editori di riviste più ricchi e più affermati della Germania occidentale. Subito dopo la guerra aveva aperto una tipografia, che stampava bollettini per le forze d'occupazione britannica, e nel 1949 aveva fondato uno dei primi settimanali illustrati. La sua formula era semplice: "Dillo senza mezzi termini e cerca di scandalizzare, e correda il tutto con fotografie che facciano sembrare i tuoi concorrenti fermi ai tempi della nonna". Aveva funzionato. La catena di otto riviste, che andavano dalle storie d'amore per adolescenti alla cronaca mondana sulla vita privata delle dive e del jet-set, lo aveva reso multimilionario. Ma "Komet", la rivista d'attualità, rimaneva la sua favorita, il suo debole.

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Il denaro gli aveva permesso di comprare una casa lussuosa, stile ranch, a Othmarschen, uno chalet in montagna, una villa al mare, una Rolls-Royce e una Ferrari. A un certo punto della sua vita, aveva trovato una bella moglie che faceva vestire a Parigi e aveva avuto due bei bambini che vedeva di rado. Hans Hoffmann era l'unico milionario tedesco la cui serie di giovani amanti, intrattenute con discrezione e spesso cambiate, non era mai stata oggetto di servizi giornalistici scandalistici. Hoffmann era un uomo molto astuto. Quel mercoledì pomeriggio, chiusa la copertina del diario di Salomon Tauber dopo averne letta la prefazione, si appoggiò allo schienale della sedia e guardò il giovane giornalista che gli stava di fronte. «E va bene. Posso immaginare il resto. Che cosa vuole?» «Secondo me, è un documento sensazionale» disse Miller. «Per tutto il diario Tauber non fa che parlare di un certo Eduard Roschmann, un capitano delle S.S. che in quel periodo è stato comandante del ghetto di Riga. Roschmann ha ucciso 80 mila persone, tra uomini, donne e bambini. Penso che sia vivo e che si trovi qui, nella Germania occidentale. Voglio trovarlo.» «Come fa a sapere che è vivo?» Miller glielo spiegò brevemente. Hoffmann strinse le labbra. «Un po' misera, come prova.» «E' vero. Ma vale la pena di approfondire la cosa. Ho fatto grossi colpi giornalistici partendo da molto meno.» Hoffmann fece un sorrisetto, ricordando l'abilità di Miller nello scovare storie che urtavano il sistema. Hoffmann era sempre stato felicissimo di stamparle, dopo averne controllata la attendibilità. Facevano aumentare la tiratura. «Presumibilmente quest'uomo, come ha detto che si chiama? Roschmann? Presumibilmente è già sulla lista dei ricercati. Se non riesce a trovarlo la polizia, cosa le fa pensare che ci riuscirà lei?» «Ma la polizia lo sta cercando davvero?» chiese Miller. Hoffmann si strinse nelle spalle. «Mi auguro proprio di sì. E' per questo che la paghiamo.» «Non sarebbe male se l'aiutassimo un po', no? Se non altro, potremmo controllare se davvero è ancora vivo, se è mai stato arrestato e, in caso affermativo, perché è stato rimesso in libertà.» «In conclusione, che cosa vuole da me?» chiese Hoffmann. «Voglio che mi autorizzi a tentare. Se non salta fuori niente, lascerò perdere.» Hoffmann si girò verso le grandi finestre che davano sul porto, con le sue gru e i suoi moli che si stendevano per chilometri, venti piani più in basso e a un chilometro di distanza. «E' un po' al di fuori del suo solito campo d'azione, Miller. Come mai quest'interesse improvviso?» Miller si sforzò di pensare in fretta. Vendere un'idea era sempre la parte più difficile. Un giornalista indipendente deve prima vendere il servizio, o l'idea del servizio, all'editore o al direttore del giornale. Il pubblico viene molto più tardi. «E' una storia con una buona dose d'interesse umano. Se "Komet" trovasse l'uomo, mentre le forze di polizia non ci sono riuscite, sarebbe un grosso colpo. E poi, certe cose la gente vuole saperle.»

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Hoffmann guardò fuori, verso l'orizzonte dorato dalla luce di quel giorno di dicembre, e scosse lentamente la testa. «Si sbaglia. E proprio per questo non le affido l'incarico: la gente preferisce non saperle, certe cose.» «Ma, Herr Hoffmann, questa volta è diverso. Gli uomini uccisi da Roschmann non erano polacchi o russi. "Erano" tedeschi. Ebrei tedeschi, d'accordo, ma pur sempre tedeschi. Perché la gente dovrebbe preferire di non sapere?» Hoffmann si voltò dalla finestra, mise i gomiti sul tavolo e appoggiò il mento sulle mani incrociate. «Miller, lei è un buon giornalista. Ammiro il suo modo di affrontare gli argomenti. Lei ha stile. E fiuto. Mi basterebbe fare un paio di telefonate, e avrei a mia disposizione venti, cinquanta, cento giornalisti pronti a ubbidire e a scrivere tutti gli articoli che gli si dice di scrivere. Ma incapaci di scucire una sola idea. Lei, invece, di idee ne ha. Questo è il motivo per cui lavora molto per me, e lavorerà ancora di più in futuro. Ma non per la proposta che mi ha fatto oggi.» «Perché? E' una buona storia.» «Mi ascolti, lei è giovane. Le dirò qualcosa sul giornalismo. Metà del giornalismo consiste nello scrivere delle buone storie. L'altra metà nel venderle. Lei può fare la prima parte, ma io devo fare la seconda. Questo perché io sono da questa parte della scrivania e lei dall'altra. Lei pensa che questa è una storia che tutti vorrebbero leggere, perché le vittime di Riga erano ebrei tedeschi. Io le dico, invece, che questo è esattamente il motivo per cui "nessuno" vorrà leggere la storia. E' l'ultima storia al mondo che la gente vorrebbe leggere. E finché in questo paese non ci sarà una legge che obbligherà i cittadini a comprare le riviste e a leggere quello che è giusto che leggano, quegli stessi cittadini continueranno a comprare le riviste per leggere quello che vogliono leggere. E questo è ciò che io darò loro: quello che vogliono leggere.» «E perché, allora, non Roschmann?» «Ancora non l'ha capito? Allora glielo dirò io. Prima della guerra quasi tutti, in Germania, conoscevano almeno un ebreo. Prima dell'avvento di Hitler, in Germania, nessuno odiava gli ebrei. Anzi, potevamo vantarci di essere il paese europeo che trattava meglio gli ebrei. Meglio della Francia, meglio della Spagna, infinitamente meglio della Polonia e della Russia, dove i pogrom furono terribili. «Poi Hitler cominciò a dire che la colpa della prima guerra, della disoccupazione, della povertà e di tutto quello che andava storto era degli ebrei. La gente non sapeva più che cosa credere. Quasi tutti conoscevano almeno un ebreo, che era un uomo simpatico. O almeno innocuo. La gente aveva amici ebrei, buoni amici; impiegati ebrei, buoni impiegati; operai ebrei, buoni operai. Rispettavano le leggi, non facevano del male a nessuno. Eppure Hitler giurava che avevano la colpa di tutto. «Così, quando vennero i camion a portarli via, la gente non fece nulla. Se ne rimase inattiva, non parlò. E si abituò a credere alla voce che gridava più forte. Perché gli uomini sono fatti così, soprattutto i tedeschi. Siamo un popolo molto obbediente. E' la nostra

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più grande forza e la nostra più grande debolezza. Ci rende capaci di costruire un miracolo economico mentre gli inglesi sono in sciopero, e ci rende capaci di seguire un uomo come Hitler fino allo sterminio di massa. «Per anni la gente non ha chiesto che cos'era successo agli ebrei in Germania. Erano solo scomparsi, nient'altro. E' già abbastanza brutto leggere, a ogni processo per crimini di guerra, cos'è successo agli ebrei anonimi, senza volto, di Varsavia, di Lublin, di Bialystok, agli ebrei senza nome, sconosciuti, della Polonia e della Russia. Adesso lei vuol raccontare per filo e per segno cos'accadde al vicino della porta accanto? Lo capisce, ora? Questi ebrei,» Hoffmann diede un colpetto sul diario «questa gente, i tedeschi la conoscevano, la salutavano per strada, facevano le compere nei suoi negozi, e sono rimasti a guardare mentre veniva portata via per essere consegnata a Herr Roschmann. Pensa che abbiano voglia di vedere tutto questo messo nero su bianco? Non avrebbe potuto trovare una storia che i tedeschi desiderino leggere meno di questa.» Hans Hoffmann smise di parlare, si appoggiò allo schienale, scelse un sigaro dalla scatola posata sulla scrivania e lo accese con un Dupont d'oro. Miller rimase seduto a digerire quello a cui non era stato capace di arrivare da solo. «Dev'essere questo, quello che intendeva dire mia madre» mormorò alla fine. Hoffmann sospirò. «E' probabile.» «Eppure voglio trovare ugualmente quel bastardo.» «Lasci perdere, Miller. Lasci andare. Nessuno la ringrazierà.» «Ma la vera ragione non è questa! La vera ragione non è accontentare i lettori. Ce n'è un'altra, di ragione, non è vero?» Hoffmann lo fissò attraverso il fumo del sigaro. «Sì» disse. «Ha paura di loro... ancora?» chiese Miller. Hoffmann scosse la testa. «No. Solo che preferisco evitarli, i guai, se appena possibile. Tutto qui.» «Che tipo di guai?» «Ha mai sentito parlare di un certo Hans Habe?» chiese Hoffmann. «Il romanziere? Sì, perché?» «Una volta dirigeva una rivista, a Monaco. All'inizio degli Anni Cinquanta. Ottimo giornalista, Habe, e dotato di fiuto, come lei. L'"Eco della Settimana", si chiamava la rivista. Habe odiava i nazisti, così cominciò a pubblicare una serie di articoli-denuncia contro ex S.S. che vivevano in libertà a Monaco.» «Che cosa gli è successo?» «A lui, niente. Un giorno ricevette più posta del solito. Metà delle lettere erano dei suoi inserzionisti, che interrompevano il rapporto d'affari. Una lettera era della sua banca che lo invitava a passare dalla sede. Quando vi andò, si sentì dire che a partire da quel momento la banca gli ritirava il credito. Nel giro d'una settimana la rivista fallì. Adesso Habe scrive romanzi, qualcuno dei quali buono. Ma non dirige più una rivista.»

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«Così, noialtri cosa dobbiamo fare? Farci bloccare dalla paura?» Hoffmann si strappò il sigaro di bocca. «Non accetto lezioni da lei, Miller» disse, con un lampo negli occhi. «Odiavo quei bastardi allora e li odio adesso. Ma conosco i miei lettori. E i miei lettori non vogliono saperne, di Eduard Roschmann.» «D'accordo. Mi spiace. Ma cercherò ugualmente di scrivere questa storia.» «Sa, Miller, se non la conoscessi, penserei che dietro si nasconda qualcosa di personale. E il giornalismo non deve mai essere una questione personale. Sarebbe un errore tanto per il giornalismo in sé quanto per il giornalista. E poi, come farà a finanziarsi?» «Ho dei risparmi.» Miller si alzò per andarsene. «Buona fortuna» disse Hoffmann, alzandosi e facendo il giro della scrivania. «Sa che cosa farò? Il giorno in cui Roschmann sarà arrestato e imprigionato dalla polizia della Germania Occidentale, la incaricherò di seguire la cosa da vicino. Saranno notizie ufficiali, allora, e di conseguenza di pubblico dominio. Se poi decidessi di non stamparle, pagherei di tasca mia. Qui è fin dove posso arrivare. Ma mentre cerca di scovare quell'uomo, non usi il nome del mio giornale come credenziale.» Miller annuì. «Tornerò» disse.

Capitolo 5.

Quello stesso mercoledì mattina, i capi delle cinque sezioni dell'apparato dei servizi segreti israeliani s'incontrarono per la loro consueta riunione informale. In quasi tutte le nazioni, la rivalità fra i diversi servizi segreti è leggendaria. In Russia il K.G.B. odia quelli del GRU; in America l'F.B.I. non collaborerebbe mai con la CIA. Il servizio di sicurezza britannico considera la Special Branch di Scotland Yard una massa di piedipiatti, e nello SDECE francese ci sono tanti e tali imbroglioni che gli esperti si domandano se il servizio segreto francese faccia parte del governo o della malavita. Ma Israele è fortunata. Una volta alla settimana i capi delle cinque sezioni si incontrano per una chiacchierata amichevole, senza motivo di attriti interdipartimentali. E' uno dei vantaggi di essere una nazione circondata da nemici. A queste riunioni vengono serviti caffè e analcolici, i convenuti si danno tutti del tu, l'atmosfera è rilassata e si riesce a svolgere più lavoro di quanto se ne potrebbe svolgere con una marea di circolari di vario genere. Il mattino del 4 dicembre, il supervisore del Mossad, capo delle cinque sezioni dei servizi segreti israeliani, generale Meir Amit, si recò alla riunione. Dal finestrino della lunga berlina nera con autista, si poteva ammirare un'alba splendida accendere i bianchi quartieri di Tel Aviv. Ma a causa del suo umore, il generale non riusciva a godere di quella visione. Era un uomo profondamente preoccupato. La causa della sua preoccupazione era una notizia che gli era

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pervenuta nelle primissime ore del mattino. Un frammento di conoscenza da aggiungere all'immensa documentazione degli archivi: un frammento vitale, però, perché quel messaggio di un suo agente al Cairo sarebbe stato inserito nel dossier sui missili di Helwan. La faccia impassibile del quarantaduenne generale non tradiva nessuna delle sue emozioni, mentre la macchina faceva il giro attorno allo Zina Circus e si dirigeva verso la periferia settentrionale della città. Si appoggiò allo schienale, ripensando alla lunga storia di quei missili costruiti a nord del Cairo, che erano già costati la vita di molti uomini, ed erano costati al suo predecessore, generale Isser Harel, l'incarico...

Nel 1961 molto tempo prima che i due missili di Nasser sfilassero per le vie del Cairo, il Mossad israeliano aveva avuto notizia della loro esistenza. Dal momento in cui era giunto il primo dispaccio dall'Egitto, avevano tenuto sotto controllo costante la base 333. Erano perfettamente al corrente del reclutamento su larga scala operato dagli egiziani, grazie ai buoni uffici dell'Odessa, fra gli scienziati tedeschi, per la costruzione dei missili di Helwan. Già allora, era una faccenda seria; divenne infinitamente più seria nella primavera del 1962. Nel maggio di quell'anno Heinz Krug, il tedesco che reclutava gli scienziati, avvicinò per la prima volta il fisico austriaco Otto Yoklek a Vienna. Anziché farsi reclutare, il professore austriaco si mise in contatto con gli israeliani. Quello che aveva da dire scosse terribilmente Tel Aviv. All'agente del Mossad che fu inviato a parlare con lui riferì che gli egiziani intendevano armare i i loro missili con testate contenenti radiazioni nucleari e colture di germi bubbonici. La notizia era così importante che l'allora supervisore del Mossad, generale Isser Harel, l'uomo che aveva scortato personalmente Adolf Eichmann da Buenos Aires a Tel Aviv, andò in volo a Vienna per parlare di persona con Yoklek. Si convinse così che il professore diceva il vero, una convinzione confermata dalla notizia che il governo del Cairo aveva appena acquistato da una ditta di Zurigo una quantità di cobalto radioattivo pari a venticinque volte la quantità necessaria per fini sanitari. Al suo ritorno, Isser Harel si recò dal primo ministro David Ben Gurion e gli chiese l'autorizzazione a iniziare una campagna di rappresaglie contro gli scienziati tedeschi che lavoravano in Egitto o erano in procinto di trasferirvisi. L'anziano primo ministro era in imbarazzo. Da una parte si rendeva conto del terribile pericolo che quei nuovi missili rappresentavano per la sua gente; dall'altra, non poteva non considerare l'importanza vitale dei carri armati e dei mitra tedeschi che dovevano arrivare da un momento all'altro. Le rappresaglie israeliane sul territorio tedesco potevano indurre il cancelliere Adenauer a dare ascolto alla fazione del Ministero degli Esteri e a interrompere i rifornimenti di armi. Nel governo di Tel Aviv stava sviluppandosi una frattura simile a quella che divideva i ministri tedeschi riguardo alla vendita delle armi. Isser Harel e il ministro degli Esteri, la signora Golda Meir,

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erano a favore di una politica dura nei confronti degli scienziati tedeschi; Shimon Peres e l'esercito erano terrorizzati al pensiero di poter perdere i loro preziosi carri armati tedeschi. Ben Gurion non sapeva da che parte propendere. Scelse un compromesso: autorizzò Harel a intraprendere con discrezione una campagna per scoraggiare gli scienziati tedeschi a trasferirsi al Cairo per aiutare Nasser. Ma Harel, con il suo bruciante odio viscerale per la Germania e per tutto quello che era tedesco, andò oltre la consegna. L'11 settembre 1962, scomparve Heinz Krug. La sera precedente, aveva cenato con il dottor Kleinwachter, l'esperto di propulsione missilistica che Krug stava cercando di reclutare, e un egiziano non identificato. Il mattino dell'11, la macchina di Krug fu trovata abbandonata nelle vicinanze della sua casa in un sobborgo di Monaco. La moglie affermò che era stato rapito da agenti israeliani, ma la polizia di Monaco non riuscì a trovare alcuna traccia, né di Krug né della prova dell'esistenza di rapitori. In effetti era stato rapito da un gruppo di persone capeggiato da un misterioso personaggio di nome Leon, e il suo corpo era stato gettato nel lago Starnberg, fissato sul fondale erboso da un corsetto di pesanti catene. Poi la campagna si rivolse contro i tedeschi già in Egitto. Il 27 novembre un pacco raccomandato, proveniente da Amburgo e indirizzato al professor Wolfgang Pilz, l'esperto in missilistica che aveva lavorato per i francesi, arrivò al Cairo. Fu aperto dalla sua segretaria, signorina Hannelore Wenda. Nella successiva esplosione, la ragazza restò mutilata e cieca per il resto della vita. Il 28 novembre un altro pacco, pure impostato ad Amburgo, arrivò alla base 333. A quel tempo i servizi di sicurezza egiziani avevano già organizzato un controllo capillare sui pacchi in arrivo. Fu un ufficiale egiziano addetto al controllo della posta che tagliò la cordicella. Cinque morti e dieci feriti. Il giorno successivo, un terzo pacco fu disinnescato senza esplodere. Dal 20 febbraio 1963, gli agenti di Harel ripresero a operare in Germania. Il dottor Kleinwachter, ancora indeciso se recarsi al Cairo, stava tornando in auto verso casa dal suo laboratorio a Loerrach, vicino alla frontiera svizzera, quando una Mercedes nera gli sbarrò la strada. Si gettò sul fondo dell'automobile, mentre un uomo vuotava il caricatore della sua pistola automatica attraverso il finestrino. La polizia in seguito ritrovò la Mercedes nera. Era stata rubata poche ore prima. In uno scomparto del cruscotto c'era una carta d'identità, intestata al colonnello Ali Samir. Gli inquirenti scoprirono che Ali Samir era il capo del servizio segreto egiziano. Gli agenti di Isser Harel avevano comunicato il loro messaggio, con un pizzico di umorismo nero, a ogni buon conto. Ormai la campagna di rappresaglia faceva titolo sui giornali tedeschi. Diventò uno scandalo con l'affare Ben Gal. Il 2 marzo, Heidi Görke, figlia del professor Paul Görke, pioniere dei missili di Nasser, ricevette una telefonata nella sua casa di Friburgo. Una voce le propose un incontro all'Hotel dei Tre Re a Basilea, in Svizzera, appena oltre il confine. Heidi informò la polizia tedesca, che passò l'informazione a quella svizzera. Fu installato un apparecchio ricetrasmittente nella camera

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che era stata prenotata per l'incontro. Durante il colloquio, due uomini con occhiali scuri avvertirono Heidi Görke e suo fratello di convincere il padre ad andarsene dall'Egitto, se gli premeva la vita. Pedinati fino a Zurigo e arrestati quella notte stessa, i due uomini furono processati a Basilea, il 10 giugno 1963. Fu uno scandalo internazionale. Dei due, il capo, era Yosef Ben Gal, cittadino israeliano. Il processo andò a finire bene. Il professor Yoklek, in qualità di testimone, riferì delle testate contenenti radiazioni nucleari e colture di germi bubbonici, e i giudici ne rimasero scandalizzati. Traendo il maggior profitto da un affare andato male, il governo israeliano usò il processo per render nota l'intenzione egiziana di compiere un genocidio. Sconvolti, i giudici prosciolsero i due imputati. In Israele, però, ci fu la resa dei conti. Benché il cancelliere Adenauer avesse personalmente promesso a Ben Gurion di cercare di impedire la collaborazione degli scienziati tedeschi alla costruzione dei missili di Helwan, Ben Gurion si sentì umiliato dallo scandalo. In un accesso di collera, rimproverò al generale Isser Harel di aver superato la misura. Harel controbatté con vigore, e rassegnò le proprie dimissioni. Con sua sorpresa, Ben Gurion le accettò, provando il fatto che nessuno in Israele è indispensabile, nemmeno il capo dei servizi segreti. Quella notte del 20 giugno 1963, Isser Harel ebbe una lunga conversazione con il suo intimo amico, generale Meir Amit, allora capo del servizio segreto dell'esercito. La faccia tesa e infuriata del combattente di origine russa, soprannominato Isser il Terribile, e tutto il colloquio rimasero indelebilmente impressi nella mente del generale Amit. «Devo informarti, mio caro Meir, che da ora in avanti Israele non è più impegnata nell'affare della rappresaglia. I politici hanno avuto la meglio. Ho rassegnato le mie dimissioni e sono state accolte. Ho proposto te, come mio successore, e credo che saranno d'accordo.» Il comitato ministeriale che in Israele presiede alle attività della rete del servizio segreto diede il suo assenso. Alla fine di giugno, il generale Meir Amit diventava capo dei servizi segreti. Tuttavia, giunse anche l'ora di Ben Gurion. I falchi del suo governo, guidati da Levi Eshkol e dallo stesso ministro degli Esteri, Golda Meir, lo costrinsero a rassegnare le dimissioni; e il 26 giugno del 1963, Levi Eshkol fu nominato primo ministro. Ben Gurion si ritirò disgustato nel suo kibbutz nel Negev. Ma rimase membro del Knesset. Anche se aveva esautorato David Ben Gurion, il nuovo governo non riportò al potere Isser Harel. Forse pensava che Meir Amit fosse un generale più malleabile del collerico Harel che durante la sua vita era diventato leggenda per il popolo israeliano e se ne compiaceva. E non furono neppure sconfessate le ultime disposizioni di Ben Gurion. Le istruzioni per il generale Amit rimasero le stesse, per evitare altri scandali in Germania sulla questione degli scienziati. Non avendo alternative, il generale rivolse la campagna terroristica contro gli scienziati che si trovavano già in Egitto. Questi tedeschi vivevano nel sobborgo di Meadi, una decina di

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chilometri a sud del Cairo sulla riva settentrionale del Nilo. Un grazioso sobborgo, a parte il fatto che era circondato da un cordone di truppe egiziane e i suoi abitanti tedeschi erano quasi prigionieri in una gabbia dorata. Per raggiungerli, Meir Amit usò il suo migliore agente in Egitto, il proprietario della scuola di equitazione Wolfgang Lutz, il quale dal settembre 1963 in avanti, si vide costretto ad affrontare quel rischio suicida che l'avrebbe portato, sedici mesi più tardi, alla rovina. Per gli scienziati tedeschi, già sconvolti dalla serie di pacchi esplosivi inviati dalla Germania, l'autunno del 1963 diventò un incubo. Nel cuore di Meadi, circondati da sentinelle egiziane, cominciarono ad arrivare lettere con minacce di morte, impostate al Cairo. Il dottor Josef Eisig ne ricevette una con riferimenti di incredibile precisione alla moglie, ai suoi due figli e al tipo di lavoro nel quale era impegnato, che gli ingiungeva di andarsene dall'Egitto e tornare in Germania. E nessuno degli altri scienziati fu risparmiato. Il 27 settembre, una lettera scoppiò in faccia al dottor Kirmayer. Per alcuni scienziati fu la goccia che fece traboccare il vaso. Alla fine di settembre, il dottor Pilz lasciò Il Cairo diretto in Germania, portando la sfortunata signorina Wenda con sé. Altri lo seguirono, e gli egiziani, furiosi, non furono in grado di fermarli, dato che non potevano proteggerli da quelle lettere minacciose.

L'uomo seduto nella sua berlina in quel chiaro mattino d'inverno del 1964 sapeva che l'autore delle lettere e mittente dell'esplosivo era il suo uomo, il supposto filonazista Lutz. Ma sapeva anche che il programma dei missili non era stato arrestato. L'informazione che aveva appena ricevuto ne era la prova. Diede un'altra scorsa al messaggio decrittato. Esso confermava semplicemente che una specie virulenta di bacillo di peste bubbonica era stata isolata nel laboratorio di malattie epidemiche dell'Istituto medico del Cairo, e che il bilancio di quella sezione era stato decuplicato. L'informazione non lasciava dubbi: nonostante la propaganda negativa che aveva investito l'Egitto durante il processo Ben Gal dell'estate precedente, gli egiziani andavano avanti nel programma del genocidio.

Se fosse stato presente, Hoffmann si sarebbe sentito in dovere di promuovere a pieni voti Miller per la sua faccia tosta. Uscito dall'ufficio, Miller scese in ascensore fino al quinto piano e capitò da Max Dorn, l'esperto giudiziario della rivista. «Sono appena stato su da Herr Hoffmann» disse, lasciandosi cadere sulla poltrona di fronte alla scrivania di Dorn. «Adesso, ho bisogno di un po' di documentazione. Posso servirmi del tuo cervello?» «Serviti pure» disse Dorn, credendo che Miller dovesse preparare un articolo per "Komet". «Chi indaga sui crimini di guerra in Germania?» La domanda colse Dorn di sorpresa. «Crimini di guerra?» «Sì. Crimini di guerra. Quali sono le autorità incaricate delle

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indagini su quello che è accaduto nei paesi invasi da noi durante la guerra e del ritrovamento degli individui colpevoli di sterminio?» «Oh, capisco che cosa vuoi dire. Be', in sostanza sono i vari uffici dei ministri della Giustizia delle province della Germania occidentale.» «Intendi dire che "tutti" loro svolgono indagini?» Dorn si appoggiò allo schienale della sua poltrona, a suo agio a trattare argomenti che si riferivano al suo campo professionale. «Ci sono sedici province nella Germania occidentale. Ognuna ha una capitale e un ministro della Giustizia. Nell'ufficio di ogni ministro della Giustizia c'è una sezione incaricata delle indagini su quelli che sono definiti "crimini di violenza commessi durante l'epoca nazista". A ogni capitale è assegnata una zona dell'ex-Reich o dei territori occupati, come sua responsabilità specifica.» «Spiegati meglio» disse Miller. «Be', per esempio, tutti i crimini commessi dalle S.S. e dai nazisti in Italia, in Grecia e nella Galizia polacca ricadono sotto la giurisdizione di Stoccarda. Il più grande campo di sterminio, Auschwitz, riguarda Francoforte. Avrai sentito dire che a maggio si terrà a Francoforte un grande processo a carico di ventidue ex- guardiani di Auschwitz. Le indagini sui campi di sterminio di Treblinka, Chelmno, Sobibor e Maidanek vengono condotte da Düsseldorf e da Colonia. Monaco è responsabile di Belzec, Dachau, Buchenwald e Flossenburg. La maggior parte dei crimini commessi nell'Ucraina sovietica e nella zona di Lodz dell'ex-Polonia dipendono da Hannover. E così via.» Miller annotò l'informazione, annuendo. «E per gli stati baltici, chi è responsabile delle indagini? chiese. «Amburgo» disse Dorn senza esitazione. «Ed è anche responsabile dell'area di Danzica, e di Varsavia.» «Amburgo» disse Miller. «Proprio qui, ad Amburgo?» «Sì. Perché?» «Be', a me interessa Riga.» Dorn fece un cenno d'assenso. «Oh, capisco. Gli ebrei tedeschi. Questo è compito dell'ufficio del ministro della Giustizia di qui.» «Se ci fosse stato un processo, o anche un arresto, di qualcuno che si sia reso colpevole di crimini a Riga, sarebbe avvenuto qui ad Amburgo?» «Il processo sì, senza dubbio» disse Dorn. «Gli arresti si possono fare da qualsiasi parte.» «Qual è la procedura per gli arresti?» «Be', esiste un libro chiamato il Libro dei Ricercati. Lì sono registrate le generalità di ogni criminale di guerra ricercato, con cognome, nome e data di nascita. Di solito, l'ufficio del ministro della Giustizia responsabile dell'area nella quale l'uomo ha commesso i crimini ci impiega degli anni prima di preparare una documentazione contro di lui e procedere così all'arresto. Poi, quando sono pronti, richiedono alla polizia dello stato nel quale l'uomo vive di arrestarlo. Un paio di agenti si reca sul posto e se lo porta via. Se un ricercato molto importante viene scoperto, può essere arrestato

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subito e da qualsiasi parte, ma bisogna informare il corrispondente ufficio del ministro della Giustizia che quello è trattenuto in stato di arresto. E loro vanno a rilevarlo. Ma la maggior parte dei pezzi grossi delle S.S. non vive sotto vero nome, e questo complica le cose.» «Già» disse Miller. «C'è mai stato ad Amburgo il processo di qualcuno colpevole di crimini commessi a Riga?» «No, che io ricordi» disse Dorn. «Si può trovare qualche notizia nell'archivio?» «Certo. Se è accaduto dopo il 1950, da quando abbiamo cominciato a mettere insieme la collezione.» «Ti dispiace se diamo un'occhiata?» chiese Miller. «Nient'affatto.» L'archivio era nel seminterrato, curato da cinque addetti in grembiule grigio. Gli scaffali occupavano decine e decine di metri quadri, file su file di scomparti in acciaio grigio sui quali era riposto materiale di consultazione di ogni genere. Le pareti, dal pavimento al soffitto, erano tappezzate di classificatori d'acciaio; su ogni cassetto c'era l'indicazione del contenuto. «Cosa vuoi?» chiese Dorn, quando si avvicinò il capo archivista. «Roschmann Eduard» disse Miller. «Sezione catalogo personale. Per di qua» disse il bibliotecario, facendo strada. Aprì uno schedario che portava l'etichetta ROA-ROZ, e diede una rapida scorsa. «Niente su Roschmann Eduard» disse. Miller rifletté. «Non avete altro sui crimini di guerra?» chiese. «Sì» disse il bibliotecario. «La selezione crimini e processi di guerra è da questa parte.» Camminarono per un altro centinaio di metri, lungo una fila di schedari. «Cerchi sotto Riga» disse Miller. Il bibliotecario salì su di una scaletta e si mise a frugare. Tornò con una cartelletta rossa, con sopra scritto to "Riga: Processo per i crimini di guerra". Miller l'aprì. Ne svolazzarono fuori due ritagli di giornale della grandezza di due grossi francobolli. Miller li raccolse. Risalivano all'estate 1950. Uno riportava che tre soldati delle S.S. erano stati processati per brutalità commesse a Riga fra il 1941 e il 1944. L'altro riferiva che tutti e tre erano stati condannati a lunghe pene detentive. Neanche molto lunghe, dato che sarebbero stati liberi verso la fine del 1963. «Tutto qui?» disse Miller. «Tutto qui» disse il bibliotecario. «Vuoi dire» fece Miller rivolgendosi a Dorn «che una sezione dell'ufficio del ministro della Giustizia che io ho pagato per quindici anni con le mie tasse, ha da offrirmi in cambio soltanto due francobolli?» Dorn era un uomo piuttosto integrato. «Sono sicuro che fanno del loro meglio» disse, secco. «Io me lo sto chiedendo» disse Miller. Si separarono nell'atrio del secondo piano, e Miller uscì sotto la pioggia.

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Il caseggiato nei sobborghi settentrionali di Tel Aviv che ospita il quartier generale del Mossad non suscita alcuna attenzione, nemmeno tra i vicini. L'ingresso del garage sotterraneo dell'edificio è fiancheggiato da negozi. A pianterreno c'è una banca, e nell'atrio, prima della porta a vetri della banca, c'è un ascensore, un pannello con le ragioni sociali delle ditte dei piani superiori e la scrivania del portiere. Il pannello indica che ci sono gli uffici di diverse compagnie di commercio, di due ditte assicuratrici, di un architetto, di un consulente d'ingegneria e, all'ultimo piano, di una compagnia di import-export. Alla richiesta di informazioni sulle ditte fino al penultimo piano, il portiere risponde con sollecitudine. Alle domande sulla compagnia all'ultimo piano, egli si limita a una risposta cortese, ma evasiva. La compagnia all'ultimo piano è la facciata per il Mossad. La stanza dove i capi del servizio segreto israeliano si incontrano ha pareti nude e dipinte di bianco, con un lungo tavolo e alcune sedie. Al tavolo siedono i cinque uomini che coordinano le sezioni dell'organizzazione. Dietro di loro, sulle sedie, siedono impiegati e stenografi. Ad altre persone può essere concesso di partecipare a questi incontri, ma ciò avviene molto di rado. Le riunioni vengono classificate top secret. Al posto d'onore siede il controllore del Mossad. Fondato nel 1937, il nome completo è Mossad Aliyah Beth, o Organizzazione per la Seconda Immigrazione. Il Mossad, primo organo di spionaggio israeliano, si pose come incarico più importante di portare gli ebrei dall'Europa in un posto sicuro in terra di Palestina. Nel 1948, dopo la fondazione dello stato di Israele, divenne il più antico di tutti gli organi israeliani di spionaggio, e il suo controllore automaticamente il capo di tutti e cinque le sezioni. Alla destra del controllore siede il capo dell'Aman, il servizio segreto militare, il cui compito è quello di tenere Israele informata del grado di preparazione militare dei suoi nemici. L'uomo che a quel tempo svolgeva questo compito era il generale Aharon Yaariv. Alla sinistra siede il capo dello Shabak, che talvolta viene erroneamente chiamato Shin Beth. Queste sono le lettere iniziali di Sherut Bitachon, che in ebraico significa servizio di sicurezza. Il nome completo dell'organo che sovrintende alla sicurezza interna di Israele, e "solo" alla sicurezza interna, è Sherut Bitchon Klali: da queste tre parole, l'abbreviazione Shabak. Degli ultimi due uomini presenti alle riunioni, uno è il generale che dirige la sezione ricerche del Ministero degli Esteri, incaricata specificamente di valutare la situazione politica nelle capitali arabe, una questione di importanza vitale per la sicurezza d'Israele. L'altro è il direttore d'un servizio che si occupa esclusivamente della sorte degli ebrei nei "paesi che li perseguitano". Questi paesi comprendono tutti i paesi arabi e comunisti. Le riunioni settimanali permettono a ciascun capo di sapere quello che gli altri servizi stanno facendo, evitando così una sovrapposizione delle attività. Altri due uomini sono presenti in qualità di osservatori: un ispettore

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generale di polizia, e il capo della sezione speciale, il braccio esecutivo dello Shabak nella lotta contro il terrorismo all'interno del paese. L'incontro di quel giorno si svolse come il solito. Meir Amit prese il suo posto a capotavola e la discussione cominciò. Tenne per ultima la notizia bomba. Quando ebbe fatto il suo annuncio, seguì un gran silenzio, mentre i presenti vedevano mentalmente il loro paese morire a causa delle testate radioattive e apportatrici di peste che si abbattevano sulla loro patria. «Una cosa è certa» disse infine il capo del Shabak. «Quei missili non dovranno mai volare. Se non possiamo impedirgli di fabbricare le testate, dobbiamo almeno impedire che le testate si alzino dal suolo.» «Sono d'accordo» disse Amit, taciturno come al solito. «Ma come?» «Colpendoli» bofonchiò Yaariv. «Colpendoli in tutte le maniere possibili. I jet di Ezer Weizmann potrebbero distruggere la base 333.» «E cominciare una guerra quando non abbiamo con che combattere» replicò Amit. «Ci servono altri aerei, altri carri armati, altre armi prima di affrontare l'Egitto. Credo che tutti noi sappiamo, signori, che la guerra è inevitabile. Nasser è deciso a farla, ma non si muoverà finché non è pronto. Se lo obblighiamo a combattere, in questo momento lui, con l'armamento dei russi, è più forte di noi.» Ci fu ancora silenzio. Parlò il capo della sezione araba del Ministero degli Esteri. «Le nostre informazioni dal Cairo ci dicono che loro pensano di essere pronti all'inizio del 1967, con i razzi e tutto il resto.» «A quel tempo avremo i carri armati e i nuovi jet francesi» replicò Yaariv. «Sì, e loro avranno quei missili da Helwan. Quattrocento. Signori, c'è una sola risposta. Al momento in cui noi saremo pronti per Nasser, quei missili saranno sulle piste di lancio di tutto il territorio egiziano. E sarà impossibile fermarli. Quando saranno pronti a colpire, non sarà sufficiente abbatterne il novanta per cento, bisognerà abbatterli tutti. E nemmeno i piloti di Ezer Weizmann potranno farlo, senza eccezione.» «Allora dobbiamo bloccarli nella base di Helwan» disse Yaariv in tono definitivo. «Sono d'accordo» disse Amit. «Ma non con un attacco militare. Dovremo solo obbligare gli scienziati tedeschi a dare le dimissioni prima che abbiano finito il loro lavoro. La fase di ricerca è agli sgoccioli, e noi abbiamo sei mesi di tempo. Dopo i tedeschi non avranno più nessuna importanza. Gli egiziani potranno costruire i missili, una volta che questi sono disegnati fino all'ultimo dado e all'ultimo bullone. Perciò metterò subito in moto la campagna contro gli scienziati che si trovano in Egitto e vi terrò informati.» Per parecchi secondi ci fu ancora silenzio, mentre nella mente di tutti i presenti veniva formulata una domanda inespressa. Fu uno degli uomini del Ministero degli Esteri che alla fine la espose. «Non potremmo scoraggiarli di nuovo all'interno della Germania?» Il generale Amit scosse la testa. «No. E' un argomento su cui è inutile discutere, nell'attuale clima politico. Gli ordini dei nostri superiori sono sempre gli stessi: in

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Germania non si deve più, per nessun motivo, far uso della forza. Per noi, d'ora in avanti, l'unico sistema per distruggere i razzi di Helwan si trova dentro l'Egitto.» Il generale Meir Amit, controllore del Mossad, non si sbagliava spesso. Ma questa volta aveva torto, perché il sistema per distruggere i missili di Helwan si trovava in una fabbrica all'interno della Germania occidentale.

Capitolo 6.

Era trascorsa una settimana, quando Miller riuscì ad avere un appuntamento con l'ufficio del ministro della Giustizia di Amburgo, responsabile delle indagini sui crimini di guerra. L'uomo che si trovò di fronte era nervoso, a disagio. «Lei deve sapere che ho acconsentito a vederla solo a causa delle sue insistenti richieste» esordì il funzionario. «E' stato comunque gentile da parte sua» disse Miller, per cercare di ingraziarselo. «Vorrei indagare su un uomo che, con ogni probabilità, il suo Dipartimento continua ancora oggi a ricercare; si chiama Eduard Roschmann.» «Roschmann?» disse l'avvocato. «Roschmann» ripeté Miller. «Capitano delle S.S. Comandante del ghetto di Riga dal 1941 al 1944. Voglio sapere se è vivo; e se è morto, dov'è sepolto. Oppure se lo avete rintracciato, se è mai stato arrestato e se è mai stato processato. In ogni caso, mi interessa sapere dove si trova ora.» L'avvocato era turbato. «Buon Dio, io non posso dirglielo» disse. «Perché no? E' una questione di interesse pubblico. Di enorme interesse pubblico.» L'avvocato aveva riacquistato il suo controllo. «Non lo penso proprio» disse, con voce sicura. «Altrimenti, saremmo assillati di continuo con richieste di questo genere. In effetti, per quanto mi ricordo, la sua è la prima richiesta del genere che abbiamo ricevuto da... un esponente dell'opinione pubblica.» «In effetti io sono un esponente della stampa» disse Miller. «Be', può darsi che sia così. Ma temo, per quanto riguarda questo tipo di informazioni, che significhi soltanto che lei non ne ha più diritto di un esponente dell'opinione pubblica.» «Il che vorrebbe dire?» disse Miller. «Che non siamo autorizzati a fornire informazioni riguardanti il progresso delle nostre indagini.» «Be', come inizio non c'è proprio da lamentarsi» disse Miller. «Oh, andiamo, Herr Miller. Non pretenderebbe certo che la polizia le desse informazioni sui progressi delle "loro" indagini in un caso criminale.» «Invece sì. Me le danno proprio, le informazioni. Di solito, la polizia è molto sollecita nel rilasciare comunicati stampa quando è previsto un arresto entro breve tempo. E senza dubbio non si rifiuterebbe mai di rispondere a un giornalista se il loro principale

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indiziato è vivo o morto. E' un atteggiamento che favorisce le loro relazioni con il pubblico.» L'avvocato abbozzò un sorriso. «Sono sicuro che a questo proposito lei svolge una funzione di grande importanza» disse. «Ma da questo Dipartimento non può uscire alcuna informazione riguardante il nostro lavoro.» Sembrava che avesse centrato il nocciolo della questione. «Cerchiamo di essere realistici: se i criminali ricercati sapessero che siamo vicini alla conclusione del loro caso, scomparirebbero.» «Può darsi» ribatté Miller. «Ma i documenti dimostrano che fino a oggi il suo Dipartimento ha processato solo tre soldati che a Riga erano guardiani. E questo avveniva nel 1950, per cui quegli uomini, con ogni probabilità, erano in stato di detenzione preventiva quando gli inglesi li hanno passati al suo Dipartimento. Pare quindi che i criminali ricercati non corrano molti rischi di essere costretti a scomparire.» «In verità, questa è un'illazione del tutto infondata.» «D'accordo. Dunque, le sue inchieste progrediscono. Sono comunque convinto che non avrebbe nessun danno, se mi desse qualche notizia su Eduard Roschmann.» «Tutto quello che posso dirle è che tutte le questioni riguardanti la zona di competenza del mio Dipartimento sono soggette a continue indagini. A continue indagini, ripeto. E ora, Herr Miller, penso proprio di non poter fare altro per aiutarla.» Si alzò, imitato da Miller. «Non si sprechi troppo» disse il giornalista uscendo.

Miller impiegò un'altra settimana a fare la mossa successiva. Trascorse quei giorni chiuso in casa, a leggere sei libri riguardanti la guerra sul fronte orientale e i campi di concentramento nei territori orientali occupati. Fu l'impiegato della sua biblioteca di quartiere che gli accennò alla commissione Z. «Si trova a Ludwigsburg» disse a Miller. «L'ho letto su una rivista. Il nome completo è "Agenzia federale centrale per la spiegazione dei crimini di violenza commessi durante il periodo nazista". E' troppo lungo, perciò la gente la chiama Zentrale Stelle. O, addirittura, commissione Z. E' la sola organizzazione del paese che dia la caccia ai nazisti a un livello nazionale, e perfino internazionale.» «Grazie» disse Miller, uscendo. «Vedrò se possono aiutarmi.» Il giorno successivo, Miller andò alla sua banca, staccò un assegno per il padrone di casa con l'importo di tre mesi d'affitto da gennaio a marzo, e ritirò tutti i soldi che possedeva, meno dieci marchi che gli servivano per lasciare aperto il conto. Baciò Sigi, prima che lei uscisse per andare a lavorare al club, e le disse che sarebbe stato via per una settimana, forse più. Poi prese la Jaguar dal garage sotterraneo e si mise in viaggio verso sud, verso la Renania. Erano cominciate le prime nevi, accompagnate dal vento che soffiava dal Mare del Nord, e sferzavano lunghi tratti dell'autostrada che, oltre Brema, si addentrava nella piatta distesa della Bassa Sassonia. Dopo due ore, Miller fece una sosta per bere un caffè, poi si rimise

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al volante attraverso la Renania settentrionale-Westfalia. Nonostante il vento, gli piaceva guidare col cattivo tempo. All'interno della X.K. 150 S, aveva l'impressione di trovarsi nella carlinga d'un aereo, con le luci del cruscotto che brillavano debolmente davanti a lui, e, fuori, l'oscurità sempre più fitta di una serata invernale, il freddo ghiacciato, le raffiche oblique di neve che venivano sorprese per un attimo dalla cruda luce dei fari e volteggiavano oltre il parabrezza per ritornare nel nulla. Si spostò sulla corsia di sorpasso, come sempre, spingendo la Jaguar quasi a centosessanta all'ora e osservando alla sua destra le rumorose carcasse dei pesanti autocarri che restavano indietro mentre lui li superava. Alle 18 si trovava oltre il raccordo di Hamm; alla sua destra, nel buio, cominciavano a distinguersi vagamente le luci della Ruhr. Miller non finiva mai di stupirsi della Ruhr, chilometri e chilometri di fabbriche e camini, di città piccole e grandi che insieme costituivano, di fatto, un'unica gigantesca città lunga centosessanta chilometri e larga ottanta. Quando l'autostrada passò per un tratto su una sopraelevata, egli guardò verso il basso, a destra, e vide nella notte di dicembre migliaia di ettari di luci e di opifici, e il riverbero di migliaia di fornaci che producevano la ricchezza del miracolo economico tedesco. Quattordici anni prima, mentre in treno attraversava la Ruhr per una gita scolastica a Parigi, aveva visto un ammasso di macerie, e il cuore industriale della Germania batteva appena. Era impossibile non sentirsi orgogliosi di quello che il suo popolo era riuscito a fare in quegli anni. "A patto che io non debba viverci" pensò, mentre alla luce dei fari cominciavano ad apparire le gigantesche segnalazioni del raccordo di Colonia. Da Colonia si diresse verso sud-est, oltrepassò Wiesbaden e Francoforte, Mannheim e Heilbronn, e a sera tarda si fermò davanti a un albergo di Stoccarda, la città più vicina a Ludwigsburg, dove trascorse la notte.

Ludwigsburg è una piccola e inoffensiva città commerciale tra le belle e dolci colline del Württemberg, ventiquattro chilometri a nord di Stoccarda, la capitale. In una strada tranquilla, lontana dall'arteria principale, c'è la sede della commissione Z, un gruppo di persone sottopagate e oberate di lavoro, che si dedicano anima e corpo alla ricerca dei nazisti e delle S.S. responsabili, durante la guerra, degli stermini di massa. Prima che lo statuto speciale dichiarasse caduti in prescrizione tutti i crimini delle S.S. con l'eccezione degli omicidi e dei massacri, i ricercati potevano essere ritenuti colpevoli solo di estorsione, rapina, gravi violenze fisiche compresa la tortura, e una varietà di altri reati più o meno sgradevoli. Ma anche con il solo omicidio come capo d'accusa, la commissione Z aveva nei suoi archivi ancora 170 mila nominativi. Comprensibilmente, lo sforzo maggiore è stato e rimane quello di rintracciare le centinaia di assassini peggiori, se e dove è possibile. Senza alcun potere di arresto, con la sola alternativa di richiedere alla polizia dei vari stati tedeschi di procedere agli arresti una volta compiuta l'identificazione, e con una misera sovvenzione annuale

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del governo federale di Bonn, gli uomini di Ludwigsburg lavoravano unicamente per la loro dedizione a questo compito. Il personale della commissione era composto di ottanta agenti investigativi e cinquanta magistrati inquirenti. I primi erano tutti giovani, al di sotto dei trentacinque anni, così che nessuno di loro poteva essere coinvolto direttamente nei casi in esame. Gli avvocati, in genere, erano più anziani, ma ci si accertava che non fossero personalmente collegati ai fatti anteriori al 1945. In genere, gli avvocati provenivano dalla pratica privata, e a questa un giorno sarebbero ritornati. Gli agenti investigativi sapevano che la loro carriera poteva considerarsi finita. Nessuna forza di polizia in Germania avrebbe accettato fra il suo personale un agente investigativo che aveva lavorato a Ludwigsburg. Per loro, disposti a dare la caccia alle S.S. nella Germania occidentale, era esclusa la promozione in qualsiasi altra forza di polizia nel paese. Abituati com'erano a veder ignorate in metà degli stati le loro richieste di cooperazione, a veder scomparire inspiegabilmente i loro grossi dossier, a veder dileguarsi la loro preda dopo qualche "soffiata" anonima, gli uomini della commissione Z si trovavano davanti a un compito che, lo sapevano bene, non godeva le simpatie della maggioranza dei loro compatrioti. Persino per le strade della sorridente città di Ludwigsburg, gli uomini della commissione Z venivano sistematicamente ignorati dai cittadini, ai quali la loro presenza portava una indesiderata notorietà. Peter Miller trovò la sede della commissione al numero 58 della Schorndorferstrasse, un edificio di notevoli dimensioni alto otto piani. Due pesanti cancelli di ferro sbarravano l'accesso al viale d'ingresso. Da un lato, c'era un campanello. Quando suonò, si aprì uno spioncino e apparve una faccia. L'immancabile custode. «Desidera?» «Vorrei parlare con qualcuno dei magistrati» disse Miller. «Con quale?» domandò la faccia. «Non conosco nessun nome» disse Miller. «Andrebbe bene chiunque. Questo è il mio tesserino di giornalista.» Passò il tesserino attraverso l'apertura, costringendo l'uomo a prenderlo. Almeno così era sicuro che l'avrebbe portato dentro l'edificio. L'uomo richiuse lo spioncino e si allontanò. Tornò per aprire il cancello. Davanti a Miller, si stagliavano i cinque gradini di pietra che conducevano alla porta principale. All'interno, il riscaldamento centrale rendeva l'aria soffocante. Un altro portiere uscì da una guardiola a vetri, sulla destra, e lo introdusse in una piccola sala d'aspetto. «Qualcuno sarà subito da lei» disse, e chiuse la porta. L'uomo che arrivò tre minuti dopo era sulla cinquantina, aveva modi miti e cortesi. Restituì a Miller il tesserino e gli domandò: «Cosa posso fare per lei?». In poche frasi Miller gli spiegò la storia di Tauber, del diario, delle sue ricerche per scoprire notizie di Eduard Roschmann. L'avvocato ascoltò con attenzione. «Interessante» disse, alla fine.

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«La questione è: lei può aiutarmi?» «Vorrei poterlo fare» rispose l'uomo, e per la prima volta da quando aveva cominciato a fare domande ad Amburgo sul conto di Roschmann, Miller pensò di aver incontrato un funzionario che desiderava sinceramente aiutarlo. «Il fatto è, però, che, anche a credere che le sue domande sono sincere, mi trovo legato mani e piedi alle regole che condizionano la nostra esistenza quotidiana in questo luogo. E cioè che non si possono fornire informazioni sul conto di nessun criminale delle S.S. ricercato, se non a persone che rappresentano ufficialmente un'autorità tra quelle specificamente indicate.» «In altre parole, lei non può dirmi niente?» disse Miller. «La prego di comprendermi» disse l'avvocato. «Questa commissione è sottoposta a continui attacchi. Non apertamente; nessuno oserebbe farlo. Ma in privato, nei corridoi del potere, siamo incessantemente sotto tiro; si prende di mira il nostro bilancio, certi poteri che abbiamo, i limiti della nostra competenza. Per farla breve, non ci viene concesso nessuno spazio. Io personalmente sarei per un'alleanza con la stampa tedesca, ma la cosa è proibita.» «Capisco» disse Miller. «Non avete, allora, un archivio con ritagli di giornali?» «No, non l'abbiamo.» «Non c'è da nessuna parte, in Germania, un archivio del genere che sia aperto al pubblico?» «No. Gli unici di questo genere sono quelli curati e aggiornati dai vari quotidiani e riviste. Quello di "Der Spiegel" è ritenuto il più completo. E anche a "Komet" ce n'è uno piuttosto buono.» «Trovo tutto questo abbastanza assurdo» disse Miller. «Dov'è che oggi, in Germania, un cittadino può informarsi sulle indagini sui crimini di guerra, e dove può trovare materiale sui criminali delle S.S. ricercati?» L'avvocato sembrò leggermente imbarazzato. «Temo proprio che a un comune cittadino non sia permesso di farlo» disse. «E va bene» disse Miller. «Dove sono, in Germania, gli archivi degli uomini delle S.S.?» «Ce n'è uno qui, nel seminterrato» rispose l'avvocato. «Tutte copie fotostatiche. Gli originali di tutto lo schedario sono stati requisiti nel 1945 da una unità americana. All'ultimo momento, un gruppo di S.S. che si trovava nelle vicinanze del castello in Baviera dove venivano conservati, ha cercato di bruciarli. Ma sono riusciti a distruggerne solo il dieci per cento, prima che i soldati americani accorressero e potessero fermarli. Quelli che restavano erano tutti alla rinfusa. Con l'aiuto tedesco, gli americani hanno impiegato due anni a classificarli. «In quei due anni, alcune fra le S.S. peggiori sono riuscite a fuggire, dopo essere rimaste per un certo periodo sotto la custodia alleata. In quella confusione, non è stato possibile trovare i loro dossier. Da allora, tutto lo schedario delle S.S. è rimasto a Berlino, di proprietà e sotto la direzione degli americani. Anche noi, se vogliamo qualche notizia in più, dobbiamo rivolgerci a loro. E badi bene che non c'è proprio niente da ridire, la loro collaborazione non

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ci è mai mancata.» «E' tutto qui?» domandò Miller. «Solo due archivi in tutto il paese?» «Tutto qui» disse l'avvocato.. «Vorrei poterla aiutare, le ripeto. Comunque, se dovesse scoprire qualcosa sul conto di Roschmann, saremmo lieti di venirne informati.» Miller rifletté. «Se dovessi scoprire qualcosa, ci sono solo due autorità che potrebbero intervenire. L'ufficio del ministro della Giustizia di Amburgo, e lei. E' giusto?» «Sì, non ce ne sono altre» disse l'avvocato. «Ed è probabile che lei riesca a combinare qualcosa, mentre per quelli di Amburgo non ne sarei altrettanto sicuro» affermò Miller, perentoriamente. L'avvocato fissò lo sguardo al soffitto. «Niente di quello che arriva qui, che abbia un reale valore, rimane a prendere la polvere in qualche scaffale» osservò. «D'accordo. Ci siamo capiti» disse Miller, alzandosi. «Un'altra cosa, che resti fra noi: state ancora cercando Eduard Roschmann?» «Che resti fra noi, sì. E con grande interesse.» «Se fosse preso, non ci sarebbero problemi per farlo dichiarare colpevole?» «Proprio nessun problema» disse l'avvocato. «Il capo d'accusa contro di lui ha solide fondamenta. Si prenderebbe i lavori forzati a vita, senza dubbio.» «Mi dia il suo numero di telefono» disse Miller. L'avvocato lo scrisse su un pezzo di carta, che porse a Miller. «C'è il mio nome, con due numeri di telefono. Quello di casa e quello dell'ufficio. Può trovarmi a qualsiasi ora, giorno e notte. Se scoprisse qualcosa di nuovo, mi chiami da una cabina telefonica in teleselezione. Conosco uomini della polizia in ogni stato, che se è necessario, si metteranno a disposizione. E ce ne sono altri da evitare. Quindi chiami prima me, intesi?» Miller mise in tasca il pezzo di carta. «Me ne ricorderò» disse, congedandosi. «Buona fortuna» disse l'avvocato.

Da Stoccarda a Berlino la strada è lunga, e Miller impiegò quasi tutto il giorno seguente a percorrerla. Per fortuna, la giornata era asciutta e tersa, e la Jaguar divorò senza problemi i chilometri che la portavano a nord attraverso la vasta estensione di Francoforte, oltre Kassel e Gottinga, fino ad Hannover. Qui prese la deviazione a destra, passando dall'autostrada E4 alla E8, verso il confine con la Germania orientale. Dovette aspettare un'ora al posto di frontiera di Marienborn, per compilare gli inevitabili moduli con la dichiarazione della valuta, e i visti di transito per viaggiare attraverso i centosettanta chilometri di Germania orientale che lo separavano da Berlino Ovest; nel frattempo, i doganieri in uniforme azzurra e gli uomini con la divisa verde della polizia popolare, i berretti di pelliccia a proteggersi dal freddo, perquisivano dentro e sotto la Jaguar. I doganieri sembravano divisi fra l'atteggiamento di gelida cortesia richiesto a un servitore della Repubblica Popolare Tedesca nei

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confronti di un revanscista della Germania occidentale, e il desiderio che ha un giovanotto di dare un'occhiata alla macchina sportiva di un altro. A trenta chilometri dal confine, c'era il grande ponte sull'Elba, dove nel 1945 gli inglesi, in obbedienza ai trattati di Yalta, avevano interrotto la loro avanzata su Berlino. Miller guardò alla sua destra, verso Magdeburgo, domandandosi se esisteva ancora la vecchia prigione. Perse altro tempo per entrare a Berlino Ovest, dove la sua automobile fu nuovamente perquisita e la valigetta fu vuotata sul banco della dogana. Alla fine, la Jaguar partì rombando verso il nastro scintillante della Kurfürstendamm, illuminato dalle decorazioni natalizie. Era la sera del 17 dicembre. Decise questa volta di non avventurarsi senza criterio nel centro di documentazione americano, come aveva fatto nell'ufficio del ministro della Giustizia ad Amburgo o alla commissione Z di Ludwigsburg. Si era reso conto a sue spese che, senza un appoggio ufficiale, in Germania nessuno poteva arrivare all'archivio sui nazisti. Il mattino seguente telefonò, dalla posta centrale, a Karl Brandt, che reagì in tono sgomento alla sua richiesta. «Non posso» disse. «Non conosco nessuno a Berlino.» «Be', pensaci. Devi aver conosciuto qualcuno della polizia di Berlino Ovest, a uno di quei corsi a cui hai partecipato. Ho bisogno che tu garantisca per me, quando andrò lì» gli gridò Miller, di rimando. «Ti ho detto che non voglio essere coinvolto.» «Lo sei già, coinvolto.» Miller attese qualche secondo prima di sferrare il colpo definitivo. «O riesco a consultare quell'archivio in via ufficiale o faccio irruzione là dentro e dico che mi hai mandato tu.» «Non faresti una cosa del genere» disse Brandt. «Dannazione, se la farei. Sono stufo di essere sballottato da un posto all'altro di questo maledetto paese. Perciò trova qualcuno che mi faccia entrare là, in via ufficiale. Tieni presente che la faccenda sarà dimenticata nel giro di un'ora, una volta che avrò visto quei documenti.» «Devo pensarci» disse Brandt, cercando di prendere tempo. «Ti do un'ora di tempo» disse Miller. «Poi richiamerò.» Sbatté giù il ricevitore. Un'ora dopo, Brandt era furioso, e anche molto spaventato. Rimpiangeva di non essersi tenuto quel diario e di averlo buttato via. «C'è un uomo col quale ho frequentato la scuola di polizia. Non lo conosco bene, però so che ora lavora all'ufficio numero uno della polizia di Berlino Ovest. E si occupa di questo genere di cose.» «Come si chiama?» «Schiller. Volkmar Schiller, ispettore investigativo. «Mi metterò in contatto con lui» disse Miller. «No, lascia fare a me. Gli telefonerò oggi stesso e gli parlerò di te. Poi, puoi andare a trovarlo. Se però non vuole riceverti, non te la prendere con me. E' l'unica persona che conosco a Berlino.» Due ore dopo, Miller ritelefonò a Brandt. Brandt sembrava sollevato. «E' via in licenza» disse. «Mi hanno detto che s'è preso le ferie natalizie, e non tornerà prima di lunedì.»

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«Ma siamo solo a mercoledì» disse Miller. «Dovrò sbatter via altri quattro giorni.» «Non posso farci niente, se quello non ritorna prima di lunedì mattina. Gli telefonerò allora.» Miller trascorse quattro giorni noiosi, gironzolando per Berlino Ovest in attesa che Schiller tornasse dalla licenza. Mentre s'avvicinava il Natale del 1963, per la prima volta da quando nell'agosto 1961 era stato eretto il Muro, Berlino era assorbita dalla concessione da parte delle autorità orientali di permessi che concedevano agli abitanti di Berlino Ovest di visitare i parenti che vivevano nel settore orientale. Il progresso dei negoziati tra le due zone della città aveva occupato per giorni le prime pagine dei giornali. Durante il fine settimana, Miller si presentò al posto di controllo sulla Heinestrasse, nella parte est della città (come era possibile a un cittadino tedesco munito di solo passaporto) per andare a trovare un suo conoscente, il corrispondente della Reuter a Berlino Est. Ma l'uomo era oberato di lavoro per la storia dei permessi, e così dopo una tazza di caffè bevuta insieme a lui, Miller fece ritorno nel settore occidentale. Il lunedì mattina andò a trovare l'ispettore investigativo Volkmar Schiller. Con grande sollievo di Miller, l'uomo aveva più o meno la sua età, e, prerogativa insolita in un funzionario di qualsiasi genere in Germania, aveva il suo stesso atteggiamento disinvolto nei confronti di ogni formalità burocratica. "Senza dubbio non farà molta strada" pensò Miller; ma non erano affari suoi. Gli spiegò con poche parole quello che voleva. «Non mi sembra una richiesta impossibile» disse Schiller. «Gli americani sono abbastanza disposti a collaborare con noi dell'ufficio uno. Dato che siamo incaricati da Willi Brandt di indagare sui crimini nazisti, siamo là quasi tutti i giorni.» Con la Jaguar di Miller, partirono verso la periferia, in direzione dei boschi e dei laghi, e sulla riva di uno di questi si fermarono davanti al numero uno di Wasserkäferstieg, nel quartiere di Zehlendorf, 37. Era un edificio lungo e basso, a un piano, situato in mezzo agli alberi. «E' questo?» domandò Miller, incredulo. «Sì» disse Schiller. «Non è un gran che, vero? Il fatto è che ci sono otto piani sotto il livello del suolo. E' lì che si trovano gli archivi, in camere blindate a prova d'incendio.» Entrarono nell'edificio, in un atrio piuttosto piccolo con l'immancabile gabbiotto del custode sulla destra. L'ispettore gli si avvicinò, mostrando la sua tessera di riconoscimento. Gli venne consegnato un modulo, e tutti e due si appoggiarono a un tavolo per compilarlo. Schiller scrisse il suo nome e grado, poi disse: «Mi ripeta ancora il nome di quel tale». «Roschmann» fece Miller. «Eduard Roschmann.» L'ispettore lo scrisse e riconsegnò il modulo. «Ci vorranno almeno dieci minuti» disse. Passarono in una stanza più grande, ammobiliata con file di tavoli e di sedie. Dopo un quarto d'ora, entrò un impiegato con in mano una cartelletta e l'appoggiò su

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un tavolo. La cartelletta aveva uno spessore di tre centimetri circa, e un'unica intestazione: "Roschmann, Eduard". Volkmar Schiller si alzò. «Se non le dispiace, io me ne vado» gli disse. «Troverò un mezzo per tornare in ufficio. Non posso starmene fuori troppo tempo, dopo una settimana di assenza. Se ha bisogno di qualche copia fotostatica, chieda pure all'impiegato.» E indicò un impiegato che sedeva su una predella all'altro lato della sala di consultazione, senza dubbio per assicurarsi che nessun visitatore asportasse qualche pagina dai dossier. Miller si alzò e strinse la mano dell'ispettore. «Molte grazie.» «Non c'è di che.» Senza curarsi degli altri tre o quattro lettori chini sui loro tavoli, Miller si prese la testa fra le mani e cominciò a esaminare l'incartamento sulle S.S. riguardante Eduard Roschmann. C'era tutto. Numero della tessera del partito nazista, numero di matricola delle S.S., domande di iscrizione compilate e firmate da lui personalmente, esito della visita medica, sue note caratteristiche dopo il periodo d'addestramento, curriculum vitae scritto to di suo pugno, documenti di trasferimento, nomina a ufficiale, attestati di promozione, fino all'aprile 1945. C'erano anche due fotografie, una di faccia e una di profilo, scattate per l'archivio delle S.S. Mostravano un uomo alto un metro e ottantatré, i capelli tagliati cortissimi con la scriminatura sulla sinistra, che fissava l'obiettivo con espressione cupa, il naso appuntito e la bocca sottile quasi senza labbra. Miller cominciò a leggere... Eduard Roschmann era nato il 25 agosto 1908, nella città austriaca di Graz, cittadino austriaco, figlio di un rispettabile e onesto operaio di una fabbrica di birra. A Graz, aveva frequentato l'asilo, le elementari e il ginnasio. Si era iscritto to alla facoltà di giurisprudenza, senza terminare gli studi. Nel 1931, all'età di ventitré anni, aveva cominciato a lavorare nella fabbrica di birra del padre, e nel 1937 era stato trasferito all'ufficio amministrativo. In quell'anno, si iscriveva al partito nazista austriaco e alle S.S., tutt'e due organizzazioni fuorilegge nell'Austria neutrale. L'anno seguente, Hitler annetteva l'Austria e ricompensava i nazisti austriaci con rapide promozioni sul campo. Nel 1939, allo scoppio della guerra, si arruolava volontario nelle Waffen-S.S., veniva addestrato in Germania durante l'inverno, e nella primavera del 1940 prestava servizio in un'unità delle Waffen-S.S. durante l'invasione della Francia. Nel dicembre 1940, veniva trasferito dalla Francia a Berlino - a questo punto, qualcuno aveva annotato a margine "Codardia?" - e nel gennaio 1941 veniva distaccato all'S.D., Amt Tre dell'R.S.H.A. Nel luglio 1941 organizzava il primo posto S.D. a Riga, e il mese seguente veniva nominato comandante del ghetto di Riga. Era ritornato in Germania via mare nell'ottobre 1944 e, dopo aver consegnato quelli che restavano degli ebrei di Riga all'S.D. di Danzica, si era presentato a rapporto a Berlino. E si era fermato là, al quartier generale delle S.S. a Berlino, in attesa di un nuovo incarico. L'ultimo documento del dossier non era mai stato completato,

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presumibilmente perché l'impiegato del quartier generale delle S.S. a Berlino aveva abbandonato l'ufficio a grande velocità, nel maggio 1945. Allegato in fondo al fascicolo dei documenti c'era un foglio, che pareva aggiunto dagli americani dopo la fine della guerra. Su di esso, l'annotazione dattiloscritto ta: "Inchiesta su questo dossier svolta dalle autorità britanniche d'occupazione nel dicembre 1947". In calce, c'era la firma di qualche ormai dimenticato furiere, e la data 21 dicembre 1947. Miller prelevò dalla cartelletta il curriculum, le due fotografie e l'ultimo foglio. Con questi documenti in mano, si avvicinò all'impiegato in fondo alla stanza. «Posso avere una fotocopia di questi, per favore?» «Certamente.» L'uomo ritirò la cartelletta e la depose sulla sua scrivania per attendere il ritorno dei tre fogli mancanti. Anche un altro uomo presentò una cartelletta e due fogli da far fotocopiare. L'impiegato prese anche questi e mise il tutto su un ripiano alle sue spalle, dove i fogli furono prelevati da una mano invisibile. «Dovrete attendere, per favore. Ci vorranno dieci minuti» disse l'impiegato a Miller e all'altro uomo. I due si risedettero e aspettarono: Miller, desiderando una sigaretta, ma lì dentro era vietato fumare; l'altro uomo, dall'aspetto grigio e preciso nel suo cappotto color grigio-antracite, rimanendo seduto con le mani intrecciate in grembo. Dieci minuti dopo, si udì un fruscio alle spalle dell'impiegato e due buste scivolarono fuori dall'apertura. Miller e l'uomo di mezz'età si alzarono contemporaneamente. L'impiegato diede una rapida occhiata dentro una delle buste. «I documenti su Eduard Roschmann?» domandò. «Per me» rispose Miller, tendendo la mano. «E questo dev'essere per lei» disse l'impiegato rivolto all'altro uomo, che si era girato a guardare Miller. L'uomo prese la sua busta e si avviò verso la porta, al fianco di Miller. Appena fuori, Miller scese di corsa le scale, salì a bordo della Jaguar, si staccò dal marciapiede e si diresse verso il centro della città. Un'ora dopo telefonava a Sigi. «Sarò a casa per Natale» le annunciò. Due ore dopo, usciva da Berlino Ovest. Mentre la sua automobile si dirigeva verso il primo posto di controllo di Drei Linden, l'uomo dal cappotto grigio era seduto nel suo dignitoso appartamento di Savignyplatz e componeva un numero telefonico della Germania occidentale. Si presentò in fretta all'uomo che gli rispose. «Oggi sono stato al centro documentazione. Per una delle mie solite ricerche. C'era un altro uomo. Consultava la cartella su Eduard Roschmann. Si è fatto fotocopiare tre fogli. Dopo la comunicazione di qualche giorno fa, ho pensato che fosse meglio avvertirla.» Dall'altro capo del filo, ci fu una serie di domande. «No, non sono riuscito a sapere il suo nome. Dopo, se ne è andato via su una lunga macchina sportiva nera. Sì, sì, il numero l'ho preso; la targa era di Amburgo.» Dettò lentamente il numero di targa, mentre l'uomo all'altro capo del

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filo ne prendeva nota. «Be', ho pensato che fosse meglio. Voglio dire, non si sa mai con questi ficcanaso. Sì, grazie, molto gentile da parte sua... Benissimo, ci penserà lei... Buon Natale, "Kamerad".»

Capitolo 7.

Natale cadeva il mercoledì di quella settimana, e l'uomo che nella Germania occidentale era stato informato da Berlino a proposito di Miller trasmise la notizia soltanto alla fine del periodo natalizio. Quando lo fece, la comunicò al suo diretto superiore. L'uomo che ricevette la telefonata ringraziò l'informatore, riabbassò il ricevitore, si appoggiò allo schienale imbottito della sua comoda poltrona di pelle e guardò fuori della finestra i tetti della Città Vecchia, coperti di neve. «"Verdammt" e poi ancora "Verdammt"» sibilò. «Perché proprio adesso? Perché adesso?» Per quei suoi concittadini che lo conoscevano egli era un brillante avvocato di successo, un libero professionista. Per i suoi ex-colleghi ufficiali superiori, sparsi per la Germania occidentale e a Berlino Ovest, era il capo assoluto dell'Odessa all'interno della Germania. Il suo numero di telefono non compariva sull'elenco degli abbonati e il suo nome di codice era Werwolf, "Lupo Mannaro". A differenza della mostruosa figura della mitologia di Hollywood e dei film dell'orrore in Inghilterra e in America, il lupo mannaro tedesco non è un uomo diverso dagli altri, al quale crescono i peli sul dorso delle mani durante le notti di luna piena. Nella tradizione della mitologia germanica il lupo mannaro è una figura patriottica che rimane nella sua terra natale quando i guerrieri-eroi teutoni sono stati costretti all'esilio dagli invasori stranieri, e, protetto dall'ombra delle grandi foreste, guida la resistenza contro l'invasore colpendo di notte e lasciando soltanto tracce di lupo nella neve. Alla fine della guerra un gruppo di ufficiali delle S.S., convinti che la sconfitta degli alleati fosse questione di mesi, aveva addestrato alcuni gruppi di adolescenti ultrafanatici a restare dietro le linee e a compiere atti di sabotaggio durante l'occupazione alleata. Questi gruppi erano stati formati in Baviera, e in seguito sarebbero stati sbaragliati dagli americani. Erano gli originari "Lupi Mannari". Fortunatamente per loro, essi non misero mai in pratica il loro addestramento, dato che dopo la scoperta di Dachau gli americani stavano proprio aspettando che qualcuno facesse qualche passo falso. Sul finire degli Anni Quaranta, quando l'Odessa aveva cominciato a reinfiltrarsi in Germania occidentale, il suo primo capo assoluto era stato uno degli ufficiali istruttori dei "Lupi Mannari" del 1945. Ed egli aveva assunto quel titolo, che aveva il vantaggio di essere anonimo, simbolico, e abbastanza melodrammatico da soddisfare l'eterno gusto dei tedeschi per la teatralità. Ma non c'era niente di teatrale nella spietatezza con la quale l'Odessa trattava quelli che le mettevano i bastoni fra le ruote. Il Werwolf del 1963 era il terzo con quel titolo e quella posizione.

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Fanatico e astuto, costantemente in contatto con i suoi superiori in Argentina, l'uomo sovrintendeva agli interessi di tutti gli ex-membri delle S.S. all'interno della Germania occidentale, ma in particolare di quelli che un tempo avevano ricoperto alte cariche o di quelli che si trovavano ai primi posti nella lista dei ricercati. Guardò fuori dalla finestra del suo ufficio e ripensò al suo incontro di trentacinque giorni prima con il generale Glücks nella stanza di un albergo di Madrid; e all'avvertimento del generale sull'importanza di mantenere a tutti i costi l'anonimato e la sicurezza del proprietario della fabbrica di radio, il quale stava ora lavorando, sotto il nome di codice di Vulkan, al sistema di guida per i missili egiziani. Unico in Germania, egli sapeva anche che in un periodo precedente della sua vita Vulkan era conosciuto con il nome di Eduard Roschmann. Diede un'occhiata all'agenda su cui aveva scarabocchiato il numero di targa dell'automobile di Miller e premette un pulsante sulla scrivania. Gli arrivò la voce della segretaria, dall'ufficio attiguo. «Hilda, qual è il nome di quell'investigatore privato al quale ci siamo rivolti il mese scorso per quel caso di divorzio?» «Un momento...» Si udì un fruscio di fogli, mentre la donna cercava nell'archivio. «Memmers, Heinz Memmers.» «Le spiace darmi il numero di telefono? No, non lo chiami lei. Basta che mi dia il numero.» Lo annotò sotto il numero della targa di Miller, poi tolse il dito dal pulsante dell'interfono. Si alzò e attraversò la stanza fino a una cassaforte incassata nel muro, a formare una parte della parete dell'ufficio. Dalla cassaforte prese un grosso libro e ritornò alla scrivania. Lo sfogliò, fino a trovare la voce che lo interessava. C'erano solo due Memmers nell'elenco, un Heinrich e un Walter. Fece scorrere il dito fino alla pagina opposta al nome Heinrich, di solito abbreviato in Heinz. Annotò la data di nascita, calcolò l'età dell'uomo nel 1963, e cercò di ricordare la faccia dell'investigatore privato. Le età coincidevano. Annotò altri due numeri segnati a fianco del nome Heinz Memmers, prese in mano il telefono e chiese a Hilda di passargli la linea. Quando sentì che la linea era libera, formò il numero che gli aveva dato la segretaria. Dopo una dozzina di squilli, dall'altra parte qualcuno sollevò il ricevitore. Era una voce di donna. «Investigazioni private Memmers.» «Mi dia Herr Memmers» disse l'avvocato. «Posso riferire chi lo desidera?» domandò la segretaria, con voce decisa. «No, me lo passi e basta. E si sbrighi.» Ci fu una pausa. Il tono di voce aveva fatto il suo effetto. «Sì, signore» disse la donna. Un istante dopo, una voce rauca disse: «Memmers». «Parlo con Heinz Memmers?» «Sì, chi parla?» «Il mio nome non le interessa. Piuttosto mi dica, le ricorda niente il numero 245.718?» Seguì un silenzio di tomba, rotto soltanto da un profondo sospiro di Memmers, che cercava di digerire il fatto che il numero appena citato

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era il suo numero di matricola da S.S. Il libro che adesso giaceva aperto sulla scrivania di Werwolf era la lista di tutti gli ex-membri delle S.S. Poi tornò a farsi sentire la voce di Memmers, indurita dal sospetto. «E perché dovrebbe?» «Significherebbe qualcosa per lei, se le dicessi che il mio numero corrispondente era di solo cinque cifre... "Kamerad"?» Il cambiamento fu istantaneo. Cinque cifre significavano un ufficiale di grado superiore. «Sì, signore» rispose Memmers. «Bene» disse il Werwolf. «C'è un incarico per lei. Un ficcanaso sta indagando su uno dei "Kameraden". Devo scoprire chi è.» «"Zu Befehl" [Ai suoi ordini]» fu la risposta al telefono. «Molto bene. Ma fra di noi, "Kamerad" è sufficiente. Dopo tutto, siamo commilitoni.» La voce di Memmers si fece sentire, evidentemente compiaciuta per l'adulazione. «Sì, "Kamerad".» «Di quest'uomo ho soltanto il numero di targa della sua automobile. Immatricolata ad Amburgo.» Il Werwolf lo lesse lentamente. «Preso nota?» «Sì, "Kamerad".» «Vorrei che lei andasse personalmente ad Amburgo. Voglio conoscere nome, indirizzo, professione, se ha famiglia o persone a carico, condizione sociale... sa, la solita trafila. In quanto tempo pensa di riuscirci?» «Circa quarantott'ore» disse Memmers. «Bene, le ritelefonerò fra quarantott'ore a partire da adesso. Un'ultima cosa. Per nessuna ragione al mondo bisogna avvicinare quest'individuo. Se possibile, non deve venire a conoscenza dell'indagine. E' chiaro?» «Certo. Nessun problema.» «Quando ha finito, mi prepari il conto e me lo comunichi al telefono quando la chiamerò. Le manderò il contante per posta.» Memmers protestò. «Non ci sarà nessun conto, "Kamerad". Non per una faccenda che riguarda noi camerati.» «Benissimo, allora. Le ritelefonerò fra due giorni. Il Werwolf riagganciò il ricevitore.

Miller ripartì da Amburgo quello stesso pomeriggio, prendendo la stessa autostrada su cui aveva viaggiato due settimane prima per Brema, Osnabrück e Munster verso Colonia e la Renania. Questa volta la destinazione era Bonn, la piccola e noiosa città sulla riva del Reno, che Konrad Adenauer, originario di lì, aveva scelto come capitale della Repubblica Federale. Appena a sud di Brema, la sua Jaguar incrociò la Opel di Memmers, diretta a tutta velocità verso nord, ad Amburgo. Ignari l'uno dell'altro, i due uomini sfrecciarono uno accanto all'altro, verso le rispettive missioni. Era già buio, quando Miller imboccò l'unica, lunga arteria principale

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di Bonn e vide il cappello dalla punta bianca di un vigile. Gli si avvicinò. «Può indicarmi la strada per l'ambasciata britannica?» chiese. «Chiude fra un'ora» disse il vigile, un autentico renano. «Allora sarà bene che mi affretti» disse Miller. «Dov'è?» Il vigile indicò la strada dritta, davanti a sé. «Vada per di qua, seguendo le rotaie del tram. Prima di lasciare Bonn e di entrare a Bad Godesberg, la vedrà alla sua sinistra. E' illuminata e sopra ci sventola la bandiera.» Miller fece un cenno di ringraziamento e proseguì. L'ambasciata britannica era dove gli aveva detto il vigile, stretta fra un caseggiato dalla parte di Bonn e un campo da foot-ball dall'altra, simili entrambi a un mare di fango nella nebbia di dicembre che arrivava a folate dal fiume dietro l'ambasciata. Era un grigio edificio lungo e basso, che i corrispondenti da Bonn dei giornali inglesi avevano soprannominato "La fabbrica Hoover", fin dal giorno in cui era stata costruita. Miller parcheggiò nello spiazzo riservato ai visitatori. Varcò le porte di vetro e si trovò in un piccolo atrio con una scrivania in un angolo a sinistra, dietro la quale sedeva un custode di mezza età. Dietro, c'era una piccola stanza occupata da due uomini vestiti di saia azzurra, che portavano l'impronta inconfondibile degli ex-sergenti dell'esercito. «Vorrei parlare con l'addetto stampa, per favore» disse Miller, nel suo inglese stentato. Il custode parve preoccupato. «Non so se è ancora qui. E' venerdì pomeriggio, sa.» «Provi, per favore» disse Miller, e gli mostrò la tessera di giornalista. Il custode compose un numero col telefono interno. Miller ebbe fortuna. L'addetto stampa stava per andarsene. Miller fu introdotto in una piccola sala d'aspetto adornata di stampe di Rowland Hilder raffiguranti la campagna scozzese in autunno. Sul tavolo c'erano parecchie copie arretrate del "Tattler" e opuscoli che illustravano i progressi dell'industria britannica. Dopo pochi secondi, comunque, fu chiamato da uno degli ex-sergenti e condotto al piano superiore, lungo un corridoio e infine in un piccolo ufficio. L'addetto stampa, come Miller fu lieto di notare, era un uomo sui trentacinque anni, e sembrava disposto a collaborare. «Cosa posso fare per lei?» domandò. Miller decise di andar dritto al nocciolo. «Sto facendo ricerche per un articolo da pubblicare su una rivista d'attualità» mentì. «Si tratta di un ex-capitano delle S.S., uno dei peggiori, un uomo tuttora ricercato dalle nostre autorità. Credo che si trovasse anche sulla lista dei ricercati dalle autorità britanniche, quando questa parte di Germania era sotto l'amministrazione inglese. Sa dirmi come posso controllare se gli inglesi lo hanno mai catturato e, in tal caso, che cosa ne è stato di lui?» Il giovane diplomatico era perplesso. «Buon Dio, io non lo so di certo. Voglio dire, abbiamo passato tutti i nostri schedari al vostro governo nel 1949. Quando i nostri

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compatrioti se ne sono andati, loro li hanno sostituiti. E penso che saranno loro, adesso, a possedere tutto questo materiale.» Miller decise di non accennare al fatto che le autorità tedesche avevano tutte rifiutato di collaborare. «E' vero» disse. «Perfettamente vero. Tuttavia le mie indagini hanno rivelato che quell'uomo non è mai stato processato nella Germania federale dal 1949 in avanti. E questo significherebbe che non è mai stato preso prima del 1949. Al centro di documentazione americana di Berlino Ovest, però, ho saputo che nel 1947 è stata richiesta dagli inglesi una copia della pratica relativa a quest'uomo. Ci deve essere un motivo per una richiesta del genere, no?» «Sì, un motivo deve esserci» disse l'addetto stampa. Aveva evidentemente accettato come referenza la collaborazione che le autorità americane a Berlino Ovest avevano dato a Miller. Rifletté, corrugando la fronte. «Dunque, quali autorità britanniche conducevano le indagini durante l'occupazione... voglio dire, durante il periodo di amministrazione?» «Be', doveva essere il capo della polizia militare a condurre le indagini in quel periodo. A parte Norimberga, dove avvennero i principali processi per i crimini di guerra, gli alleati hanno indagato ognuno per conto proprio, pur cooperando fra di loro. Eccetto i russi. Queste indagini hanno portato nelle varie zone ad alcuni processi per crimini di guerra. Mi segue?» «Sì.» «Le indagini venivano condotte dal capo della polizia militare, e i processi erano istituiti dalla sezione legale. Comunque, tutt'e due gli archivi sono stati consegnati nel 1949. Capisce?» «Be', sì» disse Miller «ma di certo gli inglesi ne avranno tenuto copia?» «Immagino di sì» disse il diplomatico. «Ma ormai queste copie dovrebbero trovarsi negli archivi dell'esercito.» «Sarebbe possibile dare un'occhiata?» L'addetto stampa sembrò sconcertato. «Oh, non credo proprio. Forse gli studiosi dei centri di ricerca potrebbero fare richiesta, ma ci vorrebbe molto tempo. E non penso che un giornalista sarebbe autorizzato a vedere questi documenti... Senza offesa, lei mi capisce?» «Capisco» disse Miller. «Il punto è» concluse il diplomatico con franchezza «che, be', lei non è proprio "ufficiale", no? E nessuno vuole procurare dei fastidi alle autorità tedesche, vero?» «Per carità.» L'addetto stampa si alzò. «Non credo proprio che l'ambasciata possa fare molto per lei.» «D'accordo. Un'ultima cosa. A quel tempo c'era qui qualcuno che è qui anche adesso?» «Del personale dell'ambasciata? Oh, no. No, sono stati cambiati tutti, molte volte.» Accompagnò Miller alla porta. «Aspetti un momento, però. Ci sarebbe Cadbury. Forse lui a quel tempo era qui. C'è da secoli, in questo posto. Ne sono sicuro.» «Cadbury?» disse Miller.

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«Anthony Cadbury. Il corrispondente dall'estero. E' il giornalista inglese più anziano qui. Ha sposato una ragazza tedesca. Penso proprio che fosse qui dopo la guerra, subito dopo. Potrebbe domandarlo a lui.» «Bene» disse Miller. «Ci proverò. Ma dove posso trovarlo?» «Be', oggi è venerdì» disse l'addetto stampa.» Probabilmente, più tardi andrà nel suo locale preferito, il bar del Cercle Français. Sa dov'è?» «No, è la prima volta che lo sento nominare. «Ah, capisco. Be', è un ristorante gestito da francesi, dove fanno anche bene da mangiare. E' a Bad Godesberg, proprio in fondo alla strada.»

Miller trovò il locale a un centinaio di metri dalla riva del Reno, sulla Am Schwimmbad. Il barista conosceva bene Cadbury, ma quella sera non l'aveva visto. Disse a Miller che se il più anziano dei corrispondenti dall'estero inglesi a Bonn non si trovava lì quella sera quasi certamente ci sarebbe stato il giorno dopo, per l'aperitivo. Miller prenotò una camera al Dreesen Hotel lì vicino, un grande edificio di fine secolo che un tempo era stato l'albergo preferito da Hitler, dove il Führer aveva incontrato per la prima volta Neville Chamberlain nel 1938. Cenò al Cercle Français e si dilungò a centellinare il caffè, nella speranza che Cadbury si facesse vivo. Ma alle 23 l'anziano inglese non si era ancora visto, ed egli fece ritorno in albergo per dormire. Il giorno seguente, Cadbury entrò nel bar del Cercle Français pochi minuti prima di mezzogiorno, salutò alcuni suoi conoscenti e si sedette sul suo solito sgabello d'angolo. Appena l'uomo ebbe bevuto il primo sorso di Ricard, Miller si alzò dal suo tavolino accanto alla finestra e gli si avvicinò. «Il signor Cadbury?» L'inglese si voltò. Aveva i capelli bianchi, spazzolati con cura, e la faccia che un tempo doveva essere stata molto bella. La pelle era ancora liscia, con una lieve traccia di venuzze sulle guance. Sotto le folte sopracciglia grigie, gli occhi erano di un azzurro brillante. Esaminò Miller con attenzione. «Sì.» «Mi chiamo Miller. Peter Miller. Sono un giornalista di Amburgo. Posso parlare un momento con lei, per favore?» Anthony Cadbury indicò lo sgabello accanto al suo. «Penso che faremo meglio a parlare in tedesco, non crede?» disse, parlando appunto in tedesco. Miller si sentì sollevato, potendo far uso della madrelingua, e non lo nascose. «Che cosa posso fare per lei?» continuò Cadbury, con un sorriso. Miller fissò per un momento gli occhi intelligenti dell'inglese e vinse la diffidenza. Partendo dall'inizio, raccontò a Cadbury tutta la storia, fin dal momento della morte di Tauber. L'inglese era un buon ascoltatore. Non lo interruppe nemmeno una volta. Quando Miller ebbe finito, fece cenno al barista di versargli un altro Ricard e di portare un'altra birra per Miller. «"Spatenbräu", vero?» chiese.

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Miller annuì e si versò la birra gelata, fino a che la spuma raggiunse l'orlo del bicchiere. «Salute» disse Cadbury. «Be', lei ha davvero un bel problema da risolvere. Devo dire che ammiro il suo coraggio.» «Coraggio?» «Non è certo un argomento molto popolare tra i suoi compatrioti, questo, dato il loro modo di pensare» disse Cadbury. «Di certo, avrà modo di appurarlo di persona, nel corso delle indagini.» «Me ne sono già reso conto» disse Miller. «Mmm, me l'ero immaginato» disse l'inglese. E sorrise. «Le va di pranzare con me? Mia moglie è via, oggi.» Durante la colazione, Miller chiese a Cadbury se era stato in Germania alla fine della guerra. «Sì, come corrispondente di guerra. Allora, avevo più o meno la sua età. Sono arrivato con l'esercito di Montgomery. Non a Bonn, ovviamente. Nessuno ne aveva sentito parlare, a quel tempo. Il quartier generale era a Lüneberg. E poi sono rimasto. Mi sono fatto tutta la fine della guerra, e poi il giornale mi ha chiesto di fermarmi.» «Ha seguito anche i processi della zona ai criminali di guerra?» domandò Miller. Cadbury si portò alla bocca un pezzo di filetto e annuì, masticando. «Sì. Tutti quelli nella zona britannica. Per il processo di Norimberga, era stato convocato uno specialista. Dalla zona americana, naturalmente. I criminali più famosi della nostra zona erano Josef Kramer e Irma Grese. Li ha mai sentiti nominare?» «No, mai.» «Be', erano soprannominati le Belve di Belsen. Gliel'avevo appioppato io, questo nome. E ha fatto presa. Ha sentito parlare di Belsen?» «Solo vagamente» disse Miller. «La mia generazione non è stata molto informata al riguardo. Non hanno voluto spiegarci niente.» Cadbury gli lanciò un'occhiata da sotto le folte sopracciglia. «Ma lei vuole sapere, adesso?» «Dobbiamo saperlo, prima o poi. Posso farle una domanda? Lei odia i tedeschi?» Cadbury masticò per alcuni secondi, riflettendo sulla domanda. «Subito dopo la scoperta di Belsen, molti dei giornalisti al seguito dell'esercito britannico sono andati a vedere. Non sono mai stato tanto male in vita mia, e in guerra si vedono cose terribili. Ma niente al confronto di Belsen. Penso che in quel momento, sì, li ho odiati tutti.» «E adesso?» «No. Non più. Ho sposato una ragazza tedesca nel 1948. Continuo a vivere qui. Non lo farei se provassi gli stessi sentimenti che avevo nel 1945. Sarei tornato in Inghilterra da un pezzo.» «Che cosa le ha fatto cambiare opinione?» «Il tempo. Il passare del tempo. E il rendermi conto che non tutti i tedeschi erano come Josef Kramer. O come Roschmann. Badi bene, però, non riesco ancora a vincere un vago senso di diffidenza nei confronti dei tedeschi della mia generazione.» «E la mia generazione?» Miller rigirò il suo bicchiere e guardò la

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luce che si rifrangeva attraverso il liquido rosso. «Siete migliori» disse Cadbury. «Bisogna ammetterlo, voi dovete essere migliori.» «Mi aiuterà a trovare Roschmann? Nessun altro vuole farlo.» «Se posso» disse Cadbury. «Che cosa vuole sapere?» «Non ricorda se è stato messo sotto processo nella zona britannica?» Cadbury scosse la testa. «No. Ad ogni modo, lei ha detto che era austriaco. l'Austria allora era sotto l'occupazione delle quattro potenze. Ma sono certo che non c'è stato alcun processo a carico di Roschmann nella zona britannica. Me ne ricorderei.» «Ma perché le autorità britanniche avrebbero richiesto una fotocopia del suo incartamento, agli americani a Berlino?» Cadbury rifletté un istante. «Roschmann doveva interessare gli inglesi, per qualche ragione. A quel tempo, nessuno sapeva di Riga. I russi cominciavano a stringere i freni, verso la fine degli Anni Quaranta. E non ci davano informazioni sull'oriente. Ed è stato lì che aveva avuto luogo la stragrande maggioranza degli sterminii. Così ci trovavamo nella strana posizione di avere circa l'ottanta per cento dei crimini contro l'umanità commessi a oriente di quella che è ora la Cortina di Ferro; e il novanta per cento dei responsabili che si trovavano nelle tre zone occidentali. Centinaia di colpevoli ci sono scappati dalle mani perché non sapevamo niente di quello che avevano commesso a milleseicento chilometri di distanza, a oriente. «Ma se nel 1947 è stata fatta un'indagine su Roschmann, in qualche modo egli deve aver richiamato la nostra attenzione.» «E' quello che pensavo» disse Miller. «Dov'è che si dovrebbe cominciare a cercare, fra i documenti britannici?» «Be', possiamo cominciare con il mio archivio personale, a casa mia. Venga, è qui vicino.» Fortunatamente, Cadbury era un uomo metodico e aveva tenuto le sue corrispondenze catalogate in ordine dalla fine della guerra in poi. Nel suo studio, lungo due pareti erano allineati gli archivi. Oltre a questi, c'erano due schedari grigi, in un angolo. «Dirigo l'ufficio da casa mia» disse a Miller quando entrarono nello studio. «E' un mio sistema personale di archiviazione, e penso di essere l'unico a capirci qualcosa. Adesso, le faccio vedere.» Indicò i due schedari. «In uno raccolgo ogni genere di notizia sulle persone, catalogate per nome, in ordine alfabetico. L'altro è ordinato per argomento. Cominceremo col primo. Guardi sotto Roschmann.» La ricerca fu breve. Non c'era nessuna cartelletta che portasse il nome di Roschmann. «Va bene» disse Cadbury. «Adesso proviamo con lo schedario per argomenti. Ci sono quattro voci che potrebbero fare al caso nostro. Una è "Nazisti", l'altra è "S.S.". Poi c'è una grossa sezione intestata Giustizia, che ha diverse sottosezioni ognuna delle quali contiene ritagli sui vari processi. Ma dal 1949, nella Germania occidentale si sono svolti per lo più processi criminali. L'ultima voce che potrebbe servirci è "Crimini di Guerra". E adesso, diamoci da

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fare.» Cadbury leggeva più velocemente di Miller, ma rimasero impegnati fino al tramonto a passare in rassegna centinaia di ritagli e inserti. Alla fine Cadbury si alzò con un sospiro e chiuse la cartelletta Crimini di Guerra riponendola al suo posto. «Mi dispiace, ma devo andar fuori a cena, questa sera» disse. «Ci sarebbero ancora da controllare questi.» Indicò con un cenno le cartellette archiviate su scaffali lungo due delle pareti. «E che cosa sono?» «Quelli nella fila superiore» disse Cadbury «sono diciannove anni di corrispondenze che ho mandato al giornale. Sotto ci sono diciannove anni di ritagli di giornali, con notizie e articoli sulla Germania e sull'Austria. Ovviamente molti del primo gruppo sono stampati nuovamente nel secondo. Quelli sono i miei pezzi che sono stati pubblicati. Ma nel secondo gruppo ci sono altri pezzi che non sono stati scritto ti da me. Dopo tutto, anche altri collaboratori hanno pubblicato dei loro articoli sul giornale. E parte del materiale che ho mandato, non l'hanno utilizzato. «Ci sono circa sei cartelle di ritagli per anno. Molte, per controllarle tutte. Per fortuna, domani è domenica, così possiamo utilizzare l'intera giornata, se le va.» «E' molto gentile da parte sua prendersi tutto questo disturbo» disse Miller. Cadbury si strinse nelle spalle. «Non avevo nient'altro da fare, in questo fine settimana. E comunque, alla fine di dicembre i fine settimana a Bonn non sono molto allegri. E mia moglie, non tornerà prima di domani sera. Venga a bere qualcosa al Cercle Français, verso le 11.30.» Fu a metà del pomeriggio di domenica che lo trovarono. Anthony Cadbury stava per terminare una cartelletta contrassegnata novembre-dicembre 1947, del gruppo con le sue corrispondenze. Improvvisamente gridò «Eureka», tolse i fermagli e tirò fuori un foglio di carta, sbiadito dal tempo, dattiloscritto to e intestato "23 dicembre 1947". «Non c'è da stupirsi che non sia stato pubblicato dal giornale» disse. «A chi vuole che importi di un capitano delle S.S. catturato proprio prima di Natale. A ogni modo, con la scarsità di carta di giornale di quei giorni, l'edizione della vigilia di Natale deve essere stata ridotta.» Appoggiò il foglio sulla scrivania e lo illuminò con la lampada Anglepoise. Miller si chinò a leggerlo. "Hannover, Governo militare britannico, 23 dicembre. Un ex-capitano delle famigerate S.S. è stato arrestato dalle autorità militari britanniche a Graz, Austria, in attesa di ulteriori indagini. Così ha riferito oggi un portavoce del quartier generale. "L'uomo, Eduard Roschmann, è stato riconosciuto nelle strade della città austriaca da un ex-internato di un campo di concentramento, che ha accusato Roschmann di essere stato il comandante del campo in Lettonia. Dopo l'identificazione nella casa in cui l'ex-internato lo aveva seguito, Roschmann è stato arrestato dai membri del servizio di sicurezza britannico a Graz. "E' stata avanzata richiesta al quartier generale di Potsdam, nella

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zona sovietica, di ulteriori informazioni sul campo di concentramento di Riga, Lettonia, ed è in corso la ricerca di ulteriori testimoni, ha riferito il portavoce. Nel frattempo, l'uomo arrestato è stato identificato con certezza come Eduard Roschmann in base ai suoi documenti personali, conservati dalle autorità americane nel loro archivio sulle S.S. a Berlino. Stop. Cadbury." Miller lesse il breve dispaccio quattro o cinque volte. «Cristo» ansimò. «L'ha trovato.» «Credo che questo imponga un brindisi» disse Cadbury.

Quando aveva telefonato a Memmers la mattina di venerdì, il Werwolf non aveva pensato al fatto che quarant'otto ore dopo sarebbe stata domenica. Nonostante questo, la domenica cercò di chiamare da casa sua l'ufficio di Memmers, proprio quando a Bad Godesberg i due uomini facevano la loro scoperta. Ma non gli rispose nessuno. La mattina seguente Memmers era in ufficio alle 9 in punto. La telefonata del Werwolf arrivò mezz'ora dopo. «Lieto di sentirla, "Kamerad"» disse Memmers. «Sono tornato da Amburgo ieri sera tardi.» «Ha l'informazione?» «Certamente. Vuole prender nota...» «Avanti» disse la voce dall'altro capo del filo. Memmers si schiarì la gola e cominciò a leggere i suoi appunti. «Il proprietario dell'automobile è un giornalista indipendente, di nome Peter Miller. Descrizione: età ventinove anni, un metro e ottanta circa d'altezza, capelli e occhi castani. Ha una madre vedova che vive a Osdorf, appena fuori Amburgo. Lui invece abita in un appartamento sullo Steindamm, nel centro di Amburgo.» Memmers scandì l'indirizzo e il numero telefonico di Miller. «Abita lì con una ragazza, una spogliarellista, di nome Sigrid Rahn. Lavora soprattutto per i rotocalchi. Con abbastanza successo, pare. Specializzato in inchieste giornalistiche. Come ha detto lei, "Kamerad", un ficcanaso.» «Nessuna idea su chi gli ha commissionato questa inchiesta?» domandò il Werwolf. «No, è questo che è strano. Nessuno sembra sapere quello che egli stia facendo in questo momento. O per chi stia lavorando. Ho controllato con la ragazza, fingendo di essere della redazione di una grande rivista. Solo per telefono, si capisce. Ha risposto che non sapeva dove fosse, ma che aspettava una telefonata per questo pomeriggio, prima che lei si recasse al lavoro.» «C'è altro?» «Solo la macchina. E' molto caratteristica. Una Jaguar nera, modello inglese, con una striscia gialla sulle fiancate. Un'auto sportiva, a due posti, del modello K.X. 150. Ho controllato nel suo garage.» Il Werwolf rimase in silenzio, per un attimo. «Mi piacerebbe sapere dov'è adesso» disse infine. «Non è ad Amburgo» disse Memmers, precipitosamente. «Se ne è andato venerdì, all'ora di colazione, proprio quando stavo per arrivare io. E prima era via da qualche altra parte.» «Lo so» disse il Werwolf.

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«Potrei cercare di informarmi su che cosa sta indagando, con esattezza» disse Memmers, in tono servizievole. «Non ho fatto troppe domande, perché lei mi aveva raccomandato di dare nell'occhio il meno possibile.» «Conosco già l'oggetto delle sue indagini. Vuole smascherare uno dei nostri camerati.» Il Werwolf rifletté per un minuto. «Non è possibile scoprire dove si trova adesso?» domandò. «Penso di sì» rispose Memmers. «Potrei telefonare alla ragazza questo pomeriggio, dicendole che lavoro per una importante rivista e ho urgente bisogno di mettermi in contatto con lui. Per telefono, mi è sembrata una ragazza ingenua.» «Sì, faccia così» disse il Werwolf. «Le telefonerò questo pomeriggio, alle 16.»

Quel lunedì mattina, Cadbury era a Bonn dove era prevista una conferenza stampa ministeriale. Telefonò a Miller alle 10.30, al Dreesen Hotel. «Per fortuna non è già partito» disse al tedesco. «Mi è venuta un'idea. Potrebbe esserle utile. Venga a trovarmi al Cercle Français questo pomeriggio, verso le 16.» Poco prima di mezzogiorno, Miller telefonò a Sigi e le disse che si trovava al Dreesen. Quando si incontrò con Cadbury, questi ordinò il tè. «Questa mattina, mi è venuta un'idea mentre non ascoltavo per niente quella orribile conferenza» disse a Miller. «Se Roschmann è stato catturato e identificato come un criminale ricercato, il suo caso sarebbe stato sottoposto alle autorità britanniche del tempo nella nostra zona della Germania. A quell'epoca, tutti i documenti venivano copiati e passati tra gli inglesi, i francesi e gli americani, sia in Germania sia in Austria. Ha mai sentito parlare di un certo Lord Russell di Liverpool?» «No, mai» disse Miller. «E' stato consulente legale del governatore militare britannico durante l'occupazione, in tutti i nostri processi per crimini di guerra. Più tardi ha scritto to un libro intitolato "Il flagello della svastica". Può immaginarsi di che cosa tratta. Non l'ha reso molto popolare in Germania, ma era un libro molto preciso. Sulle atrocità!» «E' un avvocato?» domandò Miller. «Lo era» disse Cadbury. «E molto brillante. Adesso si è ritirato a vita privata e vive a Wimbledon. Non so se si ricorda ancora di me, ma potrei darle una lettera di presentazione.» «Saprebbe ricordare i fatti avvenuti tanto tempo fa?» «Certo. Non è più un ragazzo, ma aveva fama di avere un archivio al posto della memoria. Se gli è stato affidato il caso Roschmann, perché istruisse un procedimento penale, se ne ricorderebbe ogni particolare. Ne sono sicuro.» Miller annuì e sorseggiò il suo tè. «Sì, potrei prendere un aereo per Londra e andare a parlargli.» Cadbury si frugò in tasca e tirò fuori una busta. «Ho già scritto to la lettera.» Porse a Miller la lettera di

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presentazione e si alzò. «Buona fortuna.»

Memmers aveva l'informazione per il Werwolf quando questi gli telefonò appena dopo le 16. «Ha telefonato alla sua ragazza» disse Memmers. «E' a Bad Godesberg, e abita al Dreesen Hotel.» Il Werwolf riagganciò il ricevitore e sfogliò un'agenda d'indirizzi. Alla fine si fermò su di un nome, sollevò di nuovo il ricevitore e compose un numero della zona Bonn-Bad Godesberg.

Miller tornò in albergo per telefonare all'aeroporto di Colonia e prenotare un volo per Londra per il giorno seguente, martedì 31 dicembre. Quando entrò nell'atrio, la ragazza al banco dell'albergo ebbe un luminoso sorriso e indicò la zona salotto nella veranda che dominava il Reno. «C'è un signore che chiede di lei, Herr Miller.» Guardò verso i gruppi di poltrone dallo schienale ricoperto di tessuto ricamato attorno ai numerosi tavolini nella veranda. A uno di questi, sedeva in attesa un uomo di mezza età in cappotto invernale nero, cappello floscio e ombrello arrotolato. Gli si avvicinò, domandandosi come faceva quell'uomo a sapere che l'avrebbe trovato lì. «Voleva vedermi?» gli domandò Miller. L'uomo scattò in piedi. «Herr Miller?» «Sì.» «Herr Peter Miller?» «Sono io.» L'uomo fece un lieve, secco inchino, tipico dei tedeschi all'antica. «Il mio nome è Schmidt. Dottor Schmidt.» «In che cosa posso esserle utile?» Il dottor Schmidt sorrise con aria umile e guardò fuori dalla vetrata la fredda massa nera del Reno che scorreva sotto i lampioncini della veranda deserta. «Mi hanno detto che lei è un giornalista. E' vero? Un giornalista indipendente. Uno molto bravo.» Fece un ampio sorriso. «Lei ha fama di essere molto preciso, molto tenace.» Miller rimase in silenzio, aspettando che il dottor Schmidt venisse al sodo. «Alcuni miei amici hanno saputo che attualmente lei è impegnato in un'inchiesta su avvenimenti che ebbero luogo... be', diciamo... molto tempo fa. Molto, molto tempo fa.» Miller s'irrigidì, cercando d'immaginare chi fossero gli "amici" e chi avesse potuto informarli. Poi si rese conto che aveva chiesto di Roschmann in giro per tutto il paese. «Un'inchiesta su un certo Eduard Roschmann.» E aggiunse in modo conciso: «E allora?». «Ah, sì, sul capitano Eduard Roschmann. Ho pensato che potevo esserle utile.» L'uomo distolse gli occhi dal fiume e li fissò con gentilezza su Miller. «Il capitano Roschmann è morto.» «Davvero?» disse Miller. «Non lo sapevo.» Il dottor Schmidt sembrava divertito.

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«Certo che no. Non c'è nessuna ragione perché dovesse saperlo. Comunque è morto. Mi creda, sta sprecando il suo tempo.» Miller parve deluso. «Può dirmi quando è morto?» domandò al dottore. «Non ha scoperto le circostanze della sua morte?» «No. L'ultima traccia che ho potuto trovare risale alla fine di aprile del 1945. A quel tempo, l'hanno visto vivo per l'ultima volta.» «Ah, sì, naturalmente.» Il dottor Schmidt sembrava lieto di collaborare. «E' stato ucciso, poco tempo dopo. Ritornato nella nativa Austria, è stato ucciso mentre combatteva contro gli americani, all'inizio del 1945. Il suo cadavere è stato identificato da molte persone che l'avevano conosciuto in vita.» «Deve essere stato un uomo straordinario» disse Miller. Il dottor Schmidt fece un cenno d'assenso. «Be', sì, alcuni la pensavano così. Sì, certo, alcuni di noi erano di questo avviso.» «Voglio dire» continuò Miller, come se non fosse stato interrotto «deve essere stato un uomo straordinario per essere il primo uomo dopo Gesù Cristo che è risorto. E' stato catturato vivo dagli inglesi il 20 dicembre 1947 a Graz, in Austria.» Gli occhi del dottore riflettevano il barbaglio della neve sulla balaustra, fuori della vetrata. «Miller, lei si sta comportando da stupido. Proprio da stupido. Mi consenta di darle un piccolo suggerimento, da uomo anziano a uno molto, molto più giovane. Lasci perdere questa inchiesta.» Miller lo fissò attentamente. «Immagino che dovrei ringraziarla» disse senza gratitudine. «Se lei raccoglierà il mio suggerimento, forse sì» disse il dottore. «Lei non mi capisce di nuovo» disse Miller. «Roschmann è stato visto vivo verso la metà di ottobre di quest'anno ad Amburgo. Ma la cosa non era provata. Adesso lo è. Me l'ha confermata lei.» «Le ripeto, si comporta davvero da stupido se non lascia perdere questa inchiesta.» Gli occhi del dottore erano freddi come sempre, ma da essi traspariva una punta d'ansietà. C'era stato un tempo in cui la gente non disobbediva ai suoi ordini, e in effetti lui non si era mai abituato al cambiamento. Miller cominciava ad arrabbiarsi; una vampata di furore gli saliva lentamente da dentro. «Lei mi dà il voltastomaco, Herr Doktor» disse a Schmidt. «Lei e quelli come lei, tutta la vostra schifosa banda. Lei si è creato una facciata di rispettabilità, ma è marcio di fronte al mio paese. Per quanto mi riguarda, continuerò a fare domande finché non riuscirò a trovarlo.» Si voltò per andarsene, ma l'uomo anziano lo afferrò per un braccio. Si fissarono l'un l'altro, a pochi centimetri di distanza. «Lei non è ebreo, Miller. Lei è ariano. Lei è uno dei nostri. Che cosa le abbiamo fatto, per amor del cielo, che cosa le abbiamo fatto?» Miller liberò il braccio con uno strattone. «Se ancora non lo sa, Herr Doktor, non lo capirà mai.» «Ah, voi dell'ultima generazione, siete tutti uguali. Perché non potete mai fare quello che vi viene ordinato?» «Perché siamo fatti così. O almeno, io sono fatto così.»

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L'uomo anziano lo fissò con le palpebre socchiuse. «Lei non è stupido, Miller. Ma si comporta come se lo fosse. Come se fosse una di quelle ridicole creature costantemente governate da quello che esse chiamano la loro coscienza. Ma comincio a dubitarne. Sembra quasi che lei abbia qualcosa di personale in questa faccenda.» Miller si voltò per andarsene. «Forse ce l'ho» disse, e si allontanò attraverso l'atrio.

Capitolo 8.

Miller trovò senza difficoltà la casa in una tranquilla strada residenziale a poca distanza dalla via principale del quartiere londinese di Wimbledon. Lord Russell in persona andò ad aprire: un uomo prossimo alla settantina, con indosso una giacca di lana e una cravatta a farfalla. Miller si presentò. «Ieri mi trovavo a Bonn,» disse al pari inglese «a pranzo col signor Anthony Cadbury. Mi ha fatto il suo nome e mi ha dato una lettera di presentazione. Speravo di poter parlare un momento con lei, signore.» Lord Russell, un gradino più in alto, posò lo sguardo su di lui. «Cadbury? Anthony Cadbury? Non mi sembra di ricordare...» «Un corrispondente inglese» disse Miller. «Era in Germania subito dopo la guerra. Ha scritto to sui processi a criminali di guerra ai quali lei fungeva da giudice a latere. Josef Kramer e gli altri di Belsen. Si ricorda di quei processi...» «Certo, me ne ricordo. Ma sì. Cadbury, uno della stampa. Adesso l'ho presente. Non lo vedo da anni. Be', non se ne stia lì sulla porta. Fa freddo, e io non sono più giovane come una volta. Entri, entri.» Senza attendere risposta, si voltò e s'incamminò lungo il corridoio. Miller lo seguì, e chiuse la porta, lasciandosi alle spalle il vento freddo del primo giorno del 1964. Su invito di Lord Russell, appese il cappotto a un attaccapanni, poi insieme entrarono nel soggiorno, dove un fuoco accogliente ardeva nel caminetto. Miller porse la lettera di Cadbury e Lord Russell la prese, la lesse velocemente e inarcò le sopracciglia. «Hum. Rintracciare un nazista? E' per questo che lei è venuto?» Guardò Miller per alcuni secondi. Prima che il tedesco potesse rispondergli, Lord Russell proseguì: «Bene, si sieda, si sieda. Non sta bene rimanersene lì impalati». Si sedettero su due poltrone con la fodera a fiori stampati, ai lati del caminetto. «Come mai un giovane giornalista tedesco dà la caccia a un nazista?» domandò Lord Russell senza molti preamboli. Miller trovò sconcertante questo suo modo brusco di porre le domande. «Forse è meglio cominciare dall'inizio» disse Miller. «Penso anch'io che sia meglio» disse il pari, allungandosi in avanti per vuotare il fornello della pipa contro la grata del caminetto. Mentre Miller parlava, Lord Russell riempì la pipa, la accese, e stava tirando boccate con aria soddisfatta quando il tedesco terminò il suo racconto. «Spero che il mio inglese sia abbastanza comprensibile» disse Miller

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alla fine, quando vide che dal magistrato in pensione non veniva alcuna reazione. Lord Russell sembrò destarsi da un suo sogno a occhi aperti. «Oh, sì, sì, meglio del mio tedesco dopo tutti questi anni. Si dimentica, capisce.» «Questa faccenda di Roschmann...» cominciò Miller. «Sì, è interessante, molto interessante. E lei vuole trovarlo e farlo processare. Perché?» La domanda arrivò secca come un colpo di fucile; Miller vide gli occhi del vecchio fissi sui suoi. «Be', ho le mie ragioni» disse, teso. «Credo che quest'uomo dev'essere trovato e portato davanti a un tribunale.» «Hum. Tutti noi lo crediamo. Ma c'è da domandarsi se sarà possibile.» Miller parò il colpo. «Se riesco a trovarlo, lo sarà. Le do la mia parola.» Il pari inglese non parve impressionato. Mentre tirava dalla pipa, piccoli segnali di fumo si alzavano, in simmetria perfetta, verso il soffitto. «Il punto è, signore; lei lo ricorda?» Lord Russell sembrò trasalire. «Se lo ricordo? Oh, certo che lo ricordo. Il nome, perlomeno. Vorrei poter trovare una faccia a quel nome. La memoria d'un vecchio si perde con gli anni, sa. E ce n'erano talmente tanti, a quei tempi.» «La vostra polizia militare lo catturò il 20 dicembre 1947, a Graz» gli disse Miller. Prese le due fotocopie delle foto di Roschmann dalla tasca interna della giacca e gliele porse. Lord Russell guardò le due foto, una di faccia e l'altra di profilo, si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza, perso nei suoi pensieri. «Sì» disse alla fine «L'ho presente. Adesso riesco a vederlo. Sì, la pratica mi è stata inviata qualche giorno dopo ad Hannover, dal servizio di sicurezza di Graz. E' da là che Cadbury ha ricevuto il dispaccio. Dal nostro ufficio ad Hannover. Fece una pausa e si voltò di scatto verso Miller. «Ha detto che l'ultima volta che Tauber l'ha visto è stato il 3 aprile 1945, diretto verso Magdeburgo, su una macchina insieme ad altra gente?» «E' quello che ha scritto to nel diario.» «Mmmm. Due anni e mezzo prima che noi lo prendessimo. E sapete dov'era?» «No» disse Miller. «In un campo di prigionia britannico. Proprio così. D'accordo, giovanotto, vedrò che cosa riesco a ricordare...»

La macchina che portava Eduard Roschmann e i suoi colleghi delle S.S. passò per Magdeburgo e girò poi immediatamente a sud verso la Baviera e l'Austria. Arrivarono insieme a Monaco, prima della fine di aprile, poi si divisero. Roschmann questa volta portava l'uniforme di caporale dell'esercito tedesco, con documenti a suo nome dove appariva come un soldato dell'esercito. A sud di Monaco, le colonne dell'esercito americano percorrevano la

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Baviera, preoccupate non tanto dalla popolazione civile che ormai costituiva solo un fastidio amministrativo, ma dalle voci secondo cui i più alti esponenti nazisti intendevano asserragliarsi in una fortezza di montagna sulle Alpi Bavaresi, vicino al rifugio di Hitler a Berchtesgaden, e lì combattere fino all'ultimo uomo. Non prestavano quindi molta attenzione alle centinaia di soldati tedeschi che si aggiravano disarmati, mentre le colonne di Patton marciavano attraverso la Baviera. Viaggiando di notte, nascondendosi di giorno nelle capanne e nelle baracche dei boscaioli, Roschmann attraversò il confine austriaco, che non esisteva più dai tempi dell'annessione, nel 1938, e si diresse a sud, verso Graz, la sua città natale. E a Graz conosceva gente su cui poteva contare perché lo nascondesse. Lasciò Vienna e ce l'aveva quasi fatta quando gli fu intimato l'alt da una pattuglia britannica, il 6 maggio. Stupidamente, cercò di darsi alla fuga. Mentre si gettava nel sottobosco a fianco della strada, una raffica di pallottole attraversò la macchia d'alberi e una di esse gli attraversò il torace, perforandogli un polmone. Dopo una rapida perlustrazione al buio, i "Tommies" inglesi se ne andarono, lasciandolo, ferito ma salvo, in un boschetto. Da lì, egli si trascinò fino alla casa d'un contadino a meno di un chilometro di distanza. Ancora lucido, diede all'uomo il nome d'un medico di Graz che conosceva, e l'uomo affrontò la notte e il coprifuoco per cercarlo. Per tre mesi fu assistito dagli amici, prima nella casa del contadino, poi in un'altra casa a Graz. Quando fu abbastanza in forze da poter camminare, la guerra era già finita da tre mesi e l'Austria era occupata dalle quattro potenze. Graz si trovava nel cuore della zona britannica. A tutti i soldati tedeschi fu ordinato di passare due anni in un campo di prigionia, e Roschmann ritenendolo il posto più sicuro per nascondersi, si consegnò. Per due anni, dall'agosto 1945 all'agosto 1947, mentre continuava la caccia ai peggiori assassini ricercati delle S.S., Roschmann rimase al sicuro nel campo. Perché, consegnandosi, aveva usato un altro nome, quello di un amico caduto in Africa settentrionale. C'erano talmente tanti soldati tedeschi, a decine di migliaia, che andavano in giro senza documenti, che gli alleati ritennero autentico quel nome. Non avevano né il tempo né le possibilità di condurre un'indagine accurata sui caporali dell'esercito. Nell'estate del 1947 Roschmann fu rilasciato e si sentì ormai abbastanza sicuro per lasciare il rifugio del campo. Si sbagliava. Uno dei superstiti del campo di Riga, originario di Vienna, aveva giurato vendetta a Roschmann. Quest'ultimo batteva le strade di Graz, in attesa che Roschmann tornasse a casa sua, dai genitori che aveva lasciato nel 1949 e dalla moglie, Hella, che aveva sposato durante una licenza, nel 1943. L'uomo si spostava dalla casa dei genitori a quella della moglie, aspettando il ritorno dell'S.S. Dopo il suo rilascio, Roschmann rimase nella campagna fuori Graz, lavorando come giornaliero nei campi. Poi, il 20 dicembre 1947, tornò a casa per trascorrere il Natale con la sua famiglia. Il vecchio lo stava aspettando. Era nascosto dietro una colonna quando vide l'alta e

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sparuta figura, dai capelli biondi slavati e i freddi occhi azzurri, che si avvicinava alla casa della moglie, lanciava qualche occhiata intorno, poi bussava e entrava. Nel giro di un'ora, guidati da un ex-internato del campo di Riga, due robusti sergenti inglesi del servizio di sicurezza, scettici e perplessi, arrivarono e bussarono alla casa. Dopo una breve perquisizione, trovarono Roschmann sotto un letto. Se avesse tentato di giocare il tutto per tutto, sostenendo che lo si confondeva con qualcun altro, forse sarebbe riuscito a far credere ai due sergenti che il vecchio si sbagliava. Ma nascondersi sotto un letto significava tradirsi. Fu portato, per essere interrogato, dal maggiore Hardy del servizio di sicurezza, il quale lo fece prontamente rinchiudere in una cella, mentre spediva a Berlino una richiesta d'informazioni da controllare nell'archivio americano delle S.S. La conferma arrivò dopo quarantott'ore, e gli eventi seguirono il loro corso. Mentre la richiesta era a Potsdam, per ottenere la collaborazione dei russi, gli americani chiesero che Roschmann venisse trasferito temporaneamente a Monaco, per deporre a Dachau, dove gli americani avevano messo sotto processo altre S.S. che avevano agito nel gruppo di campi che circondava Riga. Gli inglesi acconsentirono. Alle 6 del mattino dell'8 gennaio 1948, Roschmann, scortato da un sergente della polizia militare e da un altro del servizio di sicurezza, fu fatto salire su un treno diretto a Salisburgo e a Monaco.

Lord Russell smise di passeggiare, attraversò la stanza fino al caminetto e vi batté contro la pipa per svuotarla. «E poi che cosa è successo?» domandò Miller. «E' fuggito» disse Lord Russell. «Che cosa?!» «E' fuggito. E' saltato fuori dal finestrino del gabinetto, mentre il treno era in moto, dopo essersi lamentato che l'alimentazione del carcere gli aveva causato la diarrea. Quando i due soldati che lo scortavano sono riusciti ad abbattere la porta del gabinetto, Roschmann era già sparito fra la neve. Non l'hanno più trovato. Era scomparso in mezzo alla bufera di neve ed evidentemente aveva preso contatto con una delle organizzazioni che aiutavano gli ex-nazisti a fuggire. Sedici mesi dopo, nel maggio 1949, nasceva la nuova repubblica, e noi abbiamo consegnato a Bonn i nostri archivi.» Miller smise di scrivere e depose il suo quaderno d'appunti. «E adesso a chi ci si potrebbe rivolgere?» Lord Russell sbuffò. «Be', ai suoi compatrioti, credo. Lei conosce la vita di Roschmann dalla nascita all'8 gennaio 1948. Per il resto deve rivolgersi alle autorità tedesche.» «A quali?» chiese Miller, temendo una certa risposta. «Per quello che riguarda Riga, all'ufficio del ministro della Giustizia di Amburgo, credo» disse Lord Russell. «Ci sono stato.» «Non l'hanno aiutata molto?» «Per niente.»

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Lord Russell sorrise. «Non mi sorprende, non mi sorprende proprio. Ha provato a Ludwigsburg?» «Sì. Sono stati gentili, ma non hanno collaborato. Era contro i regolamenti» disse Miller. «Bene, questo chiude i canali ufficiali dell'inchiesta. C è solo un'altra possibilità. Ha mai sentito parlare di Simon Wiesenthal?» «Wiesenthal? Sì, vagamente. Il nome mi ricorda qualcosa, ma non so cosa.» «Vive a Vienna. E' un ebreo, originario della Galizia polacca. Ha trascorso quattro anni in una serie di campi di concentramento, dodici in tutto. Ha deciso di dedicare il resto dei suoi giorni alla caccia dei criminali nazisti. Niente di cruento, badi bene. Si limita a raccogliere tutte le informazioni possibili su di loro, poi, quando è sicuro di averne scoperto uno che di solito vive sotto falso nome, informa la polizia. Se questa non agisce egli convoca una conferenza stampa e li incastra. E' superfluo dire che negli ambienti ufficiali tedeschi e austriaci non gode molta popolarità. Secondo lui, non fanno abbastanza per individuare i criminali nazisti conosciuti, per non parlare di quelli ancora nascosti. Le ex-S.S. lo odiano con tutta l'anima e hanno cercato di ucciderlo un paio di volte; i burocrati vorrebbero che egli li lasciasse in pace, ma molta altra gente pensa che è una persona in gamba, e lo aiuta quando può.» «Sì, ora il nome mi ricorda qualcosa. Non è l'uomo che ha trovato Adolf Eichmann?» chiese Miller. Lord Russell annuì. «Lo ha identificato come Ricardo Klement, residente a Buenos Aires. Gli israeliani lo hanno catturato lì. E ha identificato parecchie centinaia di altri criminali nazisti. Se di Eduard Roschmann si conosce qualcosa di più, lui lo saprebbe. «Lei lo conosce?» domandò Miller. Lord Russell fece un cenno d'assenso. «Sarà meglio che le scriva una lettera. Riceve una quantità di visite. Una presentazione le sarà d'aiuto.» Andò alla scrivania, scrisse in fretta alcune righe su un foglio di carta intestata, lo piegò in una busta e la richiuse. «Buona fortuna, ne avrà bisogno» disse, accompagnando Miller all'uscita.

Il mattino seguente Miller tornò a Colonia con un aereo della BEA, lì riprese la sua automobile e iniziò il viaggio di due giorni che, attraverso Stoccarda, Monaco, Salisburgo e Linz lo avrebbe portato a Vienna. Trascorse la notte a Monaco, avendo perso tempo lungo l'autostrada dal fondo ghiacciato che spesso diventava a una sola corsia là dove uno spazzaneve o un autocarro che scaricava sabbia cercava di far qualcosa contro la neve che continuava a cadere. Il giorno seguente partì presto, e sarebbe arrivato a Vienna per l'ora di pranzo se non avesse dovuto sostare a lungo dalle parti di Bad Tolz, appena più a sud di Monaco. L'autostrada attraversava fitte foreste di abeti, quando una serie di cartelli con la scritto ta "Rallentare" bloccarono il traffico.

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Un'automobile della polizia, che lampeggiava con la luce azzurra a scopo di segnalazione, era parcheggiata su un lato della strada; due poliziotti in divisa bianca bloccavano il traffico. Sulla carreggiata opposta ce n'era un'altra. Sia a destra sia a sinistra dell'autostrada, un viottolo s'addentrava nella foresta di abeti; ai due lati, alcuni soldati, in divisa invernale, con in mano una paletta luminosa erano pronti a far segnalazioni a qualcosa nascosto nella foresta. Miller bolliva d'impazienza e alla fine abbassò il finestrino per chiamare uno dei due poliziotti. «Che cosa succede?» Il poliziotto gli si avvicinò, a passi lenti e sorrise. «L'esercito» disse, conciso. «Stanno facendo le manovre. Una colonna di carri armati attraverserà l'autostrada tra un minuto.» Il primo carro armato comparve dopo un quarto d'ora, facendo capolino con la lunga canna del cannone tra gli abeti, come un pachiderma che annusa l'aria per sentire il pericolo, poi con un rombo di tuono la compatta massa corazzata del carro armato uscì dagli alberi e sferragliò sulla strada. Il sergente maggiore Ulrich Frank era un uomo felice. Alla età di trent'anni aveva già soddisfatto l'ambizione della sua vita: comandare un carro armato tutto suo. Riusciva a ricordare ancora il giorno in cui quell'ambizione gli era nata dentro. Era il 10 gennaio 1945, quando, ancora bambino nella città di Mannheim, era stato portato al cinema. Durante il cinegiornale, sullo schermo erano apparsi i carri armati King Tiger di Hasso von Manteuffel, che avanzavano per dar battaglia agli americani e agli inglesi. Aveva guardato con rispetto le figure imbacuccate dei comandanti, gli occhi stralunati sotto l'elmetto d'acciaio, che si sporgevano fuori della torretta per guardare in avanti. Per Ulrich Frank, di dieci anni, quella era stata una svolta. Alla uscita del cinema, aveva giurato a se stesso che un giorno avrebbe comandato un carro armato. Gli ci erano voluti diciannove anni, ma ce l'aveva fatta. In quelle manovre invernali nelle foreste attorno a Bad Tolz, il sergente maggiore Ulrich Frank comandava il suo primo carro armato, un Patton M-48 di fabbricazione americana. Era la sua ultima manovra con il Patton. Al campo una fila di A.M.X.- 13 S nuovi di zecca, di fabbricazione francese, attendeva le truppe. Più rapido, equipaggiato meglio del Patton, l'A.M.X. sarebbe stato suo entro una settimana. Abbassò lo sguardo sulla croce nera del nuovo esercito tedesco dipinta sul fianco della torretta e sul nome del carro armato sotto di essa, e sentì una punta di rimpianto. Sebbene lo avesse comandato solo per sei mesi, sarebbe sempre rimasto il suo primo carro armato, quello prediletto. Lo aveva chiamato Drachenfels, la roccia del Drago, come la roccia sul Reno sulla quale Martin Lutero, traducendo in tedesco la Bibbia, aveva visto il diavolo e gli aveva tirato addosso il calamaio. Con il nuovo equipaggiamento, pensò, il Patton sarebbe stato messo in disparte. Dopo un'attimo di sosta sul bordo dell'autostrada, il Patton e il suo equipaggio si misero in moto e scomparvero nella foresta.

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Miller arrivò a Vienna verso la metà del pomeriggio del 4 gennaio. Non cercò un albergo, ma si diresse verso il centro della città e chiese la strada per Rudolfplatz. Trovò abbastanza facilmente il numero 7 e osservò l'elenco degli inquilini. Sulla riga del secondo piano c'era un biglietto con la dicitura "Centro di Documentazione". Salì e bussò alla porta di legno color crema. Qualcuno all'interno guardò attraverso lo spioncino, prima di tirare il chiavistello. Sulla soglia apparve una graziosa ragazza bionda. «Prego?» «Il mio nome è Miller. Peter Miller. Vorrei parlare con Herr Wiesenthal. Ho una lettera di presentazione.» Tirò fuori la lettera e la diede alla ragazza, la quale la guardò con aria incerta, fece un breve sorriso e gli chiese di attendere. Alcuni minuti dopo riapparve all'altro capo del corridoio e lo chiamò con un cenno. «Prego, si accomodi, da questa parte.» Miller chiuse la porta principale alle sue spalle e la seguì per il corridoio, girò un angolo e arrivò all'ultima stanza dell'appartamento. Alla sua destra c'era una porta aperta. Quando entrò, un uomo si alzò per salutarlo. «Entri, la prego» disse Simon Wiesenthal. Era un uomo imponente, più di quello che Miller si era aspettato, alto un metro e ottanta, indossava una pesante giacca di tweed, curvo come se stesse cercando un pezzo di carta smarrito. In mano aveva la lettera di Lord Russell. L'ufficio era talmente piccolo che quasi non ci si poteva muovere. Una parete era rivestita di scansie zeppe di libri. La parete opposta era decorata da manoscritto ti e testimonianze, che provenivano da organizzazioni di ex-vittime delle S.S. Lungo la parete di fondo c'era un lungo divano, anch'esso pieno di libri, e alla sinistra della porta una finestra che guardava sul cortile. La scrivania era lontana dalla finestra, e Miller occupò la sedia per i visitatori di fronte ad essa. Il viennese cacciatore di nazisti si sedette dietro la scrivania e rilesse la lettera di Lord Russell. «Lord Russell mi dice che lei sta cercando di rintracciare un assassino che faceva parte delle S.S.» esordì senza preamboli. «Sì, è vero.» «Posso sapere il suo nome?» «Roschmann. Capitano Eduard Roschmann.» Simon Wiesenthal inarcò le sopracciglia ed emise un leggero sibilo. «Ne ha sentito parlare?» gli domandò Miller. «Il macellaio di Riga? E' uno dei primi cinquanta uomini della mia lista» disse Wiesenthal. «Posso sapere perché le interessa?» Miller cominciò a spiegare per sommi capi. «Penso che farebbe meglio a cominciare dall'inizio» disse Wiesenthal. « Che cos'è questa storia di un diario?» Dopo l'uomo di Ludwigsburg, Cadbury e Lord Russell, questa era la quarta volta che Miller doveva ricapitolare gli avvenimenti. Ogni volta si allungavano un po', un altro periodo veniva aggiunto alla sua

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conoscenza della storia della vita di Roschmann. Ricominciò daccapo e parlò finché ebbe spiegato l'aiuto ricevuto da Lord Russell. «Quello che ora devo cercare di sapere,» concluse «è dove s'è cacciato dopo la sua fuga dal treno. Simon Wiesenthal stava guardando fuori nel cortile, gli occhi fissi sui fiocchi di neve che cadevano verso il terreno due piani più sotto. «Ha portato il diario?» domandò alla fine. Miller si chinò, lo prese dalla valigetta e lo depose sulla scrivania. Wiesenthal lo scorse, con molta attenzione. «Interessante» disse. Sollevò lo sguardo «Va bene, credo alla sua storia.» Miller corrugò la fronte. «Aveva dei dubbi?» Simon Wiesenthal lo guardò intensamente. «C'è sempre un piccolo margine di dubbio, Herr Miller» disse. «La sua è una storia molto strana. Ancora non riesco a capire il motivo che la spinge a rintracciare Roschmann.» Miller si strinse nelle spalle. «Sono un giornalista. C'è materiale a sufficienza per un buon articolo.» «Che però lei non sarebbe in grado di vendere mai, temo. E che a malapena giustifica lo sperpero dei suoi risparmi. E' sicuro che non ci sia nulla di personale?» Miller eluse la domanda. «Lei è la seconda persona che mi ha proposto questa interpretazione. Hoffmann, al "Komet", ha fatto la stessa domanda. Perché dovrebbero esserci motivi personali? Ho solo ventinove anni. E' successo tutto prima che io potessi esserne coinvolto.» «Naturalmente.» Wiesenthal diede un'occhiata al suo orologio e si alzò. «Sono le 17, e in queste sere d'inverno vorrei tornare a casa da mia moglie abbastanza presto. Potrei tenermi il diario da leggere questa sera?» «Sì. Certo» disse Miller. «Bene. Allora, per favore, torni lunedì mattina e io le farò trovare pronte tutte le informazioni in mio possesso sul caso Roschmann.» Miller arrivò lunedì alle 10 e trovò Simon Wiesenthal che stava esaminando un mucchio di lettere. All'ingresso del giornalista, sollevò lo sguardo e gli fece cenno di sedersi. Per qualche minuto ci fu silenzio mentre il cacciatore di nazisti, con il tagliacarte, apriva accuratamente i bordi delle buste, prima di farne uscire il contenuto. «Faccio raccolta di francobolli» disse. «Perciò non mi va di danneggiare la busta. Continuò a lavorare ancora per qualche minuto. «La notte scorsa, a casa, ho letto il diario. Documento notevole.» «E' rimasto sorpreso?» chiese Miller. «Sorpreso? No, non dal contenuto. Tutti noi siamo passati per quel genere di esperienze. Con alcune variazioni, naturalmente. Ma è così preciso. Tauber sarebbe stato un testimone perfetto. Ha annotato tutto, perfino i piccoli dettagli. E li ha annotati a quel tempo. Questo è molto importante per ottenere un verdetto di condanna da una

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corte tedesca o austriaca. E adesso è morto.» Miller rifletté per un attimo. Alzò gli occhi. «Herr Wiesenthal, lei è il primo ebreo che è passato attraverso queste esperienze col quale ho parlato a lungo. C'è una cosa che Tauber diceva nel suo diario che mi ha sorpreso; diceva che non esistono colpe collettive. Ma per vent'anni a noi tedeschi hanno detto che siamo tutti colpevoli. Lei lo crede?» «No» disse con sicurezza il cacciatore di nazisti. «Tauber aveva ragione.» «Come può dirlo, se noi abbiamo ucciso milioni di uomini?» «Perché lei, personalmente, non era là. Lei non ha ucciso nessuno. Come ha detto Tauber, la tragedia è che dei singoli assassini non sono stati consegnati alla giustizia.» «E allora chi ha ucciso quella gente?» «Lei sa dell'esistenza di varie sezioni delle S.S.? Quali erano le sezioni all'interno delle S.S., realmente responsabili del massacro di quegli uomini?» domandò. «No.» «Allora sarà bene che glielo dica. Ha sentito parlare della direzione economica del Reich, che aveva il compito di sfruttare le vittime prima della loro morte?» «Sì, ho letto qualcosa in proposito.» «Il suo lavoro, in un certo senso, era il momento centrale dell'intera operazione. «Alla direzione economica era demandato il compito di identificare le vittime in mezzo alla popolazione, di radunarle, di trasportarle e di procedere allo sfruttamento. «Una volta compiuto lo sfruttamento economico, all'eliminazione materiale delle vittime ci pensava l'R.S.H.A., la direzione per la Sicurezza del Reich. L'uso piuttosto strano della parola "Sicurezza" deriva dall'incredibile idea dei nazisti che le loro vittime rappresentassero una minaccia per il Reich, che doveva tutelarsi nei loro confronti. Le funzioni dell'R.S.H.A. comprendevano anche il trasporto, l'interrogatorio e la detenzione nei campi di concentramento di altri nemici del Reich, come i comunisti, i socialdemocratici, i liberali, i quaccheri, i giornalisti, i sacerdoti che si pronunciavano troppo apertamente, i partigiani dei paesi occupati, e in seguito gli ufficiali dell'esercito, come il feldmaresciallo Erwin Rommel e l'ammiraglio Canaris, che furono entrambi assassinati perché sospetti di sentimenti anti-hitleriani. «L'R.S.H.A. era diviso in sei dipartimenti, ciascuno chiamato Amt. L'Amt numero uno si occupava dell'amministrazione e del personale; l'Amt due di rifornimenti e di finanze. L'Amt tre comprendeva il temutissimo Servizio di sicurezza e la Polizia segreta, diretti da Reinhard Heydrich, assassinato a Praga nel 1942, e in seguito da Ernst Kaltenbrunner, che fu giustiziato dagli alleati. Sono stati i loro uomini a ideare i sistemi di tortura per far parlare le persone sospette, sia in Germania sia nei paesi occupati. «L'Amt Quattro era la Gestapo, comandata da Heinrich Müller, ancora latitante, e di cui faceva parte la sezione ebraica, dipartimento B.4, diretta da Adolf Eichmann, giustiziato dagli israeliani a Gerusalemme

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dopo essere stato rapito in Argentina. L'Amt Cinque era la polizia criminale e l'Amt Sei il servizio segreto. «I due uomini che alternativamente hanno comandato lo Amt Tre, Heydrich e Kaltenbrunner, erano anche i capi assoluti dell'R.S.H.A., e per tutta la durata delle loro gestioni, capo dell'Amt Uno è stato una loro creatura, il generale a tre stelle Bruno Streckenbach, che oggi ha un impiego ben retribuito in un grande magazzino di Amburgo e vive a Vogelweide. «Se si vogliono indicare specifiche responsabilità, quindi, esse ricadono su questi due dipartimenti delle S.S., e le persone coinvolte assommano a migliaia di individui, non ai milioni che formano oggi la Germania. La teoria della colpa collettiva di sessanta milioni di tedeschi, compresi i milioni di bambini, donne, anziani pensionati, soldati, marinai e avieri, che non avevano nulla a che fare con l'olocausto, in origine è stata concepita dagli alleati, ma da allora è andata benissimo anche per le S.S. Questa teoria è la loro migliore alleata, perché si rendono conto, più di qualsiasi altro tedesco, che finché la teoria della colpa collettiva non viene posta in discussione, nessuno si metterà a cercare i singoli assassini, o perlomeno, non con la sufficiente durezza. Per questo, gli assassini delle S.S. si nascondono ancora oggi dietro la teoria della colpa collettiva.» Miller rifletté su queste parole. In un certo modo, erano cifre tanto enormi che lo confondevano. Non era possibile considerare quattordici milioni di persone una per una, come tanti singoli individui. Era più facile pensarci come se fossero un uomo solo, cadavere su una barella sotto la pioggia di una strada di Amburgo. «Al motivo che, apparentemente, ha portato Tauber a uccidersi,» domandò Miller «lei ci crede?» Herr Wiesenthal esaminò una bella coppia di francobolli africani su una delle buste. «Credo che avesse ragione a pensare che nessuno gli avrebbe creduto, quando diceva di aver visto Roschmann sui gradini dell'Opera. Se questo è quello che credeva, aveva ragione.» «Ma non è nemmeno andato alla polizia» disse Miller. Simon Wiesenthal tagliò il bordo di un'altra busta ed esaminò la lettera che c'era dentro. Gli rispose dopo una pausa. «No, dal punto di vista tecnico avrebbe dovuto farlo. Io non credo che sarebbe servito a niente. Non ad Amburgo, comunque.» «Che cosa c'è che non va ad Amburgo?» «Lei è stato all'ufficio del ministro della Giustizia di quella città?» domandò Wiesenthal in tono mite. «Sì, ci sono stato. Non si può dire che mi abbiano aiutato.» Wiesenthal alzò lo sguardo su di lui. «Temo che l'ufficio del ministro della Giustizia di Amburgo non goda di una buona reputazione» disse. «Prenda, per esempio, l'uomo citato nel diario di Tauber e da me, poco fa, il capo della Gestapo e generale delle S.S. Bruno Streckenbach. Si ricorda questo nome?» «Naturalmente» disse Miller. «Che cosa sa su di lui?» Come risposta, Simon Wiesenthal cercò fra alcuni fogli sulla scrivania, ne prese uno e lo fissò.

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«Eccolo qui» disse. «Noto alla giustizia della Germania occidentale come "Documento 141 J.S. 747/61". Le interessa?» «Certamente» disse Miller. «Bene. Ecco qui. Prima della guerra, capo della Gestapo ad Amburgo. Da allora si è fatto rapidamente strada fino ai gradini più alti dell'S.D. e dell'S.P., le sezioni del Servizio di sicurezza e della Polizia segreta dell'R.S.H.A. Nel 1939 ha reclutato squadre di sterminio nella Polonia occupata dai nazisti. Alla fine del 1940, era a capo delle sezioni S.D. e S.P. delle S.S. su tutto il territorio polacco, il cosiddetto governo generale con capitale a Cracovia. In quel periodo sono state sterminate migliaia di persone, specie con l'operazione A.B. «All'inizio del 1941, è ritornato a Berlino, ed è stato promosso capo del personale dell'S.D. Questo era l'Amt Tre dell'R.S.H.A. Il capo era Reinhard Heydrich, ed egli ne è diventato il braccio destro. Poco prima dell'invasione della Russia, ha collaborato a organizzare le squadre di sterminio che andavano al seguito dell'esercito. Come capo del personale era lui a scegliere le persone, in quanto provenivano tutte dall'S.D. «Poi è stato nuovamente promosso, questa volta capo del personale di tutti i sei dipartimenti dell'R.S.H.A. e in qualità di vicecomandante dell'R.S.H.A. ha militato prima sotto Heydrich, ucciso dai partigiani cechi a Praga nel 1942 - è stato quest'attentato a provocare la rappresaglia di Lidice - e poi sotto Ernst Kaltenbrunner. In questa funzione, ha avuto la completa responsabilità della scelta del personale per le squadre di sterminio mobili e per le unità fisse dell'S.D. in tutti i territori orientali occupati dai nazisti, fino alla fine della guerra.» «Allora, dov'è adesso?» domandò Miller. «In giro per Amburgo, libero come l'aria» disse Wiesenthal. Miller aveva un'espressione sbalordita. «E non l'hanno arrestato?» «Chi?» «La polizia di Amburgo, naturalmente.» Per tutta risposta, Simon Wiesenthal si fece portare dalla segretaria una cartelletta intestata "Giustizia-Amburgo", da cui estrasse un foglio. Lo ripiegò in due per tutta la lunghezza, con estrema precisione, e lo pose di fronte a Miller in modo che fosse visibile solo la parte sinistra del foglio. «Lei conosce questi nomi?» gli chiese. Miller scorse la lista dei dieci nomi, aggrottando la fronte. «Certamente. Ad Amburgo mi sono occupato per anni di cronaca nera. Questi sono i più alti funzionari della polizia di Amburgo. Perché?» «Apra tutto il foglio» disse Wiesenthal. Miller eseguì. Con tutto il foglio spiegato, si poteva leggere:

[Nome, Numero tessera Partito Nazista, Numero matricola S.S., Grado, Data di promozione] A. tessera ? - matricola 455.336 - Capitano - 1-3-43. B. tessera 5.451.195 - matricola 429.339 - Tenente - 9-11-42. C. tessera ? - matricola 353.004 - Tenente - 1-11-41.

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D. tessera 7.039.564 - matricola 421.176 - Capitano - 21-6-44. E. tessera ? - matricola 421.445 - Tenente - 9-11-42. F. tessera 7.040.308 - matricola 174.902 - Maggiore - 21-6-44. G. tessera ? - matricola 426.553 - Cap. - 1-9-42. H. tessera 3.138.798 - matricola 311.870 - Capitano - 30- 1-42. I. tessera 1.867.976 - matricola 424.361 - Tenente - 20-4-44. J. tessera 5.063.331 - matricola 309.825 - Maggiore - 9-11-43.

Miller alzò lo sguardo. «Cristo!» disse. «Adesso riesce a capire perché un tenente generale delle S.S. può circolare liberamente per Amburgo, oggi?» Miller guardò incredulo l'elenco. «Brandt doveva riferirsi a questo quando diceva che le indagini sulle ex-S.S. non sono molto ben viste dalla polizia di Amburgo.» «E' probabile» disse Wiesenthal. «E non si può dire che l'ufficio del ministro della Giustizia sia troppo di polso. Là dentro c'è soltanto un avvocato che si dà da fare, ma certe parti interessate hanno cercato più volte di farlo licenziare. La graziosa segretaria fece capolino dalla porta. «Tè o caffè?» domandò.

Dopo l'intervallo di colazione, Miller ritornò nell'ufficio. Simon Wiesenthal aveva davanti a sé, sparpagliati, alcuni fogli, presi dalla documentazione su Roschmann in suo possesso. Miller si sistemò di fronte alla scrivania, tirò fuori il suo quaderno d'appunti e attese. Simon Wiesenthal cominciò a riepilogare la storia di Roschmann, dall'8 gennaio 1948. Tra le autorità inglesi e americane era stato concordato che Roschmann, una volta fatta la sua deposizione a Dachau, sarebbe stato trasferito nella zona britannica della Germania ad Hannover, in attesa del processo, e, quasi certamente, dell'impiccagione. Ma già quando era in prigione a Graz, egli aveva cominciato a progettare la fuga. Si era messo in contatto con un'organizzazione per nazisti fuggitivi, che lavorava in Austria, la "Stella a Sei Punte", niente in comune con il simbolo ebraico della stella di Davide, ma denominata così perché i suoi tentacoli raggiungevano i sei principali capoluoghi austriaci. Alle 6 del giorno 8, Roschmann fu svegliato e scortato al treno che l'attendeva alla stazione di Graz. Nello scompartimento ci fu una discussione fra il sergente della polizia militare, che non voleva togliere le manette a Roschmann durante il viaggio, e il sergente del servizio di sicurezza, che era di parere contrario. Roschmann intervenne nella discussione, asserendo di avere la diarrea a causa dell'alimentazione del carcere e chiedendo di poter andare al gabinetto. Lo accompagnarono, gli tolsero le manette, e un sergente rimase in attesa fuori della porta. Mentre il treno avanzava sbuffando attraverso il paesaggio innevato, Roschmann chiese altre tre volte di andare al gabinetto. A quanto sembra, durante quest'arco di tempo fece leva sul finestrino del gabinetto, fino a farlo scivolare sulle guide di scorrimento. Roschmann doveva fuggire prima che gli americani lo portassero a

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Salisburgo, per l'ultimo tragitto in macchina verso la prigione di Monaco, ma le stazioni si succedevano mentre il treno andava sempre troppo veloce. Si fermarono ad Hallein, e un sergente scese per procurarsi qualcosa da mangiare. Roschmann ripeté di dover andare al gabinetto. Il sergente del servizio di sicurezza lo accompagnò, raccomandandogli di non usare il gabinetto mentre erano fermi in stazione. Appena il treno si mosse da Hallein, Roschmann saltò giù dal finestrino in mezzo a una bufera di neve. Dieci minuti dopo, il sergente batté alla porta, mentre il treno correva veloce verso Salisburgo. Le successive indagini stabilirono che Roschmann si trascinò nella neve fino alla capanna di un contadino e lì trovò rifugio. Il giorno seguente attraversò il confine fra l'Alta Austria e la provincia di Salisburgo ed entrò in contatto con la "Stella a Sei Punte". Fu portato in una fabbrica di mattoni, dove si spacciò per operaio, mentre si prendevano contatti con l'Odessa per trasferirlo a sud, in Italia. A quel tempo, l'Odessa era in stretti rapporti con la sezione di reclutamento della legione straniera francese, dove erano confluite decine e decine di ex soldati delle S.S. Quattro giorni dopo aver stabilito il contatto, un'automobile con targa francese in attesa fuori del villaggio di Ostermieting, prese a bordo Roschmann e altri cinque fuggiaschi nazisti. L'autista, un uomo della legione straniera, era fornito di documenti che autorizzavano la macchina ad attraversare i confini senza passare dogana: accompagnò le sei S.S. fino in Italia, a Merano, dove fu pagato da un funzionario dell'Odessa, ricevendo per ogni passeggero un ingente corrispettivo in denaro. Da Merano, Roschmann fu portato a Rimini, dove gli furono amputate le dita del piede destro, congelate in seguito alla sua fuga dal treno. Da allora, dovette adottare una scarpa ortopedica. In ottobre, sua moglie ricevette, a Graz, una sua lettera da Rimini. Per la prima volta, egli usava il suo nuovo nome, Fritz Bernd Wegener. Poco dopo fu trasferito a un convento francescano di Roma, e quando i suoi documenti furono pronti s'imbarcò al porto di Napoli con destinazione Buenos Aires. Per tutto il periodo del suo soggiorno in via Sicilia, era stato fra camerati delle S.S. e del partito nazista, protetto dal vescovo Alois Hudal, che si assicurava personalmente che non mancasse loro nulla. Nella capitale argentina fu accolto dall'Odessa e alloggiato presso una famiglia tedesca di nome Vidmar in Calle Hippolito Irigoyen. Qui, per alcuni mesi, visse in una camera ammobiliata. All'inizio del 1949, ricevette in anticipo cinquantamila dollari americani, prelevati dai fondi di Bormann; iniziò un'attività commerciale come esportatore di legno per costruzione dal Sudamerica in Europa occidentale. La ditta si chiamava Stemmler e Wegener, perché i suoi documenti falsi provenienti dal Vaticano, lo indicavano come Fritz Bernd Wegener, nato in Alto Adige. Poi assunse come segretaria una ragazza tedesca, Irmtraud Sigrid Müller, e all'inizio del 1955 la sposò, anche se aveva già una moglie, Hella, che viveva a Graz. Ma Roschmann cominciava a sentirsi meno sicuro. Nel luglio del 1952 era morta di cancro Eva Peron, moglie del

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dittatore argentino e, dietro le quinte, amministratrice del potere. Tre anni dopo il regime peronista veniva messo in discussione, e Roschmann se ne rese conto. Se cadeva Peron, i suoi successori avrebbero potuto revocare la protezione che egli aveva concesso agli ex-nazisti. Accompagnato dalla nuova moglie, Roschmann partì alla volta dell'Egitto. Vi trascorse tre mesi, nell'estate del 1955, e in autunno tornò nella Germania occidentale. Nessuno avrebbe mai saputo niente, se non fosse stato per la vendetta di una donna tradita. Quell'estate, la sua prima moglie, Hella Roschmann, gli aveva scritto to presso la famiglia Vidmar, a Buenos Aires. I Vidmar, non avendo il nuovo indirizzo dell'ex- inquilino, aprirono la lettera e risposero a Hella che era ritornato in Germania e che aveva sposato la sua segretaria. Hella informò la polizia della nuova identità del marito. E la polizia cominciò a ricercare Roschmann per il reato di bigamia. «E l'hanno preso?» domandò Miller. Wiesenthal sollevò lo sguardo e scosse la testa. «No, è riuscito a scomparire un'altra volta, certamente con nuovi documenti falsi, e quasi certamente in Germania. Vede, per questo, credo che Tauber possa averlo visto. E' abbastanza probabile, alla luce dei fatti conosciuti.» «Dov'è la prima moglie, Hella Roschmann?» domandò Miller. «Vive ancora a Graz.» «Vale la pena di mettersi in contatto con lei?» Wiesenthal scosse la testa. «Non credo. Inutile dirlo, ma dopo essere stato tradito dalla "soffiata", con tutta probabilità Roschmann non la informa più dei suoi spostamenti. O del suo nuovo nome. Per lui deve essersi trattato di una vera e propria emergenza, quando la sua identità di Wegener è stata scoperta. Deve essersi procurato i suoi nuovi documenti in fretta e furia.» «Chi potrebbe averglieli procurati?» domandò Miller. «L'Odessa, certamente.» «Ma che cos'è l'Odessa? Lei l'ha nominata varie volte nel corso della storia di Roschmann.» «Non ne ha mai sentito parlare?» domandò Wiesenthal. «No, fino a questo momento.» Simon Wiesenthal diede un'occhiata all'orologio. «Sarebbe meglio se lei tornasse domani mattina. Le racconterò tutto.»

Capitolo 9.

Il mattino seguente Peter Miller ritornò nell'ufficio di Simon Wiesenthal. «Mi ha promesso di parlarmi dell'Odessa» disse. «Mi sono ricordato una cosa, durante la notte, che ho dimenticato di riferirle ieri.» Raccontò l'incidente con il dottor Schmidt che l'aveva avvicinato al Dreesen Hotel per avvertirlo di lasciar perdere l'inchiesta su Roschmann. Wiesenthal serrò le labbra e annuì.

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«Ce li ha addosso, bene» disse. «E' davvero strano che facciano una mossa del genere con un giornalista, specialmente in una fase così iniziale. Mi domando che cosa stia combinando Roschmann di così importante.» Poi, per due ore, il cacciatore di nazisti raccontò a Miller la storia dell'Odessa, dalle origini come organizzazione per il trasferimento in posti sicuri di criminali S.S. ricercati fino al suo sviluppo in una frammassoneria onnicomprensiva tra le persone che un tempo avevano indossato i colletti neri e argento, i loro soccorritori e i loro complici.

Quando gli alleati avevano invaso la Germania nel 1945 e avevano scoperto i campi di concentramento con il loro orrendo contenuto, naturalmente si rivolsero al popolo tedesco per sapere chi aveva compiuto quelle atrocità. La risposta fu: «Le S.S.» - ma le S.S. non si trovavano da nessuna parte. Dove erano finite? Vivevano clandestine in Germania e in Austria o erano fuggite all'estero. Ma sia in un caso sia nell'altro, non si trattava di una fuga organizzata in fretta e furia. Quello che gli alleati riuscirono a capire solo molto tempo dopo era che ognuno aveva meticolosamente preparato in anticipo la propria scomparsa. Il preteso patriottismo delle S.S. vien visto sotto una luce interessante se si pensa che, a cominciare dal vertice con Heinrich Himmler, tutti loro cercarono di salvare la propria pelle a spese del popolo tedesco, costretto a subire atroci sofferenze. Già nel novembre del 1944, Heinrich Himmler aveva cercato di negoziare il proprio salvacondotto tramite gli uffici del conte Bernadotte della Croce Rossa svedese, ma gli alleati si erano rifiutati di considerare una possibilità del genere. Mentre i nazisti e le S.S. gridavano al popolo tedesco di continuare a combattere finché fossero consegnate le armi prodigio ormai quasi pronte, loro invece si preparavano un comodo esilio. Sapevano fin troppo bene che non esistevano armi prodigio; e sapevano che la distruzione del Reich e, se Hitler ne avesse avuto la possibilità, dell'intera nazione tedesca, era inevitabile. Sul fronte orientale, l'esercito tedesco fu spinto allo scontro disperato con i russi e subì perdite incredibili, non per riportare la vittoria ma per dar tempo alle S.S. di mettere a punto i loro piani di fuga. Le S.S. stavano alle spalle dell'esercito, per fucilare e impiccare i soldati che indietreggiavano dopo aver già sopportato una punizione più dura di quanto alla carne da cannone venga solitamente richiesto. Migliaia di ufficiali e di soldati della Wehrmacht morirono in questo modo, appesi alle forche delle S.S. Poco prima del crollo finale, ritardato di sei mesi dopo che ai capi delle S.S. la sconfitta parve inevitabile, le S.S. scomparvero. In tutto il paese abbandonarono i loro posti, indossarono abiti civili infilandosi nelle tasche i documenti perfettamente (e ufficialmente) falsificati, e svanirono nella massa turbinante della gente in preda al caos che rappresentava la Germania del maggio 1945. Lasciarono i vecchi della milizia civica a incontrare gli inglesi e gli americani ai cancelli dei campi di concentramento, gli stremati soldati della Wehrmacht a finire nei campi di prigionia, e le donne e i bambini a

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vivere o morire sotto il dominio degli alleati. Quelli che sapevano di essere troppo conosciuti per poter sfuggire alle ricerche ripararono all'estero. Qui entrò in scena l'Odessa. Formatasi appena prima della fine della guerra, aveva il compito di portare fuori dalla Germania le S.S. ricercate. Aveva già stabilito stretti legami con l'Argentina di Juan Peron, e si era fatta rilasciare settemila passaporti argentini "in bianco" in modo che i fuggitivi non dovessero far altro che compilarli con un nome falso, aggiungere la propria fotografia, farli vidimare dal console argentino, e imbarcarsi per Buenos Aires o il Medio Oriente. Migliaia di assassini S.S. si rifugiarono a sud, attraverso l'Austria e l'Alto Adige. Venivano fatti passare da un sicuro asilo all'altro, lungo la strada, diretti al porto italiano di Genova o ancora più a sud a Rimini e a Roma. Un certo numero di organizzazioni di beneficenza, alcune ufficialmente impegnate in opere di carità, decise, per ragioni note soltanto a loro, che i profughi S.S. erano perseguitati dagli alleati. Tra i principali porporati - Primule Rosse che ne portarono migliaia alla salvezza - ci fu il vescovo Alois Hudal, il nunzio apostolico tedesco. Il principale centro di raccolta per gli assassini S.S. fuggiaschi fu l'enorme convento francescano a Roma dove essi furono nascosti e ospitati fino a quando poterono procurarsi documenti d'identità e i biglietti per il viaggio in nave verso il Sudamerica. In alcuni casi gli uomini delle S.S. usufruirono di documenti della Croce Rossa, rilasciati su intervento della Chiesa; in molti casi l'organizzazione di beneficenza Caritas pagò i loro biglietti. Questo fu il primo compito dell'Odessa, ed ebbe un esito largamente favorevole. Non si saprà mai quante migliaia di assassini S.S., che se fossero stati catturati dagli alleati avrebbero pagato con la vita i loro crimini, siano riusciti a mettersi in salvo, ma furono sicuramente più dell'ottanta per cento fra quelli che meritavano la pena capitale. Sistematasi confortevolmente grazie ai proventi dello sterminio trasferiti dalle banche svizzere, l'Odessa se ne stette in disparte ad assistere al deterioramento dei rapporti tra gli alleati nel 1945. Le idee originarie sulla rapida formazione di un Quarto Reich furono accantonate nel corso del tempo dai dirigenti dell'Odessa in Sudamerica, ma con la fondazione della nuova repubblica della Germania occidentale, nel maggio 1949, questi dirigenti dell'Odessa si posero cinque nuovi obiettivi. Il primo era la reinfiltrazione di ex-nazisti, in ogni attività della nuova Germania. Per tutta la fine degli Anni Quaranta e negli Anni Cinquanta ex-nazisti s'introdussero nel servizio civile a ogni livello, tornarono negli studi legali, nelle aule di tribunale, nelle forze di polizia, nelle amministrazioni locali e negli studi medici. Da queste posizioni, per quanto modeste, essi erano in grado di proteggersi a vicenda dalle indagini e dagli arresti, di tutelare i reciproci interessi e in genere di assicurare che le indagini e i procedimenti penali nei confronti di ex-camerati - fra di loro essi si chiamano "Kamerad" - procedessero il più lentamente possibile, se non che si insabbiassero del tutto.

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Il secondo obiettivo consisteva nell'infiltrarsi nel meccanismo del potere politico. Evitando i livelli più alti, gli ex-nazisti si introdussero nelle organizzazioni di base del partito al potere, a livello di circoscrizione e di elettorato. Inoltre, non esisteva alcuna legge che proibisse a ex-nazisti di iscriversi a un partito politico. Può essere una coincidenza, ma nessun uomo politico, tra quanti hanno lanciato appelli a favore di un maggior vigore nelle indagini e nei procedimenti penali nei confronti dei crimini nazisti, è mai stato eletto nel C.D.U. o nel C.S.U., sia a livello federale sia a livello dei potentissimi parlamenti provinciali. Un uomo politico ha spiegato il fenomeno con incisiva semplicità: «E' una questione di matematica elettorale. Sei milioni di ebrei morti non votano. Cinque milioni di ex-nazisti possono farlo e lo fanno, a ogni elezione». Lo scopo principale di questo programma era semplice: rallentare, se non addirittura bloccare, le indagini e i procedimenti penali a carico di ex-membri del partito nazista. In questo, l'Odessa aveva un altro grande alleato. Era l'intima consapevolezza, nella mente di centinaia di migliaia di persone, di aver contribuito a quanto era accaduto, seppure in minima parte, o altrimenti di essere stati a conoscenza di quanto accadeva e di non aver parlato. A distanza di anni, sistemati e rispettati nella loro comunità e nelle loro professioni, difficilmente potevano apprezzare che venissero condotte energiche indagini sugli eventi passati, o che i loro nomi fossero citati in qualche lontana aula di tribunale dove veniva processato qualche nazista. Il terzo obiettivo che si pose l'Odessa nella Germania del dopoguerra era quello di reinserirsi nel commercio e nell'industria. A questo scopo, alcuni ex-nazisti fondarono ditte di loro proprietà all'inizio degli Anni Cinquanta, coperti dai fondi dei depositi di Zurigo. Qualsiasi ditta amministrata in modo abbastanza efficiente e con parecchio contante a disposizione avrebbe tratto il massimo vantaggio dall'incerto "miracolo economico" degli Anni Cinquanta e Sessanta, diventando di conseguenza un investimento largamente attivo. Lo scopo era di usare i profitti per influenzare la stampa sui crimini nazisti attraverso gli introiti per la pubblicità, sostenere finanziariamente i fogli di propaganda favorevoli alle S.S. che sono fioriti e scomparsi nella Germania del dopoguerra, mantenere in vita alcune case editrici dell'ultradestra, e fornire impieghi a ex-"Kameraden" in difficoltà. Il quarto obiettivo era, ed è tuttora, quello di provvedere alla migliore difesa legale possibile a tutti i nazisti costretti ad affrontare un processo. Col trascorrere degli anni, venne perfezionata una tattica in base alla quale gli imputati designavano immediatamente un brillante e costoso avvocato, avevano alcuni colloqui con lui, e poi annunciavano che non potevano permettersi di pagarlo. L'avvocato poteva essere allora nominato difensore d'ufficio dal tribunale, in base alle disposizioni di legge sull'assistenza legale. Ma all'inizio e a metà degli Anni Cinquanta, quando centinaia di migliaia di prigionieri di guerra tedeschi si riversarono in patria dalla Russia, i criminali delle S.S. non amnistiati furono radunati e trasferiti al campo Friedland, dove si videro consegnare da alcune ragazze un cartoncino bianco, sul quale era scritto to il nome dell'avvocato

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difensore di ognuno. Il quinto obiettivo è la propaganda. La propaganda assume molteplici forme, dall'incoraggiamento a diffondere opuscoli di destra agli appelli per sostenere una ratifica definitiva della legge che dichiarava caduti in prescrizione i crimini di guerra, in base ai cui paragrafi verrebbe sospesa la possibilità di perseguire penalmente i nazisti. Sono stati fatti tentativi per convincere i tedeschi di oggi che le cifre degli ebrei, dei russi, dei polacchi e degli altri morti nei campi di concentramento erano soltanto una minima parte di quelle fornite dagli alleati - centomila ebrei morti è la cifra di solito riconosciuta - e per sottolineare che la guerra fredda tra l'Occidente e l'Unione Sovietica in un certo modo provava che Hitler aveva ragione. Ma il fondamento della propaganda dell'Odessa è quello di convincere i sessanta milioni di tedeschi occidentali di oggi - e con un largo margine di successo - che le S.S. erano veri patrioti come i soldati della Wehrmacht e che tra ex-camerati la solidarietà deve essere sostenuta. E questa è l'impresa più incredibile. Durante la guerra, la Wehrmacht si tenne a debita distanza dalle S.S., che considerava con ripugnanza, mentre le S.S. trattavano la Wehrmacht con disprezzo. Alla fine, milioni di giovani soldati della Wehrmacht furono spinti verso la morte o verso i campi di prigionia russi, dai quali tornarono in pochissimi, e questo per permettere agli uomini delle S.S. di vivere e prosperare altrove. Altre migliaia furono giustiziati dalle S.S., compresi i 5000 in seguito al complotto del luglio 1944 contro Adolf Hitler, nel quale erano implicate meno di cinquanta persone. E' un mistero che gli ex-soldati della marina, dell'esercito e dell'aviazione tedeschi possano considerare gli uomini delle S.S. degni di meritare da loro l'appellativo di "Kamerad", o addirittura la loro protezione e solidarietà nel corso dei processi. Tuttavia qui sta il vero successo dell'Odessa. L'Odessa è riuscita a render vani gli sforzi della Germania occidentale nel dar la caccia agli assassini S.S. e trascinarli in tribunale. E c'è riuscita grazie alla propria spietatezza, talvolta indirizzata verso i suoi stessi membri quando questi sembravano disposti a rendere completa confessione alle autorità; grazie agli errori degli alleati tra il 1945 e il 1949; alla guerra fredda; e all'abituale vigliaccheria dei tedeschi di fronte a un problema morale, in totale contrasto con il loro coraggio quando siano di fronte a un'impresa militare o a una questione tecnica come la ricostruzione della Germania nel dopoguerra.

Quando Simon Wiesenthal ebbe finito di parlare, Miller depose la matita con la quale aveva preso una notevole quantità di appunti e si appoggiò allo schienale della poltrona. «Non avevo la più pallida idea di tutto questo» disse. «Pochissimi tedeschi ce l'hanno» ammise Wiesenthal. «In realtà ben poche persone sanno qualcosa dell'Odessa. Questa parola non viene quasi mai pronunciata in Germania, e proprio come certi appartenenti alla malavita americana negano l'esistenza della Mafia così ogni ex-

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membro delle S.S. negherà l'esistenza dell'Odessa. Per usare la massima franchezza, il termine oggi non viene più tanto adoperato come una volta. La nuova parola è "Il Cameratismo", proprio come la Mafia in America viene chiamata Cosa Nostra. Ma che importanza ha il nome? L'Odessa è ancora presente e continuerà ad esserlo finché ci sarà un criminale S.S. da proteggere.» «E lei pensa che siano questi gli uomini che mi trovo di fronte?» domandò Miller. «Ne sono convinto. Il consiglio che le è stato dato a Bad Godesberg non potrebbe venire da nessuna altra parte. Sia prudente, questi uomini possono essere pericolosi.» La mente di Miller si rivolse a qualcos'altro. «Quando Roschmann è scomparso nel 1955, lei ha detto che avrebbe avuto bisogno di un nuovo passaporto, vero?» «Certamente.» «Ma perché proprio un passaporto?» «Capisco il motivo della sua perplessità. Mi permetta di spiegarle. Dopo la guerra, in Germania, e anche qui in Austria, c'erano decine di migliaia di sbandati senza documenti. Alcuni li avevano persi davvero, altri li avevano gettati via per fondate ragioni. «Per ottenerne di nuovi, in genere bisogna presentare l'atto di nascita. Ma milioni di persone erano fuggite dagli ex-territori tedeschi invasi dai russi. Chi poteva provare se un uomo era nato o no in un piccolo villaggio della Prussia orientale, quando adesso quella zona si trova oltre la cortina di ferro? In altri casi, gli edifici dove erano conservati gli originali dei certificati di nascita erano stati distrutti dai bombardamenti. «Così il procedimento era molto semplice. C'era bisogno soltanto di due testimoni che confermassero nome e cognome del richiedente, e veniva rilasciata una carta d'identità nuova di zecca. Nel caso dei prigionieri di guerra, anche questi spesso erano sprovvisti di documenti. Al momento di metterli in libertà, le autorità britanniche e americane firmavano un documento che certificasse, ad esempio, che il caporale Johann Schumann era stato liberato dal campo di prigionia. Il soldato si presentava con questo foglio alle autorità civili, che rilasciavano una carta d'identità intestata allo stesso nome. Ma non era impossibile che Johann Schumann fosse soltanto il nome che quell'uomo aveva dato al campo. Il nome vero poteva essere qualsiasi altro. Nessuno controllava. E così una persona acquistava una nuova identità. «Questo andava bene nel periodo immediatamente successivo alla guerra, quando cioè la maggior parte dei criminali S.S. ha assunto nuove identità. Ma che cosa succede a un uomo che viene smascherato in pieno 1955, come è stato per Roschmann? Non può certo raccontare alle autorità di aver smarrito i documenti durante la guerra. Come minimo gli chiederebbero come se l'è cavata in quei dieci anni di mezzo. Perciò ha bisogno di un passaporto.» «La seguo» disse Miller. «Ma perché proprio un passaporto? Perché non una patente, o una carta d'identità?» «Perché, poco dopo la nascita della repubblica, le autorità tedesche si sono rese conto che dovevano esserci migliaia di persone che

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circolavano sotto falso nome. C'era bisogno di un documento che necessitasse di controlli così severi da poter essere usato come unità di misura per tutti gli altri. E la scelta è caduta sul passaporto. In Germania, prima di ottenere un passaporto, bisogna presentare il certificato di nascita, referenze varie, e una quantità di altri documenti, che vengono accuratamente controllati prima di rilasciare il passaporto. «Per contro, se lei possiede un passaporto, può ottenere qualsiasi altra cosa. E' la burocrazia. La presentazione di un passaporto convince il funzionario civile che, essendoci stati controlli precedenti sull'intestatario, non si rendono necessari ulteriori controlli. Con un passaporto, Roschmann poteva procurarsi in breve tempo il resto dei documenti - patente, libretto d'assegni, carte di credito. Oggi, in Germania, il passaporto è l'apriti-sesamo indispensabile.» «E il passaporto, come se lo sarebbe procurato?» «Attraverso l'Odessa. Avranno probabilmente da qualche parte qualcuno che li sa falsificare» congetturò Herr Wiesenthal. Miller rimase per un po' soprappensiero. «Se uno potesse trovare il falsario di passaporti, potrebbe trovare l'uomo che è in grado oggi di identificare Roschmann?» suggerì. Wiesenthal si strinse nelle spalle. «Sarebbe possibile. Ma non è facile. E per farlo bisognerebbe infiltrarsi nell'Odessa. E questo è possibile soltanto alle ex-S.S.» «E allora dove posso andare da qui?» disse Miller. «Direi che l'alternativa migliore sarebbe di contattare qualcuno dei sopravvissuti di Riga. Non so che tipo di aiuto riusciranno a darle, ma si metteranno di sicuro a sua disposizione. Roschmann, cerchiamo tutti di rintracciarlo. Guardi...» Aprì il diario sulla sua scrivania. «... Qui si parla di una certa Olli Adler di Monaco, che è stata in compagnia di Roschmann durante la guerra. Può darsi che sia sopravvissuta e sia tornata a casa sua, a Monaco.» Miller annuì. «E chi mi può dire se è tornata?» «Il Centro della comunità ebraica. Esiste ancora. Ci sono gli archivi della comunità ebraica di Monaco, dalla fine della guerra. Era tutto andato distrutto. Io cercherei lì.» «Ha l'indirizzo?» Simon Wiesenthal controllò su un'agenda. «Reichenbachstrasse, numero ventisette, Monaco» disse. «Immagino che rivoglia indietro il diario di Salomon Tauber.» «Sì. Mi dispiace. «Peccato. L'avrei conservato io volentieri. Un diario notevole.» Si alzò per accompagnare Miller alla porta d'ingresso. «Buona fortuna,» disse «e mi faccia sapere come va a finire.» Quella sera, Miller cenò alla Casa del Drago d'Oro, dal 1566 in attività come birreria e ristorante nella Steindelgasse, e rifletté sul consiglio. Aveva ben poche speranze di trovare qualcosa di più di un piccolo gruppo di superstiti di Riga che ancora vivessero in Germania e in Austria. Le speranze, poi, che potessero aiutarlo a

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trovare tracce di Roschmann successive al novembre 1955, erano ancora più scarse. Ma poche speranze erano meglio che niente. Il mattino seguente ripartì per Monaco in automobile.

Capitolo 10.

Il mattino dell'8 gennaio, Miller arrivò a Monaco e, su una pianta della città acquistata in un'edicola della periferia, individuò la Reichenbachstrasse. Dopo aver parcheggiato l'automobile, esaminò dalla strada il Centro della comunità ebraica. Era un palazzo di quattro piani. Al pianterreno la facciata era di blocchi di pietra grezza; più in su, i mattoni erano ricoperti di cemento grigio. All'ultimo piano, c'era una fila di finestre di mansarde, sovrastate dal tetto di tegole rosse. L'ingresso, una porta a vetri, era in fondo al lato sinistro dell'edificio. L'edificio, al pian terreno, ospitava un ristorante che serviva soltanto i cibi d'osservanza, l'unico in tutta Monaco; al piano superiore, le stanze di ricreazione dell'ospizio. Al secondo piano c'era la sezione amministrativa e per la documentazione, e ai due piani superiori le stanze per gli ospiti e per gli inquilini della casa. Sul retro, una sinagoga. L'intero edificio venne distrutto la notte di venerdì 15 febbraio 1970, quando dal tetto furono buttate all'interno alcune bombe incendiarie. Sette persone morirono, soffocate dal fumo. La sinagoga fu imbrattata con svastiche. Miller salì al secondo piano e si presentò al banco delle informazioni. Mentre aspettava, si guardò intorno nella stanza. C'erano file di libri, tutti nuovi dato che la biblioteca originaria era stata bruciata dai nazisti molto tempo prima. Tra gli scaffali, erano appesi i ritratti di alcuni dei capi della comunità ebraica risalenti fino a centinaia di anni prima, maestri e rabbini, che guardavano fuori dalle cornici dall'alto di barbe lussureggianti, come le figure dei profeti che egli aveva visto sui suoi testi di religione a scuola. Alcuni cingevano il filatterio attorno alla fronte, e tutti avevano il cappello. C'era una rastrelliera con giornali, alcuni in tedesco, altri in ebraico. Miller pensò che questi ultimi provenissero da Israele. Un uomo piccolo, dalla carnagione scura, stava esaminando la prima pagina di uno di questi. «Desidera qualcosa?» Il banco delle informazioni era ora occupato da una donna dagli occhi scuri, sui quarantacinque anni. Una ciocca di capelli le cadeva sugli occhi, ed ella la ributtava indietro in continuazione con un gesto nervoso. Miller fece la sua domanda: era possibile rintracciare Olli Adler, che poteva essere ritornata a Monaco dopo la guerra? «Da dove doveva tornare?» domandò la donna. «Da Magdeburgo. E prima, da Stutthof. E prima ancora, da Riga.» «Oh, Riga» disse la donna. «Non credo che nei nostri elenchi ci sia qualcuno tornato da Riga. Sono tutti svaniti. Comunque guarderò.»

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Andò in una stanza sul retro, e Miller la vide cercare diligentemente su un indice di nomi. Non era un indice lungo. Tornò dopo cinque minuti. «Mi dispiace. Nessuno con quel nome si è fatto vivo qui da noi, dopo la guerra. E' un nome comune. Ma non è nell'elenco.» Miller annuì. «Capisco. Aveva ragione lei, allora. Mi scusi per il disturbo.» «Perché non si rivolge all'Ufficio persone scomparse?» domandò la donna. «E' il loro lavoro, trovare i dispersi. Hanno elenchi di tutta la Germania, mentre noi li abbiamo soltanto per le persone originarie di Monaco che sono tornate.» «E dov'è quest'ufficio?» domandò Miller. «E' ad Arolsen-in-Waldeck. Appena fuori di Hannover, nella Bassa Sassonia. In pratica è diretto dalla Croce Rossa.» Miller rifletté per un istante. «Non ci sarebbe nessun altro, a Monaco, che è stato a Riga? L'uomo che sto cercando in realtà è l'ex-comandante del campo.» Nella stanza calò il silenzio. Miller ebbe la sensazione che l'uomo accanto alla rastrelliera dei giornali si fosse voltato a guardarlo. La donna sembrò conquistata. «Forse è possibile che esistano alcuni sopravvissuti di Riga, che ora vivono a Monaco. Prima della guerra, a Monaco c'erano venticinquemila ebrei. E solo un decimo ha fatto ritorno. Adesso siamo di nuovo sui cinquemila e la metà sono bambini nati dopo il 1945. Ci può essere qualcuno che è tornato da Riga. Ma dovrei controllare tutto l'elenco dei superstiti. Accanto ai loro nomi, sono segnati i campi dove sono stati internati. Non potrebbe tornare domani?» Miller rimase in silenzio per un attimo, domandandosi se non fosse il caso di rinunciare e andarsene. La caccia stava diventando senza senso. «Sì» rispose alla fine. «Tornerò domani. Grazie.» Tornò in strada e stava cercando le chiavi dell'automobile quando udì dei passi alle sue spalle. «Mi scusi» disse una voce. Miller si voltò. L'uomo davanti a lui era quello che stava leggendo i giornali. «Lei chiedeva informazioni su Riga?» domandò l'uomo. «Sul comandante di Riga? Sarebbe il capitano Roschmann?» «Sì, proprio lui» disse Miller. «Perché?» «Io ero a Riga» disse l'uomo. «Conoscevo Roschmann. Forse posso aiutarla.» L'uomo era basso e magro, sui quarantacinque anni; aveva occhi scuri e intensi, e l'aspetto arruffato di un passero bagnato. «Il mio nome è Mordechai» disse. «Ma mi chiamano Motti. Andiamo a prendere un caffè, così parliamo?» Si trasferirono in un bar lì vicino. Miller, un po' rilassato dai modi allegri del suo compagno, gli raccontò della sua caccia a partire dalle stradine di Altona fino al Centro della comunità di Monaco. L'uomo ascoltò in silenzio, annuendo di tanto in tanto. «Mmm. Un vero e proprio pellegrinaggio. Ma come mai lei, un tedesco, vuole rintracciare Roschmann?» «Ha importanza? Me l'hanno chiesto tante di quelle volte che mi sono

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stufato. Che c'è di strano se un tedesco si sente indignato per quello che è accaduto?» Motti scrollò le spalle. «Niente» disse. «Ma è insolito che un uomo si dia tanto da fare, questo è tutto. Per quel che riguarda la scomparsa di Roschmann nel 1955, lei crede davvero che il passaporto gli sia stato fornito dall'Odessa?» «E' quello che mi hanno detto» rispose Miller. «E mi sembra che l'unico modo per trovare l'uomo che l'ha falsificato, sarebbe quello di infiltrarsi nell'Odessa.» Motti osservò il giovane tedesco che gli stava di fronte. «In quale albergo è alloggiato?» gli domandò infine. Miller gli disse che non aveva ancora prenotato in nessun albergo. Ma ne conosceva uno, dove si era già fermato. Su consiglio di Motti, andò al telefono del bar e chiamò l'albergo per prenotare una stanza. Quando tornò al tavolo, Motti se ne era andato. Sotto la tazzina, c'era un biglietto che diceva: «Che ci sia o no una stanza libera, si faccia trovare questa sera alle 20 nella sala dell'albergo». Miller pagò il caffè e uscì.

Quello stesso pomeriggio, nel suo studio di avvocato, il Werwolf rilesse ancora il rapporto scritto to che gli era arrivato dal suo collega di Bonn, l'uomo che, una settimana prima, si era presentato a Miller come il dottor Schmidt. Era da cinque giorni che il Werwolf aveva il rapporto, ma la sua innata prudenza gli aveva consigliato di aspettare e di riflettere prima di passare all'azione diretta. Le ultime parole pronunciate dal suo superiore, il generale Glüks, a Madrid, gli toglievano praticamente ogni libertà d'azione, ma come la maggior parte degli uomini da tavolino si sentiva a proprio agio nel ritardare l'inevitabile. "Una soluzione definitiva" era stato l'ordine, e lui sapeva bene che cosa significava. E nemmeno la fraseologia del "dottor Schmidt" gli lasciava ulteriore spazio di manovra. «Un giovanotto cocciuto, tracotante e testardo, probabilmente caparbio, con una vena di genuino odio personale per il "Kamerad" in questione, Eduard Roschmann, della quale non sembrano esistere spiegazioni. Non vuole intendere ragione, anche di fronte a minacce personali...» Il Werwolf lesse di nuovo il rapporto del dottore e sospirò. Sollevò il ricevitore del telefono e chiese alla sua segretaria Hilda di passargli la linea. Poi compose un numero di Düsseldorf. Dopo parecchi squilli qualcuno rispose, semplicemente: «Sì?» «Vorrei parlare con Herr Mackensen» disse il Werwolf. La voce all'altro capo del filo si limitò a domandare: «Chi lo desidera?». Invece di rispondere direttamente alla domanda, il Werwolf pronunciò la prima parte di una parola d'ordine. «Chi fu più grande di Federico il Grande?» La voce all'altro capo del filo rispose: «Barbarossa.» Fece una pausa, e poi:

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«Sono Mackensen» disse la voce. «Qui è Werwolf» rispose il capo dell'Odessa. «Le vacanze sono finite, temo. C'è da lavorare. Venga qui domani mattina.» «A che ora?» rispose Mackensen. «Sia qui alle 10» disse il Werwolf. «Dica alla mia segretaria che si chiama Keller. Le fisserò un appuntamento per quell'ora.» Riagganciò il ricevitore. A Düsseldorf, Mackensen entrò nel bagno per fare una doccia e radersi. Era un uomo grosso e forte, ex-sergente della divisione Das Reich delle S.S., che aveva imparato a uccidere impiccando ostaggi francesi a Tulle e a Limoges, nel 1944. Dopo la guerra aveva guidato un camion per conto dell'Odessa, trasportando carichi umani attraverso la Germania e l'Austria fino in Alto Adige. Nel 1946, fermato da una pattuglia americana troppo sospettosa, aveva massacrato tutti e quattro gli occupanti della jeep, due dei quali a mani nude. D'allora, anch'egli era divenuto un fuggitivo. Assunto in seguito come guardia del corpo dei capi del l'Odessa, l'avevano soprannominato "Mack il Coltello": un soprannome strano, perché Mackensen non usava mai il coltello preferendogli la forza delle sue mani da macellaio per strangolare o rompere il collo alle persone "affidate" a lui. Elevandosi nella stima dei suoi superiori, verso la metà degli Anni Cinquanta era stato promosso carnefice dell'organizzazione, l'uomo su cui fare affidamento per sistemare, con tranquillità e discrezione, quelli che si erano troppo avvicinati ai capi dell'Odessa, o che, all'interno, avevano da ridire sui loro camerati. Nel gennaio 1964, aveva già assolto a dodici missioni di questo genere.

La telefonata arrivò alle 20. Fu presa dal portiere, il quale si affacciò alla porta della sala dell'albergo dove Miller stava guardando la televisione. Riconobbe la voce all'altro capo del filo. «Herr Miller? Sono io, Motti. Penso di poterla aiutare. O meglio, alcuni miei amici possono aiutarla. Vorrebbe incontrarsi con loro?» «Incontrerò chiunque possa aiutarmi» rispose Miller, sconcertato da tutte quelle manovre. «Bene» disse Motti. «Esca dall'albergo e volti a sinistra, in Schillerstrasse. Due isolati più avanti, sullo stesso lato, c'è un bar-pasticceria, il Lindemann. Ci incontreremo lì.» «Quando, adesso?» domandò Miller. «Sì. Adesso. Verrei io all'albergo, ma sono con i miei amici. Faccia presto.» Riagganciò. Miller prese il cappotto e uscì in strada. Svoltò a sinistra e s'incamminò lungo il marciapiede. A nemmeno un isolato dall'albergo, qualcosa di duro gli fu puntato da dietro fra le costole, e un'automobile si accostò al marciapiede. «Salga sul sedile posteriore, Herr Miller» gli disse una voce. La portiera dalla sua parte venne spalancata e, con un'ultima spinta fra le costole dall'uomo che gli stava alle spalle, Miller abbassò la testa ed entrò nell'automobile. Davanti c'era soltanto l'autista, ma sul sedile posteriore un uomo si spostò per farlo sedere. Sentì che

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anche l'uomo alle sue spalle saliva sull'auto, la portiera sbatté e la macchina s'allontanò dal marciapiede. A Miller il cuore batteva all'impazzata. Lanciò uno sguardo ai tre uomini nell'auto, ma non ne riconobbe nessuno. L'uomo alla sua destra, che gli aveva aperto la portiera, parlò per primo. «Le benderò gli occhi» gli disse semplicemente. «Non vorremmo che lei vedesse dove andiamo.» Miller sentì che gli infilavano una specie di calza nera sulla testa fino a coprirgli il naso. Ricordò i freddi occhi azzurri dell'uomo del Dreesen Hotel e ripensò a quello che l'uomo di Vienna gli aveva detto: "Sia prudente, gli uomini dell'Odessa possono essere pericolosi". Poi si ricordò di Motti e si chiese come fosse possibile che uno di loro potesse leggere un giornale ebraico nel Centro della comunità ebraica. L'automobile viaggiò per circa mezz'ora, poi rallentò e si fermò. Miller udì il cigolio di un cancello che si apriva, la macchina avanzò ancora e si arrestò definitivamente. Lo fecero scendere dal sedile posteriore, e due uomini lo presero in mezzo per aiutarlo ad attraversare un cortile. Per un attimo sentì l'aria fredda della notte sulla faccia, poi fu di nuovo al chiuso. Una porta sbatté alle sue spalle, e gli fecero scendere alcuni gradini che portavano in quello che sembrava uno scantinato. Ma l'aria era calda, e la poltrona sulla quale lo fecero sedere era ben imbottita. Una voce disse: «Togligli il cappuccio» e la calza gli fu sfilata dalla testa. Miller sbatté le palpebre, mentre i suoi occhi si abituavano alla luce. La stanza nella quale si trovava era evidentemente sotterranea, dato che non c'erano finestre. In alto, su una parete, però, ronzava un condizionatore d'aria. La stanza era comoda e ben arredata, evidentemente una specie di luogo di riunione, perché c'era un tavolo con otto sedie intorno, vicino alla parete di fronte a lui. Il resto della stanza era uno spazio libero, delimitato da cinque comode poltrone. Al centro, un tappeto rotondo e un tavolino. Motti era in piedi accanto al tavolo, e sorrideva tranquillo, con aria quasi di scusa. I due che avevano portato Miller in quel posto erano di corporatura robusta, sulla quarantina, e stavano appollaiati sui braccioli delle poltrone, ai suoi lati. E di fronte a lui, dall'altra parte del tavolino, c'era il quarto uomo. L'autista doveva essere rimasto di sopra a chiudere, pensò Miller. Era evidente che il quarto uomo era il capo. Era sprofondato nella sua poltrona mentre i tre luogotenenti gli stavano intorno. Sulla sessantina, scarno e asciutto, aveva le guance scavate e il naso a becco. Gli occhi inquietarono Miller. Erano castani e molto incassati dentro le orbite, ma brillanti e acuti, occhi da fanatico. Fu lui a prendere la parola. «Benvenuto, Herr Miller. Devo scusarmi per lo strano modo con il quale è stato portato a casa mia. Il motivo è che, se lei rifiuta la mia proposta, potrà essere riaccompagnato al suo albergo e non rivedrà mai più nessuno di noi. «Il mio amico, qui,» indicò Motti con un cenno «mi riferisce che per motivi suoi personali lei sta dando la caccia a un certo Eduard Roschmann. E che, per avvicinarsi a lui, sarebbe disposto a tentare di

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infiltrarsi nell'Odessa. Per farlo avrebbe bisogno di aiuto. Di molto aiuto. Comunque, potrebbe tornarci utile avere lei all'interno dell'Odessa. Di conseguenza, noi potremmo essere disposti ad aiutarla. Mi segue?» Miller lo guardò sbalordito. «Mi chiarisca una cosa» disse infine. «Vuol dire che non fate parte dell'Odessa?» L'uomo inarcò le sopracciglia. «Bontà divina, lei ha afferrato la parte sbagliata del manico.» Si chinò in avanti e si rimboccò la manica sul polso sinistro. Sull'avambraccio era tatuato un numero in inchiostro azzurro. «Auschwitz» disse l'uomo. Indicò i due uomini a fianco di Miller. «Buchenwald e Dachau.» Indicò Motti. «Riga e Treblinka.» Riabbassò la manica. «Herr Miller, alcuni pensano che i massacratori del nostro popolo dovrebbero essere processati. Noi non siamo d'accordo. Subito dopo la fine della guerra, stavo parlando con un ufficiale inglese, e lui mi ha detto una cosa che da allora in avanti ha guidato la mia vita. Mi ha detto: "Se avessero sterminato sei milioni della mia gente, anch'io costruirei un monumento di teschi. Non i teschi di quelli che sono morti nei campi di concentramento, ma di quelli che li hanno messi là dentro". Logica semplice, Herr Miller, ma convincente. Io e il mio gruppo siamo uomini che hanno deciso di rimanere in Germania dopo il 1945 con un solo e unico obiettivo. La vendetta, la pura e semplice vendetta. Noi non li arrestiamo, Herr Miller, noi li ammazziamo come porci quali essi sono. Il mio nome è Leon.»

Leon interrogò Miller per quattro ore prima di convincersi della sincerità del giornalista. Come altri prima di lui fu sconcertato dalle motivazioni, ma dovette ammettere che era possibile che a muovere Miller fosse, come egli sosteneva, l'indignazione per i massacri compiuti dalle S.S. durante la guerra. Quando ebbe finito, Leon si appoggiò allo schienale della poltrona e osservò il giovane. «Si rende conto di quanto sia rischioso cercare di infiltrarsi nell'Odessa, Herr Miller?» chiese. «Posso immaginarlo» disse. Miller. «Per prima cosa sono troppo giovane.» Leon scosse la testa. «Non c'è nemmeno da pensarci di tentar di convincere ex-membri delle S.S. che è uno di loro, usando la sua vera identità. Per cominciare, essi hanno elenchi di ex-S.S., e il nome di Peter Miller non vi compare. Inoltre lei dovrà invecchiare di almeno dieci anni. E' una cosa possibile, ma significa assumere un'identità completamente nuova, e per di più vera. L'identità di un uomo che è davvero esistito ed era nelle S.S. Soltanto questo significa un sacco di ricerche da parte nostra, e il sacrificio di parecchio tempo e fatica.» «Pensa di poter trovare una persona del genere?» domandò Miller. Leon si strinse nelle spalle. «Dovrebbe essere un uomo la cui morte non può essere verificata» disse. «Prima che l'Odessa si decida ad accettare un uomo, indaga sul suo conto. Lei dovrà superare tutti gli esami. Questo significa anche

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che lei deve vivere per cinque o sei settimane con un vero ex-membro delle S.S. che possa insegnarle il folklore, i termini tecnici, la fraseologia, il comportamento adatto. Per fortuna, noi conosciamo un uomo che fa al caso nostro.» Miller era sconcertato. «Perché farebbe una cosa del genere?» «L'uomo che ho in mente è un tipo strano. E' un vero capitano delle S.S. che si è sinceramente pentito per quello che è stato commesso. Ne ha provato rimorso. Più tardi ha fatto parte dell'Odessa, e ha passato alle autorità informazioni sui nazisti ricercati. E avrebbe continuato a farlo se non fosse stato pescato con le mani nel sacco; gli è già andata bene che non ci ha rimesso la pelle. Ora vive sotto falso nome, in una casa vicino a Bayreuth.» «Che cos'altro dovrei imparare?» «Tutto sulla sua nuova identità. Dove è nato, la data di nascita, come è entrato nelle S.S., dove è stato addestrato, dove ha prestato servizio, la sua unità militare, l'ufficiale che la comandava, tutta la sua storia dalla fine della guerra a oggi. Dovrà anche avere una persona che garantisca per lei. Questo non sarà facile. Molto tempo e fatica dovranno essere spesi per lei, Herr Miller. Una volta che ci sarà dentro, non potrà più tirarsi indietro.» «Che interesse ha lei in tutto questo?» chiese Miller, sospettoso. Leon si alzò e si mise a camminare sul tappeto. «Vendetta» disse semplicemente. «Come lei, noi vogliamo Roschmann. Ma anche qualcosa in più. I peggiori criminali delle S.S. vivono sotto falso nome. Noi vogliamo quei nomi. E' questo il nostro interesse nella faccenda. E c'è un'altra cosa. Abbiamo bisogno di sapere chi è il nuovo ufficiale dell'Odessa che recluta gli scienziati tedeschi per mandarli in Egitto a sviluppare il progetto dei missili di Nasser. L'ultimo, Brandner, ha rassegnato le dimissioni ed è scomparso l'anno scorso, dopo che noi abbiamo sistemato il suo assistente Heinz Krug. Ora ne hanno uno nuovo.» «Queste hanno già più l'aria di informazioni a uso e consumo dello spionaggio israeliano» disse Miller. Leon lo fissò con un'occhiata penetrante. «Lo sono» disse secco. «Di tanto in tanto cooperiamo con loro, anche se loro non sono i nostri padroni.» «Ha mai tentato di infiltrare i suoi uomini dentro l'Odessa?» domandò Miller. Leon annuì. «Due volte» disse. «Che cosa è successo?» «Il primo è stato trovato in un canale, senza le unghie delle mani. Il secondo è scomparso senza lasciare traccia. E' ancora disposto ad andare avanti?» Miller ignorò la domanda. «Se i suoi metodi sono così efficienti, come mai sono stati catturati?» «Erano tutti e due ebrei» disse Leon concisamente. «Abbiamo cercato di cancellare i tatuaggi incisi nel campo di concentramento, ma sono rimaste le cicatrici. E inoltre, erano tutt'e due circoncisi. Per

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questo motivo, quando Motti mi ha parlato d'un autentico ariano tedesco che nutriva rancore per le S.S., la cosa mi ha interessato. A proposito, lei è circonciso?» «Ha importanza?» domandò Miller. «Certo. Se un uomo è circonciso, questo non prova che è ebreo. Anche molti tedeschi sono circoncisi. Ma se non lo è, è quasi una prova che non è ebreo.» «Io non lo sono» disse Miller. Leon tirò un lungo sospiro. «Questa volta penso che potremo farcela» disse. La mezzanotte era passata da un pezzo. Leon guardò l'orologio. «Ha mangiato?» domandò a Miller. Il giornalista scosse la testa. «Motti, credo che ci voglia qualcosa da mangiare per il nostro ospite.» Motti sorrise e annuì. Scomparve oltre la porta dello scantinato e salì in casa. «Dovrà trascorrere qui la notte» disse Leon a Miller. «Le porteremo giù un materasso. Non cerchi di andarsene, per favore. La porta ha tre serrature, che saranno tutte chiuse. Mi dia le chiavi della sua automobile e gliela farò portare qui. Sarà bene che lei non si faccia vedere in giro, per le prossime settimane. Ci penseremo noi al conto del suo albergo, e faremo portare qui anche il bagaglio. Domani mattina scriverà una lettera a sua madre e alla sua ragazza, spiegando che sarà assente per parecchie settimane, forse per mesi. Intesi?» Miller annui e gli porse le chiavi dell'automobile. Leon le diede a uno dei due uomini, che se ne andarono in silenzio. «Domani mattina la accompagneremo a Bayreuth, dove lei incontrerà il nostro ufficiale delle S.S. Si chiama Alfred Oster. E' l'uomo con cui andrà a vivere. Ci penserò io. E adesso, mi scusi. Devo cominciare a cercarle una nuova identità.» Si alzò e uscì. Motti tornò ben presto con un piatto di vivande e una mezza dozzina di coperte. Mentre mangiava il pollo freddo con insalata di patate, Miller si domandò in che situazione si fosse mai cacciato.

Molto lontano a nord, nell'ospedale generale di Brema, un infermiere stava ispezionando la sua corsia nelle ore piccole della notte. In fondo alla camerata, c'era un alto paravento. L'infermiere, un uomo di mezza età che si chiamava Hartstein, sporse la testa dietro il paravento. L'uomo nel letto giaceva immobile. Sopra la sua testa, una debole luce rimasta accesa tutta la notte. L'infermiere si avvicinò al letto e tastò il polso dell'uomo ricoverato. Nessun segno di vita. Abbassò lo sguardo sulla faccia devastata dell'uomo, vittima del cancro, e alcune frasi che questi aveva detto tre giorni prima nel delirio lo indussero a sollevargli il braccio sinistro. Sotto l'ascella era tatuato un numero. Era il gruppo sanguigno del defunto, prova inconfutabile che il paziente era stato un tempo un'S.S. La ragione del tatuaggio stava nel fatto che le S.S., nel Reich, erano tenute in maggiore considerazione dei soldati semplici, per cui, se ferite, avevano sempre la precedenza sul plasma disponibile. Per questo, gli si tatuava il gruppo sanguigno.

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L'infermiere coprì il volto del defunto e guardò nel cassetto del comodino a fianco del letto. Prese la patente che era stata messa lì insieme agli altri effetti personali, quando l'uomo era stato ricoverato dopo essere svenuto per la strada. La foto era quella di un uomo di trentotto anni, nato il 18 giugno 1925. Si chiamava Rolf Günther Kolb. L'inserviente infilò la patente nella tasca del camice bianco ed andò a denunciare il decesso al medico di turno.

Capitolo 11.

Peter Miller scrisse le lettere a sua madre e a Sigi sotto lo sguardo attento di Motti. Dall'albergo era arrivato il suo bagaglio, il conto era stato saldato, e poco prima di mezzogiorno i due, accompagnati dallo stesso autista della sera precedente, si misero in viaggio per Bayreuth. Con istinto di giornalista lanciò un'occhiata al numero di targa della Opel azzurra che aveva sostituito la Mercedes della sera prima. Motti, al suo fianco, se ne accorse e sorrise. «Non si preoccupi» disse. «E' un'automobile noleggiata sotto falso nome.» «Be', certo che è consolante sapere che si lavora con professionisti» disse Miller. Motti si strinse nelle spalle. «Dobbiamo esserlo. E' l'unico modo di restare in vita quando si ha a che fare con l'Odessa.» Il garage aveva due posti, e Miller notò la sua Jaguar nel secondo. La neve della sera precedente si era sciolta in pozzanghere sotto le ruote, e la lucida carrozzeria nera scintillava alla luce elettrica. Una volta salito nella parte posteriore della Opel, la calza nera gli fu nuovamente infilata sulla testa, ed egli fu spinto sul fondo dell'auto mentre questa usciva dal garage, e poi, attraverso il cancello del cortile, in strada. Motti gli tenne gli occhi bendati fino a quando non furono lontani da Monaco, diretti a nord sull'autostrada E 6 verso Norimberga e Bayreuth. Quando finalmente gli tolsero la calza, Miller poté vedere che quella notte c'era stata un'altra abbondante nevicata. La campagna ondulata e boscosa che segna il passaggio dalla Baviera alla Franconia era rivestita di una pesante coltre di bianco immacolato, e gli alberi spogli delle foreste lungo la strada avevano un aspetto tozzo e tondeggiante. L'autista procedeva con prudenza, mentre i tergicristallo erano costantemente in funzione per ripulire il parabrezza dai fiocchi di neve e dalla fanghiglia schizzata dagli autocarri che venivano sorpassati. Pranzarono in una trattoria sulla strada, a Ingolstadt, e un'ora dopo essersi lasciati alle spalle Norimberga, arrivarono a Bayreuth. La cittadina di Bayreuth, situata nel cuore di una delle zone più belle della Germania, soprannominata Svizzera bavarese, è famosa per un unico motivo: il suo festival annuale di musica wagneriana. Anni prima la città era stata orgogliosa di ospitare quasi tutta la

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gerarchia nazista quando questa vi calava sull'esempio di Adolf Hitler, un ardente ammiratore del musicista che aveva immortalato gli eroi della mitologia nordica. In gennaio, però, è una cittadina tranquilla, ammantata di neve, con le case linde e ben tenute, dai cui battenti solo da pochi giorni erano state tolte le corone di agrifoglio. Trovarono il villino di Alfred Oster in una strada laterale, a un chilometro e mezzo dalla città; mentre il piccolo gruppo si avviava alla porta d'ingresso, la strada era deserta. L'ex-ufficiale delle S.S. li stava aspettando, un omone cordiale con gli occhi azzurri e una lanugine di capelli color zenzero. Nonostante la stagione, aveva la sana abbronzatura rossiccia degli uomini che vivono in montagna al vento, al sole, e all'aria aperta. Motti fece le presentazioni e consegnò a Oster una lettera di Leon. Il bavarese la lesse e annuì, lanciando a Miller una rapida occhiata. «Be', si può sempre provare» disse. «Per quanto tempo posso tenerlo?» «Ancora non lo sappiamo» disse Motti. «Naturalmente, finché non sarà pronto. E poi, dovremo trovargli una nuova identità. Glielo faremo sapere.» Pochi minuti dopo, Motti si congedava. Oster condusse Miller nel soggiorno e tirò le tende, prima di accendere la luce. «Dunque, lei vorrebbe farsi passare per un'ex-S.S., vero?» domandò. Miller annuì. «Proprio così» disse. «Bene, cominceremo con lo stabilire alcuni fatti fondamentali. Non so dove lei abbia fatto il servizio militare, ma immagino che sia stato in quel casino di indisciplina, di democrazia, di asilo infantile che si chiama nuovo esercito tedesco. Questo è il primo fatto. Il nuovo esercito tedesco, durante l'ultima guerra, avrebbe resistito esattamente dieci secondi contro qualsiasi esercito ben addestrato dagli inglesi, dagli americani o dai russi. Mentre le Waffen-S.S., prese singolarmente, potevano mettere fuori combattimento un numero di alleati pari a cinque volte il loro. «Il secondo fatto è questo. Le Waffen-S.S. erano i soldati più duri, più addestrati, più disciplinati, più in gamba e più capaci che abbiano mai combattuto nella storia di questo pianeta. Qualunque cosa abbiano fatto non cambia questa verità. Perciò SI METTA SULL'ATTENTI, MILLER. Finché lei resterà in questa casa, la regola è questa. «Quando entro in una stanza, lei deve scattare in piedi. E quando dico SCATTARE, voglio dire SCATTARE. Quando mi allontano, lei deve far battere i tacchi e restare impalato sull'attenti finché io sono a cinque passi di distanza. Quando le dico qualcosa che attende una risposta, lei risponderà: «"Jawohl, Herr Hauptsturmführer." «E quando le do un ordine o una disposizione, lei risponderà: «"Zu Befehl, Herr Hauptsturmführer." «E' chiaro?» Miller annuì, stupito. «Battere i tacchi!» ruggì Oster. «Voglio sentir schioccare il cuoio. Dunque, visto che non abbiamo molto tempo a disposizione, cominceremo

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da questa sera. Prima di cena affronteremo i gradi, dal soldato semplice al generale. Dovrà imparare i titoli, il modo di appellarsi e i segni distintivi sul colletto per ogni grado mai esistito delle S.S. Poi tratteremo i diversi tipi di uniforme in adozione, le diverse branche delle S.S. e le varie insegne, le occasioni in cui si indossa l'uniforme di gala, quella di libera uscita, quella da combattimento e la divisa da fatica. «Dopo, la metterò alla prova con l'intero corso politico-ideologico che lei avrebbe dovuto seguire al campo d'addestramento di Dachau. Poi imparerà a cantare le marce, le canzoni di taverna e gli inni delle diverse unità. «Posso portarla al grado di preparazione che avrebbe, appena uscito dal campo d'addestramento, per il suo primo incarico. «A quel punto Leon dovrà dirmi a quale unità lei sarebbe dovuto appartenere, dove ha lavorato, chi era il suo comandante, che cosa gli è successo alla fine della guerra, come ha passato il suo tempo dopo il 1945. Comunque, la prima parte dell'addestramento richiederà dalle due alle tre settimane, ed è un corso super-accelerato. «Comunque, non creda che sia un gioco. Un volta che sarà entrato nell'Odessa e saprà chi sono i capi, al minimo sbaglio finirà dentro un canale. Mi creda, non sono nato ieri, ma dopo aver tradito l'Odessa, ho avuto anch'io paura di loro. Per questo vivo qui sotto falso nome.» Per la prima volta da quando aveva iniziato la caccia a Eduard Roschmann, Miller si domandò se non si fosse già spinto troppo avanti.

Mackensen si presentò a rapporto dal Werwolf, alle 10 in punto. Quando la porta della stanza dove lavorava Hilda fu chiusa, il Werwolf fece sedere il carnefice nella poltrona di fronte alla sua scrivania e si accese un sigaro. «C'è un tale, un giornalista, che sta facendo indagini per sapere dove vive, e sotto quale identità, un nostro camerata» esordì. Il boia annuì con comprensione. Già altre volte, in passato, le istruzioni per lui erano cominciate con quelle parole. «In genere,» riprese il Werwolf «lasceremmo perdere la cosa, sicuri che il giornalista rinuncerebbe perché le sue indagini non fanno progressi, o perché l'uomo da lui ricercato non vale uno sforzo tanto costoso e pieno di rischi.» «Ma questa volta è diverso?» domandò Mackensen, a bassa voce. Il Werwolf annuì, con espressione che sarebbe potuta essere di vero rammarico. «Sì. Per colmo di sfortuna, sì: per noi, perché ci causa parecchi fastidi; e per lui, perché gli costerà la vita. Senza saperlo, quel giornalista ha punto sul vivo. L'uomo che sta cercando è di importanza vitale, assolutamente vitale per noi, e per i nostri progetti. Il giornalista in questione sembra un tipo particolare - intelligente, tenace, pieno di risorse, e, purtroppo, del tutto deciso a compiere la sua vendetta personale nei confronti del "Kamerad".» «Ha qualche motivo?» chiese Mackensen. Il Werwolf espresse la sua perplessità aggrottando le sopracciglia. Prima di rispondere, scosse la cenere dal sigaro.

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«Non riusciamo a capire quali possano essere, ma evidentemente questi motivi di vendetta ci sono» mormorò. «L'uomo che sta cercando ha senz'altro un passato che può suscitare antipatia fra gente come gli ebrei o i loro amici. Comandava un ghetto nell'Ostland. Alcuni, specie gli stranieri, rifiutano le nostre giustificazioni per quello che è accaduto laggiù. La cosa strana è che questo cronista non è straniero né ebreo, non è notoriamente di sinistra e neppure uno di quei soliti moralisti che, comunque, arrivano al massimo a fare grandi chiacchiere. «Quest'uomo, invece, sembra diverso. E' un giovane tedesco, ariano, figlio d'un eroe di guerra, non c'è niente nel suo passato che spieghi tutto quest'odio nei nostri confronti, né questa ossessione di rintracciare un "Kamerad", nonostante un avvertimento chiaro e deciso di tenersi alla larga. Ho un certo rincrescimento a ordinare la sua morte. D'altra parte, non mi lascia alternativa. Devo farlo.» «Ucciderlo?» chiese Mack il Coltello. «Ucciderlo» gli confermò il Werwolf. «Dov'è?» «Non si sa.» Il Werwolf spinse sulla scrivania due fogli dattiloscritto ti di carta protocollo. «L'uomo è questo. Peter Miller, giornalista e investigatore. E' stato visto per l'ultima volta al Dreesen Hotel di Bad Godesberg. Ormai se ne sarà certamente andato, ma come punto di partenza per noi è sufficiente. L'altro posto è il suo appartamento dove vive con la sua ragazza. Lei dovrà presentarsi come inviato di una di quelle riviste importanti per cui l'uomo di solito lavora. Così, probabilmente, la ragazza parlerà, se sa dove si trova. Ha un'automobile vistosa. Troverà qui tutti i dettagli.» «Avrò bisogno di denaro» disse Mackensen. Il Werwolf aveva previsto la richiesta. Spinse sulla scrivania un rotolo di diecimila marchi. «E gli ordini?» chiese il boia. Trovarlo e liquidarlo» disse il Werwolf.

Fu il 13 gennaio quando la notizia della morte di Rolf Günther Kolb, avvenuta cinque giorni prima a Brema, raggiunse Leon a Monaco. La lettera inviatagli dal suo corrispondente nella Germania settentrionale conteneva la patente del defunto. Leon controllò il grado e il numero dell'uomo sulla lista delle ex- S.S., controllò la lista dei ricercati dalla Germania occidentale e vide che Kolb non c'era. Studiò per qualche minuto la faccia sulla patente e prese la sua decisione. Chiamò Motti, che era di servizio alla centrale telefonica dove lavorava, e che, quando ebbe finito il suo turno, si presentò da lui. Leon gli mise davanti la patente di Kolb. «Ecco l'uomo che ci serve» disse. «Era sergente maggiore all'età di diciannove anni: è stato promosso proprio prima della fine della guerra. Dovevano essere a corto di materiale umano. La faccia di Kolb e quella di Miller non si assomigliano, anche se Miller provasse a truccarsi, che comunque è un sistema che non mi piace. «Altezza e corporatura, però, coincidono con quelle di Miller. Quindi ci serve una nuova fotografia. Ma per questa c'è tempo. Per

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autenticare la foto ci serve un duplicato del timbro dell'Ispettorato di Brema. Pensaci tu.» Quando Motti se ne fu andato, Leon compose un numero telefonico di Brema e diede ulteriori disposizioni.

«Va bene» disse Alfred Oster al suo allievo. «Ora cominceremo con le marce. La conosce la marcia dello Horst Wessel?» «Naturalmente» disse Miller. «Era la marcia nazista.» Oster canticchiò le prime battute. «Oh sì, certo che l'ho già sentita. Ma non ricordo le parole.» «D'accordo» disse Oster. «Dovrò insegnarle una dozzina di canzoni. Nel caso che gliele chiedano. Ma questa è la più importante. C'è anche il caso che debba cantare in un coro, quando sarà con i "Kameraden". Non conoscerla equivarrebbe a una sentenza di morte. Ora mi venga dietro...

«"Le bandiere sono alte, "I ranghi sono serrati..."»

Era il 18 gennaio.

Mackensen sorseggiava un cocktail nello Schweizerhof Hotel di Monaco, riflettendo sulla causa della sua perplessità: Miller, il giornalista i cui dati personali e la cui faccia erano stampati nella sua mente. Persona scrupolosa, Mackensen si era anche messo in contatto coi principali concessionari della Jaguar per la Germania occidentale, e aveva ottenuto da loro una serie di fotografie pubblicitarie della Jaguar X.K. 150 modello sportivo, per cui adesso sapeva il tipo d'automobile che stava cercando. Il suo problema era che non riusciva a trovarla. La pista di Bad Godesberg lo aveva subito portato all'aeroporto di Colonia e all'informazione che Miller si era recato in volo a Londra ed era tornato entro le prime trentasei ore dell'anno nuovo. Poi, lui e la sua automobile erano scomparsi. Le indagini a casa di Miller avevano fruttato una conversazione con la sua ragazza, bella e vivace, ma tutto quello che questa aveva potuto fare era stato di mostrargli una lettera imbucata a Monaco, nella quale Miller l'avvertiva che sarebbe rimasto nella città per un po' di tempo. Per una settimana, Monaco si era rivelata una pista morta. Mackensen aveva controllato in ogni albergo, in tutti i parcheggi pubblici e privati, nei garage e nelle stazioni di rifornimento. Niente. L'uomo che cercava era scomparso dalla faccia della terra. Finito di bere, Mackensen scivolò giù dallo sgabello del bar e si diresse al telefono per fare rapporto al Werwolf. Anche se lo ignorava, era a duecento metri dalla Jaguar nera con la striscia gialla, parcheggiata nel cortile del negozio d'antiquariato dell'abitazione di Leon, da dove egli dirigeva la sua piccola e fanatica organizzazione.

All'ospedale generale di Brema, un uomo in camice bianco entrò nell'Archivio. Aveva uno stetoscopio appeso al collo, un segno

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distintivo del medico interno appena arrivato. «Ho bisogno di dare un'occhiata alla cartella sanitaria di un paziente, Rolf Günther Kolb» disse all'impiegata. La donna non lo riconobbe, ma questo non significava niente. Ce n'erano a dozzine, di interni che lavoravano in ospedale. Scorse i nomi nello schedario, trovò la cartella di Kolb, e la porse al medico. Poi, squillò il telefono, la donna andò a rispondere. L'interno si sedette su una poltrona e fece passare rapidamente i fogli nella cartella. Risultava che Kolb era crollato per strada ed era stato portato via con l'ambulanza. Un esame aveva diagnosticato un tumore intestinale in forma virulenta e allo stadio finale. Era stato deciso di non operare. Al paziente erano stati somministrati vari farmaci, ma senza speranza, e successivamente antidolorifici. L'ultimo foglio attestava: "Paziente deceduto la notte fra 1'8 e il 9 gennaio. Causa del decesso: carcinoma dell'intestino crasso. Nessun parente prossimo. 'Corpus delicti' consegnato all'obitorio municipale il 10 gennaio." Era firmato dal dottore incaricato del caso. Il nuovo interno estrasse quest'ultimo foglio e al suo posto ne inserì un altro che aveva con sé. Il nuovo foglio diceva: "Nonostante le gravi condizioni del paziente, il carcinoma ha risposto al trattamento di farmaci ed è regredito. Il paziente è stato giudicato in condizioni di essere trasferito il 16 gennaio. Dietro sua personale richiesta, è stato trasferito in ambulanza alla clinica Arcadia, a Delmenhorst, per un periodo di convalescenza." La firma era uno scarabocchio illeggibile. L'interno restituì la cartella all'impiegata, la ringraziò con un sorriso e se ne andò. Era il 22 gennaio.

Tre giorni dopo, Leon ricevette l'informazione che rappresentava l'ultima tessera del suo mosaico. L'impiegato di una agenzia di viaggi della Germania settentrionale mandò un messaggio per dire che il proprietario d'una certa panetteria di Bremerhaven aveva appena confermato due prenotazioni per una crociera invernale, a nome suo e della moglie. La coppia avrebbe visitato i Caraibi per quattro settimane, partendo da Bremerhaven domenica 16 febbraio. Leon sapeva che l'uomo era stato colonnello delle S.S. durante la guerra, e in seguito era entrato nell'Odessa. Ordinò a Motti di andare ad acquistare un libro di istruzioni sull'arte di panificare.

Il Werwolf era perplesso. Per quasi tre settimane aveva impegnato i suoi rappresentanti nelle principali città della Germania nella caccia a un uomo di nome Miller e alla sua Jaguar sportiva. L'attico e il garage ad Amburgo erano stati sorvegliati, a Osdorf era stata fatta una visita a una donna di mezz'età, la quale si era limitata a dire che non sapeva dove si trovasse suo figlio. Parecchie telefonate erano state fatte a una ragazza di nome Sigi, facendole credere che provenissero dal direttore di un'importante rivista che proponeva a Miller un servizio urgente e ben pagato, ma anche questa aveva risposto di ignorare dove si trovasse il suo ragazzo. Erano state svolte indagini presso la sua banca ad Amburgo, ma Miller

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non aveva incassato assegni da novembre. In breve, era scomparso. Era già il 28 gennaio, e contro i propri desideri il Werwolf si sentì in dovere di fare una telefonata. Con riluttanza. sollevò il ricevitore e compose il numero.

Molto lontano, in alta montagna, un uomo depose il ricevitore del suo telefono mezz'ora dopo, imprecando tra sé violentemente. Era un venerdì sera, e al momento della telefonata lui era appena arrivato nella sua residenza di montagna per farsi due giorni di riposo. Andò a guardare fuori dalla finestra del suo studio elegantemente arredato. La luce si diffondeva fuori dalla finestra sullo spesso tappeto di neve che copriva il prato, e il riverbero arrivava fino ai pini che coprivano la maggior parte della proprietà. Aveva sempre aspirato a questo genere di vita, in una bella casa all'interno di una proprietà privata sulle montagne, da quando, ancora bambino, aveva visto durante le vacanze di Natale le case dei ricchi sulle montagne attorno a Graz. Ora ne aveva una, e gli piaceva. Era senz'altro meglio della casa di un operaio di una fabbrica di birra, nella quale era stato allevato; meglio della casa di Riga dove aveva vissuto per quattro anni; meglio della camera ammobiliata a Buenos Aires, o di una stanza d'albergo al Cairo. Era quello che aveva sempre desiderato. La telefonata lo impensieriva. Aveva detto al suo interlocutore che nessuno si era appostato dalle parti di casa sua, nessuno aveva gironzolato attorno alla fabbrica, nessuno aveva fatto domande sul suo conto. Ma era preoccupato. Miller? Chi diavolo era Miller? Le assicurazioni fatte per telefono che qualcuno si sarebbe occupato del giornalista avevano solo in parte attenuato la sua ansia. La serietà con la quale il suo interlocutore e i suoi collaboratori prendevano in considerazione la minaccia costituita da Miller era testimoniata dalla decisione di inviargli il giorno dopo una guardia del corpo personale, che fungesse da suo autista e gli stesse accanto fino a ulteriori istruzioni. Tirò le tende dello studio, chiudendo fuori il paesaggio invernale. La porta spessamente imbottita isolava dai rumori del resto della casa. L'unico rumore nella stanza era il crepitio dei ceppi di pino nel focolare, il cui allegro bagliore era incorniciato dal grande camino in ferro battuto dagli elaborati pampini e viticci, uno degli infissi che egli aveva conservato quando aveva acquistato e riammodernato la casa. La porta si aprì, e sua moglie mise dentro la testa. «La cena è pronta» annunciò. «Vengo, cara» disse Eduard Roschmann.

Il mattino successivo, sabato, Oster e Miller furono disturbati dall'arrivo di un gruppetto di persone provenienti da Monaco. Nell'automobile viaggiavano Leon e Motti, l'autista e un uomo con una borsa nera. Nel soggiorno, Leon disse all'uomo con la borsa: «Sarà meglio che lei vada in bagno a preparare il suo armamentario». L'uomo annuì e salì al piano superiore. L'autista era rimasto in

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macchina. Leon sedette al tavolo e invitò Oster e Miller ad accomodarsi. Motti rimase sulla porta, con in mano una macchina fotografica completa di flash. Leon porse a Miller una patente di guida. Dove prima c'era la fotografia, adesso lo spazio era vuoto. «Questa è la persona che lei deve diventare» disse Leon. «Rolf Günther Kolb, nato il 18 giugno 1925. Il che significa che alla fine della guerra lei aveva diciannove anni, quasi venti. E che ora ne ha trentotto. E' nato e cresciuto a Brema, è entrato nella Gioventù hitleriana all'età di dieci anni, e nelle S.S. nel gennaio 1944, a diciotto. I suoi genitori sono morti tutti e due, durante un'incursione aerea sul porto di Brema nel 1944.» Miller abbassò lo sguardo sulla patente che aveva in mano. «E la sua carriera nelle S.S.?» domandò Oster. «Attualmente ci troviamo in una specie di vicolo cieco.» «A che punto siete arrivati?» domandò Leon. Era come se Miller non esistesse. «Abbastanza avanti» disse Oster. «Ieri l'ho interrogato per due ore e se l'è cavata. Finché qualcuno non comincia a chiedergli dei particolari specifici sulla sua carriera. Allora non sa niente.» Leon annuì per un po', esaminando alcune carte che aveva estratto dalla sua valigetta. «Non conosciamo la carriera di Kolb nelle S.S.» disse. «Non può essere stata gran che, visto che non si trova su nessun elenco di ricercati e nessuno ha mai sentito parlare di lui. In un certo senso, va bene anche così perché c'è la possibilità che nemmeno l'Odessa ne abbia mai sentito parlare. Ma lo svantaggio è che non ha nessuna ragione per cercare aiuto e rifugio dall'Odessa, se non fosse ricercato. Così gli abbiamo inventato una carriera. Eccola qui.» Passò i fogli a Oster, e questi cominciò a leggerli. Quando ebbe finito, annuì. «Va bene: disse. «Tutto collima con i fatti noti. E sarebbe sufficiente a farlo arrestare, se fosse denunciato.» Leon grugnì soddisfatto. «Questo è quello che deve insegnargli. Fra l'altro, gli abbiamo anche trovato un garante. Un ex-colonnello delle S.S. di Bremerhaven partirà il 16 febbraio per una crociera. L'uomo è ora proprietario di una panetteria. Quando Miller si presenterà, il che deve avvenire dopo il 16 febbraio, avrà una lettera di quest'uomo che assicura all'Odessa che Kolb, suo dipendente, è davvero un'ex-S.S. ed è davvero nei guai. Per quel momento, il proprietario della panetteria sarà già in alto mare: impossibile prendere contatto con lui. A proposito,» si voltò verso Miller e gli allungò un libro «intanto può istruirsi sulla panificazione. Dal 1945 lei lavora in un forno.» Non gli disse che il proprietario della panetteria sarebbe stato via solo quattro settimane, e che, dopo di allora, la vita di Miller sarebbe rimasta appesa a un filo. «Ora, amico mio, il barbiere cambierà un po' il suo aspetto» disse Leon a Miller. «Dopo, le faremo una nuova fotografia per la patente.» Nel bagno al piano superiore, il barbiere gli tagliò i capelli: Miller

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non li aveva forse mai avuti così corti. Quando ebbe finito, i capelli a spazzola lasciavano intravedere il cranio lucido quasi fino in cima alla testa. Non erano più arruffati come prima, ma egli sembrava anche più vecchio. Dal lato sinistro, una scriminatura perfettamente diritta divideva i capelli corti. Gli vennero strappate le sopracciglia, finché queste furono quasi inesistenti. «La mancanza di sopracciglia non fa sembrare più vecchio un uomo» spiegò il barbiere. «Ma rende indefinibile l'età in un arco di sei o sette anni. C'è un'ultima cosa. Dovrà farsi crescere i baffi. Che siano sottili, della stessa larghezza della bocca. Invecchiano, sa. Può farlo in tre settimane?» Miller sapeva quanto tempo gli ci voleva per farsi crescere i baffi. «Certamente» disse. Guardò la sua immagine nello specchio. Sembrava un trentacinquenne. I baffi gli avrebbero aggiunto altri quattro anni. Quando scesero di sotto, Miller fu messo davanti a un lenzuolo bianco, teso da Oster e da Leon, e Motti gli scattò parecchie fotografie di fronte. «Credo che basti» disse. «La patente sarà pronta entro tre giorni.» Quando se ne furono andati, Oster si rivolse a Miller. «Bene, Kolb,» disse, avendo ormai smesso da tempo di interpellarlo in altro modo «lei è stato addestrato al campo di Dachau e distaccato al campo di concentramento di Flossenburg nel luglio 1944; nell'aprile 1945 ha comandato il plotone che ha giustiziato l'ammiraglio Canaris, capo dell'Abwehr. Ha anche collaborato a uccidere altri ufficiali dell'esercito sospettati dalla Gestapo di complicità nell'attentato contro Hitler del luglio 1944. Non c'è da stupirsi che le autorità oggi desiderino arrestarla. L'ammiraglio Canaris e i suoi uomini non erano ebrei. Non si può passare sopra a una cosa come questa. Va bene, mettiamoci al lavoro, sergente.»

La riunione settimanale del Mossad stava per concludersi quando il generale Amit alzò la mano e disse: «C'è solo un'ultima cosa, sebbene io la consideri relativamente poco importante. Da Monaco, Leon mi ha riferito che da qualche tempo sta addestrando un giovane tedesco, un ariano, che per qualche sua ragione personale vuole vendicarsi delle S.S. ed è disposto a infiltrarsi nell'Odessa.» «Per quale ragione?» chiese uno dei presenti, con sospetto. Il generale Amit si strinse nelle spalle. «Per ragioni sue personali, vuole rintracciare un ex-capitano delle S.S. di nome Roschmann.» Il capo dell'Ufficio per i paesi perseguitati, un tempo ebreo polacco, alzò di scatto la testa. «Eduard Roschmann? Il Macellaio di Riga?» «Proprio lui.» «Fiuu. Se riuscissimo a prenderlo, questo sistemerebbe un vecchio conto aperto.» Il generale Amit scosse la testa. «Le ho già detto prima che Israele non si preoccupa più di saldare i vecchi conti. I miei ordini sono assoluti. Anche se quell'uomo trova Roschmann, non ci sarà nessun assassinio. Dopo l'affare Ben Gal, sarebbe la goccia che farebbe traboccare Adenauer. Il problema è un

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altro: se qualche ex-nazista viene ucciso in Germania, sicuramente la colpa sarà data agli agenti israeliani.» «Perciò, questo giovane tedesco?» domandò il capo dello Shabak. «Vorrei provare a usarlo per identificare qualche altro scienziato tedesco che potrebbe essere spedito al Cairo quest'anno. Per noi, questo è l'argomento numero uno, nella scala delle priorità. Propongo di mandare un agente in Germania, semplicemente per tenere sotto sorveglianza il giovanotto. Solo a scopo di controllo, nient'altro.» «Hai già in mente la persona adatta?» «Sì» disse il generale Amit. «E' un uomo in gamba, su cui si può fare affidamento. Si limiterà a seguire il tedesco e a sorvegliarlo, riferendo poi a me personalmente. Può passare per tedesco. E' uno Yekke, originario di Karlsruhe.» «E Leon?» domandò qualcun altro. «Non cercherà di saldare i conti di sua iniziativa?» «Leon farà quello che gli si dice di fare» disse il generale Amit, irritato. «Non ci saranno più regolamenti di conti.»

A Bayreuth, quel mattino, Miller veniva sottoposto da Alfred Oster a un altro interrogatorio. «Bene» disse Oster. «Quali sono le parole incise sull'elsa del pugnale delle S.S.?» «Sangue e onore» rispose Miller. «Giusto. Quand'è che viene presentato il pugnale a una S.S.?» «Alla parata che conclude il periodo al campo d'addestramento» rispose Miller. «Giusto. Mi ripeta il giuramento di fedeltà alla persona di Adolf Hitler.» Miller lo ripeté, parola per parola. «Ripeta il giuramento di sangue delle S.S.» Miller eseguì. «Qual è il significato della Testa di Morto?» Miller chiuse gli occhi e ripeté quello che gli era stato insegnato. «Il simbolo della Testa di Morto deriva dall'antica mitologia germanica. E' l'emblema di quei gruppi di guerrieri teutonici che hanno giurato fedeltà al loro capo e ai loro compagni, fino alla tomba e persino oltre, fino al Valhalla. Da qui, il teschio e le ossa incrociate, che significano il mondo dell'oltretomba.» «Giusto. Gli uomini delle S.S. erano automaticamente membri delle unità della Testa di Morto?» «No. Ma il giuramento era lo stesso.» Oster si alzò e si stirò. «Non c'è male» disse. «Non ci dovrebbe essere altro, in termini generali. Ora passiamo ai particolari. Per quello che riguarda il campo di concentramento di Flossenburg, il suo primo e unico incarico...»

L'uomo che sedeva accanto al finestrino dell'aereo delle Olimpic Airways diretto da Atene a Monaco aveva un aspetto tranquillo e riservato. L'uomo d'affari tedesco nella poltrona vicino alla sua, dopo parecchi

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tentativi di conversazione, rinunciò all'impresa concentrandosi nella lettura di "Playboy". Il suo vicino guardò fuori, mentre passavano sopra il Mar Egeo e l'aereo lasciava la soleggiata primavera del Mediterraneo orientale per dirigersi verso i picchi nevosi delle Dolomiti e delle Alpi Bavaresi. L'uomo d'affari aveva capito almeno una cosa sul suo compagno di viaggio. La persona accanto al finestrino era senz'altro tedesca, parlava in modo spedito e disinvolto e conosceva alla perfezione il paese. L'uomo, che stava tornando a casa dopo aver concluso alcuni affari nella capitale greca, non aveva il minimo dubbio di essere seduto accanto a un compatriota. Non c'era cosa più falsa. Quel passeggero era nato in Germania trentatré anni prima, col nome di Josef Kaplan, figlio d'un sarto ebreo di Karlsruhe. Aveva tre anni quando Hitler era salito al potere, sette quando i suoi genitori erano stati portati via su un furgone nero: per altri tre anni era rimasto nascosto in un solaio finché, all'età di dieci anni, anche lui era stato scoperto e portato via su un furgone. La sua adolescenza era trascorsa sfruttando la capacità di recupero e di ingegno della sua giovane età per sopravvivere a una serie di campi di concentramento, finché, nel 1945, con gli occhi carichi di sospetto come fosse un animale selvatico, aveva strappato una cosa che si chiamava tavoletta di cioccolato Hershey dalla mano protesa di un uomo che parlava col naso in una lingua straniera, ed era scappato via per mangiarsi in un angolo del campo quello che gli era stato offerto, prima che gli fosse portato via. Due anni più tardi, dopo aver guadagnato qualche chilo in più, all'età di diciassette anni, affamato come un topo e sempre più con il sospetto e la sfiducia verso tutto e tutti, era salito su una nave che si chiamava "President Warfield", alias "Exodus" verso una nuova spiaggia, molti chilometri lontano da Karlsruhe e da Dachau. Gli anni successivi lo avevano addolcito, maturato, gli avevano insegnato molte cose, gli avevano portato una moglie e due figli, un grado da ufficiale nell'esercito, ma non avevano mai eliminato il suo odio per il paese verso il quale stava volando quel giorno. Aveva acconsentito ad andarci, mettendo da parte i suoi sentimenti, per riprendere, come già due volte aveva fatto negli ultimi dieci anni, quella facciata di cordialità e di bonomia che gli era necessaria per trasformarsi in un tedesco. Il resto gli era stato fornito dal servizio segreto: il passaporto, le lettere di presentazione, le carte di credito e i vari documenti d'un cittadino d'un paese dell'Europa occidentale, la biancheria, le scarpe, i vestiti e il bagaglio d'un viaggiatore di commercio tedesco. Mentre le dense nuvole dell'Europa avvolgevano l'aereo, l'uomo ripensò alla sua missione, che gli era stata illustrata dal tranquillo colonnello in giorni e notti di incontri al kibbutz che produceva ben poco raccolto e tanti agenti israeliani. Seguire un uomo, tenerlo d'occhio, un tedesco di quattro anni più giovane di lui, mentre cercava di fare quello in cui molti avevano fallito, infiltrarsi nell'Odessa. Osservare quell'uomo e misurare il suo successo, notare le persone con cui era e veniva messo in contatto, controllare le sue scoperte, accertarsi che riuscisse a individuare la persona che

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reclutava la nuova ondata di scienziati tedeschi da mandare in Egitto per lavorare ai missili. Non doveva mai esporsi, non doveva mai intervenire di persona. Doveva limitarsi a riferire alla base tutto quello che il giovane tedesco aveva scoperto prima di "bruciarsi" o di essere smascherato, le uniche due alternative possibili. L'avrebbe fatto; non era necessario che il suo incarico gli piacesse, questo non gli veniva chiesto. Per fortuna, nessuno aveva preteso che gli piacesse diventare di nuovo un tedesco. Nessuno gli aveva chiesto di provare piacere a mescolarsi ancora fra di loro, a parlare la loro lingua, a sorridere e a scherzare con loro. Perché egli li odiava tutti, compreso il giovane giornalista che doveva seguire. Niente, ne era certo, avrebbe mai attenuato il suo odio.

Il giorno seguente, Oster e Miller ricevettero l'ultima visita di Leon. Oltre a Motti e a Leon, c'era una persona sconosciuta, abbronzata e atletica, molto più giovane degli altri. Miller lo giudicò sui trentacinque anni. Gli fu presentato semplicemente come Josef. Non aprì bocca. «A proposito,» disse Motti a Miller «ho portato qui la sua automobile, oggi. L'ho lasciata a un parcheggio pubblico in città, vicino alla piazza del mercato.» Gettò a Miller le chiavi, aggiungendo: «Non la usi quando andrà a conoscere quelli dell'Odessa. E' troppo vistosa, e poi lei dovrebbe essere un semplice fornaio in fuga dopo essere stato identificato come ex-guardiano di un campo. Un uomo del genere non si può permettere una Jaguar. Per arrivare là, prenda il treno.» Miller annuì, ma gli rincresceva separarsi dalla sua amata Jaguar. «Bene. Ecco la sua patente, completa di fotografia della sua faccia attuale. A chiunque glielo chieda, può dire che guida una Volkswagen, ma che l'ha lasciata a Brema, perché la polizia avrebbe potuto identificare la targa.» Miller lanciò un'occhiata alla patente. Nella foto aveva i capelli corti, ma non i baffi. I baffi li avrebbe potuti spiegare come una precauzione per rendere più difficile l'identificazione. «L'uomo che, a sua insaputa, è il suo garante è partito questa mattina da Bremerhaven per una crociera. E' un ex-colonnello delle S.S., ora proprietario d'una panetteria, ed è stato il suo padrone. Si chiama Joachim Eberhardt. Questa è la sua lettera di presentazione per l'uomo che lei andrà a trovare. La carta è autentica, è stata presa dal suo ufficio. La firma è una falsificazione perfetta. La lettera informa il destinatario che lei è un buon ex-soldato delle S.S., degno di tutta la fiducia, che ora si trova nei guai e chiede di aiutarla a procurarsi documenti falsi e una nuova identità.» Leon passò la lettera a Miller. Questi la lesse e la rimise nella busta. «Ora la sigilli» disse Leon. Miller eseguì. «A chi devo presentarmi?» chiese. Leon prese un foglio di carta su cui era scritto to un nome e un indirizzo. «La persona è questa» disse. «Vive a Norimberga. Non siamo sicuri su quel che ha fatto durante la guerra, perché ora ha un nome fasullo.

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Comunque, una cosa è certa. Ha una posizione molto importante all'interno dell'Odessa. Può aver conosciuto Eberhardt, che è una rotella importante nell'ingranaggio dell'Odessa nella Germania settentrionale. E questa è una fotografia di Eberhardt. Se la studi bene, nel caso che il nostro uomo voglia da lei una descrizione. Capito?» Miller guardò la foto di Eberhardt e annuì. «Quando sarà pronto potrà partire» disse. «Le consiglio di aspettare qualche giorno, finché la nave di Eberhardt sia fuori dalla portata delle linee telefoniche con la terraferma. Non vogliamo che l'uomo che incontrerà riesca a mettersi in contatto con Eberhardt mentre la nave è ancora al largo delle coste tedesche. Aspetti finché non arrivi nell'Atlantico. Penso che l'ideale sarebbe la mattina di giovedì prossimo.» Miller assentì. «D'accordo. Allora giovedì.» «Due ultime cose» disse Leon. «Oltre a rintracciare Roschmann, che è quello che vuole lei, noi vorremmo anche qualche informazione. Ci serve sapere chi è che recluta gli scienziati da mandare in Egitto a sviluppare il programma missilistico di Nasser. Il reclutamento, qui in Germania, è effettuato dall'Odessa. Abbiamo bisogno di sapere, in particolare, chi è il nuovo ufficiale responsabile del reclutamento. In secondo luogo, rimanga in contatto. Usi i telefoni pubblici e chiami questo numero.» Passò a Miller un pezzo di carta. «A questo numero risponderà sempre qualcuno, anche se io non ci sono. Faccia rapporto tutte le volte che viene a sapere qualcosa.» Venti minuti dopo, il gruppo se n'era già andato.

Sulla strada di ritorno per Monaco, Leon e Josef viaggiavano uno vicino all'altro sul sedile posteriore dell'automobile. L'agente israeliano se ne stava rannicchiato in silenzio nel suo angolo. Mentre lasciavano alle loro spalle le vivide luci di Bayreuth, Leon diede di gomito a Josef. «Perché è così cupo?» domandò. «Va tutto benissimo.» Josef gli lanciò un'occhiata. «Fino a che punto c'è da fidarsi di questo Miller?» «Fidarsi? E' la migliore occasione che abbiamo mai avuto per infiltrarci nell'Odessa. Ha sentito Oster? Può passare per un'ex-S.S. con qualsiasi persona, sempre che tenga la testa a posto.» Josef tenne per sé i propri dubbi. «Il mio compito è di sorvegliarlo in continuazione» borbottò. «Dovrei stargli appiccicato quando si sposta, tenerlo d'occhio, riferire a chi viene presentato, e che posizione queste persone rivestono nell'Odessa. Vorrei non aver mai accettato di lasciarlo andare da solo e di controllarlo per telefono quando vuole lui. Supponiamo che non lo faccia?» Leon controllava a fatica la sua collera. Era evidente che avevano già discusso altre volte su quest'argomento. «E allora mi ascolti, per l'ennesima volta. Quest'uomo è una mia scoperta. La sua infiltrazione nell'Odessa è stata una mia idea. E' un

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mio agente. Ho aspettato per anni di trovare qualcuno come lui, uno che non è ebreo. Non voglio esporlo perché c'è sempre qualcuno alle sue calcagna.» «E' un dilettante. Io sono un professionista» borbottò l'agente. «E' anche un ariano» ribatté Leon. «Quando non ci sarà più utile, io spero che ci avrà già dato i nomi dei dieci capi dell'Odessa in Germania. E allora ce li sbrigheremo uno per uno. Fra di loro, dev'esserci quello che recluta gli scienziati missilistici. Non si preoccupi, lo troveremo, e troveremo i nomi degli scienziati che intende mandare al Cairo.»

A Bayreuth, Miller guardava la neve che scendeva fuori dalla finestra. Personalmente non aveva nessuna intenzione di fare rapporto al telefono, perché non aveva nessun interesse a rintracciare quegli scienziati. Il suo obiettivo era sempre uno solo: Eduard Roschmann.

Capitolo 12.

Mercoledì sera, 19 febbraio, Peter Miller diede finalmente l'addio ad Alfred Oster e partì per Norimberga. L'ex-ufficiale delle S.S. si congedò con una stretta di mano. «Le auguro tutta la fortuna possibile, Kolb. Le ho insegnato tutto quello che so. Mi permetta di darle un ultimo consiglio. Non so quanto possa reggere la sua storia. Probabilmente, non per molto tempo. Se mai qualcuno dovesse sospettare la verità, non discuta. Tagli la corda e assuma di nuovo il suo vero nome.» Mentre il giovane giornalista si allontanava lungo la strada, Oster mormorò a se stesso: «E' l'idea più folle che abbia mai sentito.» Miller percorse a piedi il chilometro che lo separava dalla stazione, seguendo la strada che era tutta in discesa e passava davanti al parcheggio pubblico. Lì, comperò un biglietto di sola andata per Norimberga. Dopo che ebbe attraversato la transenna per il controllo dei biglietti per andare sul marciapiede spazzato dal vento, il bigliettaio gli disse: «Temo che dovrà aspettare un bel po', signore. Il treno per Norimberga arriverà in ritardo, stasera.» Miller restò sorpreso. Le ferrovie tedesche si facevano un punto d'onore di rispettare la puntualità. «Che cos'è successo?» domandò. Il bigliettaio fece un cenno con la testa verso il punto dove le rotaie sparivano dietro le curve delle colline e della valle ammantata di neve. «Lungo la linea è caduta troppa neve. Abbiamo appena saputo che lo spazzaneve si è guastato. I tecnici lo stanno riparando.» Anni di giornalismo avevano provocato in Miller un profondo disgusto per le sale d'aspetto. Ci aveva trascorso troppo tempo, al freddo, stanco e scomodo. Al buffet della stazioncina sorseggiò una tazza di caffè e guardò il suo biglietto. Era già stato bucato. La sua mente tornò all'automobile parcheggiata in cima alla collina. Certo che, se l'avesse parcheggiata all'altro capo di Norimberga, a parecchi chilometri dall'indirizzo che gli era stato dato...? Se, dopo

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il colloquio, l'avessero mandato da qualche altra parte con un altro mezzo di trasporto, avrebbe lasciato la Jaguar a Monaco. Poteva anche parcheggiare in un garage, fuori di vista. Nessuno l'avrebbe mai trovata. Non prima che il suo lavoro fosse finito. Inoltre, pensò, non sarebbe stato male avere a disposizione un mezzo per squagliarsela in fretta, in caso di necessità. Non c'era nessun motivo per credere che qualcuno in Baviera avesse sentito parlare di lui o della sua automobile. Ripensò all'avvertimento di Motti, di non dare troppo nell'occhio; ma poi ricordò che, un'ora prima, Oster gli aveva consigliato di essere sempre pronto a tagliare in fretta la corda. Usare l'automobile era un rischio, ma altrimenti sarebbe rimasto appiedato, in caso di necessità. Rifletté per altri cinque minuti su questa prospettiva, poi uscì dalla stazione e ritornò sulla collina. Nel giro di dieci minuti, al volante della Jaguar si dirigeva fuori della città. Arrivò a Norimberga in breve tempo. Andò a prenotare in un alberghetto dalle parti della stazione centrale, parcheggiò la macchina in una strada laterale a due isolati da distanza e attraversò a piedi la Porta del Re per entrare nella vecchia città medioevale, cinta da mura, di Albrecht Dürer. Era già buio, ma le luci delle strade e delle finestre illuminavano i caratteristici tetti a punta e i frontoni decorati della città. Era quasi impossibile immaginarsi di essere nel Medio Evo, quando a Norimberga, una delle più ricche città mercantili degli stati germanici, comandavano i re di Franconia. Era difficile pensare che quasi tutti i mattoni e le pietre di quello che vedeva intorno a sé erano stati meticolosamente ricostruiti dopo il 1945 sui piani urbanistici della vecchia città, che con le sue strade pavimentate di ciottoli e le sue case di legno, era stata ridotta in cenere e macerie dalle bombe degli alleati nel 1943. Trovò la casa che stava cercando due strade dopo la piazza del mercato centrale, quasi sotto le guglie gemelle della chiesa di San Sebaldo. Il nome sulla targhetta della porta corrispondeva a quello dattiloscritto to sulla lettera che gli avevano consegnato, la presentazione dell'ex-colonnello delle S.S. Joachim Eberhardt di Brema. Dato che lui non aveva mai incontrato Eberhardt, non gli restava che sperare che anche l'uomo di quella casa di Norimberga non l'avesse mai incontrato. Ritornò nella piazza del mercato, cercando un posto per cenare. Dopo essere passato davanti a un paio di ristoranti tipici, notò il fumo che saliva a volute nel gelido cielo notturno dal tetto di tegole rosse di un negozietto di salsicce in un angolo della piazza, di fronte alle porte di San Sebaldo. Era un posto invitante, incorniciato da una terrazza su cui erano allineati vasi di edera, dai quali un attento padrone aveva spazzato via la neve del mattino. All'interno, fu investito da un'ondata di calore e di buonumore. I tavoli di legno erano tutti occupati, ma una coppia in un angolo stava andandosene, perciò si sedette lì, accennando un inchino e rispondendo con un saluto alla coppia che gli aveva augurato buon appetito. Ordinò la specialità della casa, le piccole salsicce aromatizzate di Norimberga, annaffiandole con una bottiglia di vino locale.

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Dopo la cena, si appoggiò allo schienale della sedia, sorseggiando molto lentamente il caffè nero con due Asbachs. Non aveva voglia di andare a letto ed era piacevole starsene seduto a guardare i ceppi che scoppiettavano nel camino, e ascoltare un gruppo di avventori che in un angolo cantava a squarciagola una vecchia canzone della Franconia, prendendosi sotto braccio e ondeggiando da una parte o dall'altra, le voci e i boccali del vino che si alzavano alla fine di ogni strofa. Per molto tempo, rimase a domandarsi per quale motivo doveva rischiare la vita nella ricerca di un uomo che aveva commesso crimini vent'anni prima. Aveva quasi deciso di lasciar perdere tutto, di radersi i baffi, di farsi ricrescere i capelli, di tornare ad Amburgo e al letto riscaldato da Sigi. Arrivò il cameriere, gli fece un inchino e posò il conto sul tavolo con un cordiale «"Bitte Schön"». Infilò la mano in tasca per cercare il portafoglio e le sue dita toccarono una fotografia. La tirò fuori e la guardò per un po'. I pallidi occhi cerchiati di rosso e la bocca sottile lo guardavano da sopra il colletto con le mostrine nere e i due fulmini d'argento. Dopo un po', mormorò: «Sei una merda», e appoggiò la foto sopra la fiamma della candela che era sul suo tavolo. Quando la foto fu ridotta in cenere, la sbriciolò nel portacenere di rame. Non ne aveva più bisogno. Poteva riconoscere quella faccia, non appena l'avesse vista. Peter Miller pagò il conto, si abbottonò il cappotto e tornò all'albergo.

In quello stesso momento Mackensen affrontava il Werwolf. «Ma come diavolo può essere scomparso?» scattò il capo dell'Odessa. «Non può essere svanito dalla faccia della terra, non può essere sparito nell'aria. La sua automobile è di quelle che si notano in Germania, la si vede a un chilometro di distanza. Sei settimane di ricerche, e tutto quello che sapete dirmi è che nessuno l'ha visto...» Mackensen attese che si esaurisse quel momento di delusione e di collera. «Eppure, è proprio così» fece notare alla fine. «Il suo appartamento ad Amburgo è sotto controllo, la sua ragazza e sua madre sono state interrogate da presunti amici di Miller, anche i suoi colleghi sono stati interpellati. Nessuno sa niente. La sua automobile, per tutto questo tempo, dev'essere stata in un garage da qualche parte. Lui deve aver circolato a piedi. Da quando, secondo l'ultima traccia, ha lasciato il parcheggio dell'aeroporto di Colonia dopo essere ritornato da Londra, è sparito.» «Dobbiamo trovarlo» ripeté il Werwolf. «Non deve arrivare a questo camerata. Sarebbe un disastro.» «Si farà vivo» disse Mackensen con convinzione. «Prima o poi dovrà uscire all'aperto. Allora lo prenderemo.» Il Werwolf rifletté sulla pazienza e la logica di quel cacciatore professionista. Annuì lentamente. «Molto bene. Allora voglio che lei resti qui vicino. Prenda una stanza in un albergo in città, e aspettiamo. Se rimane nei paraggi, posso rintracciarla facilmente.» «Giusto, signore. Prenderò una stanza in un albergo in città e le telefonerò per farle sapere. Si può mettere in contatto con me a

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qualsiasi ora.» Augurò buona notte al suo superiore e se ne andò.

Erano quasi le 9 del mattino seguente, quando Miller si presentò alla casa e fece squillare il lucido campanello. Voleva vedere l'uomo prima che uscisse per recarsi al lavoro. La porta fu aperta da una domestica, che gli fece strada fino a un soggiorno e andò a chiamare il padrone. L'uomo che entrò nel soggiorno dieci minuti dopo doveva avere un cinquantacinque anni, con capelli castani brizzolati alle tempie, elegante e perfettamente sicuro di sé. Anche i mobili e le decorazioni della stanza esprimevano eleganza e alti redditi. Fissò senza curiosità l'inatteso visitatore, valutando con una occhiata i suoi calzoni e la giacca di poco prezzo, da operaio. «Che cosa posso fare per lei?» domandò con calma. Il visitatore era visibilmente imbarazzato e a disagio in mezzo all'opulenza di quel salotto. «Be', Herr Doktor, speravo che lei poteva aiutarmi.» «Ebbene,» disse l'uomo dell'Odessa «lei saprà di sicuro che il mio ufficio non è lontano da qui. Forse sarebbe dovuto andare là e chiedere un appuntamento alla mia segretaria.» «Be', non è mica un aiuto di lavoro che mi serve» disse Miller. Si era espresso nel dialetto della zona di Amburgo e di Brema, usando un gergo popolaresco. Era ovviamente imbarazzato. Mancandogli le parole, tirò fuori la lettera dalla tasca interna e gliela porse. «Ho portato una lettera di presentazione da parte della persona che mi ha detto di venire da lei, signore.» L'uomo dell'Odessa prese la lettera senza dire una parola, la aprì e diede una rapida occhiata. Si irrigidì impercettibilmente e fissò a occhi stretti Miller al di sopra del foglio. «Capisco, Herr Kolb. Forse sarebbe meglio mettersi a sedere.» Indicò a Miller una sedia, mentre lui prendeva posto su una comoda poltrona. Rimase alcuni minuti a osservare attentamente il suo ospite, aggrottando la fronte. Improvvisamente, domandò con voce secca: «Come ha detto di chiamarsi?» «Kolb, signore.» «E di nome?» «Rolf Günther, signore.» «Non ha documenti di identità con lei?» Miller sembrò perplesso. «Solo la patente della macchina.» «Me la faccia vedere, per favore.» L'avvocato, perché quella era la sua professione, allungò una mano, obbligando Miller ad alzarsi per dargli la patente di guida. L'uomo la prese, la sfogliò e lesse i dati del titolare. Lanciò uno sguardo a Miller, confrontando la faccia e la fotografia. La persona era la stessa. «Qual è la sua data di nascita?» domandò all'improvviso. «Il giorno quando sono nato? Oh... ehm, il 18 giugno, signore.» «L'anno, Kolb.» «1925, signore»

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L'avvocato esaminò la patente per ancora qualche minuto. «Attenda qui» disse all'improvviso, si alzò e se ne andò. Lasciò la stanza, attraversò la sua abitazione ed entrò nel suo studio, sul retro della casa, al quale i clienti accedevano da una strada laterale. Aprì la cassaforte a muro, ne tirò fuori un grosso registro e cominciò a sfogliarlo. Casualmente conosceva il nome di Joachim Eberhardt, ma non l'aveva mai incontrato di persona. Non era del tutto sicuro del grado che Eberhardt rivestiva nelle S.S. Il registro confermava la lettera. Joachim Eberhardt, promosso colonnello delle Waffen-S.S. il 10 gennaio 1945. Sfogliò altre pagine e controllò il nome Kolb. Ce n'erano sette, ma un solo Rolf Günther. Sergente maggiore dall'aprile 1945. Data di nascita 18.6.1925. Chiuse il registro, lo rimise al suo posto e chiuse la cassaforte. Poi ritornò nel soggiorno. Il suo ospite era ancora sulla sedia, con l'aria timorosa. «Non è detto che possa aiutarla. Lei se ne rende conto, vero?» Miller si morse il labbro e annuì. «Non ho nessun posto dove andare, signore. Quando hanno cominciato a cercarmi, ho chiesto aiuto a Herr Eberhardt, che mi ha dato la lettera e mi ha detto di venire da lei. Ha detto anche che se non poteva lei, nessun altro poteva aiutarmi.» L'avvocato si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò il soffitto. «Mi domando perché non mi abbia telefonato, se voleva parlare con me» rifletté ad alta voce. Poi aspettò evidentemente la risposta. «Forse non voleva usare il telefono... per una faccenda come questa» suggerì, in tono speranzoso. L'avvocato gli lanciò uno sguardo di disprezzo. «E' possibile» disse. «Farebbe meglio a dirmi, prima di tutto, come ha fatto a cacciarsi in questo guaio.» «Oh sì, be', signore, voglio dire che sono stato riconosciuto da quest'uomo, e poi mi hanno detto che stavano per arrestarmi. E allora me ne sono andato, no? Voglio dire, ho dovuto farlo.» L'avvocato sospirò. «Cominci dal principio» disse, asciutto. «Chi l'ha riconosciuta e come?» Miller tirò un lungo sospiro. «Be', signore, ero a Brema. Abito lì, e ci lavoro... be', ci ho lavorato finché non mi è successo questo... per Herr Eberhardt. Nella panetteria. Be', stavo camminando per la strada un giorno, un quattro mesi fa, e mi sono sentito molto strano. Stavo malissimo, e avevo male di pancia. Poi, devo essere caduto. Sono svenuto sul marciapiede. Così mi hanno portato all'ospedale.» «Quale ospedale?» «Quello generale di Brema, signore. Mi hanno fatto degli esami, e hanno detto che avevo il cancro. All'intestino. Ho pensato che era il mio destino, capisce?» «Di solito, è sempre il destino a decidere» osservò l'avvocato, seccamente. «Be', è quello che ho pensato io, signore. Solo che, a quanto sembra, l'hanno preso all'inizio. Comunque, non mi hanno operato, ma mi hanno

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fatto una cura di medicine, e dopo un po' il cancro è andato via.» «Da quanto mi risulta finora, lei è un uomo fortunato. Ma cosa c'entra tutto questo con l'essere stato riconosciuto?» «Sì, be', è stato l'infermiere di quest'ospedale, capisce? Era ebreo, e continuava a guardarmi. Ogni volta che era di turno, continuava a guardarmi. Era uno strano modo di guardare, capisce? E ho cominciato a preoccuparmi. Per il modo come mi guardava. Sembrava che avesse scritto to sulla faccia "io so chi sei". Io non l'ho riconosciuto, ma ho avuto l'impressione che lui sì.» «Continui.» L'avvocato mostrava ora un maggiore interesse. «Così, circa un mese fa mi hanno detto che potevo essere trasferito. Mi hanno portato via e mi hanno messo in una clinica di convalescenza. Era la previdenza per i lavoratori della panetteria che pagava. Be', prima di lasciare l'ospedale generale di Brema me lo sono ricordato. L'ebreo, voglio dire. Ci ho impiegato settimane, ma me lo sono ricordato. Era un prigioniero di Flossenburg.» L'avvocato si raddrizzò sulla poltrona. «Lei era a Flossenburg?» «Sì, stavo per dirglielo. E mi sono ricordato di questo infermiere dell'ospedale. Ho scoperto all'ospedale di Brema come si chiamava. Ma a Flossenburg faceva parte del gruppo di prigionieri ai quali abbiamo ordinato di bruciare i cadaveri dell'ammiraglio Canaris e degli altri ufficiali che avevamo messo al muro, perché avevano tentato di assassinare il Führer.» L'avvocato continuò a fissarlo. «Lei era tra quelli che hanno giustiziato Canaris e gli altri?» domandò. Miller si strinse nelle spalle. «Io comandavo il plotone di esecuzione» disse semplicemente. «Be', erano dei traditori, no? Avevano cercato di ammazzare il Führer.» L'avvocato sorrise. «Mio caro, non la sto rimproverando. Certo che erano dei traditori. Canaris aveva persino passato delle informazioni agli alleati. Erano tutti traditori, quei porci dell'esercito, dai generali in giù. Non avrei mai pensato di incontrare l'uomo che li ha uccisi.» Miller fece un debole sorriso. «Il punto è che quelli che ci sono ora vorrebbero mettermi le mani addosso, per questo motivo. Voglio dire, far fuori ebrei è una cosa, ma ora ci sono molti che dicono che Canaris e gli altri erano degli eroi.» L'avvocato annuì. «Sì, certo, questo la metterebbe in guai grossi con le attuali autorità in Germania. Vada avanti con la sua storia.» «Sono stato trasferito a questa clinica e non ho visto più l'infermiere ebreo. Poi venerdì scorso mi è arrivata una telefonata in clinica. Ho pensato che era la panetteria, invece quell'uomo non ha voluto dirmi il suo nome. Ha detto solo che sapeva quello che stava succedendo e che una certa persona era stata a informare quei porci di Ludwigsburg su di me, e che preparavano un mandato per il mio arresto. Non sapevo chi era quest'uomo, ma lui era come se sapesse a chi parlava. Una voce da ufficiale, capisce cosa voglio dire, signore?»

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L'avvocato annuì con comprensione. «Probabilmente un amico della polizia di Brema. E allora, che cosa ha fatto?» Miller sembrò sorpreso. «Be', me ne sono andato, no? Mi sono dimesso. Non sapevo cosa fare. Non sono andato a casa, perché avevo paura che mi aspettassero lì. Non sono nemmeno andato a prendere la Volkswagen, che era ancora parcheggiata di fronte a casa. Venerdì notte ho dormito male, poi sabato ho avuto un'idea. Sono andato a trovare il padrone, Herr Eberhardt, a casa sua. C'era sull'elenco telefonico. E' stato molto gentile con me. Mi ha detto che la mattina dopo partiva con Frau Eberhardt per una crociera, ma che avrebbe fatto qualcosa per sistemarmi. E allora mi ha dato la lettera e mi ha detto di venire da lei.» «E perché ha pensato che Herr Eberhardt l'avrebbe aiutata?» «Ah, sì, be', lei capisce, io non sapevo cosa aveva fatto durante la guerra. Ma alla panetteria con me era sempre stato molto buono. Poi, due anni fa, c'è stata una festa di noi del personale. Eravamo tutti un po' ubriachi, capisce? E io sono andato al gabinetto degli uomini. Lì c'era Herr Eberhardt, che si lavava le mani. E cantava. Cantava la canzone dello Horst Wessel. Io mi sono messo a cantare con lui. Lì eravamo, a cantare nel gabinetto degli uomini. Poi mi ha battuto sulla schiena e ha detto: "Non una parola, Kolb" ed è uscito. Non ci ho pensato più fino a quando mi sono trovato nei guai. Allora ho pensato: "Be', potrebbe essere stato nelle S.S. come me". Così sono andato da lui a chiedere aiuto.» «E lui l'ha mandata da me?» Miller annuì. «Qual era il nome dell'infermiere dell'ospedale?» «Hartstein, signore.» «E del convalescenziario in cui l'hanno mandata?» «La clinica Arcadia, a Delmenhorst. Fuori di Brema.» L'avvocato prese qualche appunto su un foglio di carta e si alzò. «Rimanga qui» disse, e se ne andò. Attraversò il corridoio ed entrò nel suo studio. Dall'elenco abbonati si fece dire il numero della panetteria di Eberhardt, dell'ospedale generale di Brema, e della clinica Arcadia a Delmenhorst. Prima, telefonò alla panetteria. La segretaria di Eberhardt fu molto premurosa. «Temo che Herr Eberhardt sia in vacanza, signore. No, non è possibile mettersi in contatto con lui. E' via per la solita crociera invernale ai Caraibi con Frau Eberhardt. Tornerà fra quattro settimane. Posso fare qualcosa per lei?» L'avvocato la assicurò di no, e riagganciò. Poi telefonò all'ospedale generale di Brema, e chiese dell'Ufficio del Personale. «Qui è la Previdenza sociale, ufficio pensioni» disse con disinvoltura. «Volevo solo la conferma che fra il vostro personale c'è un infermiere di nome Hartstein.» Seguì un momento di silenzio, mentre l'impiegata all'altro capo del filo controllava il registro del personale.

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«Sì, c'è» rispose. «David Hartstein.» «Grazie» disse l'avvocato, e riappese. Compose di nuovo lo stesso numero e chiese dell'Archivio. «Qui è il segretario della Panetteria Eberhardt» disse. «Vorrei aver notizie sullo stato di un nostro dipendente, ricoverato nel vostro ospedale con un tumore all'intestino. Il nome è Rolf Günther Kolb.» Ci fu un altro silenzio. La ragazza dell'Archivio estrasse la cartella clinica di Rolf Günther Kolb e guardò all'ultima pagina. «E' stato dimesso» disse. «Le sue condizioni sono migliorate al punto da poterlo trasferire in un convalescenziario.» «Benissimo» disse l'avvocato. «Sono stato via per le mie solite vacanze invernali, e non sono ancora al corrente. Può dirmi in quale clinica?» «L'Arcadia, a Delmenhorst» rispose la ragazza. L'avvocato riagganciò e compose il numero della clinica Arcadia. Rispose una ragazza. Dopo aver ascoltato la richiesta, coprì con una mano il microfono e si rivolse a un medico accanto a lei. «C'è un tale che vuole notizie su quell'uomo di cui mi ha parlato, Kolb» disse. Il dottore prese il ricevitore. «Sì» disse. «Qui è il direttore della clinica. Sono il dottor Braun. Posso esserle utile?» Al nome Braun, la segretaria lanciò un'occhiata sconcertata al suo principale. Senza batter ciglio, questi ascoltò la voce proveniente da Norimberga e rispose con tranquillità: «Herr Kolb è stato dimesso nel pomeriggio di venerdì scorso. Un'irregolarità, ma non c'era niente che potessi fare per impedirglielo. Sì, esatto, è stato trasferito qui dall'Ospedale generale di Brema. Un tumore, ma presentava miglioramenti notevoli.» Rimase in ascolto per un momento, poi disse: «Di niente. Felice di esserle stato utile». Il medico, il cui vero nome era Rosemayer, riagganciò e poi compose un numero telefonico di Monaco. Senza preamboli, disse: «Qualcuno al telefono mi ha chiesto di Kolb. E' cominciato il controllo». A Norimberga l'avvocato riappese il ricevitore e tornò nel soggiorno. «Bene, Kolb, lei è evidentemente chi dice di essere.» Miller lo guardò pieno di stupore. «Tuttavia, vorrei farle qualche altra domanda. Le dispiace?» Ancora sorpreso, il visitatore scosse la testa. «No, signore.» «Bene. Lei è circonciso?» Miller lo fissava con occhi inespressivi. «No, non lo sono» rispose. «Mi faccia vedere» disse l'avvocato con calma. Miller rimase seduto sulla sedia e lo guardò. «Mi faccia vedere, sergente» disse l'avvocato, seccamente. Miller scattò in piedi, sull'attenti. «"Zu Befehl"» rispose. Rimase in quella posizione, coi pollici lungo la cucitura dei calzoni, per tre secondi, poi tirò giù la cerniera lampo. L'avvocato gli lanciò una breve occhiata, poi con un cenno gli fece capire di rimettersi a posto.

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«Be', almeno non è ebreo» disse, soddisfatto. Di nuovo sulla sua sedia, Miller strabuzzò gli occhi, a bocca aperta. «Certo che non sono ebreo» disse d'impulso. L'avvocato sorrise. «Ci sono stati casi di ebrei che hanno cercato di farsi passare per "Kameraden". Non durano a lungo. Ora farebbe meglio a raccontarmi la sua storia, e io le porrò una serie di domande. Solo per controllarla, capisce. Dov'è nato?» «A Brema, signore.» «Giusto, il luogo di nascita è nel documento di registrazione delle S.S. Ho voluto solo fare un controllo. Lei era nella Gioventù hitleriana?» «Sì, signore. Ci sono entrato all'età di dieci anni nel 1935, signore.» «I suoi genitori erano buoni nazionalsocialisti?» «Sì, signore. Tutti e due.» «Cosa gli è successo?» «Sono morti nel grande bombardamento di Brema.» «Quando è entrato nelle S.S.?» «Nella primavera del 1944, signore. A diciotto anni.» «Dove è stato addestrato?» «Al campo d'addestramento di Dachau, signore.» «Ha il suo gruppo sanguigno tatuato sotto l'ascella destra?» «No, signore. E comunque, il tatuaggio vien fatto sotto l'ascella sinistra.» «Perché non è stato tatuato?» «Be', signore, dovevamo lasciare il campo d'addestramento nell'agosto del 1944 e ricevere il nostro primo incarico in un'unità delle Waffen- S.S. In luglio, però, è stato mandato al campo di Flossenburg un grosso gruppo di ufficiali coinvolti nell'attentato al Führer. Flossenburg ha chiesto al campo d'addestramento di Dachau di mandare subito dei coscritto ti per aumentare il personale. Io e un'altra dozzina siamo stati scelti e siamo stati mandati direttamente là. Non ci hanno tatuati e non abbiamo partecipato alla parata dei coscritto ti. Il comandante ha detto che il gruppo sanguigno non era necessario perché al fronte non ci saremmo mai andati, signore.» L'avvocato annuì. Senza dubbio, il comandante si era già reso conto, nel luglio del 1944, che con gli alleati in Francia la guerra stava per terminare. «Ha avuto il suo pugnale?» «Sì, signore. Dalle mani del comandante.» «Quali parole erano incise su di esso?» «"Sangue e onore", signore.» «Che tipo di addestramento ha seguito a Dachau?» «Un addestramento militare completo, signore, e un addestramento politico-ideologico per completare quello della Gioventù hitleriana.» «Ha imparato le canzoni?» «Sì, signore.» «Qual era il libro delle marce militari da cui era tratto l'inno dello Horst Wessel?» «"Tempo di combattere per la patria", signore.»

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«Dov'era il campo d'addestramento di Dachau?» «A sedici chilometri da Monaco, signore. A cinque chilometri dal campo di concentramento di Dachau. «Com'era la sua uniforme?» «Casacca e calzoni grigio-verde, stivali, risvolti del colletto neri, i gradi a sinistra, cintura di cuoio nero e fibbia fatta col bronzo dei cannoni.» «Il motto sulla fibbia?» «Una svastica nel centro, e intorno le parole "Il mio onore è la fedeltà", signore.» L'avvocato si alzò. Accese un sigaro e andò verso la finestra. «Ora mi parli del campo di Flossenburg, sergente Kolb. Dov'era?» «Al confine tra la Baviera e la Turingia, signore. «Quando è stato aperto?» «Nel 1934, signore. Uno dei primi per i porci che si opponevano al Führer.» «Quant'era grande?» «Quando c'ero io, trecento metri per trecento. Intorno, aveva diciannove torri di guardia, su cui erano montate mitragliatrici pesanti con riflettori. La piazza per l'adunata era di centoventi metri per centoquaranta. Dio, come ci divertivamo lì con gli ebrei...» «Non divaghi» disse l'avvocato, asciutto. «Com'era sistemato?» «Ventiquattro baracche, una cucina per i prigionieri, un lavatoio, un'infermeria e diverse officine.» «E per i guardiani S.S.?» «Due baracche, un negozio e un bordello.» «Dove venivano messi i cadaveri?» «Fuori del filo spinato, c'era un piccolo crematorio. Ci si andava dal campo per un corridoio sotterraneo.» «Qual era il principale lavoro, là dentro?» «Rompere le pietre della cava, signore. Anche la cava era fuori del campo circondata da filo spinato e da torri di guardia.» «A quanto ammontava la popolazione alla fine del 1944?» «Oh, circa sedicimila prigionieri, signore.» «Dov'era l'ufficio del comandante?» «Oltre il filo spinato, signore, a metà strada fra il campo e una salita.» «Chi sono stati, nell'ordine, i comandanti?» «Ce ne sono stati due, prima del mio arrivo, signore. Il primo era il maggiore delle S.S. Karl Kunstler. Dopo di lui, il capitano delle S.S. Karl Fritsch. L'ultimo è stato il tenente colonnello delle S.S. Max Koegel.» «Qual era il numero del Dipartimento politico?» «Dipartimento Due, signore.» «Dov'era?» «Nel blocco del comando.» «Quali erano i suoi compiti?: «Doveva controllare che venissero eseguiti gli ordini di Berlino sul trattamento speciale di certi prigionieri.» «Canaris e gli altri sono stati segnalati in questo senso?»

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«Sì, signore. Erano tutti candidati per il trattamento speciale.» «Quando è stato messo in opera?» «Il 20 aprile 1945, signore. Gli americani stavano attraversando la Baviera, ed è arrivato l'ordine di farli fuori. Per fare il lavoro, è stato incaricato un gruppo di noi. Allora io ero stato da poco promosso sergente maggiore, anche se ero arrivato al campo come soldato semplice. Io ho organizzato l'esecuzione di Canaris e di altri cinque. Poi c'è stata la cerimonia della cremazione dei corpi, e sono stati gli ebrei a farlo. Hartstein, che sia dannato, era uno di loro. Dopo, abbiamo bruciato i documenti del campo. Erano passati due giorni, e c'è arrivato l'ordine di far marciare verso il nord i prigionieri. Eravamo in cammino quando abbiamo saputo che il Führer si era ucciso. Be', signore, allora gli ufficiali se ne sono andati. I prigionieri hanno cominciato a fuggire nei boschi. Ne abbiamo fucilato qualcuno, ma non aveva molto senso continuare a marciare. Voglio dire che gli Yankees erano dappertutto.» «Un'ultima domanda, sergente. Quando lei alzava lo sguardo da qualsiasi punto del campo, che cosa vedeva?» Miller sembrò sconcertato. «Il cielo» disse. «Sciocco, voglio dire che cosa dominava l'orizzonte?» «Oh, vuol dire la collina con il castello in rovina?» L'avvocato annuì e sorrise. «Del quattordicesimo secolo, per l'esattezza» disse. «Va bene, Kolb, lei era a Flossenburg. E ora, mi racconti come ha fatto ad andarsene.» «Be', signore, eravamo in marcia. Ci siamo dispersi. Io ho trovato un soldato semplice dell'esercito che girovagava da quelle parti, l'ho colpito sulla testa e gli ho tolto l'uniforme. Gli Yankees mi hanno preso due giorni dopo. Ho fatto due anni in un campo di prigionia, ma gli ho detto che ero un soldato semplice dell'esercito. Be', lei sa com'era, signore, c'erano in giro delle voci che gli Yankees fucilavano su due piedi le S.S. Così ho detto che ero dell'esercito.» L'avvocato soffiò una boccata di fumo. «Non è stato il solo. Ha cambiato nome?» «No, signore. Ho gettato via i documenti perché c'era scritto to che ero un'S.S. Ma non ho pensato di cambiare nome. Non pensavo che qualcuno avrebbe ricercato un sergente maggiore. Allora l'affare di Canaris non sembrava molto importante. E' stato solo molto più tardi che la gente ha cominciato a fare un gran chiasso su quegli ufficiali dell'esercito, e ha trasformato in un santuario il posto dove erano stati impiccati i capi. Ma poi ho avuto dei documenti a nome Kolb dalla repubblica federale. Comunque, non mi sarebbe successo niente se quell'infermiere non mi riconosceva, e in questo caso non importava il nome che avevo scelto.» «Giusto. Bene, ora continueremo con qualcuna delle cose che le sono state insegnate. Mi ripeta il giuramento di fedeltà al Führer» disse l'avvocato. Andò avanti così per altre tre ore. Miller sudava, ma riuscì a dire che aveva lasciato l'ospedale troppo presto e non aveva mangiato in tutta la giornata. Era passata l'ora di colazione quando l'avvocato si dichiarò finalmente soddisfatto.

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«Allora, che cosa vuole?» domandò a Miller. «Be', signore, il fatto è che, visto che mi cercano, ho bisogno d'una serie di documenti per dimostrare che non sono Rolf Günther Kolb. Posso cambiare faccia, farmi crescere i capelli, farmi allungare i baffi, trovare un lavoro in Baviera o da qualche altra parte. Voglio dire che sono un fornaio in gamba, e la gente ha bisogno di pane, no?» Per la prima volta durante tutto il colloquio l'avvocato scoppiò a ridere. «Sì, mio buon Kolb, la gente ha bisogno di pane. Molto bene. Mi ascolti. Normalmente, le persone della sua posizione sociale, nella vita, non meritano che si dedichi loro molto tempo prezioso e si affrontino dei fastidi. Ma lei non si trova nei guai per colpa sua, ed è senza dubbio un tedesco bravo e leale, farò quello che posso. Non serve a niente procurarle una nuova patente. Questo non servirebbe a farle avere una tessera della Previdenza sociale senza presentare un certificato di nascita, che lei non ha. Ma con un passaporto nuovo potrebbe avere tutto questo. Ha denaro?» «No, signore. Sono al verde. Nei tre giorni scorsi ho fatto l'autostop per scendere a sud.» L'avvocato gli porse una banconota da cento marchi. «Lei non può stare qui, e ci vorrà almeno una settimana prima che sia pronto il suo nuovo passaporto. La manderò da un mio amico che le procurerà il passaporto. Vive a Stoccarda. Farà meglio a prendere una camera in qualche albergo anonimo e poi andare a trovarlo. Lo avvertirò che lei sta per arrivare, ed egli l'aspetterà.» L'avvocato scrisse qualcosa su un pezzo di carta. «Si chiama Franz Bayer, e questo è il suo indirizzo. Sarà meglio che prenda un treno per Stoccarda, trovi un albergo e vada direttamente da lui. Se le servono ancora soldi, l'aiuterà. Ma non vada in giro a scialacquare. Rimanga nascosto, finché Bayer le procura un nuovo passaporto. Poi le troveremo un lavoro nella Germania meridionale, e nessuno la rintraccerà più.» Miller prese i cento marchi e l'indirizzo di Bayer, ringraziando con imbarazzo. «Oh, grazie, Herr Docktor, lei è un vero gentiluomo.» La domestica lo accompagnò alla porta, ed egli ritornò dalle parti della stazione, verso l'albergo e la sua automobile. Un'ora dopo viaggiava a tutto gas verso Stoccarda, mentre l'avvocato telefonava a Bayer e l'avvertiva di attendere nel tardo pomeriggio Rolf Günther Kolb, ricercato dalla polizia. A quel tempo, Norimberga e Stoccarda erano collegate dall'autostrada, e la strada, che attraversava la lussureggiante pianura della Franconia e le colline e le vallate boscose del Württemberg, sarebbe stata pittoresca, in un giorno soleggiato e luminoso. In un buio pomeriggio di febbraio, col ghiaccio che luccicava sull'asfalto e con la nebbia che si addensava nelle vallate, il tratto serpeggiante fra Ansbach e Crailsheim era una pista mortale. Per due volte la pesante Jaguar finì quasi fuori strada, e Miller dovette ripetersi che non c'era fretta. Bayer, l'uomo che sapeva come procurarsi un passaporto falso, l'avrebbe aspettato. Miller arrivò quand'era già buio e trovò un piccolo albergo alla

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periferia della città, che comunque aveva un portiere notturno per i clienti nottambuli, e un garage per la sua automobile. Dal portiere che stazionava nell'ingresso si fece dare la pianta della città e trovò la via dove abitava Bayer, nel quartiere periferico di Ostheim, una zona elegante non lontana da Villa Berg, nei cui giardini, un tempo, i principi di Württemberg e le loro dame si erano sollazzati nelle notti estive. Seguendo la cartina, arrivò in automobile fino alle colline che incorniciano il centro di Stoccarda e parcheggiò la Jaguar a circa trecento metri dalla casa di Bayer. Mentre si chinava per chiudere a chiave la portiera, non vide una signora di mezza età che tornava a casa dalla riunione settimanale dell'Opera assistenza ricoverati della vicina clinica.

Alle 20 di quella sera, l'avvocato di Norimberga pensò che fosse meglio telefonare a Bayer per accertarsi che Kolb fosse arrivato sano e salvo. Fu la moglie di Bayer che rispose. «Oh, sì, il giovanotto. Lui e mio marito sono andati a cena da qualche parte.» «Ho telefonato solo per assicurarmi che fosse arrivato sano e salvo» disse l'avvocato. «Un giovanotto così simpatico» gorgogliò Frau Bayer. «Gli sono passata accanto mentre parcheggiava l'automobile. Stavo proprio tornando dalla mia riunione settimanale dell'Opera assistenza. Ma ha parcheggiato molto lontano da casa mia. Doveva aver perso la strada. Si fa presto, sa, a Stoccarda... tutte queste strade in salita e a senso unico...» «Mi scusi, Frau Bayer» la interruppe l'avvocato «quell'uomo non aveva con sé la Volkswagen. E' venuto col treno.» «No, no» disse Frau Bayer, felice di mostrarsi più al corrente di lui. «E' venuto con la macchina. Un giovanotto così simpatico, e una così bella macchina. Sono sicura che ha un gran successo con tutte le ragazze e...» «Frau Bayer, mi ascolti. Con attenzione. Che tipo di macchina era?» «Be', la marca non la conosco, naturalmente. Ma era un'automobile sportiva. Lunga, nera, con una striscia gialla sul fianco...» L'avvocato buttò giù il ricevitore, poi lo riprese per comporre un numero telefonico di Norimberga. Era leggermente sudato. Quando gli passarono l'albergo che aveva chiesto, diede il numero di una stanza. Dall'altro capo del filo, una voce familiare disse: «Pronto». «Mackensen,» abbaiò il Werwolf «venga qui subito, abbiamo trovato Miller.»

Capitolo 13.

Franz Bayer era grasso, rotondo e gioviale come sua moglie. Avvisato dal Werwolf di aspettare il fuggiasco, diede il benvenuto a Miller sulla porta di casa quando questi fece la sua comparsa, poco dopo le 20. Nell'ingresso, Miller fu presentato a Frau Bayer, la quale poi tornò a sfaccendare in cucina.

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«Dunque,» disse Bayer «è già stato nel Württemberg, mio caro Kolb?» «No, confesso di no.» «Ah, bene, noi qui ci vantiamo di essere gente molto ospitale. Senz'altro lei vorrà mangiare qualcosa. Ha mangiato oggi?» Miller gli disse che non aveva fatto né prima né seconda colazione, essendo rimasto sul treno tutto il pomeriggio. Bayer sembrò molto colpito. «Buon Dio, è terribile. Bisogna che mangi. Le dico io che cosa faremo, andremo in città e ci concederemo una cenetta coi fiocchi. Sciocchezze; mio caro ragazzo, è il minimo che posso fare per lei.» Andò in cucina per avvertire la moglie che portava l'ospite a cena e, dieci minuti dopo, erano nell'automobile di Bayer che si dirigeva verso il centro della città.

Erano almeno due ore di strada da Norimberga a Stoccarda, lungo la vecchia statale E 12, anche se uno spingeva al massimo l'automobile. E Mackensen, quella notte, la spinse al massimo. Mezz'ora dopo aver ricevuto la telefonata del Werwolf, al corrente dei fatti e munito dell'indirizzo di Bayer, era sulla strada. Arrivò a Stoccarda alle 22.30 e andò direttamente a casa di Bayer. Frau Bayer, allarmata da un'altra telefonata del Werwolf che le diceva che l'uomo di nome Kolb in realtà non si chiamava così e poteva anche essere un informatore della polizia, era tremante e atterrita. I modi bruschi di Mackensen non l'aiutarono certo a tranquillizzarsi. «Quando sono andati via?» «Verso le 20.15» disse con voce tremula. «Hanno detto dove andavano?» «No. Franz ha detto soltanto che il giovanotto non aveva mangiato e lo portava a pranzo al ristorante. Ho risposto che avrei potuto cucinare io qualcosa, in casa, ma a Franz piace mangiare fuori. Qualsiasi scusa è buona...» «Questo Kolb, lei ha detto che l'ha visto parcheggiare l'automobile. Dove?» La donna gli indicò la strada dov'era parcheggiata la Jaguar, e come arrivarci da casa sua. Mackensen rifletté per qualche istante. «Ha idea di quale ristorante possa aver scelto suo marito?» domandò. La donna ci pensò per un attimo. «Be', il suo ristorante preferito è il Tre Mori, in Friedrichstrasse» disse. «Di solito prova lì.» Mackensen lasciò la casa e raggiunse con la sua automobile la Jaguar parcheggiata. La esaminò attentamente per assicurarsi di riconoscerla in futuro, non appena l'avesse vista. Era indeciso se restare lì e attendere il ritorno di Miller. Ma gli ordini del Werwolf erano di rintracciare Miller e Bayer, avvisare l'uomo dell'Odessa e mandarlo a casa, e occuparsi di Miller. Per questo motivo non aveva telefonato al Tre Mori. Avvisare Bayer voleva dire avvisare Miller che era stato scoperto, dandogli la possibilità di sparire ancora.» Mackensen guardò l'orologio. Erano le 22.50. Risalì sulla sua Mercedes e si diresse verso il centro della città.

In un piccolo e buio albergo di una stradina di Monaco, Josef era

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sdraiato, sveglio, sul letto, quando il portiere gli telefonò per annunciargli che era arrivato un telegramma per lui. Scese nell'atrio e torno nella sua stanza con il telegramma. Seduto al tavolo traballante, aprì la busta marrone ed esaminò il lungo contenuto, che cominciava:

"Questi sono i prezzi che possiamo accettare per le merci di cui il cliente ci ha fatto richiesta: Sedano: 481 marchi, 53 pfennige. Meloni: 862 marchi, 17 pfennige. Arance: 627 marchi, 24 pfennige. Pompelmi: 313 marchi, 88 pfennige..."

La lista di frutta e verdura era lunga, ma tutti gli articoli erano quelli abitualmente esportati da Israele, e il telegramma sembrava la risposta di una ditta esportatrice a una richiesta di prezzi da parte del rappresentante in Germania. Servirsi di un telegramma non era certo sicuro, ma attraverso l'Europa passavano tutti i giorni tanti di quei telegrammi commerciali che per controllarli tutti ci sarebbe voluto un esercito. Senza curarsi delle parole, Josef trascrisse le cifre in un lungo elenco. Poi divise i numeri in gruppi di sei cifre. Da ciascun gruppo sottrasse la data, 20 febbraio 1964, che trascrisse col numero 20264. In tutti e sei i casi, il risultato fu un altro gruppo di sei cifre. Era un codice semplice, basato sull'edizione tascabile del Webster "New World Dictionary", pubblicato dalla Popular Library di New York. Le prime tre cifre del gruppo indicavano la pagina nel dizionario; la quarta era una cifra qualsiasi dall'1 al 9: un numero dispari indicava la colonna uno, un numero pari la colonna due. Le ultime due cifre indicavano la riga della colonna a partire dall'alto. Lavorò per mezz'ora, poi rilesse lentamente il messaggio. Trenta minuti dopo, era a casa di Leon. Il capo del gruppo dei vendicatori lesse il messaggio e imprecò. «Mi dispiace» disse alla fine. «Non potevo saperlo.» All'insaputa di tutti e due, tre informazioni erano venute in possesso del Mossad nei sei giorni precedenti. Una era del "residente" israeliano a Buenos Aires, il quale comunicava che qualcuno aveva autorizzato il pagamento d'una somma equivalente a un milione di marchi tedeschi a un tale di nome Vulkan "per permettergli di portare a termine la fase successiva del suo progetto di ricerca". La seconda era di un impiegato ebreo di una banca svizzera che, notoriamente, trasferiva valuta dai fondi segreti nazisti per pagare gli uomini dell'Odessa nell'Europa occidentale: diceva che da Beirut era stato trasferito alla banca un milione di marchi, ed era stato prelevato da un uomo che da dieci anni aveva un conto alla banca sotto il nome di Fritz Wegener. La terza informazione veniva da un colonnello egiziano con un'importante posizione nell'apparato di sicurezza che proteggeva la base 333, che, in vista di una notevole quantità di denaro che gli avrebbe permesso un confortevole congedo, aveva parlato per diverse ore con un uomo del Mossad in un albergo di Roma. L'uomo comunicava

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che al progetto missilistico mancava solo un sicuro sistema di teleguida, che esso era in fase di costruzione in una fabbrica della Germania occidentale e che il progetto costava all'Odessa milioni di marchi. Le tre notizie, fra migliaia di altre, erano passate dal centro di elaborazione elettronica del professor Youvel Neeman, il genio israeliano che per primo aveva aperto nuovi orizzonti alla scienza in fatto di analisi di dati con gli elaboratori, e che in seguito sarebbe diventato il padre della bomba atomica israeliana. Dove un cervello umano poteva fallire, i ronzanti microcircuiti avevano collegato le tre notizie a quella che nel 1955, secondo la denuncia della moglie, Roschmann aveva usato il nome di Fritz Wegener, e avevano tirato le somme. Josef, nel quartiere sotterraneo, fece un giro attorno a Leon. «Da adesso in avanti, me ne starò qui. Non mi allontanerò dal telefono. Mi procuri una motocicletta potente e una tuta. Che siano pronte entro un'ora. Se e quando il suo prezioso Miller si farà vivo, dovrò raggiungerlo in fretta.» «Se è nei guai, non ci arriverà abbastanza in fretta» disse Leon. «Non mi meraviglio che l'abbiano avvertito di stare alla larga. Lo ammazzeranno, se si trova nel raggio d'un chilometro dal suo uomo.» Quando Leon lasciò lo scantinato, Josef scorse per l'ennesima volta il telegramma arrivato da Tel Aviv, che diceva:

ALLARME NUOVE INFORMAZIONI INDICANO CHIAVE SUCCESSO MISSILI INDUSTRIALE TEDESCO OPERANTE VOSTRO TERRITORIO STOP NOME DI CODICE VULKAN STOP IDENTIFICAZIONE PROBABILE ROSCHMANN STOP USATE IMMEDIATAMENTE MILLER STOP RINTRACCIARE ET ELIMINARE STOP CORMORANO

Josef sedette al tavolo e cominciò a pulire la sua Walther P.P.K. automatica. Di quando in quando lanciava occhiate al telefono che rimaneva silenzioso.

Durante la cena, Bayer era stato un ospite gioviale, ridendo fragorosamente mentre raccontava all'altro le sue barzellette preferite. Miller tentò più volte di riportare la conversazione al problema del suo nuovo passaporto. Ogni volta, Bayer gli dava una rumorosa pacca sulla schiena, gli diceva di non preoccuparsi e aggiungeva: «Lascia fare a me, lascia fare al vecchio Franz.» Si diede un colpetto con l'indice sul lato destro del naso e gli strizzò l'occhio, sprizzando felicità da tutti i pori. Una capacità che Miller aveva ereditato da otto anni di giornalismo, era quella di bere e di mantenersi lucido. Ma non era abituato al vino bianco, di cui aveva abbondantemente innaffiato le varie portate. Ma il vino bianco ha un vantaggio se si cerca di far ubriacare un'altra persona. Viene servito in caraffe con ghiaccio e acqua, per mantenerlo freddo, e per tre volte Miller riuscì a vuotare il suo bicchiere nella caraffa del ghiaccio mentre Bayer guardava da un'altra parte. Al dessert, i due avevano già fatto fuori due bottiglie di eccellente

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vino del Reno, e Bayer, stretto da scoppiare nella sua giacca coi bottoni di osso, sudava a torrenti. L'effetto fu quello di aumentare la sua sete, e Bayer ordinò una terza bottiglia di vino. Miller fingeva di essere preoccupato dall'eventualità che fosse impossibile procurargli un nuovo passaporto, e dal suo inevitabile arresto per la parte avuta nei fatti di Flossenburg del 1945. «Avrà bisogno di una mia fotografia, no?» domandò. Bayer rise fragorosamente. «Sì, un paio di fotografie. Nessun problema. Puoi fartele in una di quelle cabine automatiche della stazione. Aspetta che ti crescano un po' i capelli e ti s'infoltiscano i baffi, e nessuno saprà mai che si tratta della stessa persona.: «E poi che succederà?» domandò Miller con ansia. Bayer si allungò sulla sedia e gli mise il grasso braccio attorno alle spalle. Mentre Bayer gli bisbigliava all'orecchio, Miller sentì la puzza del vino arrivargli in faccia. «Poi le spedisco da un mio amico, e dopo una settimana arriva il passaporto. Col passaporto ti faremo ottenere una patente di guida - dovrai superare l'esame, naturalmente - e una tessera di Previdenza sociale. Per quanto riguarda le autorità, sei appena tornato in patria dopo quindici anni all'estero. Non c'è problema, vecchio mio, smettila di preoccuparti.» Anche se Bayer era ormai ubriaco, riusciva ancora a usare la lingua. Non volle aggiungere altro, e Miller aveva paura di insistere troppo. Anche se moriva dalla voglia di un caffè, Miller lo rifiutò, per evitare che il caffè rendesse Franz Bayer più sobrio. Il grassone pagò il conto, prendendo i soldi da un portafoglio ben imbottito, e tutt'e due si diressero verso il guardaroba. Erano le 22.30. «E' stata una serata molto bella, Herr Bayer. Grazie.» «Franz, Franz» ansimò il grassone, mentre lottava per infilarsi il cappotto. «M'immagino che questo sia tutto quello che offre Stoccarda, come vita notturna» osservò Miller, infilandosi il suo. «Ah, ah, sciocco che non sei altro. E' tutto quello che conosci tu. Abbiamo una piccola grande città qui, sai? Una mezza dozzina di buoni cabarets. Hai voglia di andarci?» «Vuol dire che ci sono cabarets con lo spogliarello e tutto il resto?» domandò Miller, sgranando gli occhi. Bayer sbuffò con giubilo. «Che ne dici? A me non spiacerebbe guardare qualcuna di quelle signorine che si tolgono i vestiti.» Bayer diede un buffetto alla ragazza del guardaroba e si avviò con passo pesante all'uscita. «Che locali notturni ci sono a Stoccarda?» domandò Miller con aria innocente. «Be', ora vediamo un po'. C'è il Moulin Rouge, il Balzac, l'Imperial e il Sayonara. Poi c'è il Madeleine in Eberhardstrasse...» «Eberhard? Buon Dio, che combinazione. Era il mio principale a Brema, l'uomo che mi ha tirato fuori da questo guaio e mi ha mandato dall'avvocato di Norimberga!» esclamò Miller. «Bene. Bene. Perfetto. Andiamoci, allora» esclamò Bayer e si diresse

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verso la sua automobile.

Mackensen arrivò al Tre Mori alle 23.15. Interpellò il capo cameriere, che stava salutando gli ultimi clienti. «Herr Bayer? Sì, era qui stasera. Se ne è andato circa mezz'ora fa.» «Era con un ospite? Un uomo alto con i capelli corti, bruno, e i baffi.» «Proprio così. Erano seduti a quel tavolo d'angolo.» Mackensen fece scivolare senza difficoltà una banconota da venti marchi nella mano dell'uomo. «E' di vitale importanza che io riesca a trovarlo. Sua moglie, sa, ha avuto all'improvviso un collasso.» La faccia del cameriere si raggrinzò, preoccupata. «Dio mio, che cosa orribile.» «Sa dove andavano, usciti da qui?» «Le confesso di no» disse il capo cameriere. Chiamò uno dei camerieri più giovani. «Hans, tu hai servito Herr Bayer e il suo ospite. Hanno detto se andavano da qualche parte?» «No» rispose Hans. «Non hanno detto niente del genere, che io sappia.» «Provi dalla ragazza del guardaroba» suggerì il capo cameriere. «Può averli sentiti lei, se hanno fatto qualche programma.» Mackensen domandò alla ragazza. Poi chiese una copia dell'opuscolo turistico "Dove andare a Stoccarda". Nella pagina riservata ai cabarets, c'era una mezza dozzina di nomi. Nelle pagine centrali dell'opuscolo era disegnata la pianta stradale del centro della città. Ritornò alla macchina e si diresse verso il primo locale dell'elenco.

Miller e Bayer erano seduti a un tavolo per due del Madeleine. Bayer, che era al suo secondo whisky, fissava con gli occhi sgranati una giovane donna superdotata che ancheggiava in mezzo alla sala, slacciandosi il reggiseno. Quando finalmente se lo tolse, Bayer infilò un gomito fra le costole di Miller. Fremeva dall'agitazione. «Che scopata, eh, ragazzo? Che scopata mi farei» ridacchiò. Mezzanotte era passata da un pezzo, e lui era ubriaco fradicio. «Senta, Herr Bayer, sono preoccupato» sussurrò Miller. «Voglio dire, nei guai ci sono io. Quanto tempo le ci vuole per farmi questo passaporto?» Bayer passò un braccio attorno alle spalle di Miller. «Senti, Rolf, vecchio mio, te l'ho detto. Non devi preoccuparti, capito? Lascia fare al vecchio Franz.» Strizzò significativamente l'occhio. «Comunque, i passaporti non li faccio io. Io mando le fotografie al tizio che li fa, e una settimana dopo me li rimandano. Nessun problema. Adesso, bevi qualcosa assieme al tuo vecchio amico Franz.» Alzò una mano grassa e tozza e la agitò in aria. «Cameriere, un altro giro.» Miller si appoggiò allo schienale e rifletté. Se doveva aspettare che gli crescessero i capelli per fare le fotografie per il passaporto, sarebbero trascorse due o tre settimane. E lui voleva subito il nome e l'indirizzo di chi faceva i passaporti per l'Odessa. Ma anche se Bayer

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era ubriaco, non lo era al punto di venirgli a raccontare chi erano i suoi contatti per la falsificazione dei documenti. Riuscì a trascinare via il grassone solo alla fine della prima parte dello spettacolo. Quando finalmente uscirono all'aria fredda, erano le 1 passate. Bayer si reggeva a fatica in piedi e teneva un braccio attorno alle spalle di Miller; il passaggio improvviso al freddo della notte lo fece star peggio. «Guido io fino a casa sua» disse Miller mentre si avvicinavano all'automobile. Prese le chiavi dalla tasca del cappotto di Bayer e aiutò il grassone a salire sul sedile anteriore. Sbatté la portiera, si spostò dalla parte della guida, e salì a bordo. In quel momento, una Mercedes grigia voltò l'angolo dietro di loro e si fermò a una ventina di metri di distanza. Dietro il parabrezza, Mackensen, che aveva già visitato cinque locali notturni, fissò il numero di targa dell'automobile che stava staccandosi dal marciapiede di fronte al Madeleine. Era il numero che gli aveva indicato Frau Bayer. L'automobile di suo marito. Innestò la marcia e la seguì. Miller guidava con attenzione, lottando contro la propria sbronza. L'ultima cosa che desiderava in quel momento era di essere fermato da un'autopattuglia di servizio, ed essere sottoposto al test dell'alcoolismo. Non si diresse verso la casa di Bayer, ma verso il proprio albergo. Lungo il percorso Bayer sonnecchiò, con la testa che gli ciondolava in avanti, allargando i suoi numerosi doppimenti sul colletto e la cravatta. Di fronte all'albergo, Miller lo scosse più volte. «Andiamo.» disse «Forza, Franz, vecchio mio, facciamoci il bicchiere della staffa.» Il grassone lo fissava, senza espressione. «Devo tornare a casa» borbottò. «La moglie aspetta.» «Andiamo, solo un bicchierino per finire la serata. Ce lo facciamo nella mia stanza e parliamo dei vecchi tempi.» Bayer fece un sorriso ebete. «Parlare dei vecchi tempi. Bei tempi, sono stati, Rolf.» Miller scese dalla macchina e fece il giro fino all'altra portiera per aiutare il grassone a mettere i piedi sul marciapiede. «Bei tempi» disse, mentre aiutava Bayer ad attraversare il marciapiede ed entrare nell'albergo. «Vieni a farti una bella chiacchierata sui vecchi tempi.» In fondo alla strada, la Mercedes aveva spento le luci, confondendosi con le ombre scure della via. Miller aveva in tasca la chiave della stanza. Dietro al banco, il portiere notturno dormiva. Bayer cominciò a borbottare qualcosa. «Ssss,» disse Miller, «devi startene zitto.» «Devo starmene zitto» ripeté Bayer, saltellando in punta di piedi con la leggerezza d'un elefante, verso la scala. Per fortuna di Miller, la sua stanza era al secondo piano, altrimenti Bayer non ce l'avrebbe mai fatta. Aprì la porta, accese la luce e sistemò Bayer nell'unica poltrona della stanza, un aggeggio durissimo con braccioli di legno. Fuori, Mackensen osservava la facciata buia dell'albergo. Alle 2 di notte, tutte le luci erano spente. Quando si illuminò una finestra,

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egli notò che era al secondo piano, sul lato destro dell'albergo. Pensò alla possibilità di salire e colpire Miller appena apriva la porta della camera. Due considerazioni gli fecero bocciare il progetto. Al di là della porta di vetro dell'albergo, vedeva il portiere notturno, svegliato dal passo pesante di Bayer, passeggiare nell'atrio. Avrebbe senz'altro notato una persona che non era un cliente dell'albergo e che saliva la scala alle 2 di notte, e più tardi avrebbe dato una descrizione precisa alla polizia. L'altra considerazione riguardava le condizioni di Bayer. Aveva osservato il grassone mentre attraversava il marciapiede sorretto da Miller, ed era chiaro che non sarebbe mai riuscito a scappare in fretta dall'albergo. Se la polizia avesse preso Bayer, il Werwolf non gliel'avrebbe perdonata. Nonostante le apparenze, Bayer appariva col suo vero nome nell'elenco delle persone ricercate e rivestiva un ruolo molto importante all'interno dell'Odessa. Alla fine Mackensen decise di tentare di colpirlo attraverso la finestra. Di fronte all'albergo, c'era un edificio in costruzione. L'impalcatura e i piani erano ultimati, e una rudimentale scala di cemento portava al secondo piano. Poteva appostarsi lì, Miller non doveva andare da nessuna parte. Ritornò con decisione verso la sua automobile per prendere il fucile che aveva chiuso nel portabagagli. Bayer fu colto completamente di sorpresa, quando arrivò il colpo. Le sue reazioni, rallentate dall'alcool, non gli diedero la capacità di reagire in tempo. Miller, fingendo di cercare la sua bottiglia di whisky, aprì un'anta dell'armadio e prese una cravatta. Ne aveva portate con sé soltanto due, e l'altra era quella che indossava. Se la tolse. Non aveva mai avuto occasione di fare uso dei colpi che aveva imparato durante il servizio militare, dieci anni prima, e non era del tutto sicuro della loro efficacia. A convincerlo a colpire con tutte le sue forze fu l'enorme massa del collo di Bayer, il quale, seduto sulla poltrona, mormorava: «Che bei tempi, che grandi tempi...»; visto da dietro, il suo collo sembrava una montagna rosa. Non fu nemmeno un colpo da knock-out, perché il taglio della sua mano non era allenato e il collo di Bayer era protetto da uno spesso strato di grasso. Ma fu abbastanza. Quando l'uomo di collegamento dell'Odessa riuscì a venire fuori dal suo torpore aveva i polsi saldamente legati ai braccioli di legno della poltrona. «Che cazzo...?» grugnì con voce rauca, scuotendo la testa per schiarirsi il cervello. Miller gli tolse la cravatta per legargli la caviglia sinistra al piede della poltrona; gli aveva già legato la caviglia destra con il filo del telefono. Quando cominciò a capire, Bayer guardò Miller con gli occhi sbarrati. Come tutta la gente del suo stampo, Bayer era perseguitato da un incubo che non lo abbandonava mai. «Non puoi portarmi via di qui» disse. «A Tel Aviv, non mi ci porterai mai. Non puoi dimostrare niente, non ho fatto niente a voialtri...» Le parole gli rimasero in gola, quando un calzino gli fu cacciato in bocca e la sciarpa di Miller, un regalo della sua sempre sollecita mamma, gli fu avvolta attorno alla faccia. Da sopra la sciarpa, i suoi occhi lanciavano occhiate disperate.

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Miller prese una sedia, la girò e vi si sedette a cavalcioni, con la faccia a mezzo metro da quella del suo prigioniero. «Ascoltami bene, botte di lardo. Per prima cosa, io non sono un agente israeliano. E poi, tu non vai da nessuna parte. Te ne stai qui, e dovrai parlare, proprio qui. Capito?» Come risposta, Bayer lo fissava da sopra la sciarpa. I suoi occhi non brillavano più di contentezza; erano iniettati di sangue, come quelli d'un cinghiale inferocito. «Quello che voglio, e che avrò prima che faccia giorno, è il nome e l'indirizzo di chi fa i passaporti per l'Odessa.» Si guardò attorno, vide la lampada sul comodino a fianco del letto, staccò la spina e la prese. «E adesso, Bayer, o comunque ti chiami, io ti toglierò il bavaglio. E tu parlerai. Se cerchi di gridare, ti prendi questo in testa. Non m'interessa affatto se ti sfascio il cranio o no. Chiaro?» Miller non diceva la verità. In vita sua non aveva mai ucciso un uomo e non aveva il minimo desiderio di iniziare adesso. Allentò la sciarpa e tirò fuori il calzino dalla bocca di Bayer, con la lampada nella mano destra, in alto, sopra la testa del grassone. «Bastardo: sibilò Bayer. «Sei una spia. Non saprai niente da me.» Aveva appena finito di pronunciare quelle parole che si ritrovò il calzino in mezzo alle sue guance cascanti. La sciarpa fu avvolta attorno alla faccia. «No?» disse Miller. «Vedremo. Comincerò dalle dita, poi mi dirai se ti piace.» Prese il mignolo e l'anulare della mano destra di Bayer e li piegò all'indietro finché non furono quasi in posizione verticale. Bayer si contorse sulla poltrona, e per poco non riuscì a rovesciarla. Miller la tenne ferma e aumentò la pressione sulle dita. Poi, tolse di nuovo il bavaglio. «Posso spezzarti tutte le dita, Bayer» sussurrò. «Dopo di che, tolgo la lampadina da quell'abat-jour, accendo e ci infilo il tuo cazzo al posto della lampadina.» Bayer chiuse gli occhi. Il sudore gli scendeva a rivoli sulla faccia. «No, gli elettrodi no! Gli elettrodi no. Non lì.» «Tu sai cosa si prova, vero?» domandò Miller, con la bocca a pochi centimetri dall'orecchio di Bayer. Bayer riaprì gli occhi e gemette sottovoce. Sapeva bene che cosa si provava. Vent'anni prima era stato uno degli uomini che avevano imprigionato il "Coniglio Bianco", il tenente colonnello Yeo-Thomas, infliggendogli le torture più crudeli nei sotterranei della prigione di Fresnes a Parigi. Lo sapeva fin troppo bene, anche se non lo aveva mai sperimentato direttamente. «Parla» sibilò Miller. «Il falsario, nome e indirizzo. Bayer scosse lentamente la testa. «Non posso» mormorò. «Mi uccideranno.» Miller gli rimise il bavaglio. Prese il mignolo di Bayer, chiuse gli occhi e spinse con forza. L'osso si staccò alla giuntura. Bayer si sollevò sulla poltrona e vomitò nel bavaglio. Miller glielo strappò via, prima che il grassone soffocasse. La testa di Bayer scivolò in avanti, e la costosissima cena, accompagnata da

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due bottiglie di vino e diversi Scotch doppi, gli si riversò giù per la giacca, sui pantaloni. «Parla» disse Miller. «Hai ancora nove dita da farti spezzare.» Bayer deglutì, con gli occhi chiusi. «Winzer» disse. «Chi?» «Winzer. Klaus Winzer. Li fa lui, i passaporti.» «E' un falsario di professione?» «E' un tipografo.» «Dove? In quale città?» «Mi ammazzeranno.» «Ti ammazzerò io, se non me lo dici. In quale città?» «Osnabrück» sussurrò Bayer. Miller rimise il bavaglio sulla bocca del grassone e rifletté. Klaus Winzer, un tipografo di Osnabrück. Prese la sua valigetta, che conteneva il diario di Salomon Tauber e diverse carte stradali, e tirò fuori la carta della Germania. L'autostrada per Osnabrück, su a nord nella Westfalia settentrionale, passava per Mannheim, Francoforte, Dortmund e Muster: un viaggio di quattro-cinque ore, a seconda delle condizioni stradali. Erano già quasi le 3 del 21 febbraio. Dall'altro lato della strada, Mackensen rabbrividiva sopra l'impalcatura al secondo piano dell'edificio in costruzione. Nella stanza di fronte, la luce era ancora accesa. I suoi occhi correvano in continuazione dalla finestra illuminata all'ingresso dell'albergo. Se Bayer fosse uscito, pensava, avrebbe potuto prendere Miller da solo. O se fosse uscito Miller, avrebbe potuto raggiungerlo lungo la strada. O se qualcuno apriva la finestra per respirare un po' d'aria fresca. Rabbrividì nuovamente e strinse la pesante carabina Remington 300. Con un fucile del genere, non c'erano problemi. Mackensen sapeva attendere, era un uomo paziente. Nella sua stanza, Miller impacchettava con calma le sue cose. Aveva bisogno che Bayer restasse tranquillo per almeno sei ore. Forse era troppo terrorizzato per avvertire i suoi capi di aver rivelato il segreto del falsario. Ma non poteva contarci. Miller dedicò gli ultimi minuti a stringere le corde e il bavaglio che tenevano Bayer immobile e silenzioso, poi adagiò la poltrona su un fianco, in modo che il grassone non potesse attirare l'attenzione facendola cadere a terra. Il filo del telefono era già stato strappato. Diede un'ultima occhiata alla stanza ed uscì, chiudendo a chiave la porta. Era quasi in cima alle scale quando gli venne in mente che il portiere notturno poteva averli visti, tutti e due, mentre salivano le scale. Cosa avrebbe pensato, vedendo scendere uno solo, che pagava il conto e se ne andava? Miller fece marcia indietro e si diresse verso la parte posteriore dell'albergo. In fondo al corridoio c'era una finestra che guardava verso l'esterno, su una scala di sicurezza. Tirò il chiavistello e uscì sulla scaletta. Pochi secondi dopo si trovava nel cortile, dove c'era il garage. Un ingresso posteriore portava a una stradina dietro l'albergo. Un paio di minuti dopo, camminava a lunghi passi verso il posto dove

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aveva lasciato la Jaguar, a meno di un chilometro dalla casa di Bayer. Gli effetti dell'alcool e dell'attività notturna si combinavano in modo da farlo sentire disperata mente stanco. Aveva un bisogno terribile di dormire, ma si rendeva conto che doveva raggiungere Winzer prima che fosse dato l'allarme. Erano quasi le 4 quando salì a bordo della Jaguar, e mezz'ora dopo era sull'autostrada che portava a nord, verso Heilbronn e Mannheim. Appena Miller se ne fu andato, Bayer, completamente lucido, cominciò a divincolarsi per liberarsi. Cercò di piegare la testa in avanti, in modo da poter usare i denti, nonostante la sciarpa e il calzino, sui nodi delle cravatte che gli legavano i polsi alla poltrona. Ma era troppo grasso per abbassarsi a sufficienza, e il calzino che aveva in bocca gli teneva le mascelle spalancate. A intervalli di pochi minuti, doveva fare una pausa per inspirare profondamente dal naso. Diede uno strattone e tirò i legami alle caviglie, ma questi resistettero. Poi, nonostante il mignolo rotto ed enfiato, provò a torcere i polsi per liberarli. Alla fine, scorse la lampada che era rimasta sul pavimento. La lampadina era ancora dentro, ma una lampadina rotta dà abbastanza frammenti di vetro per tagliare una cravatta. Gli ci volle un'ora per spingere sul pavimento la poltrona rovesciata, e rompere la lampadina. Può sembrare facile usare un pezzo di vetro rotto per liberare i polsi dai legacci, ma non lo è. Bayer, poi, era tutto sudato, e il sudore inumidiva il tessuto delle cravatte rendendole ancora più aderenti. Erano le 7, e la luce cominciava a filtrare sopra i tetti della città, quando finalmente la cravatta che gli legava il polso sinistro cominciò a sfilacciarsi. Erano quasi le 8, quando Bayer riuscì a tagliarla. A quell'ora, la Jaguar di Miller percorreva il raccordo di Colonia, a ovest della città, con altri centocinquanta chilometri davanti prima di arrivare a Osnabrück. Aveva cominciato a piovere, una pioggia mista a neve che formava una pa tina scivolosa sull'autostrada, e l'effetto ipnotico dei tergicristalli faceva quasi addormentare Miller. Ridusse la velocità sui centoventi, piuttosto di rischiare di andare fuori strada, sui campi fangosi che aveva ai due lati della strada. Con la mano sinistra libera, Bayer impiegò pochi minuti per togliersi il bavaglio; poi rimase immobile per parecchio tempo, a respirare affannosamente. L'odore della stanza era spaventoso, un misto di sudore, paura, vomito e whisky. Sciolse il nodo al polso destro, resistendo al dolore che dal mignolo spezzato gli saliva su per il braccio; e alla fine liberò i piedi. Il suo primo pensiero fu la porta, ma era chiusa a chiave. Tentò col telefono, muovendosi a fatica sui piedi intorpiditi. Infine arrivò barcollando alla finestra, tirò le tende e la spalancò. Nella sua postazione, dall'altra parte della strada, Mackensen, nonostante il freddo, si era quasi addormentato, quando vide tirare le tende della camera di Miller. Mise la Remington in posizione di mira, aspettò che le tende si aprissero, poi sparò direttamente in faccia alla figura che aveva davanti. La pallottola colpì Bayer alla gola: era già morto quando il suo corpo

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massiccio si abbatté con un tonfo sul pavimento. Per un minuto, il rumore dello sparo poteva essere scambiato per quello di uno scappamento, ma non più a lungo. Entro un minuto e forse meno, anche se era mattino presto, qualcuno avrebbe cominciato a indagare. Senza fermarsi per dare ancora un'occhiata alla stanza dall'altra parte della strada, Mackensen aveva già lasciato il secondo piano e scendeva di corsa i gradini di cemento dell'edificio. Uscì di corsa dal retro, scansando un mucchio di ghiaia e alcuni attrezzi nel cortile. Arrivò alla sua automobile in meno di un minuto, ripose il fucile nel portabagagli e si allontanò. Mentre, seduto al volante, accendeva il motore, sapeva già che qualcosa non era andato per il giusto verso. Sospettava di aver commesso un errore. L'uomo che il Werwolf gli aveva ordinato di uccidere era alto e sottile. La figura alla finestra era quella di un uomo grasso. Da quel che aveva visto la sera precedente, ormai era sicuro di aver colpito Bayer. Non che fosse un problema molto grave. Vedendo Bayer morto, disteso sul tappeto, Miller se la sarebbe data a gambe. Quindi sarebbe corso alla sua Jaguar, parcheggiata a cinque chilometri di distanza. Mackensen si diresse con la Mercedes verso il posto dove aveva visto la Jaguar per l'ultima volta. Cominciò a preoccuparsi seriamente soltanto quando vide che, fra la Opel e il camioncino Benz, dove la sera prima c'era la Jaguar, adesso il posto era vuoto. Mackensen non sarebbe certo stato il carnefice primo dell'Odessa, se fosse stato il tipo da lasciarsi prendere facilmente dal panico. Si era già trovato troppe volte in situazioni difficili. Rimase seduto al volante della Mercedes per parecchi minuti, considerando la possibilità che a quell'ora Miller si trovasse a centinaia di chilometri di distanza. Se Miller aveva lasciato in vita Bayer, pensò, poteva solo significare che non aveva saputo niente da lui, o che aveva saputo qualcosa. Nel primo caso non c'era da preoccuparsi; Miller, lo potevano prendere in un secondo tempo. Non c'era fretta. Se invece Miller aveva saputo qualcosa da Bayer, non potevano essere che informazioni. Solo il Werwolf poteva sapere quale informazione stava cercando Miller, che Bayer gli aveva dato. Quindi, nonostante la paura che gli suscitava la collera del Werwolf, gli avrebbe telefonato. Gli ci vollero venti minuti per trovare un telefono pubblico. Mackensen portava sempre con sé una manciata di monete da un marco, per fare le telefonate. Quando il Werwolf rispose al telefono e apprese la notizia, si lasciò trasportare da un accesso di collera, lanciando insulti all'indirizzo del sicario. Gli ci vollero parecchi secondi per riuscire a calmarsi. «Farà bene a trovarlo, razza d'imbecille, e alla svelta. Dio sa dov'è andato, adesso.» Mackensen gli spiegò che aveva bisogno di sapere che tipo di informazione poteva avergli dato Bayer. All'altro capo del filo, il Werwolf rifletté per un po'. «Buon Dio,» disse col fiato sospeso «il falsario. Sa il nome del falsario.» «Quale falsario, capo?» domandò Mackensen.

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Il Werwolf si riprese. «Mi metterò in contatto con la persona in questione e l'avviserò» disse, asciutto. «E' da lui che è andato Miller.» Dettò un indirizzo a Mackensen e aggiunse: «Corra a Osnabrück a tutta velocità, come non ha mai corso prima. Troverà Miller a quell'indirizzo, o da qualche altra parte in città. Se non è in casa, continui a cercare la Jaguar in città. E questa volta, non si lasci scappare la Jaguar. E' l'unico posto dove lui ritorna sempre.» Sbatté giù il ricevitore, poi lo sollevò e formò il numero dell'elenco abbonati. Quando ebbe il numero che cercava, telefonò a Osnabrück. A Stoccarda, Mackensen si ritrovò in mano il ricevitore che ronzava. Lo appoggiò sulla forcella e tornò in automobile, affrontando la prospettiva di un lungo e massacrante viaggio, seguito da un altro "lavoro". Era stanco quasi quanto Miller, che in quel momento era a una trentina di chilometri da Osnabrück. Nessuno dei due dormiva da ventiquattr'ore, e Mackensen non aveva mangiato dal mezzogiorno del giorno prima. Infreddolito fino al midollo dalla veglia notturna, con la voglia d'un caffè caldo e fumante e una Steinhäger, si diresse a nord, sulla strada per la Westfalia.

Capitolo 14.

A guardarlo, in Klaus Winzer non c'era niente che facesse pensare all'ex-S.S. Era al di sotto dell'altezza regolamentare di un metro e ottanta, e poi era miope. A quarant'anni, era grassoccio e pallido, con capelli biondi e crespi, e un atteggiamento diffidente. In effetti, la sua era stata una delle carriere più strane, per uno che indossa l'uniforme da S.S. Nato nel 1924, era figlio d'un certo Johann Winzer, un macellaio di Wiesbaden, un uomo grasso e violento che, fin dall'inizio degli Anni Venti, era stato un devoto seguace di Adolf Hitler e del partito nazista. Da sempre, Klaus si ricordava di suo padre che tornava a casa dopo le risse coi comunisti e i socialisti. Klaus aveva preso da sua madre, e con gran disgusto di suo padre, era cresciuto basso, gracile, miope e mansueto. Odiava la violenza, gli sport e l'appartenere alla Gioventù hitleriana. Solo in una cosa si distingueva: da quando era bambino, si era appassionato alla calligrafia e alla compilazione di elaborati manoscritto ti, un'attività che suo padre considerava da effeminati. Con l'avvento dei nazisti al potere, il macellaio prosperò, ottenendo come ricompensa per i suoi precedenti servigi al partito il contratto esclusivo per il rifornimento di carne agli accantonamenti locali delle S.S. Ammirava profondamente i giovani delle S.S., col loro passo baldanzoso, e sperava con tutto il cuore di vedere un giorno suo figlio con indosso i colori nero e argento delle Schütz Staffel. Klaus non mostrava tendenze del genere, preferendo passare il tempo sui manoscritto ti, facendo esperimenti con gli inchiostri colorati e i bei titoli. Arrivò la guerra, e nella primavera del 1942 Klaus compì diciotto

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anni, l'età della chiamata alle armi. Al contrario del padre, che aveva pugni grossi come prosciutti, amava le risse e odiava gli ebrei, egli era mingherlino, pallido e timido. Non passò nemmeno la visita medica, che allora era necessaria; Klaus fu rimandato a casa dalla commissione di reclutamento. Per suo padre fu l'ultima goccia. Johann Winzer prese il treno per Berlino per parlare con un vecchio amico, che aveva fatto carriera nelle S.S., nella speranza che questi potesse intercedere per suo figlio e farlo entrare in qualche dipartimento al servizio del Reich. L'uomo era disposto ad aiutarlo per quanto era possibile, cioè non molto, e domandò se c'era qualcosa in particolare che il giovane Klaus sapesse fare bene. Con un senso di vergogna, Johann ammise che il figlio sapeva solo compilare manoscritto ti miniati. L'amico promise il suo interessamento, e domandò se Klaus era in grado di preparare un attestato miniato su pergamena in onore di un maggiore delle S.S., Fritz Suhren. A Wiesbaden Klaus fece quanto gli era stato chiesto, e nel corso di una cerimonia a Berlino il manoscritto to venne mostrato da Suhren ai suoi colleghi. Suhren, che era allora comandante del campo di concentramento di Sachsenhausen, doveva assumere il comando dell'ancor più famoso campo di Ravensbrück. Suhren fu giustiziato dai francesi nel 1945. Durante la cerimonia della consegna, al quartier generale dell'R.S.H.A. di Berlino, tutti ammirarono il magnifico manoscritto to, e fra gli altri un tenente delle S.S., Alfred Naujocks. Questi era l'uomo che aveva comandato il finto attacco alla stazione radio di Gleiwitz, al confine fra la Germania e la Polonia, nell'agosto del 1939, lasciando i corpi dei detenuti nei campi di concentramento in uniformi dell'esercito tedesco, come "prova" che i polacchi avevano attaccato la Germania, per giustificare, la settimana seguente, l'invasione di Hitler in Polonia. Naujocks domandò chi aveva compilato il manoscritto to, e quando glielo dissero, ordinò di portare il giovane Klaus Winzer a Berlino. Prima di capire quello che stava succedendo, Klaus Winzer fu arruolato nelle S.S., senza il periodo d'addestramento formale, fece il giuramento di fedeltà, un altro giuramento di segretezza, e fu informato che sarebbe stato distaccato a un progetto segretissimo del Reich. Il macellaio di Wiesbaden, al settimo cielo, era fuori di sé dalla gioia. Il progetto in questione era allora eseguito sotto gli auspici dell'R.S.H.A., Amt Sei, Sezione F, in un'officina della Dellbruckstrasse, a Berlino. In sostanza, era molto semplice. Le S.S. cercavano di contraffare centinaia di migliaia di banconote inglesi da cinque sterline e banconote americane da cento dollari. La carta la preparavano nella fabbrica della zecca del Reich a Spechthausen, fuori Berlino, e il compito dell'officina nella Dellbruckstrasse era di ottenere la filigrana giusta per la valuta inglese e americana. Era per questa sua conoscenza di carte e di inchiostri che volevano Klaus Winzer. L'idea era di invadere l'Inghilterra e l'America con denaro falso, rovinando così l'economia di ambedue i paesi. All'inizio del 1943,

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quando si riuscì a ottenere la filigrana inglese per le banconote da cinque sterline, il progetto per la stampa fu trasferito al Blocco 19 del campo di concentramento di Sachsenhausen, dove artisti grafici, ebrei e non ebrei, lavoravano sotto la direzione delle S.S. Il compito di Winzer era il controllo della qualità, perché le S.S. non si fidavano dei loro prigionieri, e pensavano che avrebbero commesso deliberatamente degli errori nel loro lavoro. Nel giro di due anni, Klaus Winzer aveva imparato dai suoi dipendenti tutto quello che c'era da imparare, ed era abbastanza per fare di lui un falsario eccezionale. Verso la fine del 1944, il progetto del Blocco 19 fu applicato anche per preparare falsi documenti d'identità agli ufficiali delle S.S., da usare dopo il crollo della Germania. All'inizio della primavera del 1945, questo piccolo mondo, felice a modo suo, se confrontato con la devastazione che imperava in Germania, arrivò alla fine dei suoi giorni. A tutto il reparto, comandato dal capitano Bernhard Krüger, fu ordinato di lasciare Sachsenhausen e di trasferirsi nelle remote montagne dell'Austria e continuare lì un buon lavoro. Si trasferirono a sud e riaprirono l'officina per le falsificazioni nella fabbrica di birra di Redl-Zipf nell'Austria meridionale. Pochi giorni prima della fine della guerra, Klaus Winzer, col cuore infranto, se ne stava sulla riva di un lago, mentre milioni di sterline e miliardi di dollari falsi venivano gettati a fondo. Tornò a Wiesbaden, a casa. Con suo grande stupore, dato che non aveva mai saltato un pasto nelle S.S., scoprì che i civili tedeschi erano ridotti alla fame, in quell'estate del 1945. Gli americani occupavano Wiesbaden e, sebbene loro avessero cibo in abbondanza, i tedeschi mendicavano le croste. Suo padre, che ora si proclamava antinazista, era ritornato con i piedi per terra. Un tempo nel suo negozio pendevano file di prosciutti, mentre ora ai ganci era appesa soltanto una fila di salsicce. Sua madre gli spiegò che ora tutti i generi di conforto dovevano essere acquistati con le tessere annonarie, rilasciate dagli americani. Stupito, Klaus guardò le tessere, si accorse che erano stampate sul posto con carta piuttosto scadente e si chiuse in camera sua per alcuni giorni. Quando ne uscì, consegnò alla madre, sbalordita, una quantità di tessere sufficiente a sfamarli tutti per sei mesi. «Ma sono false» disse sua madre, col fiato mozzo. Klaus le spiegò pazientemente quello che anche lui, allora, credeva in tutta sincerità: non erano false, erano solo stampate con una macchina diversa. Suo padre gli diede ragione. «Vuoi dire, stupida donna, che le tessere di tuo figlio sono inferiori a quelle degli Yankees?» Non si poteva rispondere a una domanda del genere, specie quando, la sera stessa, si permisero un pranzo di quattro portate. Un mese dopo, Klaus Winzer incontrò Otto Klops, brillante e sicuro di sé, il re del mercato nero di Wiesbaden, e si misero in società. Winzer produceva tessere annonarie, buoni per la benzina, lasciapassare di zona, patenti di guida, tessere per i magazzini militari americani, che Klops utilizzava per acquistare cibi, benzina,

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pneumatici, calze di nailon, sapone, cosmetici e indumenti, usando una parte del bottino per assicurare a sé e a Winzer una vita agiata, e vendendo il resto ai prezzi del mercato nero. Nel giro di trenta mesi, nell'estate del 1948, Klaus Winzer era un uomo ricco. Nel suo conto in banca erano depositati cinque milioni di marchi del Reich. A sua madre, inorridita, spiegò la sua semplice filosofia: «Un documento non è né autentico né falsificato, è solo efficace o inefficace. Se un permesso deve farti superare un posto di controllo, e ti porta dall'altra parte, è un documento buono». Nell'ottobre del 1948, Klaus Winzer dovette sopportare un secondo duro colpo. Le autorità riformarono il sistema monetario, sostituendo al vecchio marco del Reich il nuovo marco tedesco. Ma invece di tenere il cambio di uno a uno, abolirono semplicemente il marco del Reich e diedero a tutti la somma netta di mille nuovi marchi. Klaus era rovinato. Di nuovo, la sua fortuna era un mucchio di carta inutile. La popolazione, ora che non aveva più bisogno degli speculatori, dato che la merce arrivava sul mercato aperto, denunciò Klops, e Winzer dovette fuggire. Partì in automobile e, con uno dei suoi lasciapassare, arrivò fino al quartier generale della zona britannica ad Hannover, dove fece domanda per lavorare nell'Ufficio passaporti del governo militare. Le referenze rilasciategli dalle autorità statunitensi di Wiesbaden, firmate da un colonnello dell'USAF, erano eccellenti; e non avrebbero potuto essere altrimenti, visto che le aveva scritto te egli stesso. Il maggiore inglese, che lo intervistava per il lavoro, appoggiò la sua tazza di tè e disse al richiedente: «Spero che lei comprenda quanto sia importante che la gente abbia sempre con sé i documenti necessari.» Con assoluta sincerità, Winzer assicurò il maggiore che comprendeva benissimo. Due mesi dopo arrivò il suo colpo di fortuna. Era solo in una birreria e sorseggiava una birra, quando un uomo cominciò a chiacchierare con lui. Il nome dell'uomo era Herbert Molders. Confidò a Winzer che era ricercato dagli inglesi per crimini di guerra e aveva bisogno di andarsene dalla Germania. Ma solo gli inglesi potevano rilasciare i passaporti ai tedeschi, ed egli non osava fare domanda. Winzer gli mormorò che la cosa poteva essere sistemata, ma ci volevano soldi. Molders tirò fuori una collana di diamanti. Spiegò che era stato in un campo di concentramento e che uno dei detenuti ebrei aveva cercato di comprarsi la libertà con i gioielli di famiglia. Molders aveva preso i gioielli, si era assicurato che l'ebreo fosse uno dei primi ad entrare nella camera a gas, e, contravvenendo agli ordini, si era tenuto il bottino. Una settimana dopo, con una fotografia di Molders, Winzer preparò il passaporto. Non lo falsificò nemmeno. Non ne aveva bisogno. La procedura all'Ufficio passaporti era semplice. Nella prima sezione, i richiedenti presentavano tutti i documenti in loro possesso e compilavano un modulo. Poi se ne andavano, lasciando i loro documenti all'esame. La seconda sezione esaminava i certificati di nascita, le carte d'identità, le patenti di guida, eccetera, per controllarne l'autenticità, controllava la lista dei criminali ricercati, e se la

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richiesta veniva accettata, passava i documenti alla terza sezione, con il visto del capo del dipartimento. La terza sezione, quando riceveva la richiesta con l'approvazione della seconda sezione, prendeva un passaporto in bianco dalla cassaforte in cui erano custoditi, lo compilava, applicava la fotografia del richiedente, e glielo consegnava una settimana dopo. Winzer si fece trasferire alla terza sezione. Riempì un modulo per Molders intestato a un nome falso, e falsificò la firma dell'ufficiale inglese responsabile della seconda sezione su un modulo con la dicitura "Richiesta accolta". Andò nella seconda sezione a raccogliere i moduli di richiesta e le note di accettazione che attendevano di essere evasi, infilò in mezzo i documenti di Molders, e portò il tutto al maggiore Johnstone. Johnstone controllò che ci fossero le venti note di accettazione, andò alla cassaforte, prese venti passaporti in bianco e li diede a Winzer. Winzer li compilò scrupolosamente e li consegnò ai diciannove fortunati richiedenti. Il ventesimo se lo mise in tasca. Nell'archivio, furono riposti i venti moduli di richiesta, corrispondenti ai venti passaporti emessi. Quella sera consegnò a Molders il suo nuovo passaporto, ricevendo in cambio la collana di diamanti. Aveva trovato il suo nuovo mestiere. Nel maggio del 1949, fu fondata la Germania occidentale, e l'ufficio passaporti fu assegnato al governo della Bassa Sassonia, città capitale Hannover. Winzer rimase. Non aveva più clienti. Non ne aveva bisogno. Tutte le settimane, munito di una fotografia di qualche sconosciuto acquistata da un fotografo di studio, Winzer riempiva con cura un modulo di richiesta per passaporti, allegava la foto al modulo, falsificava la nota di accettazione con la firma del capo della seconda sezione (che ora era un tedesco) e andava dal capo della terza sezione con il fascio dei moduli e delle note d'accettazione. Dato che i numeri corrispondevano, riceveva in cambio un mazzo di passaporti in bianco. Tutti, eccetto uno, andavano agli autentici richiedenti. L'ultimo passaporto rimaneva a lui. Dopo di che, l'unica cosa che gli mancava era il timbro ufficiale. Rubarlo avrebbe destato sospetti. Lo prese solo per una notte, e al mattino aveva lo stampo del timbro dell'Ufficio passaporti del governo della Bassa Sassonia. In sessanta settimane, Winzer si procurò così sessanta passaporti in bianco. Diede le dimissioni, accettò arrossendo le lodi dei suoi superiori per l'attenzione e la cura con cui aveva svolto il lavoro, lasciò Hannover, vendette ad Anversa la collana di diamanti, e avviò una piccola e attrezzata tipografia, a Osnabrück, in un periodo in cui l'oro e i dollari potevano comprare al di sotto dei prezzi di mercato. Non avrebbe mai avuto a che fare con l'Odessa, se Molders avesse tenuto la bocca chiusa. Ma una volta arrivato a Madrid, fra i suoi amici, Molders si vantò di conoscere qualcuno che poteva fornire autentici passaporti tedeschi, sotto falso nome, a chiunque li volesse. Verso la fine del 1950, un "amico" andò a trovare Winzer, che aveva appena avviato il lavoro di tipografo. Winzer non poteva rifiutare. Da allora, tutte le volte che un uomo dell'Odessa era nei guai, Winzer procurava il nuovo passaporto.

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Il sistema era perfettamente sicuro. Winzer aveva bisogno soltanto della fotografia e dell'età dell'uomo. Aveva tenuto una copia delle generalità scritto te su ciascuno dei moduli di richiesta che ora si trovavano nell'Archivio di Hannover. Prendeva un passaporto in bianco, e riportava le generalità già scritto te su uno di quei moduli del 1949. Il nome di solito era piuttosto comune, il luogo di nascita al di là della Cortina di Ferro, dove nessuno poteva controllare, la data di nascita corrispondeva più o meno alla vera età del richiedente delle S.S., e alla fine egli applicava il timbro della Bassa Sassonia. L'intestatario, alla consegna, firmava il suo nuovo passaporto di proprio pugno, col nuovo nome. I rinnovi erano facili. Dopo cinque anni, il ricercato delle S.S. faceva domanda per il rinnovo in una qualsiasi capitale di stato che non fosse la Bassa Sassonia. L'impiegato in Baviera, ad esempio, avrebbe controllato con quello di Hannover: "Avete emesso un passaporto Numero Tal dei Tali nel 1950, a un certo Walter Schumann, luogo di nascita tale, data di nascita tale?". Ad Hannover l'altro impiegato controllava le registrazioni dell'Archivio e rispondeva: "Sì". L'impiegato bavarese rassicurato dal collega di Hannover che il passaporto era autentico, ne emetteva un altro, col timbro della Baviera. Finché la faccia sul modulo di richiesta ad Hannover non veniva messa a confronto con la faccia sul passaporto presentato a Monaco, non c'erano problemi. Ma il confronto delle facce non avveniva mai. Gli impiegati si basavano sui moduli correttamente riempiti e approvati e sui numeri del passaporto, non sulle facce. Solo dopo il 1955, a più di cinque anni dal primo rilascio ad Hannover, bisognava rinnovare immediatamente un passaporto Winzer. Una volta ottenuto il passaporto, il ricercato delle S.S. poteva avere una nuova patente di guida, una tessera di Previdenza sociale, un conto in banca, una carta di credito, in breve un'identità completamente nuova. Nella primavera del 1964, dello stock originario di sessanta passaporti, Winzer ne aveva utilizzati quarantadue. Ma l'astuto Winzer aveva preso una precauzione. Gli venne in mente che un giorno l'Odessa avrebbe potuto voler disporre di lui e dei suoi servizi. Così tenne le registrazioni. Non sapeva mai il vero nome dei suoi clienti; non era necessario, per fare un passaporto falso con un nome nuovo. Il problema non esisteva. Prendeva una copia di tutte le fotografie inviategli, incollava l'originale nel passaporto che rispediva indietro e si teneva la copia. Ogni fotografia veniva incollata su un foglio di carta pesante. A fianco, scriveva a macchina il nuovo nome, l'indirizzo (sui passaporti tedeschi bisogna segnare l'indirizzo) e il numero del nuovo passaporto. Questi fogli venivano archiviati. L'Archivio era la sua assicurazione sulla vita. Ce n'era uno in casa sua, e una copia presso un avvocato di Zurigo. Se la sua vita fosse stata minacciata dall'Odessa, avrebbe detto dell'Archivio, e li avrebbe avvisati che se gli accadeva qualcosa, l'avvocato di Zurigo avrebbe spedito la copia alle autorità tedesche. I tedeschi occidentali, muniti delle fotografie, le avrebbero subito confrontate con quelle dei nazisti ricercati. Il solo numero del

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passaporto, controllato rapidamente in ciascuna delle sedici capitali di stato, avrebbe rivelato il domicilio del titolare. Il mandato di cattura non avrebbe richiesto più di una settimana. Era un sistema di sicurezza per mantenere Klaus Winzer vivo e in buona salute. Questo quindi era l'uomo che, seduto tranquillamente, masticava il suo pane e marmellata e sorseggiava il caffè, scorrendo la prima pagina dell'"Osnabrück Zeitung", alle 8.30 di quel venerdì mattina, quando squillò il telefono. La voce all'altro capo del filo fu dapprima perentoria, poi rassicurante. «Non c'è nessuna situazione difficile fra noi e lei» lo assicurò il Werwolf. «E' solo quel maledetto giornalista. Siamo stati informati che verrà a trovarla. Tutto è perfettamente a posto. Uno dei nostri uomini lo sta seguendo, ed entro oggi l'intera faccenda sarà sistemata. Ma lei deve uscire di lì entro dieci minuti. Adesso, questo è quello che voglio da lei...» Trenta minuti dopo, Klaus Winzer, molto agitato, riempì una piccola borsa, lanciò un'occhiata indecisa in direzione della cassaforte, dove era tenuto l'Archivio, arrivò alla conclusione che non gli sarebbe servito e spiegò alla sua domestica Barbara, che quella mattina non sarebbe andato alla tipografia. Al contrario, aveva deciso di prendersi una breve vacanza nelle Alpi austriache. Una boccata d'aria fresca, non c'è niente di meglio per dar tono all'organismo. Barbara rimase sulla porta, a bocca aperta, mentre Winzer si allontanava a tutta velocità lungo il viale e partiva in macchina. Alle 9.10 aveva raggiunto l'incrocio a quadrifoglio, sei chilometri a ovest della città, dove ci si immetteva nell'autostrada. Mentre la Kadett, da una carreggiata, prendeva la curva per l'autostrada, sull'altra una Jaguar nera stava scendendo verso Osnabrück.

Miller trovò una stazione di rifornimento alla Saarplatz, alla periferia occidentale della città. Si fermò e scese lentamente dall'automobile. Gli dolevano i muscoli e si sentiva il collo rigido, tutto d'un pezzo. Il vino che aveva bevuto la sera prima gli faceva sentire un sapore di fiele in bocca. «Il pieno. Super» disse all'inserviente. «C'è un telefono?» «All'angolo» rispose il ragazzo. Lungo il percorso, Miller notò un distributore di caffè e si portò nella cabina telefonica una tazza fumante. Scorse l'elenco telefonico della città di Osnabrück. C'erano parecchi Winzer, ma un solo Klaus. Il nome era ripetuto due volte. Accanto alla prima voce c'era scritto to "Tipografo" e un numero. Il secondo Klaus Winzer aveva l'abbreviazione "res." per residenza. Erano le 9.20. Ora lavorativa. Telefonò alla tipografia. L'uomo che rispose era evidentemente il capo-officina. «Mi spiace, non è ancora arrivato» disse. «Di solito è qui alle 9 in punto. Sarà senz'altro per strada. Richiami fra mezz'ora.» Miller lo ringraziò e si domandò se era il caso di telefonare a casa. Meglio di no. Se era a casa, Miller lo voleva di persona. Si trascrisse l'indirizzo e uscì dalla cabina. «Dov'è Westerberg?» domandò all'inserviente mentre pagava la benzina, notando che, dei suoi risparmi, gli erano rimasti solo cinquecento

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marchi. Il ragazzo indicò con la testa la direzione nord sulla strada. «E' là. Il quartiere di lusso. Dove vivono i ricchi.» Miller acquistò una pianta della città e rintracciò la strada che cercava. Era appena a dieci minuti. La casa, naturalmente, aveva un aspetto lussuoso e tutta la zona circostante rivelava che vi abitavano professionisti abbienti. Lasciò la Jaguar in fondo al vialetto e s'incamminò verso la porta d'ingresso. La cameriera che venne ad aprire non doveva avere più di vent'anni, molto carina. Gli rivolse un radioso sorriso. «Buon giorno. Sono qui per parlare con Herr Winzer» le disse. «Oooh, è partito, signore. L'ha perso solo per venti minuti.» Miller si riprese. Senz'altro Winzer stava andando alla tipografia ed era stato trattenuto. «Che peccato. Speravo di vederlo prima che andasse al lavoro» disse. «Non è andato al lavoro, signore. Non stamattina. E' andato in vacanza» replicò la ragazza, piena di buona volontà. Miller riuscì a vincere una sensazione di panico. «Vacanza? Che strano, in questo periodo dell'anno. E poi» aggiunse improvvisando alla svelta «avevamo un appuntamento stamattina. Mi aveva chiesto lui di venire qui.» «Oh, che peccato» disse la ragazza, evidentemente colpita. «E se ne è andato così all'improvviso. Ha ricevuto quella telefonata nello studio, poi se ne è andato di sopra. Mi dice: "Barbara" - è il mio nome, sa - "Barbara, vado in vacanza in Austria. Per una settimana" dice. Be', non l'ho mai sentito programmare delle vacanze. Mi dice di telefonare alla tipografia e di dire che non ci andrà per una settimana, poi se ne va. Non è cosa da Herr Winzer. Un signore così tranquillo.» Miller sentiva morire dentro di sé la speranza. «Ha detto dove andava?» domandò. «No. Niente. Ha detto solo che andava sulle Alpi austriache.» «Nessun recapito? Non c'è modo di mettersi in contatto con lui?» «No, è questo che è così strano. Voglio dire, e la tipografia? Ho appena telefonato prima che lei arrivasse. Erano molto sorpresi, con tutti quegli ordini da portare a termine.» Miller fece un rapido calcolo. Winzer aveva una mezz'ora di vantaggio su di lui. Guidando a una media di ottanta, non doveva aver percorso finora più di quaranta chilometri. Miller poteva tenere i cento, superandolo di venti chilometri all'ora. Il che significava due ore, prima di raggiungere la macchina di Winzer. Troppo. In due ore, poteva arrivare da qualsiasi parte. Inoltre, non c'era nessuna prova che stesse andando verso sud, in Austria. «Allora potrei parlare con Frau Winzer, per favore?» chiese. Barbara ridacchiò e lo guardò con malizia. «Non c'è nessuna Frau Winzer» disse. «Non conosce Herr Winzer? «No, non l'ho mai incontrato.» «Be', non è certo il tipo che si sposa. Voglio dire, molto simpatico, ma le donne non gli interessano molto, capite cosa voglio dire.» «Allora vive qui da solo?» «Be', eccetto me. Voglio dire, anch'io ci vivo. Ah, è del tutto

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sicuro. Da quel punto di vista.» Ridacchiò. «Capisco. Grazie» disse Miller, e si voltò per andarsene. «Non c'è di che» disse la ragazza, e lo osservò mentre scendeva il vialetto e saliva sulla Jaguar, che aveva già attirato la sua attenzione. Col fatto che Herr Winzer era via, si domandò se mai sarebbe riuscita a chiedere a qualche bel ragazzo di fermarsi la notte, prima che tornasse il padrone. Osservò la Jaguar che si allontanava con un ruggito, sospirò per quel che sarebbe potuto accadere e chiuse la porta. Miller sentì riversarglisi addosso la stanchezza, accentuata da quell'ultima, e per quanto lo riguardava definitiva, delusione. Pensò che Bayer si fosse liberato e avesse usato il telefono dell'albergo a Stoccarda per avvertire Winzer. Era arrivato così vicino al suo bersaglio, ce l'aveva quasi fatta. Ora sentiva solo il bisogno di dormire. Sorpassò le mura medioevali della città vecchia, seguì la pianta fino alla Theodor-Heussplatz, parcheggiò la Jaguar di fronte alla stazione e andò a registrarsi allo Hohenzollern Hotel dall'altro lato della piazza. Era fortunato, c'era una stanza disponibile, perciò andò di sopra, si svestì e si mise a letto. In fondo ai suoi pensieri c'era qualcosa che lo infastidiva, qualche punto su cui non aveva riflettuto, qualche particolare della sua ricerca che non aveva approfondito. Non sapeva ancora quale, quando si addormentò alle 10.30.

Mackensen arrivò nel centro di Osnabrück alle 13.30. Strada facendo, aveva dato un'occhiata alla casa di Winzer, ma non c'era traccia della Jaguar. Voleva telefonare al Werwolf prima di andarci, nel dubbio che ci fossero novità. Per caso, l'ufficio postale di Osnabrück è su un lato della Theodor- Heussplatz. Un intero angolo e un lato della piazza è occupato dallo Hohenzollern Hotel. Mentre Mackensen parcheggiava accanto all'ufficio postale, la sua faccia si schiuse in un sogghigno. La Jaguar che stava cercando era di fronte all'albergo principale della città. Il Werwolf era d'umore migliore. «Va bene. Niente panico per il momento. Ho raggiunto in tempo il falsario, che ha lasciato la città. Ho appena ritelefonato a casa sua. Mi ha risposto la cameriera, credo. Ha detto che il suo padrone se ne è andato neanche venti minuti prima che un giovanotto con una macchina sportiva nera venisse a chiedere di lui.» «Anch'io ho qualche notizia» disse Mackensen. «La Jaguar è parcheggiata proprio qui sulla piazza che ho di fronte. Probabilmente, quello sta dormendo nell'albergo. Lo posso prendere proprio qui, nella sua camera. Userò il silenziatore.» «Si calmi, non abbia troppa fretta» lo avvisò il Werwolf. «Ci ho pensato. C'è un motivo per cui non deve accadere a Osnabrück. La cameriera ha visto lui e la sua macchina. Probabilmente lo riferirà alla polizia. Questo richiamerebbe l'attenzione sul nostro falsario, e lui è il tipo che si fa prendere dal panico. Non posso coinvolgerlo. La testimonianza della cameriera gli attirerebbe addosso molti sospetti. Prima riceve una telefonata, poi si precipita fuori e

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sparisce, poi un giovanotto passa per vederlo, poi questo viene ucciso in una stanza d'albergo. E' troppo.» Mackensen aggrottò le sopracciglia. «Ha ragione» disse infine. «Dovrò prenderlo quando parte.» «Probabilmente rimarrà in quei paraggi qualche ora, cercando di mettersi sulle tracce del falsario. Non ne troverà. C'è un'altra cosa. Miller ha con sé una valigetta?» «Sì» disse Mackensen. «L'altra notte, quando è uscito dal locale notturno, l'aveva con sé. E se l'è portata dietro quando è ritornato alla sua stanza d'albergo.» «E allora perché non la lascia chiusa a chiave nel portabagagli? O nella stanza dell'albergo,? Perché per lui è importante. Mi spiego?» «Sì» disse Mackensen. «Il punto,» disse il Werwolf «è che ora mi ha visto e conosce il mio nome e indirizzo. E' a conoscenza dei miei rapporti con Bayer e il falsario. E i giornalisti scrivono. Quella valigetta coi documenti ha un'importanza vitale. Anche se Miller muore, la valigetta non deve cadere nelle mani della polizia. «Ho capito cosa intende dire. Vuole anche la valigetta?» «O averla, o distruggerla» disse la voce da Norimberga. Mackensen rifletté per qualche secondo. «Il mezzo migliore per fare tutt'e due le cose sarebbe di mettere una bomba nell'automobile. Collegata alle sospensioni, così che scoppierà quando, correndo sull'autostrada, colpirà un sasso o rimbalzerà sul fondo stradale.» «Magnifica idea» disse il Werwolf. «La valigetta andrà distrutta?» «Con la bomba che ho in mente di mettere nell'automobile, Miller e la valigetta andranno a fuoco e saranno completamente distrutti. Inoltre, ad alta velocità, sembrerà un incidente. Il serbatoio di benzina è esploso, diranno i testimoni. Che peccato.» «Pensa di farcela?» domandò il Werwolf. Mackensen sogghignò. L'attrezzatura per uccidere che teneva nel portabagagli della sua automobile era il sogno di ogni sicario. Comprendeva quasi mezzo chilo di esplosivo al plastico e due detonatori elettrici. «Sicuro,» borbottò «non c'è problema. Ma per arrivare alla macchina dovrò aspettare che sia buio.» Smise di parlare, guardò fuori dalla finestra dell'ufficio postale e urlò al telefono: «La richiamo dopo.» Richiamò dopo cinque minuti. «Mi scusi per prima. Avevo visto Miller, con la valigetta diplomatica in mano, che saliva sulla macchina. E' partito. Ho controllato all'albergo, e ha ancora la sua stanza. Ha lasciato il bagaglio, perciò tornerà. Preparerò la bomba e la sistemerò questa notte.»

Miller si era svegliato poco prima delle 13, abbastanza rinfrancato. Si era ricordato che cosa lo preoccupava. Ritornò in automobile alla casa di Winzer. La cameriera si mostrò contenta di rivederlo. «Salve, ancora lei?» disse, con un sorriso radioso. «Passavo di qui, per far ritorno a casa,» disse Miller «e ho pensato di fermarmi un momento. A proposito, da quanto tempo è qui in

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servizio, lei?» «Oh, circa dieci mesi. Perché?» «Be', se Herr Winzer non è il tipo che si sposa, e lei è così giovane, chi si curava di lui prima del suo arrivo?» «Oh, capisco cosa vuol dire. Fraülein Wendel.» «Dov'è adesso?» «Boh, all'ospedale, signore. Sta morendo, temo. Cancro alla mammella. Terribile. Per questo è così strano che Herr Winzer sia andato via in quel modo. Andava a trovarla tutti i giorni. Le è molto affezionato. Non che quei due abbiano mai "fatto" qualcosa, ma lei è rimasta con lui per così tanto tempo, dal 1950 credo, e lui la giudica la persona più in gamba della terra. Mi dice sempre: "Fraülein Wendel faceva così", eccetera...» «In che ospedale è ricoverata?» domandò Miller. «Me lo sono dimenticato. No, aspetti un secondo. E' sull'agenda del telefono. Vado a prenderla.» Ritornò dopo due minuti e gli diede il nome di una clinica privata di gran lusso appena fuori dalla città. Trovando la strada sulla cartina, Miller si presentò alla clinica alle 15 di quel giorno.

Mackensen impiegò il primo pomeriggio acquistando il resto dell'occorrente per la sua bomba. «Il segreto del sabotaggio,» gli aveva detto una volta il suo istruttore «è di servirsi di una attrezzatura semplice. Il genere di cose che si possono comprare in un negozio.» Da un ferramenta comprò un saldatore e un bastoncino per la saldatura; un rotolo di nastro isolante; un metro di sottile filo metallico e un tronchesino; una sega per tagliare il metallo e un tubo di adesivo. Dall'elettricista comprò una batteria a transistor a nove volt; una piccola lampadina di tre centimetri di diametro, e sei metri circa di cavo ricoperto di plastica: due lunghezze di tre metri, una rossa e l'altra blu. Era un uomo preciso, e gli piaceva tenere distinti il polo positivo da quello negativo. Un cartolaio gli fornì cinque gomme grandi, di quelle che usano gli studenti, larghe tre centimetri, lunghe sei e alte mezzo. Da un farmacista comprò due pacchetti di preservativi di gomma, ciascuno contenente tre pezzi; in una drogheria di lusso acquistò una scatola di tè di prima scelta. Era una scatola da 250 grammi, con un coperchio a chiusura ermetica. Da bravo artigiano, odiava l'idea di bagnare il suo esplosivo, e le scatole da tè hanno il coperchio fatto apposta per isolare dall'aria e dall'umidità. Fatti i suoi acquisti, Mackensen prenotò una stanza all'Hohenzollern Hotel, che guardava sulla piazza, in modo da tener d'occhio, mentre lavorava, il parcheggio nel quale, era certo, Miller sarebbe tornato. Prima di entrare in albergo prese dal bagagliaio dell'automobile due etti e mezzo di plastico, una sostanza molliccia simile alla plastilina dei bambini, e uno dei detonatori elettrici. Seduto al tavolo di fronte alla finestra, tenendo d'occhio la piazza, con una cuccuma di caffè nero e forte per vincere la stanchezza, si mise al lavoro.

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La bomba era di semplice fattura. Per prima cosa vuotò il tè nel lavandino e tenne la scatola. Col manico del tronchesino, praticò un buco nel coperchio. Prese il cavo rosso e ne tagliò una trentina di centimetri. Fissò al polo positivo della batteria un capo di questo pezzetto di filo rosso. Al polo negativo fissò un capo del cavo blu. Per rassicurarsi che i due cavi non si toccassero, li tirò ai due lati della batteria e ve li avvolse, fissandoli col nastro isolante. L'altro capo del pezzetto di cavo rosso fu avvolto attorno al punto di contatto sul detonatore. A quello stesso punto di contatto, Mackensen fissò un capo dell'altro pezzo di cavo rosso. Depositò la batteria e i cavi sul fondo della scatola quadrata, seppellì bene il detonatore nel plastico, e premette l'esplosivo riempiendo la scatola fino all'orlo. Un cavo collegava la batteria col detonatore. Un altro partiva dal detonatore, senza essere collegato a niente. Ma quando questi due capi esposti, uno appartenente al cavo rosso, l'altro al cavo blu, si fossero toccati, il circuito sarebbe stato chiuso. La carica della batteria avrebbe dato fuoco al detonatore, che sarebbe esploso con un forte scoppio. Ma lo scoppio si sarebbe perso nell'esplosione del plastico, che era sufficiente a demolire almeno un paio di camere dell'albergo. Il resto del dispositivo era il meccanismo a leva. Per far questo, avvolse le mani in fazzoletti e piegò la lama della sega in due finché non si spezzò nel centro, in due pezzi da venti centimetri l'uno, entrambi con un piccolo buco a un'estremità, che solitamente serve a fissare la lama della sega al suo supporto. Ammucchiò le cinque gomme per cancellare una sopra l'altra. Le usò per separare le lame, le legò alla fila superiore e a quella inferiore della pila di gomme, in modo che sporgessero le due metà d'acciaio, l'una parallela all'altra e a una distanza di tre centimetri. Nell'insieme, sembravano piuttosto le mascelle di un coccodrillo. La pila di gomme si trovava a un capo dei due pezzi d'acciaio, così che dieci centimetri delle lame erano separati solo dall'aria. Per evitare che si toccassero, Mackensen sistemò la lampadina nella morsa aperta, fissandola con una generosa quantità di adesivo. Il vetro non è conduttore di elettricità. Aveva quasi finito. Infilò i due pezzi di cavo, quello rosso e quello blu, che uscivano dalla scatola dell'esplosivo, nel buco sul coperchio, che rimise sulla scatola, spingendolo bene al suo posto. Dei due pezzi di cavo, ne saldò un capo alla lama superiore della sega, e l'altro a quella inferiore. La bomba ora era pronta a funzionare. Se la leva veniva spinta, o soggetta a un'improvvisa pressione, la lampadina si sarebbe frantumata, i due pezzi di acciaio sarebbero entrati in contatto, e il circuito elettrico dalla batteria sarebbe stato completo. C'era un'ultima precauzione. Per evitare che le due lame toccassero contemporaneamente lo stesso pezzo di metallo, il che avrebbe pure chiuso il circuito, mise tutti e sei i preservativi sulla leva, uno sopra l'altro, finché il dispositivo fu protetto dalla detonazione esterna da sei strati sottili, ma isolanti, di gomma. Questo almeno avrebbe evitato una detonazione accidentale. Una volta completato il suo congegno esplosivo, lo depose in fondo al

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guardaroba, insieme al cavo, alle forbici e al resto del nastro adesivo, di cui si sarebbe servito per assicurarlo all'automobile di Miller. Poi ordinò dell'altro caffè per restare sveglio, e si mise alla finestra ad aspettare che Miller tornasse al parcheggio nel centro della piazza. Non sapeva dove era andato, e non gliene importava. Il Werwolf lo aveva assicurato che non c'erano tracce che potessero indicargli gli spostamenti del falsario, e questo era tutto. Da bravo tecnico, Mackensen era pronto a fare il suo lavoro e a lasciare il resto a chi di dovere. Era disposto a essere paziente. Sapeva che, prima o poi, Miller sarebbe tornato.

Capitolo 15.

Il medico guardò Miller con scarsa simpatia. Miller, che odiava i colletti delle camicie e le cravatte ed evitava di metterli tutte le volte che gli era possibile, aveva una maglia bianca a collo alto e un pullover nero a girocollo. Sopra, indossava una giacca nera sportiva. Per le visite all'ospedale, diceva chiaramente l'espressione del medico, un colletto e una cravatta sarebbero stati più indicati. «Suo nipote?» ripeté con aria sorpresa. «Strano, non sapevo che Fraülein Wendel avesse un nipote.» «Credo di essere il solo parente che le è rimasto» disse Miller. «Naturalmente sarei venuto prima, se avessi saputo le condizioni in cui si trova mia zia, ma Herr Winzer mi ha telefonato solo questa mattina per informarmi e mi ha chiesto di venire a trovarla.» «Herr Winzer di solito è sempre qui, a quest'ora» osservò il dottore. «Credo che sia dovuto partire» disse Miller, in tono cortese. «Almeno, questo è quanto mi ha detto al telefono. Ha detto che sarebbe stato via per qualche giorno, e mi ha chiesto di farle visita al suo posto.» «Se ne è andato? Che strano. Davvero strano.» Il dottore fece una breve pausa, indeciso, poi aggiunse: «Vuole scusarmi?» Miller vide che lasciava l'atrio dove stavano parlando per dirigersi verso un piccolo ufficio. Dalla porta aperta udì brani di conversazione, mentre il medico della clinica telefonava alla casa di Winzer. «Se ne è davvero andato?... Stamattina?... Per parecchi giorni?... Oh, no, grazie, signorina, volevo solo la conferma che non sarebbe venuto oggi pomeriggio.» Il dottore tornò nell'atrio. «Strano» mormorò. «Herr Winzer ha sempre avuto la regolarità d'un orologio, da quando Fraülein Wendel è stata ricoverata. Si vedeva che le era molto affezionato. Be', farà bene a sbrigarsi, se la vuole vedere ancora. E' quasi sul punto di andarsene, sa.» Miller prese un'espressione afflitta. «Me l'aveva detto al telefono» mentì. «Povera zia.» «Dato che lei è un parente, naturalmente può restare un po' con lei. Ma devo avvertirla che connette a fatica, perciò la prego di essere il più breve possibile. Per di qua.» Il medico condusse Miller per diversi corridoi di quella che un tempo,

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si vedeva chiaramente, era stata una casa privata, ora trasformata in clinica, e si fermò davanti a una camera. «E' qui» disse, e fece entrare Miller; poi chiuse la porta e Miller sentì i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio. La stanza era immersa nella penombra e, finché i suoi occhi non si abituarono alla debole luce del pomeriggio invernale che proveniva da uno spiraglio delle tende semichiuse, egli non riuscì a distinguere la forma raggrinzita della donna nel letto. Era sostenuta da diversi cuscini, dietro la testa e le spalle, ma la camicia da notte e la faccia erano così pallide, che quasi la si confondeva con le lenzuola. Aveva gli occhi chiusi. Miller non ci sperava molto, di sapere da lei il probabile rifugio del falsario scomparso. Sussurrò: «Fraülein Wendel», e le ciglia della donna sbatterono e si aprirono. Lei lo guardò, senza la minima espressione negli occhi, e Miller si chiese se era in grado di vederlo. La donna chiuse ancora gli occhi e cominciò a mormorare parole incomprensibili. Egli si sporse in avanti per cogliere le frasi che le uscivano come una monotona litania dalle labbra grigie. Non avevano molto significato. Era qualcosa su Rosenheim, che, a quanto ne sapeva, era un piccolo villaggio in Baviera, forse il posto dov'era nata. Qualcos'altro su «tutte vestite di bianco, così carine, oh, com'erano carine». Poi ci fu un altro miscuglio insensato di parole. Miller le si avvicinò ancor di più. «Fraülein Wendel, mi sente?» La moribonda stava ancora mormorando qualcosa. Miller udì le parole «tutte portavano un libro di preghiere e un mazzolino di fiori, tutte vestite di bianco, così innocenti allora». Miller aggrottò le sopracciglia sforzandosi di capire. Poi capì. Nel delirio stava cercando di ricordarsi della sua prima comunione. Come lui, un tempo era di religione cattolica. «Mi sente, Fraülein Wendel?» ripeté, senza nessuna speranza. Lei di nuovo aprì gli occhi e lo fissò, mettendo a fuoco la striscia bianca attorno al collo, il nero sul torace e la giacca nera. Con sua sorpresa, chiuse di nuovo gli occhi e il torace piatto si contrasse in uno spasimo. Miller era preoccupato. Pensò che fosse meglio chiamare il medico. Poi, dagli occhi le caddero sulle guance avvizzite due lacrime. Stava piangendo. Sul copriletto, mosse adagio una mano verso il suo polso, appoggiato al letto. Con una forza sorprendente, o forse era solo disperazione, la sua mano gli afferrò saldamente il polso. Miller stava per tirarlo via e andarsene, convinto che la donna non poteva rivelargli niente su Klaus Winzer, quando ella disse con voce perfettamente chiara: «Mi benedica, padre, perché ho peccato.» Per qualche secondo Miller non riuscì a capire, poi diede un'occhiata al proprio abbigliamento e comprese l'errore che la donna aveva commesso, in quella debole luce. Per due minuti, rimase indeciso se lasciarla lì e ritornare ad Amburgo o se rischiare l'anima e tentare per l'ultima volta di rintracciare Eduard Roschmann tramite il falsario. Si sporse di nuovo in avanti.

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«Figlia mia, sono pronto ad ascoltare la tua confessione.» Allora ella cominciò a parlare. Con voce monotona, spenta e stanca, raccontò la storia della sua vita. Era nata e cresciuta fra i campi e le foreste della Baviera. Nata nel 1910, si ricordava che suo padre era partito per la prima guerra mondiale, ed era tornato tre anni dopo, in seguito all'armistizio del 1918, inviperito e amareggiato contro gli uomini che a Berlino avevano accettato la capitolazione. Si ricordava del tumulto politico degli Anni Venti, e del tentativo di Putsch nella vicina Monaco, dove un gruppo di uomini, guidati da un agitatore di folla di nome Adolf Hitler, aveva cercato di rovesciare il governo. Suo padre, in seguito, si era unito a quell'uomo e al suo partito, e quando lei aveva compiuto i ventitré anni, l'agitatore e il partito erano diventati il governo della Germania. Poi c'erano state le scampagnate estive dell'Unione delle giovani tedesche, il lavoro di segretaria col Gauleiter della Baviera e i balli con i bei giovanotti biondi in uniforme nera. Ma, crescendo, era imbruttita; alta, ossuta, con la faccia da cavallo e la peluria sul labbro superiore. Teneva i capelli legati a crocchia, si vestiva con abiti pesanti e scarpe all'antica, e, arrivata quasi alla trentina, si era resa conto che non si sarebbe sposata, come le altre ragazze del villaggio. Nel 1939, ormai amareggiata e piena d'odio, era stata assegnata come guardiana al campo di concentramento di Ravensbrück. Parlò della gente che aveva pestato e bastonato, dei giorni del potere e della crudeltà nel campo di Brandenburg, mentre le lacrime le scivolavano silenziosamente giù per le guance, e le dita stringevano il polso di Miller per evitare che se ne andasse, disgustato, prima che lei avesse finito. «E dopo la guerra?» egli domandò sottovoce. Per qualche anno se n'era andata in giro, abbandonata dalle S.S., ricercata dagli alleati, lavorando nelle cucine come sguattera, lavando i piatti e dormendo negli ostelli dell'esercito della salvezza. Poi, nel 1950, aveva incontrato Winzer, che stava in un albergo di Osnabrück in attesa di acquistare una casa. Lei aveva già fatto la cameriera. L'ometto insignificante acquistò la casa e le aveva proposto di fargli da governante. «E' tutto?» le domandò Miller quando lei ebbe finito. «Sì, padre.» «Figlia mia, non ti posso dare l'assoluzione se non hai confessato tutti i tuoi peccati.» «Questo è tutto, padre.» Miller tirò un lungo sospiro. «E i passaporti falsi? Quelli fatti per le S.S. in fuga?» La donna restò in silenzio per un po', ed egli temette che avesse perduto conoscenza. «Lo sa, padre?» «Lo so.» «Non li ho fatti io» ella disse. «Ma tu lo sapevi, sapevi il lavoro che faceva Klaus Winzer.» «Sì.» La parola fu un lieve sussurro. «Ora se ne è andato. E' andato via» disse Miller.

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«Non se n'è andato. Non Klaus. Non mi lascerebbe mai. Tornerà.» «Sai dov'è andato? «No, padre.» «Ne sei sicura? Pensaci, figlia mia. E' dovuto scappare. Dove potrebbe essere andato?» Ella scosse la testa contro il cuscino. «Non lo so, padre. Se lo minacciano, userà il dossier. Mi disse che l'avrebbe fatto.» «Che dossier, figlia mia?» Parlarono ancora per cinque minuti, poi ci fu un leggero battito alla porta. Miller staccò la mano della donna dal suo polso e si alzò per andarsene. «Padre...» La voce era lamentosa. Si voltò. Lo stava fissando con gli occhi sbarrati. «Mi benedica, padre.» Il tono era implorante. Miller sospirò. Era un peccato mortale. Sperò che qualcuno, in qualche luogo, avrebbe compreso. Alzò la mano destra e fece il segno della croce. «In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti, Ego te absolvo a peccatis tuis.» La donna sospirò profondamente, chiuse gli occhi e cadde in uno stato d'incoscienza. Fuori, nel corridoio, il medico stava aspettando. «Penso proprio che ci sia stato abbastanza a lungo» disse. Miller annuì. «Sì, dorme» disse, dopo aver lanciato un'occhiata alla porta. Il medico lo accompagnò all'uscita. «Per quanto pensa che ne abbia ancora?» domandò Miller. «E' molto difficile dirlo. Due giorni, forse tre. Non di più. Mi spiace molto.» «Sì, be', grazie per avermi permesso di vederla» disse Miller. Il medico gli tenne aperta la porta. «Oh, c'è un'ultima cosa, dottore. In famiglia siamo tutti cattolici. Mi ha chiesto di mandarle un prete. L'estrema unzione, capisce?» «Sì, certo.» «Vuole occuparsene lei?» «Certamente» disse il dottore. «Non lo sapevo. Vedrò oggi pomeriggio. Grazie per avermelo detto. Arrivederci.» Era pomeriggio tardi, e il crepuscolo stava trasformandosi nella notte, quando Miller ritornò in automobile in Theodor-Heussplatz e parcheggiò la Jaguar a venti metri dall'albergo. Attraversò la strada e salì in camera sua. Due piani più in su, Mackensen aveva atteso il suo ritorno. Prese la bomba, scese nell'atrio, pagò il conto per quella notte, spiegando che al mattino sarebbe partito molto presto, e salì in macchina. La spostò in un posto da dove poteva osservare l'ingresso dell'albergo, e si preparò a un'altra attesa. C'era ancora troppa gente intorno, perché potesse fare il lavoro sulla Jaguar, e Miller poteva uscire dall'albergo in qualsiasi momento. Se se ne fosse andato prima che fosse piazzata la bomba, Mackensen lo avrebbe preso in piena autostrada, a parecchi chilometri da Osnabrück,

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e gli avrebbe rubato la valigetta coi documenti. Se Miller avesse dormito in albergo, Mackensen avrebbe sistemato la bomba nelle ore piccole, quando non c'era nessuno in giro. Nella sua stanza, Miller stava scervellandosi alla ricerca di un nome. Riusciva a vedere la faccia dell'uomo, ma il nome continuava a sfuggirgli. Era stato poco prima del Natale 1961. Si trovava nel recinto per la stampa del tribunale di Amburgo, aspettando che incominciasse un processo che gli interessava. Aveva assistito così alla fine del caso precedente. L'avvocato difensore stava chiedendo clemenza per l'uomo al banco degli accusati, sottolineando che era quasi Natale e il suo cliente aveva moglie e cinque bambini. Miller si ricordò d'aver lanciato uno sguardo verso la corte e di aver notato la faccia, stanca e tormentata, della moglie dell'imputato. Si era coperta la faccia con le mani, piena di disperazione, quando il giudice, spiegando che la sentenza sarebbe stata più lunga se non fosse stato per la richiesta di clemenza da parte dell'avvocato difensore, aveva comminato all'uomo 18 mesi di prigione. Il pubblico ministero lo aveva descritto to come uno dei più capaci scassinatori di Amburgo. Quindici giorni dopo, Miller era in un bar distante non più di duecento metri dal Reeperbahn, e stava facendo un brindisi natalizio con qualche esponente della malavita con cui era a contatto. Era pieno di quattrini, perché quel giorno gli avevano pagato la sceneggiatura d'un film importante. All'altro lato del bar c'era una donna che lavava il pavimento. Aveva riconosciuto la moglie dello scassinatore condannato due settimane prima. In un impulso di generosità, di cui più tardi si era pentito, le aveva infilato nella tasca del grembiule una banconota da cento marchi, e se ne era andato. In gennaio aveva ricevuto una lettera dalla prigione di Amburgo. Era appena leggibile. La donna doveva aver chiesto il suo nome al barista, e l'aveva riferito al marito. La lettera era stata mandata a una rivista per la quale, di tanto in tanto lui lavorava. Gliela avevano passata. "Caro signor Miller, mia moglie mi ha scritto to quello che lei ha fatto appena prima di Natale. Non l'ho mai incontrata, e non so perché l'abbia fatto ma voglio ringraziarla moltissimo. Lei è un vero signore. I soldi hanno aiutato Doris e i ragazzi a trascorrere un bel Natale e Anno Nuovo. Se posso mai ricambiarle il favore, me lo faccia sapere. Rispettosamente, suo..." Ma qual era il nome in fondo alla lettera? Koppel. Ecco, Viktor Koppel. Pregando che non fosse di nuovo finito in carcere, Miller prese la sua agendina coi numeri di telefono di tutte le persone con cui era in contatto, si tirò il telefono sulle ginocchia e cominciò a telefonare ai suoi amici della malavita di Amburgo. Trovò Koppel alle 19.30. Era un venerdì, perciò si trovava in un bar con un gruppo d'amici; Miller poteva udire il juke-box. Stava suonando "I Want to Hold Your Hand" dei Beatles, che l'aveva fatto quasi diventare matto, quell'inverno, dopo tutte le volte che l'aveva sentito. Koppel dovette essere sollecitato prima di ricordarsi di Miller e del

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regalo che aveva fatto a Doris due anni prima. Era evidente che Koppel aveva già bevuto alcuni bicchieri. «Bello da parte sua, signor Miller. E' stata una cosa molto bella da parte sua.» «Senta, lei mi aveva scritto to dalla prigione, dicendo che se ci fosse mai stato qualcosa che poteva fare per me, l'avrebbe fatta. Si ricorda?» La voce di Koppel si fece cauta. «Sì, mi ricordo.» «Be', mi serve un po' d'aiuto. Non molto. Può farlo?» disse Miller. L'uomo di Amburgo era ancora molto circospetto. «Non ho molti soldi, signor Miller.» «Non voglio un prestito» disse Miller. «Voglio pagarla per un lavoro. Si tratta d'una cosa da niente.» La voce di Koppel era piena di sollievo. «Oh, capisco, sì, certo. Dove sta?» Miller gli diede le istruzioni. «Vada alla stazione di Amburgo e prenda il primo treno per Osnabrück. Ci incontreremo alla stazione. Un'ultima cosa, porti con sé gli arnesi di lavoro.» «Senta, signor Miller, io non lavoro mai fuori zona. Non so niente di Osnabrück.» Miller usò il gergo di Amburgo. «E' un gioco da bambini, Koppel. La casa è vuota, il proprietario se ne è andato, e c'è un sacco di merce dentro. L'ho ben studiata, e non c'è problema. A colazione sarà già tornato ad Amburgo, con un sacco di quattrini e senza nessuno che faccia domande. L'uomo starà via per una settimana, lei potrà mollare la roba prima che ritorni e i piedipiatti di laggiù penseranno che è un lavoro di gente del posto.» «E il prezzo del biglietto del treno?» chiese Koppel. «Le darò i soldi quando arriva. C'è un treno alle 21 che parte da Amburgo. Ha un'ora di tempo. Perciò, si muova.» Koppel tirò un lungo sospiro. «Va bene, sarò sul treno.» Miller riattaccò, chiese al centralino di chiamarlo alle 23 e si addormentò.

Fuori, Mackensen continuava la sua veglia solitaria. Aveva deciso di cominciare il lavoro sulla Jaguar a mezzanotte, se Miller non si faceva vivo. Ma Miller uscì a piedi dall'albergo alle 23.15, attraversò la piazza ed entrò nella stazione. Mackensen era stupito. Scese dalla Mercedes e andò a curiosare nell'androne. Miller era sul marciapiede, in attesa del treno. «Qual è il primo treno che parte da qui?» domandò Mackensen a un facchino. «Quello delle 23.33 per Munster» disse il facchino. Mackensen si domandò oziosamente perché Miller dovesse prendere il treno, quando aveva la macchina. Ancora sconcertato, tornò alla Mercedes, ad aspettare. Alle 23.35 il mistero fu risolto. Miller uscì dalla stazione

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accompagnato da un uomo piccolo e mal vestito che portava una valigetta di pelle nera. Stavano parlando fitto. Mackensen bestemmiò. L'ultima cosa che voleva era che Miller partisse con la Jaguar in compagnia di un'altra persona. Avrebbe complicato le cose. Con suo sollievo, i due chiamarono un taxi libero, ci salirono sopra e partirono. Decise di aspettare ancora venti minuti, e poi di mettersi al lavoro sulla Jaguar, che era sempre parcheggiata a venti metri di distanza. A mezzanotte la piazza era quasi deserta. Mackensen scivolò fuori dalla sua auto, portando con sé una pila e tre piccoli arnesi, si avvicinò alla Jaguar, lanciò un'occhiata in giro, e vi scivolò sotto. Fra il fango e la neve semisciolta, il suo vestito, lo sapeva, in pochi minuti sarebbe diventato sporco e bagnato. Ma questo era ancora quello che lo preoccupava di meno. Usando la torcia, sotto il muso della Jaguar, trovò il congegno di apertura del cofano. Gli ci vollero venti minuti ad aprirlo. Il cofano si alzò di qualche centimetro. A lavoro finito, una semplice pressione dall'alto sarebbe bastata a richiuderlo. Ritornò alla Mercedes e portò la bomba alla macchina sportiva. Un uomo che lavora sotto il cofano d'una macchina non attira molta attenzione. I passanti pensano che stia riparando la propria automobile. Usando il cavo e le pinze, legò le cariche esplosive nell'interno del vano-motore, fissandole direttamente alla parete di fronte al posto di guida. L'esplosione sarebbe stata a non più di un metro dal torace di Miller. Il meccanismo a leva, collegato al carico principale tramite i due cavi, venne calato sul fondo del vano-motore. Scivolato sotto l'automobile, esaminò la sospensione anteriore alla luce della pila. Trovò il punto che gli serviva, e assicurò l'estremità della leva a un asse di sostegno. Le estremità avvolte nella plastica e separate dalla lampadina, le incastrò fra due delle spire della molla principale che formava la sospensione anteriore. Quando la bomba fu fissata al suo posto, in modo da non poter distaccarsi con un normale scossone, Mackensen uscì da sotto la macchina. Calcolava che al primo ostacolo incontrato dall'automobile ad alta velocità, il movimento della sospensione della ruota anteriore destra avrebbe spinto le mascelle aperte della leva una contro l'altra, mandando in frantumi la fragile lampadina di vetro che le separava e mettendo in contatto le due lame seghettate, cariche di elettricità. Quando ciò fosse accaduto, Miller e i suoi documenti compromettenti sarebbero saltati in aria. Alla fine, Mackensen radunò insieme i cavi che collegavano la carica e la leva, ne fece un bel cappio e li attaccò col nastro adesivo a un lato del vano-motore, di modo che non strascicassero per terra e venissero sfregati, per abrasione, contro la superficie della strada. Fatto questo, chiuse il cofano con un colpo secco. Tornò alla Mercedes, si rannicchiò sul sedile posteriore e si assopì. Aveva fatto un buon lavoro, quella notte, pensò.

Miller ordinò al conducente del taxi di portarli in Saarplatz, pagò e lo congedò. Koppel aveva avuto il buon senso di tenere la bocca chiusa durante la corsa, e soltanto quando il taxi fu scomparso, la riaprì.

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«Spero che sappia quello che sta facendo, Herr Miller. Voglio dire, è strano che lei si trovi in una stramberia del genere, lei che è un giornalista e tutto il resto.» «Koppel, non c'è bisogno che si preoccupi. Quello che sto cercando è un fascio di documenti, custoditi in una cassaforte dentro la casa. Quelli li prendo io, e lei può prendere tutto il resto che le interessa. D'accordo?» «Be', visto che è lei, va bene. Andiamo.» «C'è un'altra cosa. In casa ci abita la cameriera» disse Miller. «Aveva detto che era vuota» protestò Koppel. «Se scende, io me la batto. Non voglio violenza.» «Aspetteremo fino alle 2 del mattino. Dormirà come un sasso.» Percorsero a piedi il chilometro che li separava dalla casa di Winzer, diedero una rapida occhiata intorno e attraversarono in fretta il cancello. Per evitare la ghiaia, camminarono entrambi sul bordo erboso ai lati del vialetto, poi attraversarono il prato per nascondersi in un cespuglio di rododendri di fronte alle finestre di quello che sembrava essere lo studio. Koppel fece il giro della casa, lasciando Miller a guardia della borsa con gli arnesi. Al ritorno gli sussurrò: «La ragazza ha ancora la luce accesa. La finestra sul retro, sotto il cornicione». Non osando fumare, rimasero seduti per un'ora, rabbrividendo sotto le foglie grasse, sempreverdi, dei cespugli. Alle 1, Koppel fece un altro giro, e riferì che la luce nella camera della ragazza era spenta. Rimasero seduti per altri venti minuti, poi Koppel strinse il polso di Miller, prese la borsa e percorse silenziosamente il tratto di prato illuminato dalla luna, verso le finestre dello studio. Da qualche parte, giù nella strada, un cane abbaiò, e ancor più lontano un pneumatico stridette mentre un automobilista tornava a casa. Per loro fortuna, la zona sotto le finestre dello studio era in ombra, perché la luna non aveva ancora girato l'angolo della casa. Koppel accese la torcia elettrica e la fece scorrere lungo i bordi della finestra, poi lungo la sbarra che divideva la parte superiore da quella inferiore. Era una finestra a prova di ladro, ma senza sistema d'allarme: Aprì la borsa, rimanendo chino per qualche secondo, e quando si raddrizzò teneva un rotolo di nastro adesivo, uno sturalavandini, una punta tagliavetro a forma di stilografica e un martello di gomma. Con notevole abilità, tagliò un cerchio perfetto sulla superficie del vetro, proprio sotto la maniglia della finestra. Per maggior sicurezza, attaccò con due pezzi di nastro adesivo il cerchio alla parte non incisa del vetro. Fra i due nastri, premette lo sturalavandini. Con il martello di gomma, tenendo il bastone dello sturalavandini nella mano sinistra, diede un colpo deciso all'area esposta del cerchio intagliato nel vetro. Al secondo colpo si udì un rumore e il disco cadde all'interno della stanza. Entrambi si fermarono e attesero una reazione, ma nessuno aveva udito il rumore. Tenendo ancora in mano il manico dello sturalavandini, a cui, al di là della finestra, era attaccato il disco di vetro, Koppel strappò via i due pezzi di nastro adesivo. Lanciando

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un'occhiata attraverso la finestra, notò a un metro e mezzo di distanza uno straccio, e con un lancio preciso vi gettò sopra il disco di vetro e lo sturalavandini, in modo da non fare rumore. Infilò il braccio nell'apertura, svitò la chiusura antifurto e rialzò il vetro inferiore. Scavalcò la finestra con l'agilità di un gatto e Miller lo seguì, con maggiore precauzione. La stanza era completamente buia, in contrasto con il chiaro della luna sul prato, ma sembrava che Koppel ci vedesse benissimo. Sibilò: «Zitto e fermo» a Miller, che si sentì gelare, mentre lo scassinatore chiuse silenziosamente la finestra e tirò le tende. Scivolò attraverso la stanza, evitando d'istinto i mobili, e chiuse la porta che dava sul corridoio: solo allora accese la torcia elettrica. Fece scorrere il fascio luminoso sulla stanza, mettendo in evidenza una scrivania, un telefono, una libreria a muro, una grossa poltrona, e infine lo posò su un bel caminetto incorniciato di mattoni rossi. Comparve all'improvviso a fianco di Miller. «Questo dev'essere lo studio. Non possono esserci due stanze come questa, con due caminetti di mattoni, nella stessa casa. Dov'è il meccanismo che apre la mensola?» «Non lo so» gli mormorò Miller come risposta, imitando il borbottio del ladro, che aveva imparato come è più difficile avvertire un mormorio che non un sussurro. «Deve trovarla.» «Maledizione. Potremmo metterci dei secoli» disse Koppel. Fece sedere Miller sulla poltrona, raccomandandogli di non togliere i guanti. Dopo aver preso la sua borsa, Koppel andò al caminetto, si infilò in testa una fascia alla quale assicurò la torcia elettrica in modo che puntasse diritto in avanti. Centimetro dopo centimetro, esplorò tutto il rivestimento in mattoni, tastando con le sue dita sensibili, alla ricerca di fessure o di sporgenze, di frastagliature o di zone vuote. Poi, ricominciò da capo, esplorando la superficie con una spatola. Alle 3.30, la lama della spatola si incastrò fra due mattoni e si udì un leggero scatto. Una sezione di mattoni, di circa mezzo metro di lato, si sporse fuori di un paio di centimetri. Il lavoro era stato fatto così bene, che ad occhio nudo era impossibile distinguere quella parte dal resto. Koppel tirò a sé la porta di mattoni, che poggiava sul lato sinistro su silenziosi cardini d'acciaio. La sezione mobile di mattoni era appoggiata a una superficie d'acciaio che formava uno sportello. Dietro lo sportello, il sottile fascio luminoso della pila di Koppel rivelò una piccola cassaforte a muro. Koppel tenne la luce accesa, ma tirò fuori uno stetoscopio e pose le estremità negli orecchi. Dopo cinque minuti trascorsi a osservare la serratura con una combinazione a quattro giri, tenne fermo lo stetoscopio sul punto in cui pensava che si trovasse il meccanismo per la formazione del numero, e cominciò a far girare il primo disco attraverso le diverse combinazioni. Miller, dal suo posto a tre metri di distanza, fissava lo svolgersi del lavoro, diventando sempre più impaziente. Koppel, invece, era perfettamente calmo, assorto nel suo lavoro. Inoltre egli sapeva che, finché rimanevano immobili, con ogni probabilità non sarebbe venuto nessuno a controllare nello studio. I momenti di pericolo erano

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all'entrata, durante gli spostamenti e all'uscita. Gli ci vollero quaranta minuti a far scattare l'ultimo numero della combinazione. Aprì con dolcezza lo sportello della cassaforte e si voltò verso Miller, mentre il raggio di luce che gli partiva dalla testa illuminava un tavolo sul quale erano appoggiati due candelabri d'argento e una pesante tabacchiera. Senza dire una parola, Miller si alzò e raggiunse Koppel accanto alla cassaforte. Alzò la mano e staccò la torcia elettrica applicata alla fascia sulla testa di Koppel, e se ne servì per esplorare l'interno della cassaforte. C'erano parecchie mazzette di banconote che tirò fuori e passò al riconoscente scassinatore che emise un lieve sibilo di approvazione. Il ripiano superiore della cassaforte conteneva soltanto un oggetto, una cartelletta di cartone marrone. Miller la tirò fuori, la aprì e sfogliò le pagine all'interno. Erano circa quaranta fogli. Ognuno conteneva una fotografia e diverse righe dattiloscritto te. Al diciottesimo si fermò e disse ad alta voce: «Accidenti!» «Zitto» mormorò Koppel, in tono deciso. Miller chiuse la cartelletta, restituì la torcia elettrica a Koppel e disse: «La richiuda.» Koppel rimise a posto lo sportello e girò il disco combinatore finché le cifre non tornarono nello stesso ordine in cui le aveva trovate. Poi, spostò il quadrato di mattoni e lo spinse nella sua nicchia. Si udì un altro leggero scatto, a significare che il congegno era andato a posto. Aveva già fatto sparire in una tasca le banconote, i proventi degli ultimi quattro passaporti di Winzer, e gli restava soltanto da infilare delicatamente i candelabri e la tabacchiera nella sacca di cuoio nero. Spense la torcia, prese Miller per il braccio e lo condusse alla finestra, tirò le tende e lanciò una lunga occhiata attraverso il vetro. Il prato era deserto, e la luna era sparita dietro le nuvole. Koppel aprì la finestra, la scavalcò con un balzo, sempre tenendo in mano la sacca, e aspettò che Miller lo raggiungesse. Riabbassata la finestra, si diresse verso il folto dei cespugli, seguito dal giornalista, che si era infilato la cartelletta sotto la maglia. Si spostarono fra i cespugli finché non furono vicini al cancello, poi sbucarono sulla strada. Miller sentì l'impulso di correre. «Cammini adagio» gli disse Koppel con un tono normale di voce. «Cammini e parli come se stessimo tornando a casa da una festa.» Erano a tre chilometri dalla stazione ferroviaria ed erano quasi le 5 del mattino. Le strade non erano del tutto deserte, anche se era sabato, perché gli operai tedeschi si alzano presto per andare al lavoro. Camminarono fino alla stazione senza essere né fermati né interrogati. Fino alle 7 non c'erano treni per Amburgo, ma Koppel disse che sarebbe rimasto volentieri ad aspettare al buffet, con davanti un caffè e un grappino doppio. «Un lavoretto molto carino, Herr Miller» disse. «Spero che lei abbia trovato quello che cercava.» «Oh sì, l'ho trovato» disse Miller. «Be', non ne faccia parola con nessuno. Arrivederci, Herr Miller.»

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Lo scassinatore fece un cenno con la testa e s'incamminò lentamente verso il buffet della stazione. Miller attraversò la piazza diretto all'albergo, senza accorgersi che due occhi cerchiati di rosso lo fissavano dal sedile posteriore di una Mercedes in sosta. Era troppo presto per fare le telefonate che gli servivano, quindi Miller si concesse tre ore di sonno e chiese di essere svegliato alle 9.30. Il telefono squillò puntualmente, ed egli ordinò caffè e brioches, che arrivarono proprio quando aveva finito di fare una doccia calda. Dopo il caffè, si sedette a esaminare i documenti nella cartelletta, riconoscendo una mezza dozzina delle facce, ma nessun nome. I nomi si disse, non avevano significato. Arrivò al foglio numero diciotto. L'uomo era più vecchio, i capelli erano più lunghi, un paio di baffi vistosi copriva il labbro superiore. Ma le orecchie erano le stesse, il tratto somatico più identificabile della faccia di un individuo. E anche le sottili narici erano identiche, e la sagoma della testa, e gli occhi slavati. Il nome era comune, ma quello che attirò la sua attenzione fu l'indirizzo. A giudicare dal distretto postale, doveva trovarsi nel centro della città, il che probabilmente voleva dire un caseggiato di appartamenti. Alle 10, telefonò all'ufficio informazioni della città indicata sul foglio. Chiese il numero del sovrintendente della casa indicata a quell'indirizzo. Era un rischio, e gli andò bene. Era un caseggiato di appartamenti, e di quelli costosi. Telefonò al sovrintendente, il nome pomposo che i tedeschi, col loro amore per i titoli, danno al portinaio, e gli spiegò che aveva telefonato più volte a uno degli inquilini, ma nessuno gli aveva risposto, il che era strano, perché gli era stato detto di chiamare a quell'ora. Il sovrintendente del caseggiato poteva aiutarlo? Era forse guasto il telefono? L'uomo all'altro capo del filo fu molto premuroso. Herr Direktor era probabilmente in fabbrica, o forse nella sua casa di campagna per il week-end. Quale fabbrica? Ma come, la sua, naturalmente. La fabbrica di apparecchi radio. Oh sì, naturalmente, che stupido che sono, disse Miller, e riattaccò. Il centralino gli diede il numero della fabbrica. La ragazza che gli rispose gli passò la segretaria del principale, la quale gli disse che Herr Direktor si trovava nella sua casa di campagna per il week-end e sarebbe tornato il lunedì mattina. No, spiacente, il suo numero privato era riservato. Miller la ringraziò e riappese. L'uomo che gli diede finalmente il numero privato e l'indirizzo del proprietario della fabbrica di radio, era una vecchia conoscenza, il corrispondente economico d'un grande giornale di Amburgo. Miller, seduto, osservò la faccia di Roschmann, il suo nuovo nome e l'indirizzo privato segnati nella sua agenda. Ora si ricordava di aver sentito già parlare di quell'uomo, un industriale della Ruhr; aveva anche visto le radio nei negozi. Tirò fuori la sua cartina geografica della Germania e individuò la villa di campagna, o perlomeno la zona dov'era situata.

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Erano le 12.30 quando fece i bagagli, scese nell'atrio e saldò il conto. Aveva appetito, quindi si recò nel ristorante dell'albergo, portando con sé solo la valigetta coi documenti, e si concesse una grossa bistecca. Mentre pranzava, decise che nel pomeriggio avrebbe portato a termine l'ultima parte della caccia, e avrebbe affrontato la sua preda il mattino seguente. Aveva ancora il foglietto di carta con sopra il numero di telefono dell'avvocato della Commissione Z di Ludwigsburg. Avrebbe potuto telefonargli ora, ma era deciso, a tutti i costi, a voler essere il primo ad affrontare Roschmann. Temeva che, se avesse telefonato quel pomeriggio per chiedergli una squadra di poliziotti, l'avvocato poteva non essere in casa. Domenica mattina sarebbe andata benissimo. Erano quasi le 14 quando uscì, ripose la valigia nel portabagagli della Jaguar, gettò la valigetta coi documenti sul sedile a fianco di quello di guida e si mise al volante. Non si accorse della Mercedes che lo seguì fino alla periferia di Osnabrück. La macchina dietro di lui arrivò all'autostrada principale, si fermò qualche secondo mentre la Jaguar accelerava, sulla carreggiata verso sud, e lasciò dopo una ventina di metri la strada principale per tornare in città. Da una cabina telefonica lungo la strada, Mackensen telefonò al Werwolf a Norimberga. «E' per la strada» riferì al suo superiore. «Quando l'ho lasciato, stava volando a sud come un uccello. «E' in compagnia del vostro aggeggio?» Mackensen sogghignò. «Proprio così. Fissato alla sospensione anteriore. Fra cinquanta chilometri sarà già in tanti pezzi, che non potranno nemmeno identificarlo.» «Magnifico» mormorò l'uomo a Norimberga. «Lei deve essere stanco, mio caro "Kamerad". Torni in città e vada a dormire.» Mackensen non aveva bisogno che gli ripetessero l'invito. Da mercoledì non aveva dormito per una notte intera. Miller percorse quei cinquanta chilometri, e poi altri cento. Perché Mackensen aveva trascurato un particolare. Il suo congegno avrebbe senz'altro funzionato se fosse stato inserito nel sistema di sospensione degli ammortizzatori d'una berlina continentale. Ma la Jaguar era una macchina sportiva inglese, con un sistema di sospensione molto più duro. Mentre filava lungo l'autostrada verso Francoforte, i sobbalzi fecero spostare leggermente le pesanti molle sopra le ruote anteriori, mandando in pezzi la lampadina posta nella morsa del congegno di detonazione. Ma i fili d'acciaio carichi di elettricità non si toccarono. Coi forti sobbalzi, arrivavano a un millimetro di distanza l'uno dall'altro, per poi ricadere dalla parte opposta. Senza sapere quanto la morte gli fosse vicina, Miller percorse la strada per Munster, Dortmund, Wetzlar, Bad Homburg fino a Francoforte in meno di tre ore, poi voltò al raccordo verso Königstein e le foreste selvagge, coperte di neve, dei monti Taunus.

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Capitolo 16.

Era già buio quando la Jaguar entrò nella piccola cittadina termale ai piedi delle colline sul versante orientale della catena montuosa. Uno sguardo alla carta disse a Miller che era a più di trenta chilometri dall'obiettivo. Decise di non proseguire oltre, per quella notte, ma di cercare un albergo e di aspettare fino al mattino. A nord c'erano le montagne, su cui si arrampicava la strada per Limburg, bianche e tranquille sotto la spessa coltre di neve che incappucciava le rocce e copriva chilometri e chilometri di foreste d'abeti. Lungo la strada principale della cittadina brillavano delle luci, e il loro chiarore illuminava lo scheletro del castello in rovina che dominava la collina, un tempo la dimora dei signori di Falkenstein. Il cielo era chiaro, ma un vento gelido prometteva un'altra nevicata per la notte. All'angolo di Hauptstrasse con Frankfurtstrasse, trovò un albergo, il Park Hotel, e chiese una stanza. In una città termale, a febbraio, la cura dell'acqua fredda non ha lo stesso fascino dei mesi estivi, e trovare posto non era un problema. Il portiere gli indicò un piccolo parcheggio dove lasciare la macchina, sul retro dell'albergo e incorniciato da alberi e cespugli. Si fece un bagno e andò a cena, scegliendo l'osteria Grüne Baum in Hauptstrasse, una delle antiche e illuminate trattorie che la città offriva. Fu durante la cena che cominciò a sentirsi nervoso. Si accorse, alzando il bicchiere di vino, che gli tremavano le mani. In parte la sua condizione era dovuta alla stanchezza, alla mancanza di sonno negli ultimi quattro giorni, sostituiti da sonnellini di un paio d'ore. In parte era dovuta alla ritardata reazione dell'impresa con Koppel, in parte al senso di stupore per come la fortuna lo aveva ricompensato per aver seguito il suo istinto ed essere tornato alla casa di Winzer dopo la prima visita, e per aver domandato alla ragazza chi fosse stata in tutti quegli anni la governante dello scapolo. Ma soprattutto, e lo sapeva, era dovuta alla sensazione che era arrivato alla fine della caccia, al confronto con l'uomo che odiava e che aveva cercato con ogni mezzo, insieme con il timore che qualcosa potesse ancora andargli male. Pensò al medico sconosciuto che nell'albergo di Bad Godesberg lo aveva ammonito di star lontano dai "camerati"; e pensò al cacciatore ebreo di nazisti che gli aveva detto: "Sia prudente; questa gente può essere pericolosa". Si domandò perché non l'avessero ancora colpito. Sapevano che si chiamava Miller, la visita al Dreesen lo dimostrava; e in quanto a Kolb, dopo la faccenda con Bayer a Stoccarda, era certo che quella copertura era saltata. Eppure non li aveva ancora visti. Una cosa non la potevano sapere, di questo ne era certo, che era andato così lontano. Forse avevano perduto le sue tracce, o avevano deciso di lasciarlo fare, sicuri, ora che il falsario si era nascosto, che lui non sarebbe approdato a nulla.

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E invece aveva in mano l'archivio segreto di Winzer, le sue prove esplosive, e con esso il più grosso colpo giornalistico dell'ultimo decennio nella Germania occidentale. Sorrise tra sé, e la cameriera, passando, pensò che il sorriso fosse per lei. Quando passò ancora vicino al suo tavolo, mise il petto in fuori, e lui pensò a Sigi. Non le aveva più telefonato dopo Vienna, e la lettera che le aveva scritto to all'inizio di gennaio era l'ultima che lei aveva ricevuto. Sentì in quel momento che aveva bisogno di lei, come non gli era mai successo prima. "E' buffo," pensò "come gli uomini abbiano sempre bisogno delle donne quando sono spaventati." Dovette ammettere che era spaventato, in parte per quello che aveva fatto, in parte per il criminale assassino che, senza saperlo, lo aspettava sulle montagne. Scosse la testa per allontanare quei tristi pensieri, e si ordinò un'altra mezza bottiglia di vino. Non c'era tempo per le malinconie. Aveva fatto il più grosso colpo giornalistico di cui avesse mai sentito parlare, e stava per guadagnare un'altra vittoria. Riepilogò il suo piano, mentre finiva di bere il vino. Un semplice confronto, una telefonata all'avvocato di Ludwigsburg, l'arrivo, mezz'ora dopo, d'un furgone della polizia per portare via quell'uomo, il processo, e la condanna all'ergastolo. Se fosse stato più spietato, avrebbe voluto uccidere l'S.S. con le sue mani. Ci ripensò, e si rese conto di non essere armato. E se Roschmann avesse avuto una guardia del corpo? Sarebbe stato davvero solo, sicuro della protezione che gli garantiva il suo nuovo nome? O si sarebbe tenuto un'arma in caso di pericolo? Durante il servizio militare, un amico di Miller, dopo aver passato la notte in cella per essere rientrato tardi al campo, aveva rubato un paio di manette della polizia militare. Più tardi, preoccupato all'idea che potessero trovargliele nello zaino, le aveva date a Miller. Il giornalista le aveva tenute come trofeo d'una notte brava nell'esercito. Erano in fondo a un baule nel suo appartamento di Amburgo. Aveva anche una pistola, una piccola Sauer automatica, acquistata in tutta legalità mentre conduceva un'inchiesta sui racket del vizio di Amburgo, nel 1960, ed era stato minacciato dalla banda di Piccolo Pauli. Anche questa era ad Amburgo, chiusa a chiave in un cassetto. Gli girava un po' la testa per effetto del vino, un doppio brandy, e della stanchezza; si alzò, pagò il conto e tornò in albergo. Stava per entrare, quando notò due cabine telefoniche quasi a lato della porta. Era più sicuro usare queste. Erano quasi le 22, e trovò Sigi al night dove lavorava. A causa del fracasso dell'orchestra, dovette gridare per farsi sentire. Miller tagliò corto la sfilza di domande su dov'era stato, perché non si era fatto vivo, dov'era adesso, e le disse quello che voleva. Lei protestò che non poteva venir via, ma qualcosa nella voce di lui la fermò. «Stai bene?» gridò al telefono. «Sì. Sto bene. Ma ho bisogno del tuo aiuto. Ti prego, cara, non mi abbandonare. Non adesso, non stanotte.» Ci fu una pausa, poi ella disse semplicemente: «Verrò. Dirò che è un

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caso di emergenza. Un parente stretto o qualcosa del genere». «Hai abbastanza soldi per noleggiare un'automobile?» «Credo di sì. Posso farmi prestare qualcosa da una delle ragazze.» Le diede l'indirizzo d'un autonoleggio aperto tutta la notte, di cui si era già servito in passato, e insistette perché facesse il suo nome al proprietario, che conosceva. «Quanto è distante?» gli domandò Sigi. «Da Amburgo, cinquecento chilometri. Puoi farcela in cinque ore. Diciamo sei ore a partire da adesso. Arriverai verso le 5 del mattino. E non dimenticarti di portare quella roba.» «D'accordo, aspettami allora.» Ci fu una pausa, poi: «Peter, caro...» «Cosa?» «Hai paura di qualcosa?» Udì un ronzio nel telefono, ma non aveva più monete da un marco. «Sì» disse, e mise giù la cornetta mentre la linea veniva interrotta. Nell'atrio dell'albergo chiese al portiere notturno se poteva avere una grossa busta. L'uomo, dopo aver frugato un po' sotto la cassa, gli porse con deferenza una busta rigida color marrone, grande abbastanza per infilarci un foglio piegato in quattro. Miller comprò anche una quantità di francobolli sufficiente a spedire il plico per espresso, anche con un contenuto molto pesante, sfornendo completamente il portiere della sua riserva. Tornato nella sua stanza, prese la valigetta coi documenti, che si era portata dietro per tutta la sera, l'appoggiò sul letto e tirò fuori il diario di Salomon Tauber, il pacco di fogli tolti dalla cassaforte di Winzer, e due fotografie. Rilesse ancora le due pagine del diario che all'inizio lo avevano spinto a questa caccia, la caccia a un uomo di cui non aveva mai sentito parlare, e studiò le due fotografie, una di fianco all'altra. Infine prese dalla valigetta un foglio di carta semplice e vi scrisse sopra un messaggio breve ma chiaro, nel quale spiegava il significato di quel fascio di documenti. Mise il messaggio, insieme ai documenti e a una delle foto, nella busta, vi scrisse l'indirizzo e l'affrancò. Mise l'altra fotografia nella tasca interna della giacca. La busta sigillata e il diario tornarono nella valigetta diplomatica, che infilò sotto il letto. Nella valigia teneva sempre una fiaschetta di brandy: se ne versò una dose nel bicchiere per lo spazzolino da denti, sopra il lavabo. Si accorse che gli tremavano le mani, ma il liquore forte lo rilassò. Si distese sul letto, con la testa che gli ciondolava un po', e si addormentò.

Nello scantinato di Monaco, Josef misurava il pavimento, furioso e impaziente. Al tavolo, Leon e Motti si guardavano le mani. Erano passate quarantott'ore da quando era arrivato il telegramma da Tel Aviv. I loro tentativi di rintracciare Miller non avevano avuto risultati. In seguito a una loro richiesta telefonica, Alfred Oster era stato al parcheggio a Bayreuth, e più tardi li aveva richiamati per dir loro che l'automobile era sparita. «Se gli vedono la macchina, sapranno che non può essere il lavorante

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di una panetteria di Brema» grugnì Josef «anche se non sanno che il proprietario della Jaguar è Miller.» Più tardi, un amico di Stoccarda informò Leon che la polizia del luogo ricercava un giovane che aveva a che fare con l'assassinio, avvenuto in una camera d'albergo, di un cittadino di nome Bayer. La descrizione corrispondeva troppo bene a Miller sotto le vesti di Kolb, per poter essere di qualcun altro, ma per fortuna sul registro dell'albergo il nome segnato non era né Kolb né Miller, e non si parlava d'una automobile sportiva nera. «Perlomeno ha avuto il buon senso di registrarsi con un falso nome» disse Leon. «Questo sarebbe in carattere con Kolb» rilevò Motti. «Kolb diceva di sfuggire alla polizia di Brema che lo ricercava per crimini di guerra.» Ma era una magra consolazione. Se la polizia di Stoccarda non riusciva a trovare Miller, non ci riusciva nemmeno il gruppo di Leon: a questo restava solo il timore che l'Odessa gli fosse ora più vicina che mai. «Doveva saperlo, dopo aver ucciso Bayer, che gli era saltata la copertura, e perciò avrà riadottato il nome Miller» spiegò Leon. «Perciò deve abbandonare la ricerca di Roschmann, a meno che da Bayer non abbia saputo qualcosa che lo porti da Roschmann.» «E perché diavolo, allora, non si fa vivo?» scattò Josef. «Quell'idiota non crederà mica di poter prendere Roschmann da solo?» Motti diede un discreto colpo di tosse. «Lui non sa se Roschmann, nell'Odessa, sia davvero importante» fece notare. «Be', se ci si avvicina abbastanza, lo saprà» disse Leon. «E sarà un uomo morto, e noi saremo di nuovo a zero» disse, secco, Josef. «Perché non telefona, quell'idiota?» Ma altri telefoni erano occupati, quella sera; Klaus Winzer aveva telefonato al Werwolf da un piccolo chalet di montagna nella regione di Regensburg. Le notizie che ricevette erano rassicuranti. «Sì, penso che lei ora possa tornare tranquillamente a casa» aveva risposto il capo dell'Odessa alla domanda postagli dal falsario. «L'uomo che cercava di vederla, a quest'ora è stato senz'altro sistemato.» Il falsario l'aveva ringraziato, aveva saldato il conto della notte precedente e si era messo in viaggio, verso il nord e il calore familiare del comodo letto nella sua casa di Westerberg, a Osnabrück. Calcolò che sarebbe arrivato in tempo per una sostanziosa colazione, un bagno e una lunga dormita. Al lunedì mattina sarebbe stato di nuovo in tipografia, a sovrintendere all'andamento del lavoro.

Miller fu svegliato da qualcuno che bussava alla porta della sua camera. Quando aprì, si trovò di fronte il portiere di notte, e dietro l'uomo, Sigi. Miller lo tranquillizzò spiegandogli che la signora era sua moglie, che gli aveva portato da casa alcuni documenti importanti per una riunione d'affari, il mattino dopo. Il portiere, un semplice ragazzo di campagna con un indecifrabile accento dell'Assia, ascoltò le sue spiegazioni e se ne andò.

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Sigi gli buttò le braccia al collo appena la porta fu chiusa. «Dove sei stato? Cosa fai qui?» Lui la mise a tacere nel modo più semplice, e quando si staccarono le guance fredde di Sigi erano rosse e infuocate. Miller le tolse il cappotto e lo appese al gancio dietro la porta. Ella cominciò a fargli altre domande. «Una cosa alla volta» le disse, e la spinse verso il letto, ancora tiepido sotto il pesante piumino. Lei ridacchiò. «Non sei cambiato.» Indossava il vestito che portava sul lavoro, con la scollatura bassa e, sotto, un reggiseno di minuscole proporzioni. Egli tirò giù la lampo sulla schiena e abbassò le sottili spalline. «E tu?» domandò a voce bassa. Sigi respirò profondamente e si sdraiò mentre egli si chinava su di lei. «No,» mormorò sorridendo «per niente. Sai che cosa mi piace.» «E tu sai che cosa piace a me» mormorò Miller con voce rauca. Lei protestò. «Prima io. Tu mi sei mancato più di quanto io sia mancata a te.» Non ci fu nessuna risposta, solo il silenzio disturbato dai sospiri e dai gemiti in crescendo di Sigi. Passò un'ora prima che si fermassero, ansanti e felici, poi Miller riempì il bicchiere con brandy e acqua. Sigi bevve qualche sorsata, perché, nonostante il suo lavoro, non era una gran bevitrice, e Miller finì il resto. «E allora,» disse Sigi con aria aggressiva «adesso che abbiamo dato la precedenza alle cose più importanti...» «Per un po'» obiettò Miller. Lei rise. «Per un po', ti spiacerebbe spiegarmi quella lettera misteriosa, il motivo di sei settimane di assenza, di quell'orribile taglio a zero, e di questa camera in un oscuro alberghetto nell'Assia?» Miller si fece serio. Infine si alzò, ancora nudo, attraversò la stanza e ritornò con la sua valigetta. Si sedette sul bordo del letto. «Presto saprai che cosa ho combinato,» disse «tanto vale dunque che te lo dica subito.» Parlò per quasi un'ora, cominciando con la scoperta del diario e terminando con il furto in casa del falsario. Man mano che lui parlava, Sigi dimostrava un orrore crescente. «Tu sei pazzo» gli disse quando lui ebbe finito. «Sei completamente pazzo, pazzo furioso. Avrebbero potuto ucciderti, o metterti in galera o un centinaio di altre cose.» «Dovevo farlo» rispose lui, senza più riuscire a dare una spiegazione a fatti che ora gli sembravano assurdi. «Tutto questo per un vecchio rottame di nazista? Sei suonato. Sono cose passate, Peter, è tutto finito. Perché vuoi sprecare il tuo tempo per loro?» Lo fissava sconcertata. «Be', dovevo farlo» disse con aria di sfida. Sigi sospirò profondamente e scosse la testa per indicare la sua incapacità di comprendere. «Va bene,» disse «e allora adesso è fatta. Sai chi è e dove abita.

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Devi tornare ad Amburgo, prendere il telefono e chiamare la polizia. Loro faranno il resto. E' per questo che li pagano.» Miller non sapeva cosa risponderle. «Non è così semplice» disse alla fine. «Ci andrò io più tardi, stamattina.» «Dov'è che vai?» Lui indicò col pollice la finestra e la catena di montagne ancora buie. «A casa sua.» «A casa sua? A fare che cosa?» I suoi occhi si spalancarono per la paura. «Non andrai a trovarlo?» «Sì. Non chiedermi perché, non saprei dirtelo. Solo che è qualcosa che devo fare.» La reazione di Sigi lo colse di sorpresa. Si mise a sedere di scatto e guardò giù, dove egli era sdraiato a fumare, con la testa appoggiata al cuscino. «E' per questo che volevi la pistola» sibilò, con i seni che le si alzavano e abbassavano per la rabbia crescente. «Hai intenzione di ucciderlo...» «Non ho intenzione di ucciderlo...» «Bene, allora sarà lui ad uccidere te. E tu vai là da solo con una pistola, contro lui e i suoi scagnozzi. Brutto bastardo, schifoso marcio orribile...» Miller la fissava sorpreso. «Ma perché ti riscaldi tanto? Per Roschmann?» «Non mi riscaldo per quel vecchio, orribile nazista. Sto parlando di me. Di me e di te, stupido idiota deficiente. Rischi di farti ammazzare e tutto per provare qualche stupida cosa e mettere insieme un articolo per quei deficienti che leggono la tua rivista. Non pensi a me neanche per un minuto...» Mentre parlava, aveva cominciato a piangere, e le lacrime le segnavano sulle guance tracce di mascara simili a neri binari. «Guardami, allora, idiota, guardami. Cosa pensi che sia, una svitata qualsiasi? Pensi davvero che io voglia darmi ogni notte a qualche voglioso giornalista, così che si senta soddisfatto di sé quando va a caccia di qualche storia per idioti che lo può far finire ammazzato? Lo pensi davvero? Ascoltami, deficiente, io voglio sposarmi. Avere dei bambini. E tu vai a farti ammazzare... Oh, Dio...» Saltò giù dal letto e corse nel bagno, sbattendosi dietro la porta e chiudendola a chiave. Miller rimase steso sul letto a bocca aperta, con la sigaretta che gli bruciava le dita. Non l'aveva mai vista così in collera, e questo fatto l'aveva sconcertato. Ripensò a quello che gli aveva detto, mentre ascoltava lo scroscio dell'acqua nella vasca da bagno. Spense la sigaretta e attraversò la stanza fino alla porta del bagno. «Sigi.» Nessuna risposta. «Sigi.» Il rubinetto fu chiuso. «Va' via.» «Sigi, per favore, apri la porta Voglio parlarti.»

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Ci fu un momento di attesa, poi la porta si aprì. Sigi davanti a lui, nuda, con l'aria cupa. Si era lavata via i segni di mascara dalla faccia. «Cosa vuoi?» domandò. «Vieni sul letto. Voglio parlare con te. Fa freddo, qui in piedi.» «No, tu vuoi solo ricominciare a fare l'amore.» «No. Onestamente. Ti prometto che non ci proverò. Voglio solo parlare.» Le prese la mano e la accompagnò fino al letto e al tepore che questo offriva. Sigi lo guardava con sospetto dal cuscino. «Di che cosa vuoi parlare?» Miller salì sul letto, vicino a lei e le accostò la faccia all'orecchio. «Sigrid Rahn, vuoi sposarmi?» La ragazza si girò verso di lui. «Dici davvero?» domandò. «Sì, davvero. Non ci avevo mai pensato prima. Ma non ti eri mai arrabbiata così, prima d'ora.» «Accidenti.» Lo guardava come se non credesse alle sue orecchie. «Vorrà dire che mi arrabbierò più spesso.» «Mi dài una risposta?» «Oh sì, Peter, sì che lo voglio. Staremo così bene insieme.» Miller cominciò ad accarezzarla, eccitandosi mentre lo faceva. «Avevi detto che non avresti ricominciato» lo accusò lei. «Be', soltanto stavolta. Poi prometto che ti lascerò in pace per tutto il resto del tempo.» Sigi allungò la coscia su di lui e fece scivolare i fianchi sul suo basso ventre. Lo guardò e disse: «Peter Miller, non osare.» Miller allungò la mano e spense la luce. Fuori, sulla neve, una debole luce appariva all'orizzonte. Se Miller avesse guardato l'orologio, avrebbe saputo che erano le 6.50 del mattino di domenica 23 febbraio. Ma era già addormentato.

Mezz'ora dopo, Klaus Winzer percorse in macchina il vialetto che portava a casa sua, si fermò di fronte alla porta chiusa del garage e aprì la portiera. Si sentiva intirizzito e stanco, ma contento di essere a casa. Barbara non si era ancora alzata, approfittando dell'assenza del padrone per rimanere a letto più del solito. Quando apparve, dopo che Winzer era entrato e l'aveva chiamata dall'ingresso, indossava una camicina da notte che avrebbe eccitato qualsiasi altro uomo. Winzer, invece, ordinò uova fritte, toast e marmellata, un bricco di caffè e un bagno. Non gli fu servito niente di tutto questo. Barbara gli raccontò, invece, che sabato mattina, entrando nello studio per far la polvere, aveva scoperto il vetro rotto e l'argenteria scomparsa. Aveva chiamato la polizia, e questa aveva stabilito che quel taglio circolare, perfetto, poteva essere soltanto opera di un ladro professionista. Aveva dovuto dire che il padrone di casa era via, ed essi volevano sapere quando sarebbe ritornato, per le solite domande sugli oggetti scomparsi. Winzer ascoltò in silenzio totale il resoconto della ragazza, con la faccia pallida e una vena che gli pulsava sulla tempia. La mandò in

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cucina a preparare il caffè, andò nello studio e chiuse a chiave la porta. Gli ci vollero trenta secondi e una frenetica ricerca nella cassaforte vuota per convincersi che la documentazione sui quaranta criminali dell'Odessa era sparita. Mentre si allontanava dalla cassaforte, squillò il telefono. Era il medico della clinica che lo informava che Fraülein Wendel era morta nella notte. Per due ore Winzer rimase seduto sulla poltrona di fronte al caminetto spento, senza accorgersi delle folate fredde che arrivavano dal buco nel vetro della finestra, tappato con carta di giornale, pensando solo alle dita che da tutte le parti gli si chiudevano attorno. Non rispose ai ripetuti richiami di Barbara, al di là della porta chiusa a chiave, la quale l'avvertiva che la colazione era pronta. Attraverso il buco della serratura lo sentiva mormorare di tanto in tanto: «Non è colpa mia, non è per niente colpa mia».

Miller si era dimenticato di annullare la sveglia telefonica che aveva chiesto la sera precedente, prima di telefonare a Sigi. Il telefono accanto al letto squillò alle 9. Con la vista ancora annebbiata, rispose, borbottò un grazie e scese dal letto. Sapeva che se non l'avesse fatto, si sarebbe riaddormentato. Sigi dormiva ancora sodo, esausta per il viaggio in macchina da Amburgo, per aver fatto l'amore ed essersi, finalmente, fidanzata. Miller fece la doccia, restando alla fine per parecchi minuti sotto il getto dell'acqua gelata, si strofinò con l'asciugamano che aveva lasciato sul termosifone per tutta la notte. La depressione e l'ansia della notte precedente erano scomparse. Si sentiva a posto e pieno di fiducia. Si infilò gli stivaletti e i calzoni sportivi, un pesante pullover a girocollo e il giaccone blu di lana, un capo d'abbigliamento invernale molto diffuso in Germania, che si chiama Joppe ed è una via di mezzo fra la giacca e il cappotto. Aveva ai due lati delle tasche abbastanza profonde per contenere la pistola e le manette, e una tasca interna per metterci la fotografia. Prese le manette dalla borsa di Sigi e le esaminò. Non c'era chiave, e si chiudevano a scatto da sole, il che le rendeva inutili per qualsiasi altro scopo che non fosse l'immobilizzare un uomo finché non venisse liberato dalla polizia o da un seghetto per metalli. Smontò la pistola e la controllò. Non l'aveva mai usata, e all'interno c'era ancora il grasso della fabbrica. Il caricatore era pieno, e lo lasciò così. Per familiarizzarsi ancora con l'arma provò diverse volte il funzionamento del cane, si assicurò in quali posizioni la sicura era "bloccata" o "pronta al fuoco", inserì il caricatore, mise una pallottola in canna e bloccò la sicura. S'infilò nella tasca dei calzoni il numero di telefono dell'avvocato di Ludwigsburg. Prese da sotto il letto la sua valigetta, ne tirò fuori un foglio bianco e scrisse un messaggio che Sigi avrebbe letto al suo risveglio. Diceva: "Tesoro mio, vado a incontrare l'uomo al quale ho dato la caccia. Ho delle ragioni per volerlo guardare in faccia, e per essere presente quando la polizia lo porterà via ammanettato. Sono valide, e questo pomeriggio potrò parlartene. In ogni caso, ecco quello che

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dovresti fare...". Le istruzioni erano sintetiche e precise. Scrisse il numero telefonico di Monaco al quale lei doveva chiamare, e la comunicazione da fare all'uomo che avrebbe risposto. Terminò così: "Non seguirmi sulla montagna, per nessun motivo. Potresti solo peggiorare la situazione, qualunque essa sia. Così se io non sono di ritorno entro mezzogiorno, o non ti ho telefonato, chiama questo numero, riferisci il messaggio, allontanati dall'albergo, imbuca quella busta in una qualsiasi buca per le lettere a Francoforte e poi tornatene ad Amburgo. Nel frattempo evita qualsiasi altra persona. Con tutto il mio amore, Peter". Depose il biglietto sul comodino, assieme alla grossa busta contenente i documenti dell'Odessa e a tre banconote da cinquanta marchi. S'infilò sotto braccio il diario di Salomon Tauber e scivolò fuori dalla stanza. Al bureau chiese al portiere di dare la sveglia nella sua stanza alle 11.30. Uscì dalla porta dell'albergo alle 9.30 e rimase sorpreso per l'enorme quantità di neve che era caduta durante la notte. Miller girò attorno alla parte posteriore della Jaguar e vi montò, premendo il pulsante d'avviamento dopo aver tirato al massimo l'aria. Passarono diversi minuti prima che il motore s'avviasse. Mentre lo faceva scaldare, con una spazzola ripulì il cofano, il tetto e il parabrezza dallo spesso strato di neve. Ritornò al volante, ingranò la marcia e uscì sulla strada principale. La neve fresca caduta durante la notte faceva una specie di cuscino sotto le ruote ed egli la sentiva scricchiolare. Dopo aver dato un'occhiata alla carta stradale che aveva acquistato la sera prima, imboccò la strada che portava a Limburg.

Capitolo 17.

Era un mattino grigio e nuvoloso, dopo l'alba breve e brillante, che lui non aveva visto. Sotto le nuvole la neve luccicava ai piedi degli alberi e il vento scendeva lamentoso dalle montagne. I tornanti della strada, fuori di città, si perdevano nel mare d'alberi che formava la foresta di Romberg. Di mano in mano che Miller continuava a salire, la coltre di neve diventò quasi immacolata: solo una pista di tracce parallele si snodava su di essa: le tracce di qualcuno diretto a Königstein per assistere alla funzione, la mattina presto. Miller imboccò la deviazione per Glashütten, costeggiò le pendici del maestoso monte Feldberg e prese una strada che, secondo il cartello indicatore, portava al villaggio di Schmitten. Sui fianchi della montagna, l'ululato del vento tra i pini si alzava a tratti quasi un urlo tra i rami sovraccarichi di neve. Anche se a Miller non era mai venuto in mente di pensarci, era da questi e altri oceani di alberi che un tempo le antiche tribù germaniche erano calate per essere arrestate da Cesare sul Reno. Più tardi, convertite al Cristianesimo, di giorno avevano reso un omaggio formale al Principe della Pace, e nelle ore del buio avevano sognato gli antichi dei della forza, della cupidigia e del potere. Ed era

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stato questo primitivo atavismo, questa adorazione nel buio delle deità urlanti della foresta senza fine, che Hitler aveva riattizzato con un tocco di magia. Dopo venti minuti di guida prudente, Miller controllò ancora la sua carta stradale e cominciò a guardarsi intorno per cercare il cancello di una residenza privata, Quando lo trovò, vide che era tenuto chiuso solo dal saliscendi e aveva un cartello con la dicitura PROPRIETA' PRIVATA, VIETATO L'ACCESSO. Smontò, lasciando acceso il motore, e fece rotare il cancello verso l'interno. Miller entrò nella tenuta e risalì per il viale d'accesso. La neve era immacolata, ed egli avanzò in prima, dato che sotto la neve, il fondo era ricoperto da una sottile patina di ghiaccio. Duecento metri più avanti, un ramo di una massiccia quercia era caduto durante la notte, sovraccaricato da almeno mezza tonnellata di neve. Il ramo si era abbattuto sulla destra, e alcune fronde ingombravano il viale. Aveva trascinato giù un sottile palo nero, che ora ostruiva il passaggio. Invece di scendere a rimuoverlo, Miller avanzò con prudenza, sentendo le ruote anteriori e poi quelle posteriori che passavano sopra l'ostacolo. L'automobile continuò ad avanzare verso la casa, sbucando alla fine in uno spiazzo circolare di ghiaia, sul quale davano la villa e il giardino. Miller scese davanti all'ingresso principale e suonò il campanello.

Mentre Miller scendeva dall'automobile, Klaus Winzer prese la decisione di telefonare al Werwolf. Il capo dell'Odessa era di pessimo umore, dato che già da molto tempo avrebbe dovuto ascoltare al giornale radio che un'automobile sportiva era stata distrutta da un'esplosione, provocata apparentemente dallo scoppio del serbatoio della benzina, lungo l'autostrada a sud di Osnabrück. Mentre ascoltava la voce all'altro capo del filo, la sua bocca si serrò in una linea sottile e dura. «Che cosa ha fatto, lei? Stupido, incredibile stupido, piccolo imbecille. Sa che cosa le succederà se non verranno recuperati quei documenti?...» Solo, nel suo studio a Osnabrück, Klaus Winzer depose il ricevitore dopo che le ultime parole del Werwolf gli arrivarono attraverso il telefono e tornò alla scrivania. Era calmo. Già due volte la vita gli aveva giocato gli scherzi peggiori, prima con la distruzione dei suoi piani di fortificazione dei laghi, poi con la rovina del suo patrimonio di documenti nel 1948; e adesso questo. Prese la vecchia ma efficiente Lüger dall'ultimo cassetto, si mise la canna in bocca e fece partire un colpo. La pallottola d'acciaio che gli trapassò la testa da parte a parte non era falsa.

Il Werwolf rimase seduto a osservare il telefono muto, con un'espressione quasi di terrore. Ripensò agli uomini per i quali era stato necessario ottenere un passaporto falso attraverso Klaus Winzer, e al fatto che ognuno di loro figurava ora sull'elenco dei ricercati

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ed era destinato a essere arrestato e sottoposto a processo. La rivelazione dei documenti avrebbe provocato una valanga di incriminazioni che poteva solo scuotere la popolazione dalla crescente indifferenza con cui seguiva la caccia alle S.S. ricercate, galvanizzare le organizzazioni impegnate in quella caccia... La prospettiva era terrificante. Il suo primo compito, però, era la protezione di Roschmann, il cui nome compariva sull'elenco di Winzer. Per tre volte compose il prefisso dell'area di Francoforte, seguito dal numero privato della casa sulla collina, e tre volte gli rispose il segnale di occupato. Alla fine provò tramite il centralino, e gli spiegarono che doveva esserci un guasto sulla linea. Telefonò all'Hohenzollern Hotel di Osnabrück e trovò Mackensen che stava per partire. Con poche parole, ragguagliò il sicario sull'ultimo disastro, e gli diede l'indirizzo di Roschmann. «Pare che la sua bomba non abbia funzionato» gli disse. «Si precipiti là, il più in fretta possibile» disse. «Nasconda la sua macchina e si appiccichi alle costole di Roschmann. C'è già una guardia del corpo che si chiama Oskar. Se Miller va direttamente dalla polizia con quello che ha in mano, è la fine per tutti noi. Ma se va da Roschmann, lo prenda vivo e lo faccia parlare. Dobbiamo sapere che cosa ha fatto di quei documenti, prima che muoia.» Nella cabina telefonica, Mackensen diede un'occhiata alla sua carta stradale e calcolò la distanza. «Sarò là alle 13» disse.

La porta si aprì al secondo squillo e una folata di aria calda affluì dall'ingresso. L'uomo che stava di fronte a lui era evidentemente uscito dallo studio, del quale Miller vedeva la porta aperta in fondo all'atrio. Anni di benessere avevano appesantito la figura, un tempo asciutta, dell'ufficiale delle S.S. La sua faccia era arrossata, o per il bere o per l'aria di montagna, e sulle tempie i capelli erano grigi. Sembrava l'immagine grassa e benestante del signore di mezz'età appartenente alla media borghesia. Anche se diversa nei particolari, la faccia era la stessa vista e descritto ta da Tauber. L'uomo scrutò Miller, senza entusiasmo. «Sì?» disse. Ci vollero parecchi secondi prima che Miller fosse in grado di parlare. Le frasi che si era preparato gli erano uscite di testa. «Il mio nome è Miller,» disse «e il tuo è Eduard Roschmann.» Alla menzione dei due nomi, una luce lampeggiò negli occhi dell'uomo, che, con un ferreo autocontrollo, mantenne immobili i muscoli del viso. «E' ridicolo» egli disse infine. «Non ho mai sentito quel nome.» Dietro l'apparenza di imperturbabilità la mente dell'ex-ufficiale delle S.S. stava correndo a gran velocità. Dopo il 1945, molte volte era sopravvissuto a momenti critici grazie al suo sangue freddo. Riconobbe immediatamente il nome di Miller, e si ricordò della sua conversazione di alcune settimane prima con il Werwolf. Il suo primo impulso fu di sbattere la porta in faccia a Miller, ma si vinse.

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«Lei è solo in casa?» domandò Miller. «Sì» rispose Roschmann, con sincerità. «Andremo nel suo studio» disse Miller, con voce incolore. Roschmann non fece obiezioni, rendendosi conto che adesso era costretto a subire la presenza di Miller e a cercare di guadagnare tempo, fino al momento... Si voltò e riattraversò l'atrio. Miller sbatté la porta d'ingresso e, quando entrarono nello studio, seguiva Roschmann da vicino. Era una stanza accogliente, con un fuoco di ceppi nel camino e una porta dalla spessa imbottitura, che Miller chiuse dietro di sé. Roschmann si fermò nel centro della stanza, girandosi a guardare Miller. «Dov'è sua moglie?» domandò Miller. Roschmann scosse la testa. «E' andata a trovare alcuni parenti, per il week-end» disse. Questo era vero. La sera precedente, lei aveva deciso di partire all'improvviso e s'era portata via una delle automobili. L'altra macchina di proprietà della coppia era in officina per alcune riparazioni. La donna aveva promesso di essere di ritorno per quella sera. Quello che Roschmann non aveva detto, e che occupava la sua mente in fermento, era che mezz'ora prima il suo autista e guardia del corpo, Oskar, era sceso in bicicletta al villaggio per avvertire che il telefono era guasto. E adesso lui doveva riuscire a far chiacchierare Miller, fino al ritorno di Oskar. Quando si voltò verso Miller, il giovane giornalista stringeva nella mano destra una pistola automatica puntata contro la sua pancia. Roschmann mascherò la sua paura assumendo un'aria indignata. «Come, lei mi minaccia con una pistola, in casa mia?» «E allora chiami la polizia» disse Miller, indicando con un cenno il telefono sulla scrivania. Roschmann non si mosse. «Vedo che lei zoppica ancora» commentò Miller. «La scarpa ortopedica lo nasconde molto bene, ma non completamente. Le mancano alcune dita di un piede, conseguenza di un'operazione nel campo di Rimini. Tutto a causa del congelamento che lei si è preso in giro per le campagne austriache, non è vero?» Gli occhi di Roschmann si strinsero leggermente, ma egli rimase in silenzio. «Vede, se i poliziotti arrivano qua, la identificheranno, Herr Direktor. La faccia è sempre la stessa, e anche la ferita di pallottola al petto, e la cicatrice sotto l'ascella sinistra dove lei ha certamente tentato di cancellare il tatuaggio del gruppo sanguigno delle Waffen-S.S. La vuole chiamare davvero, la polizia?» Roschmann emise un lungo sospiro. «Che cosa vuole, Miller?» «Si sieda» disse il giornalista. «Non alla scrivania. Là sulla poltrona, dove posso tenerla d'occhio. E tenga le mani sui braccioli. Non mi fornisca un pretesto per sparare, benché, mi creda, non chiederei di meglio.» Roschmann si sedette sulla poltrona, gli occhi fissi sulla pistola. Miller si appoggiò al bordo della scrivania di fronte a lui. «E adesso parliamo» disse.

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«Di che cosa?» «Di Riga. Di ottantamila persone, uomini, donne e bambini, che lei ha massacrato laggiù.» Vedendo che Miller non aveva intenzione di usare la pistola, Roschmann cominciò a ritrovare la sua sicurezza. La sua faccia riprese un po' di colore. Alzò lo sguardo sul giovane di fronte a lui. «E' una menzogna. Non sono mai state ottantamila le persone giustiziate a Riga.» «Settantamila? Sessanta?» domandò Miller. «Pensa davvero che abbia importanza conoscere il numero esatto di quelli che lei ha ammazzato?» «Questo è il punto» disse Roschmann, ansiosamente. «Non ha importanza: né adesso, né allora. Senta, giovanotto, non so per quale motivo lei mi ha dato la caccia. Ma posso immaginarlo. Qualcuno le ha riempito la testa di pietismi retorici sui cosiddetti crimini di guerra, o qualcosa di simile. Sono tutte assurdità. Complete assurdità. Lei, quanti anni ha?» «Ventinove.» «Allora ha fatto il servizio militare?» «Sì. Sono stato uno dei primi tedeschi a farlo, nel dopoguerra. Due anni di divisa.» «Bene, allora lo sa, che cosa è l'esercito. A uno vengono impartiti degli ordini, e lui obbedisce a questi ordini. Non domanda se sono giusti o sbagliati. Lei lo sa bene quanto me. Io mi sono limitato a obbedire agli ordini.» «In primo luogo, lei non era un soldato» disse Miller pacatamente. «Lei era un boia. In termini più chiari, un assassino e un massacratore. Quindi non si paragoni a un soldato.» «Sciocchezze» disse Roschmann, serio. «Sono tutte sciocchezze. Noi eravamo soldati, proprio come gli altri. Obbedivamo anche noi a degli ordini. Voi giovani tedeschi, voi siete tutti uguali. Non volete capire come stavano le cose a quei tempi.» «Me lo dica lei, allora.» Roschmann, che si era chinato in avanti nella foga della discussione, si riappoggiò allo schienale della poltrona, quasi a suo agio: il pericolo immediato era passato. «Come stavano le cose? Era come comandare il mondo. Perché abbiamo comandato il mondo, noi tedeschi. Abbiamo sconfitto ogni esercito che ci hanno scagliato contro. Per anni ci hanno calpestati, noi poveri tedeschi, e noi abbiamo mostrato a tutti, sì, a tutti, che eravamo un grande popolo. Voi giovani di oggi non sapete che cosa vuol dire sentirsi fieri di essere tedeschi. «Accende un fuoco dentro. Quando i tamburi rullavano e le fanfare suonavano, quando le bandiere sventolavano e l'intera nazione era compatta dietro un uomo, avremmo potuto marciare fino ai limiti del mondo. Questo è grandezza, giovane Miller, una grandezza che la sua generazione non ha conosciuto e non conoscerà mai. E noi delle S.S. eravamo un'élite, e lo siamo tuttora. Anche se oggi ci danno la caccia, in primo luogo gli alleati e poi quegli smidollati di Bonn. Naturalmente vogliono schiacciarci, perché vogliono schiacciare la grandezza della Germania, che noi abbiamo rappresentato e rappresentiamo.

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«Raccontano un sacco di frottole su quello che accadde in qualche campo. Stupidaggini che un mondo dotato di un minimo d'intelligenza avrebbe già dimenticato da tempo. Gridano allo scandalo perché abbiamo dovuto ripulire l'Europa dalla contaminazione del fango ebraico che impregnava ogni aspetto della vita tedesca e teneva noi giù in quello stesso fango. Abbiamo dovuto farlo, ripeto. E' stato solo un aspetto secondario del grande disegno che prevedeva una Germania e un popolo tedesco dal sangue puro e dagli ideali altissimi, al comando del mondo come sarebbe stato nel loro diritto, nel "nostro" diritto, Miller, nel "nostro" diritto e nel nostro destino se quei maledetti inglesi e quegli idioti di americani non avessero ficcato il naso nella questione. E tanto per non usare mezzi termini, lei può puntarmi addosso quell'aggeggio, ma siamo dalla stessa parte, giovanotto. Con una generazione di differenza, ma sempre dalla stessa parte. Perché siamo tedeschi, il popolo più grande del mondo. E lei impronterebbe il suo giudizio su tutto questo, sulla grandezza che una volta apparteneva alla Germania e un giorno le apparterrà di nuovo sull'indispensabile unità tra noi, tra tutti noi tedeschi, lei impronterebbe il suo giudizio su tutto questo basandosi sul destino di pochi miserabili ebrei? Non vede, povero ragazzo sciocco e disorientato, che siamo dalla stessa parte, io e lei, la stessa parte, lo stesso popolo, lo stesso destino?» Nonostante la pistola, si alzò dalla poltrona e prese a camminare avanti e indietro dalla scrivania alla finestra. «Vuole una prova della nostra grandezza? Guardi la Germania di oggi. Ridotta in cenere, nel 1945 era un cumulo di macerie in preda ai barbari dell'est e ai pazzi dell'ovest. E ora? La Germania risorge di nuovo, con lenta sicurezza, ancora senza l'indispensabile disciplina che noi le avevamo insegnato, ma aumentando ogni anno la sua potenza industriale ed economica. Sì, e la potenza militare. Un giorno, quando ci saremo scrollati di dosso gli ultimi residui dell'influenza lasciataci nel 1945 dagli alleati, saremo di nuovo potenti più di quanto lo siamo mai stati. Ci vorrà del tempo, e un nuovo capo, ma gli ideali saranno gli stessi, e la gloria, sì, anche la gloria sarà la stessa. «E lei sa che cosa permetterà tutto questo? Glielo dirò io, sì, glielo dirò io, giovanotto. La disciplina e l'organizzazione. Disciplina ferrea, più ferrea è meglio è, e l'organizzazione, la "nostra" organizzazione, la dote più brillante che possediamo, dopo il coraggio. Perché noi siamo in grado di plasmare la storia, l'abbiamo dimostrato. Guardi tutto questo, lo vede? Questa casa, questa tenuta, la fabbrica nella Ruhr, la mia fabbrica e migliaia di altre, decine, centinaia di migliaia, che ogni giorno producono potenza e ricchezza. Ogni giro di ruota è un'altra oncia di quella forza che farà una volta ancora potente la Germania. «E secondo lei, chi ha creato tutto questo? Secondo lei, è stato qualche povero idiota capace solo di rimasticare luoghi comuni su pochi miserabili ebrei? Secondo lei, è stato qualche vigliacco, qualche traditore che pensa solo a perseguitare i sani, onesti e patriottici soldati tedeschi? "Noi" abbiamo fatto questo, noi abbiamo riportato questa prosperità in Germania, gli stessi uomini che eravamo

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venti, trent'anni fa.» Si voltò dalla finestra e si mise di fronte a Miller, gli occhi brillanti. Ma nello stesso tempo calcolò la distanza che lo separava dal pesante attizzatoio di ferro appoggiato accanto al camino. Miller notò le sue occhiate. «Poi arriva lei, un rappresentante della giovane generazione, pieno di idealismi e di paura e mi punta contro una pistola. Perché i suoi ideali non li dedica alla Germania, al suo paese, al suo popolo? Pensa di rappresentare il popolo tedesco, quando mi dà la caccia? Pensa che sia questo quello che il popolo tedesco vuole?» Miller scosse il capo. «No, non lo credo» disse bruscamente. «Bene, vedo che capisce. Se lei chiama la polizia e mi consegna, potrebbero organizzare un processo, e dico solo "potrebbero" perché anche quest'eventualità non è sicura, dopo tanto tempo, con tutti i testimoni dispersi o morti. Quindi metta via la pistola e se ne torni a casa. Vada a casa e si legga la vera storia di quei giorni, impari che la grandezza della Germania di allora e la sua prosperità di oggi sono rese possibili dai tedeschi patriottici come me.» Miller era rimasto seduto in silenzio durante tutta la tirata, a osservare con stupore e disgusto crescente l'uomo che camminava di fronte a lui, che cercava di convertirlo alla vecchia ideologia. Avrebbe voluto dire centinaia, migliaia di cose sulla gente che conosceva, e sui milioni di persone che non erano disposte ad ammantarsi di gloria a prezzo del massacro di milioni di altri esseri umani. Ma non gli venivano le parole. Non vengono mai, quando uno ne ha bisogno. Così rimase seduto a guardare, finché Roschmann non ebbe finito. Dopo alcuni secondi di silenzio, Miller domandò: «Ha mai sentito nominare un certo Tauber?». «Chi?» «Salomon Tauber. Anche lui era tedesco. Ebreo. E' stato a Riga, dall'inizio alla fine.» Roschmann si strinse nelle spalle. «Come faccio a ricordarmelo? E' stato molto tempo fa. Chi era?» «Si sieda» disse Miller. «E questa volta rimanga seduto.» Roschmann alzò le spalle con impazienza e tornò alla poltrona. Sempre più convinto che Miller non avrebbe mai sparato, si preoccupava molto più di trovare il modo di farlo cadere in trappola prima che potesse andarsene, che di un povero ebreo morto da tempo. «Tauber è morto ad Amburgo il 22 novembre dello scorso anno. Si è suicidato con il gas. Mi ascolta?» «Sì. Se devo.» «Ha lasciato un diario, nel quale ha raccontato la sua storia, quello che gli è successo, quello che lei e altri gli hanno fatto a Riga e altrove. Ma principalmente a Riga. Da Riga è sopravvissuto, però, è tornato ad Amburgo, e ha vissuto là per diciotto mesi, prima di morire. Era convinto che lei fosse vivo e non sarebbe mai stato processato. Il diario è finito nelle mie mani. E' per questo che ho cominciato a cercarla per trovarla qui, oggi, sotto il suo nuovo nome.»

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«Il diario di un uomo morto non è una prova» disse Roschmann. «Per un tribunale, forse, ma per me è sufficiente.» «E lei è venuto fin qui per mettermi a confronto con il diario di un ebreo morto?» «No, assolutamente. Ma c'è una pagina di quel diario che voglio che lei legga.» Miller aprì il diario e lo mise in grembo a Roschmann. «Lo raccolga,» ordinò «e lo legga. Ad alta voce.» Roschmann prese il diario e cominciò a leggere. Era il passo in cui Tauber descriveva come Roschmann aveva assassinato un ufficiale dell'esercito tedesco insignito della Croce di Ferro. Roschmann arrivo al termine del passo e sollevò lo sguardo. «E allora?» disse, sconcertato. «Quell'uomo mi aveva colpito. Aveva disobbedito agli ordini. Era mio diritto requisire quella nave per trasportare i prigionieri.» Miller gli lanciò una fotografia. «E' questo l'uomo che lei ha ucciso?» Roschmann la guardò e si strinse nelle spalle. «Come faccio a saperlo? E' successo vent'anni fa.» Ci fu un leggero scatto, quando Miller tirò indietro con il pollice il cane della pistola, puntando l'arma verso la faccia di Roschmann. «Era questo l'uomo?» Roschmann guardò ancora la fotografia. «E va bene. L'uomo era questo, sì. E con ciò?» «Era mio padre» disse Miller. Il colorito defluì dalla faccia di Roschmann, come se il sangue fosse stato aspirato da una pompa. La bocca si aprì, e lo sguardo cadde sulla canna della pistola così vicina alla sua faccia, e sulla mano ferma che la reggeva. «Oh, buon Dio,» sussurrò «lei non è venuto per gli ebrei.» «No. Mi spiace per loro, ma non fino a questo punto.» «Ma come ha saputo, come ha fatto a sapere da quel diario che l'uomo era suo padre? Non ho mai conosciuto il suo nome, quell'ebreo che ha scritto to il diario non l'ha mai conosciuto, e lei come ha fatto a scoprirlo?» «Mio padre fu ucciso l'11 ottobre 1944 nell'Ostland» disse Miller. «Per vent'anni questo è tutto quello che ho saputo. Poi ho letto il diario. Era lo stesso giorno, la stessa zona, i due uomini avevano lo stesso grado. Soprattutto, i due uomini erano fregiati entrambi della Croce di Ferro con la fronda di quercia, la più alta decorazione al valore. Non ce n'erano poi molti di decorati di quel genere, e pochissimi con il grado di semplice capitano. Inoltre, c'era una probabilità su un milione che due ufficiali così morissero nella stessa zona lo stesso giorno.» Roschmann capì che l'uomo che aveva di fronte non poteva essere influenzato da nessun argomento. Fissò la pistola come ipnotizzato. «Lei sta per uccidermi. Non deve farlo, non a sangue freddo. Lei non lo farebbe. Per favore, Miller, non voglio morire. Miller si chinò in avanti e cominciò a parlare. «Mi ascolti, pezzo di merda, lurido cane. Io ho ascoltato lei, lei e le sue complicate chiacchiere, fino alla nausea. Ora lei ascolterà me,

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mentre decido se morirà qui o marcirà in galera per il resto dei suoi giorni. «Ha avuto l'impudenza, la dannata, grossolana impudenza, di dirmi che lei, lei tra tutti gli altri, era un tedesco animato di patriottismo. Glielo dirò io, quello che è. Lei e quelli come lei siete stati e siete la più lurida genia che sia mai stata elevata a posizioni di potere in questo paese. E in dodici anni avete insozzato la Germania della vostra sporcizia come non era mai accaduto in tutto il corso della nostra storia. «Quello che avete fatto ha nauseato e indignato l'intero consorzio umano e ha lasciato alla mia generazione una tale eredità di vergogna che per cancellarla ci vorrà tutto il resto della nostra vita. Non avete fatto altro che sputare sulla Germania. Voi bastardi avete spremuto la Germania e il popolo tedesco fino al limite della sopportazione e poi, sul più bello, ve ne siete andati. Prima del vostro avvento, avremmo ritenuto impossibile ridurci come ci avete ridotti, e badi che non parlo delle rovine dei bombardamenti. «Non eravate nemmeno coraggiosi. Eravate i più nauseanti vigliacchi mai generati dalla Germania o dall'Austria. Avete massacrato milioni di persone per il vostro profitto personale e per la vostra sfrenata sete di potere, lasciando noialtri nella merda. Avete tagliato la corda di fronte ai russi, impiccato e fucilato i soldati per spaventare gli altri e farli continuare a combattere, e poi siete scomparsi lasciando noi a sopportare le conseguenze. «Se anche fosse possibile dimenticare quello che avete fatto agli ebrei e agli altri, non potremo mai perdonarvi di essere fuggiti ed esservi nascosti da cani quali siete. Lei parla di patriottismo, ma non sa nemmeno che cosa voglia dire. E quando chiamate "Kameraden" i soldati e gli altri che combatterono, combatterono sul serio, per la Germania, pronunciate una maledetta bestemmia. «Le dirò un'altra cosa, come giovane tedesco di una generazione che lei così apertamente disprezza. La prosperità di cui godiamo oggi non ha nulla a che vedere con lei. E' dovuta ai milioni di persone che lavorano sodo dalla mattina alla sera e non hanno mai massacrato nessuno in vita loro. E per quanto riguarda gli assassini come lei che possono essere ancora tra noi, io e la mia generazione preferiremmo un po' meno prosperità, in cambio della certezza che la feccia come lei non è più in circolazione. E in circolazione, tra parentesi, lei non lo sarà ancora per molto.» «Lei mi ucciderà?» mormorò Roschmann. «Invece no.» Miller andò dietro Roschmann, si sedette sulla scrivania e tirò il telefono verso di sé, tenendo gli occhi fissi su Roschmann e la pistola puntata. Sollevò il ricevitore, lo appoggiò sulla scrivania e compose un numero. Quando ebbe finito, raccolse il ricevitore. «C'è un uomo a Ludwigsburg che vorrebbe scambiare due chiacchiere con lei» disse, e riportò la cornetta all'orecchio. Era muta. La riappoggiò sull'apparecchio, l'alzò di nuovo e aspettò il segnale di linea libera. Silenzio assoluto. «Ha tagliato lei i fili?» domandò. Roschmann scosse il capo.

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«Senta, se è stato lei a interrompere il contatto, le brucio le cervella.» «Non sono stato io. Non ho toccato il telefono, stamattina. Davvero.» Miller ricordò il ramo di quercia caduto e il palo che ostruiva la strada che portava alla casa. Bestemmiò sottovoce. Roschmann ebbe un lieve sorriso. «La linea dev'essere interrotta» disse. «Dovrà andare fino al paese. Che cos'ha intenzione di fare, ora?» «Ho intenzione di ficcarle una pallottola in testa, se non fa quello che le ordino» rispose Miller a denti stretti. Tirò fuori dalla tasca le manette che aveva pensato di usare per un'eventuale guardia del corpo. Le gettò a Roschmann. «Si avvicini al camino» ordinò, e seguì l'uomo attraverso la stanza. «Che cos'ha intenzione di fare?» «Ho intenzione di ammanettarla al camino, e poi di andare a telefonare in paese» disse Miller. Stava esaminando i viticci di ferro battuto che formavano la decorazione del camino, quando Roschmann si lasciò cadere ai piedi le manette. L'ex-S.S. si chinò per raccoglierle, e per poco Miller non si lasciò cogliere di sorpresa quando Roschmann, invece, afferrò un pesante attizzatoio e lo roteò verso le sue ginocchia. Il giornalista balzò indietro appena in tempo, e l'attizzatoio si limitò a sfiorarlo mentre Roschmann perdeva l'equilibrio. Miller scattò in avanti, colpì Roschmann alla fronte con la canna della pistola e arretrò. «Ci provi ancora e l'ammazzo» disse. Roschmann si rialzò. Aveva la faccia distorta da una smorfia di dolore. «Si chiuda una delle manette attorno al polso destro» ordinò Miller, e Roschmann fece come gli era stato detto. «Vede quell'ornamento a forma di pampino davanti a lei? All'altezza della sua testa. Accanto c'è un ramo che sporge e poi rientra di nuovo. Chiuda l'altra manetta attorno al ramo.» Quando Roschmann ebbe fissato nel punto indicato la seconda manetta, Miller si avvicinò e con un calcio allontanò da Roschmann gli alari e l'attizzatoio. Tenendo puntata la pistola contro il petto dell'ex- S.S., lo perquisì; poi tolse tutti gli oggetti a portata di mano dell'uomo incatenato, per impedirgli di usarli per scagliarli contro la finestra e rompere il vetro. Fuori sul viale l'uomo di nome Oskar stava pedalando verso la casa dopo aver portato a termine l'incarico di avvertire che la linea telefonica era guasta. Si fermò sorpreso, quando vide la Jaguar: prima che se ne andasse, infatti, il suo padrone gli aveva assicurato che non aspettava nessuno. Appoggiò la bicicletta contro il muro della casa ed entrò silenziosamente attraverso la porta d'ingresso. Nell'atrio si fermò indeciso; attraverso la porta imbottita dello studio non filtrava nessun rumore, e così, come Oskar non poteva sentire gli occupanti della stanza, quelli non potevano sentire lui. Miller si guardò attorno per l'ultima volta e fu soddisfatto. «Tra parentesi,» disse a Roschmann che lo fissava con odio «non

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avrebbe ottenuto niente, se fosse riuscito a colpirmi. Sono le 11, e ho lasciato l'intero plico di documenti con le prove contro di lei nelle mani di una persona. Se non sarò di ritorno o non avrò telefonato entro mezzogiorno, sarà spedito, indirizzato alle autorità competenti. Adesso vado in paese a telefonare. Sarò di ritorno entro venti minuti. Lei non riuscirà a liberarsi in venti minuti nemmeno con una seghetta da ferro. E quando ritornerò, la polizia mi seguirà nel giro di mezz'ora.» Mentre Miller parlava, le speranze di Roschmann cominciarono a vacillare. Sapeva che gli rimaneva una sola possibilità: che Oskar, tornando, catturasse Miller vivo per poterlo costringere a telefonare da un apparecchio del paese secondo le loro istruzioni, allo scopo di impedire che i documenti venissero spediti. Lanciò un'occhiata all'orologio posto sulla mensola del camino, accanto alla sua testa. Erano le 10.40. Miller spalancò la porta all'altro capo della stanza e superò la soglia. Si trovò a fissare un maglione, indossato da un uomo più alto di lui di tutta la testa. Dal suo posto accanto al camino Roschmann riconobbe Oskar e gridò: «PRENDILO!» Miller arretrò con un balzo nello studio e sollevò di scatto la pistola che era stato per infilarsi in tasca. Fu troppo lento. Oskar gli sferrò una zampata con il dorso della mano sinistra, e la pistola volò attraverso la stanza. Contemporaneamente, Oskar credette di sentire il suo padrone gridare: "COLPISCILO!". E abbatté il destro sulla mascella di Miller. Il giornalista pesava settantacinque chili, ma il colpo lo sollevò da terra e lo scagliò all'indietro. I piedi inciamparono in un basso portariviste, e mentre ricadeva, Miller batté la testa contro lo spigolo di una libreria di mogano. Afflosciandosi come una bambola di pezza, scivolò sul tappeto e si rovesciò di lato. Per parecchi secondi ci fu silenzio, mentre Oskar osservava il suo padrone ammanettato al camino, e Roschmann fissava la sagoma inerte di Miller, dalla cui nuca scendeva sul pavimento un rivolo di sangue. «Stupido» urlò Roschmann, quando si rese conto di quello che era successo. Oskar sembrava sconcertato. «Vieni qui.» Il gigante spostò la mole attraverso la stanza e si fermò in attesa di ordini. Roschmann rifletté alla svelta. «Cerca di liberarmi da queste manette» ordinò. «Usa gli attrezzi del camino.» Ma il camino era di un'epoca in cui gli artigiani costruivano i loro prodotti per farli durare a lungo. Il risultato degli sforzi di Oskar fu un attizzatoio piegato e un paio di alari contorti. «Porta qua quell'uomo» disse Roschmann a Oskar. Mentre questi teneva Miller sollevato, Roschmann guardò sotto le palpebre del giornalista e controllò il polso. «E' ancora vivo, ma in pessimo stato» disse. «Ha bisogno delle cure di un medico nel giro di un'ora. Portami carta e matita.» Scrivendo con la sinistra, vergò due numeri di telefono sul biglietto mentre Oskar andava a prendere una seghetta da ferro dalla cassa degli attrezzi riposta nel sottoscala. Quando fu di ritorno, Roschmann gli consegnò il biglietto. «Fila giù in paese più in fretta che puoi» disse a Oskar. «Telefona a

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questo numero di Norimberga e racconta quello che è successo all'uomo che risponderà. Poi telefona a questo numero locale e fai venire immediatamente il dottore. Capito? Digli che è urgente. Ora fila.» Mentre Oskar usciva di corsa dalla stanza, Roschmann lanciò di nuovo un'occhiata all'orologio. Erano le 10.40. Se Oskar ce la faceva a raggiungere il paese entro le 11, e se tanto lui quanto il dottore arrivavano entro le 11.15 potevano far riprendere conoscenza a Miller in tempo per costringerlo a telefonare e a bloccare la persona con i documenti. Roschmann era disposto a minacciare il medico con la pistola, pur di farlo lavorare in fretta. Roschmann cominciò a segare le manette. Davanti alla porta, Oskar afferrò la bicicletta, poi si fermò e guardò la Jaguar parcheggiata. Scrutò attraverso il finestrino dal lato del volante e vide che le chiavi erano nel cruscotto, Il suo padrone gli aveva detto di fare presto, così lasciò cadere a terra la bicicletta, si mise al volante, accese il motore e fece schizzare la ghiaia da tutte le parti mentre con l'automobile sportiva sfrecciava via dallo spiazzo e imboccava il viale. Oskar aveva innestato la terza e stava filando a tutta velocità sul fondo gelato, quando investì il palo coperto di neve che giaceva di traverso alla strada. Roschmann era ancora intento a segare la catena che univa le due manette, e il boato che scosse la foresta di pini lo bloccò. Spostandosi di lato, riuscì a vedere attraverso la porta-finestra e, nonostante che la macchina e il viale fossero fuori vista, il pennacchio di fumo che si disperdeva nell'aria gli disse che l'auto era stata distrutta da un'esplosione. Ricordò che gli avevano assicurato che si sarebbero presi cura di Miller. Ma Miller giaceva sul tappeto a pochi centimetri di distanza, la sua guardia del corpo era certamente morta, e il tempo passava inesorabilmente veloce. Appoggiò la testa sul freddo metallo che ornava il camino e chiuse gli occhi. «Allora è finita» mormorò. Ma dopo qualche minuto riprese a segare. Ci volle più di un'ora prima che l'acciaio rinforzato delle speciali manette militari si spezzasse sotto il seghetto ormai senza filo. Quando Roschmann fu libero, con solo una manetta attorno al polso destro, l'orologio segnava mezzogiorno. Se non avesse avuto tanta fretta, probabilmente Roschmann si sarebbe fermato per sferrare una pedata al corpo sul tappeto; ma aveva molta fretta. Da una cassaforte incastrata nel muro prese un passaporto e diversi rotoli di banconote nuove di grosso taglio. Venti minuti più tardi, con i soldi e pochi indumenti in una valigetta, pedalava lungo il viale. Oltrepassò la carcassa distrutta della Jaguar, il corpo ancora bruciante che giaceva a faccia in giù sulla neve e i pini spezzati e anneriti, e si diresse verso il paese. Da lì chiamò un taxi e si fece portare all'aeroporto internazionale di Francoforte. Andò al banco delle informazioni e domandò: «A che ora c'è il primo volo per l'Argentina? Se fosse possibile, vorrei partire entro un'ora. Altrimenti...».

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Capitolo 18.

Erano le 13.10, quando la Mercedes di Mackensen svoltò dalla strada di campagna attraverso il cancello della tenuta. A metà del viale, trovò il passaggio ostruito. Chiaramente, la Jaguar era esplosa dall'interno, spaccandosi in due; le sue ruote, però, aderivano ancora al terreno, e la carcassa era messa di traverso al viale. La metà anteriore e quella posteriore erano ancora riconoscibili come parti di una macchina ed erano tenute insieme dalla solida intelaiatura d'acciaio. Ma il blocco centrale, cruscotto incluso, era inesistente, dal pavimento al tetto, e i suoi frammenti erano sparpagliati attorno alla carcassa. Mackensen scrutò quell'ammasso informe con un sorriso sinistro e si avvicinò al mucchio di carne e vestiti bruciacchiati che giaceva a terra, a sei metri da lui. Qualcosa di quella che era stata la mole del cadavere attirò la sua attenzione, rimase chino per diversi minuti, poi si rialzò e corse lungo il viale, verso la casa. Evitò di suonare il campanello della porta d'ingresso e provò a girare la maniglia. La porta si aprì. Mackensen entrò nell'atrio. Per diversi secondi rimase con le orecchie tese, come una belva che, accanto a una pozza d'acqua, fiuta l'aria per annusare eventuali pericoli. Tutto era silenzio. Mackensen s'infilò la mano sotto l'ascella sinistra, estrasse una Lüger automatica a canna lunga, tolse la sicura e cominciò ad aprire le porte che conducevano fuori dall'atrio. La prima dava sulla sala da pranzo, la seconda sullo studio. Vide subito il corpo sul tappeto accanto al camino, ma nonostante questo non si allontanò dalla porta socchiusa prima di aver controllato con lo sguardo tutta la stanza. Sapeva che due uomini c'erano cascati, in un trucco del genere: l'esca ben visibile, e poi l'imboscata nascosta. Prima di entrare diede un'occhiata attraverso lo spiraglio tra i cardini della porta per assicurarsi che nessuno fosse appostato lì dietro, poi entrò. Miller giaceva sul dorso, la testa piegata di lato. Per diversi secondi Mackensen fissò la faccia bianca come il gesso, poi si chinò a sentire il respiro roco. Dal sangue raggrumato sulla nuca capì immediatamente quello che era successo. Impiegò dieci minuti a perlustrare la casa, notando i cassetti aperti nella camera da letto padronale e l'assenza di rasoio nel bagno. Tornò nello studio e diede un'occhiata nella cassaforte a muro, aperta e vuota, poi si sedette alla scrivania e sollevò la cornetta del telefono. Rimase seduto ad ascoltare per diversi secondi, bestemmiò sottovoce, poi riattaccò. Non ebbe difficoltà a trovare la cassetta degli attrezzi nel sottoscala: la cassetta era riposta in un armadio che aveva un'anta ancora aperta. Prese quello che gli serviva e ritornò sul viale passando dallo studio per vedere come stava Miller e uscendo dalla porta-finestra. Gli ci volle quasi un'ora per trovare i fili recisi della linea telefonica, estrarli dai cespugli dov'erano caduti e riallacciarli. Quando ebbe finito, ritornò alla casa, si sedette alla scrivania e alzò la cornetta. Sentì il segnale di linea libero, e compose il

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numero del suo capo a Norimberga. Si era aspettato che il Werwolf fosse ansioso di sentire sue notizie, ma la voce che gli giunse era quella di un uomo stanco e quasi disinteressato. Da bravo sergente, fece rapporto su quello che aveva trovato: l'automobile, il cadavere della guardia del corpo, una manetta ancora incatenata al ferro battuto che adornava il camino, il seghetto da ferro sul tappeto, Miller privo di conoscenza sul pavimento. Terminò riferendo che il proprietario della casa era partito. «Non ha preso molto, capo. Qualche effetto personale, e probabilmente del denaro. Ho trovato la cassaforte aperta. Posso mettere a posto io, qui. Lui può tornare, se vuole.» «No, non tornerà» gli disse il Werwolf. «Poco prima che telefonasse lei, mi ha chiamato dall'aeroporto internazionale di Francoforte. Ha prenotato un volo per Madrid e parte tra dieci minuti. Stasera prenderà la coincidenza per Buenos Aires.» «Ma non è necessario» protestò Mackensen. «Farò parlare Miller e scoprirò dove ha lasciato i documenti. Non c'era nessuna borsa nella carcassa della macchina, e nulla su di lui. Solo una specie di diario che ho trovato sul pavimento dello studio. Ma il resto della roba non può essere molto lontano da qui.» «Altro che lontano» ribatté il Werwolf. «E' in una cassetta postale.» Con voce stanca, informò Mackensen di quello che Miller aveva rubato dal falsario, poi gli riferì quello che Roschmann gli aveva appena detto per telefono da Francoforte. «Quei documenti saranno nelle mani delle autorità in mattinata, o al più tardi martedì. Dopodiché tutti coloro che sono segnati su quell'elenco avranno le ore contate. Incluso Roschmann, il proprietario della casa in cui lei si trova, e me. Ho impiegato la mattina nel tentativo di avvertire tutti gli interessati di lasciare il paese nel giro di ventiquattr'ore.» «E noi che cosa facciamo?» domandò Mackensen. «Lei è libero di scegliere» rispose il capo. «Non è sull'elenco. Io sì, e devo tagliare la corda. Torni a casa e aspetti che il mio successore si metta in contatto con lei. Per il resto, è finita. Vulkan è fuggito, e non tornerà. Con la sua partenza l'intera operazione può considerarsi fallita, a meno che non spunti qualche uomo nuovo disposto ad assumersi il progetto» «Chi è Vulkan? E quale progetto?» «Dato che la faccenda è chiusa, può esserne informato anche lei. Vulkan era il nome di Roschmann, l'uomo che lei era incaricato di proteggere da Miller...» Con poche frasi il Werwolf spiegò al boia perché Roschmann era stato tanto importante, e perché il suo ruolo nel progetto e il progetto stesso erano insostituibili. Quando ebbe finito, Mackensen emise un fischio e fissò la sagoma di Peter Miller all'altro capo della stanza. «Quel tipo ci ha incastrati tutti quanti» disse. Il Werwolf sembrò riprendersi, e nella sua voce riaffiorò parte della vecchia autorità. «"Kamerad", deve rimettere tutto in ordine, in quella casa. Ricorda il gruppo che ha già usato una volta?» «Sì. So dove pescarli. Non sono lontani da qui.»

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«Li chiami e li faccia venire là. Devono far sparire qualunque traccia di quanto è successo. La moglie dell'uomo sarà di ritorno questa sera sul tardi, e non dovrà sapere quello che è successo. Chiaro?» «Sarà fatto» disse Mackensen. «Poi si eclissi. Un'ultima cosa. Prima di andarsene, liquidi quel bastardo di Miller. Una volta per sempre.» Mackensen fissò con gli occhi stretti a fessura il corpo esanime del giornalista. «Sarà un vero piacere» rispose. «Allora addio e buona fortuna.» Il telefono tacque. Mackensen riattaccò, tirò fuori di tasca un taccuino, lo sfogliò e compose un numero. Alla persona che rispose spiegò chi era e ricordò il favore che l'uomo aveva già reso ai camerati. Poi gli disse dove doveva andare, e quello che avrebbe trovato. «L'automobile e il corpo devono finire in una gola profonda, preferibilmente lungo una strada di montagna. Cospargili di benzina: devono bruciare bene. Non lasciare niente che permetta l'identificazione dell'uomo. Fruga nelle sue tasche e porta via tutto, orologio compreso.» «Capito» disse la voce al telefono. «Arriverò con un camion e un argano.» «Un'ultima cosa. Nello studio della casa troverai un altro cadavere sul pavimento e un tappeto impregnato di sangue accanto al camino. Devono scomparire. Non con la macchina, però. Un bel tuffo freddo in un bel lago freddo. Ben zavorrati. Niente tracce. D'accordo?» «Nessun problema. Saremo lì per le 17 e ce ne saremo andati entro le 19. Con quel genere di carico, non mi va di muovermi alla luce del giorno.» «Bene» disse Mackensen. «Me ne sarò già andato, quando arriverai, ma troverai le cose come ti ho descritto to.» Riattaccò, si allontanò dalla scrivania, s'avvicinò a Miller, estrasse la Lüger e con un gesto automatico controllò il caricatore, benché sapesse che la pistola era pronta al fuoco. «Pezzo di merda» disse al giornalista, e tese il braccio che impugnava la pistola, puntandola in giù diritta verso la fronte di Miller. Anni di vita trascorsi a braccare esseri umani e lo sforzo di restare vivo mentre gli altri, vittime e colleghi, erano finiti sul tavolo dell'autopsia avevano dotato Mackensen di una sensibilità da felino. Non vide l'ombra che si proiettò sul tappeto dalla porta-finestra aperta, ma intuì qualcosa e si girò fulmineamente, pronto a far fuoco. Ma l'uomo era disarmato. «Chi diavolo è, lei?» domandò Mackensen, tenendolo sotto mira. L'uomo rimase immobile accanto alla porta-finestra. Indossava una tuta di pelle nera, da motociclista. Con la mano sinistra reggeva il casco per il sottogola, tenendoselo davanti allo stomaco. Lanciò un'occhiata al corpo di Miller e alla pistola che Mackensen impugnava. «Mi hanno mandato» disse con voce pacata. «Chi» domandò Mackensen. «Vulkan» rispose l'uomo. «Il mio "Kamerad" Roschmann.» Mackensen sospirò e abbassò la pistola.

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«Be', Vulkan se ne è andato.» «Andato?» «Ha tagliato la corda, diretto in Sudamerica. L'intero progetto è sfumato. E tutto grazie a questo bastardo di un giornalista.» Indicò Miller con la canna della pistola. «Lo ucciderà?» domandò l'uomo. «Certamente. Ha fatto fallire il progetto. Ha identificato Roschmann e ha spedito la documentazione alla polizia, insieme a molta altra roba. Se su quei documenti c'è anche il suo nome, farà meglio a cambiare aria.» «Che documenti?» «Quelli dell'Odessa.» «No, il mio nome non c'è» disse l'uomo. «Nemmeno il mio» disse Mackensen. «Ma quello del Werwolf sì, e gli ordini del Werwolf sono di eliminare questo tipo, prima di andarcene.» «Il Werwolf?» Un piccolo campanello d'allarme cominciò a suonare nella mente di Mackensen. Gli era appena stato detto che in Germania nessuno, tranne il Werwolf e lui stesso, era al corrente del progetto Vulkan. Gli altri erano in Sudamerica, da dove aveva pensato che fosse venuto l'uomo. Ma in questo caso l'uomo avrebbe saputo del Werwolf. Gli occhi di Mackensen si strinsero leggermente. «Viene da Buenos Aires, lei?» domandò. «No.» «Da dove, allora?» «Da Gerusalemme.» Mackensen ci mise mezzo secondo prima di rendersi conto del significato del nome. Poi sollevò la Lüger per fare fuoco. Mezzo secondo è un tempo lungo, lungo abbastanza per morire. La gommapiuma protettiva all'interno del casco restò bruciacchiata, quando la Walter fece fuoco. Ma la pallottola parabellum 9 millimetri attraversò la vetroresina senza rallentare e colpì Mackensen in alto sullo sterno con la forza del calcio di un mulo. Il casco cadde per terra e lasciò allo scoperto la mano destra dell'agente; dall'interno della nuvola di fumo azzurro la pistola fece di nuovo fuoco. Mackensen era un uomo grosso e robusto. Nonostante la pallottola nel petto avrebbe sparato, ma fu bloccato da un secondo proiettile che lo centrò nella testa due dita sopra il sopracciglio destro. E questo lo uccise.

Miller si svegliò il lunedì pomeriggio, in una camera privata dell'Ospedale generale di Amburgo. Rimase disteso per mezz'ora, prendendo lentamente coscienza del fatto che la sua testa, avvolta in fasciature, rimbombava come un tunnel attraverso il quale passasse un treno. Trovò un pulsante e lo premette, ma l'infermiera che arrivò gli disse di stare disteso e tranquillo, perché aveva un grave trauma. Così si rimise giù, e pezzo per pezzo ricostruì gli eventi della mattina precedente fino a mezzogiorno. Dopo quel momento c'era il buio più assoluto. Si assopì, e quando si svegliò, fuori era scuro. Un uomo era seduto accanto al suo letto. Sorrideva. Miller lo fissò. «Non la conosco» disse.

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«Io, invece, conosco lei» disse il visitatore. Miller rifletté. «L'ho già vista» disse infine. «Era nella casa di Oster. Con Leon e Motti.» «Giusto. Che altro ricorda?» «Quasi tutto. Mi sta tornando in mente.» «Roschmann?» «Sì. Ho parlato con lui. Stavo andando alla polizia.» «Roschmann è fuggito. E' tornato in Sudamerica. L'intera faccenda è chiusa. Completamente liquidata. Mi capisce?» Miller scosse lentamente la testa. «Non del tutto. E' una storia sensazionale. E la scriverò.» Il visitatore smise di sorridere e si chinò in avanti. «Ascolti, Miller. Lei è un povero dilettante, ed è fortunato a essere ancora vivo. Non scriverà niente. Primo, perché non ha niente da scrivere. Il diario di Tauber ce l'ho io, e tornerà con me nel mio paese, com'è giusto. L'ho letto la notte scorsa. C'era la fotografia di un capitano dell'esercito, nella tasca della sua giacca. Suo padre?» Miller annuì. «Questo era il suo vero movente, allora?» domandò l'agente. «Sì.» «Be', in un certo modo mi dispiace. Per suo padre, voglio dire. Non avrei mai pensato di poter dire una cosa simile di un tedesco. E ora, i documenti. Che cosa contenevano?» Miller glielo spiegò. «E allora perché non li ha mandati a noi? Lei è un ingrato. Abbiamo fatto carte false per infiltrarla là dentro, e quando lei ha avuto qualcosa l'ha passata ai suoi connazionali. Noi avremmo potuto servirci di quelle informazioni in modo più efficace.» «Dovevo pur mandarli a qualcuno, per mezzo di Sigi. Li ho fatti spedire. Lei è stato così astuto da non darmi mai l'indirizzo di Leon.» Josef annuì. «E va bene. Comunque, lei non ha nessuna storia da raccontare. Non ha prove. Il diario è scomparso; i documenti pure. Ha solo la sua parola. Se dovesse scrivere quello che sa, nessuno la crederebbe, a parte l'Odessa. E l'Odessa verrebbe a cercarla. O meglio, colpirebbe Sigi o sua madre. Giocano duro, quelli. Non ricorda?» Miller rifletté per un po'. «E la mia automobile?» «Ah, dimenticavo che non ne sa ancora niente.» Josef raccontò a Miller della bomba che era stata messa nel veicolo, facendolo esplodere. «Gliel'ho detto che quelli giocano duro. La macchina è stata trovata in un burrone, distrutta dal fuoco. Il cadavere che c'era dentro non è stato identificato, ma non passerà per il suo. Ufficialmente, lei è stato colpito con una sbarra di ferro da un autostoppista, che si è poi allontanato con l'auto. «L'ospedale confermerà che lei è stato portato qui da un motociclista di passaggio che ha chiamato un'autoambulanza quando l'ha visto esanime sulla strada. Il motociclista ero io, ma non potranno

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riconoscermi, perché avevo il casco e gli occhialoni. Questa è la versione ufficiale, e verrà confermata. Per esserne sicuro, due ore fa ho telefonato all'agenzia tedesca di stampa dicendo di essere uno dell'ospedale e fornendo la stessa versione: lei è stato aggredito da un autostoppista che più tardi è andato a fracassarsi, ammazzandosi.» Josef si alzò e si preparò ad andarsene, guardando Miller dall'alto. «Anche se non se ne rende conto, lei è un bastardo fortunato. L'ho ricevuto ieri a mezzogiorno, il messaggio che la sua ragazza mi ha fatto avere, presumibilmente dietro sue istruzioni. Ho corso come un pazzo e per arrivare da Monaco fino sulla collina ci ho messo due ore e mezzo spaccate. Spaccate, proprio come spaccata stava per essere la sua testa. Uno di loro era là e stava per farla fuori. L'ho fermato appena in tempo.» Si voltò, con una mano sul pomello della porta. «Segua il mio consiglio. Si faccia pagare dall'assicurazione per l'automobile, si compri una Volkswagen, torni ad Amburgo, sposi Sigi, metta al mondo dei bambini e si limiti a fare il giornalista. Non competa più con i professionisti.» Mezz'ora dopo che se n'era andato, tornò l'infermiera. «C'è una telefonata per lei» disse. Era Sigi, che piangeva e rideva contemporaneamente. Aveva ricevuto una telefonata anonima che l'avvertiva che Peter era all'ospedale generale di Amburgo. «Arrivo al più presto. Parto immediatamente» disse, e riattaccò. Il telefono squillò di nuovo. «Miller? Sono Hoffmann. Ho appena letto la notizia su un flash d'agenzia. S'è preso una bella botta in testa, pare. Come sta?» «Bene, Herr Hoffmann» disse Miller. «Perfetto. Quando sarà di nuovo in piedi?» «Entro pochi giorni. Perché?» «Ho un pezzo che le va a pennello. Molte ragazze tedesche dai paparini facoltosi se ne vanno nelle località sciistiche a farsi mettere incinte da giovani e prestanti istruttori di sci. C'è una clinica in Baviera che le tira fuori dai pasticci... dietro cospicuo compenso e senza dir niente a papà. Pare che alcuni giovani stalloni vengano pagati a commissione dalla clinica. Un articolo bomba. "Sesso tra la neve, Orge nell'Oberland." Quando può cominciare?» Miller rifletté. «La settimana prossima.» «Magnifico. A proposito, quella faccenda alla quale si stava dedicando, la caccia al nazista. Ha trovato il suo uomo? Si può tirarne fuori un pezzo?» «No, Herr Hoffmann» disse Miller lentamente. «Niente da fare.» «Avevo sperato di sì. Si sbrighi a rimettersi in sesto. Ci vediamo ad Amburgo.»

L'aereo di Josef arrivò all'aeroporto Lod di Tel Aviv, da Francoforte via Londra, il martedì sera mentre calava l'oscurità. Josef fu accolto da due uomini in automobile e portato al quartier generale per fare rapporto al colonnello che aveva firmato il telegramma con il nome di Cormorano. Parlarono quasi fino alle 2 del mattino, mentre uno

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stenografo annotava tutto. Quando terminarono, il colonnello si appoggiò allo schienale della sedia, sorrise e offrì al suo agente una sigaretta. «Ben fatto» disse con semplicità. «Abbiamo svolto dei controlli alla fabbrica e soffiato la notizia alle autorità, restando ovviamente anonimi. Il reparto ricerche verrà smantellato. Ci penseremo noi a farlo se le autorità tedesche non si muovono. Ma secondo me si muoveranno. A quanto pare, gli scienziati non sapevano per chi lavoravano in realtà. Li avvicineremo uno per uno, con molto tatto, e quasi tutti acconsentiranno a distruggere i loro appunti. Sanno che se la faccenda diventasse di dominio pubblico l'opinione pubblica tedesca si schiererebbe a favore d'Israele. Accetteranno un impiego nell'industria e terranno la bocca chiusa. E così farà Bonn, e così faremo anche noi. Ma che farà Miller?» «La stessa cosa. E i missili?» Il colonnello espirò una boccata di fumo e guardò le stelle fuori nel cielo buio. «Ho la sensazione che ormai non entreranno più in funzione. Nasser deve essere pronto al massimo entro l'estate del 1967, e dato che il lavoro di ricerca nella fabbrica di Vulkan è stato bloccato, non riusciranno a organizzare un'altra operazione in tempo per mettere a punto il sistema di teleguida entro l'estate del 1967.» «Allora, scampato pericolo» disse l'agente. Il colonnello sorrise. «Il pericolo non è mai completamente scampato. Cambia solo la forma. Questo particolare pericolo può anche essere sfumato, ma quello più generale continua. Dovremo combattere ancora, e poi forse ancora, prima che venga debellato. In ogni caso, lei deve essere stanco. Può andare a casa, ora.» Frugò in un cassetto e tirò fuori una borsa di politene che conteneva degli effetti personali, mentre l'agente depositava sulla scrivania il passaporto tedesco falso, il denaro, il portafoglio, le chiavi. Poi Josef andò in una stanza adiacente e si cambiò i vestiti, lasciando al suo superiore quelli tedeschi. Sulla porta, il colonnello lo esaminò attentamente con aria d'approvazione. Poi si strinsero la mano. «Ben tornato a casa, maggiore Uri Ben Shaul.» L'agente si sentì meglio dopo essere rientrato nella sua vera identità, quella che aveva assunto nel 1947 quando per la prima volta era arrivato in Israele e si era arruolato nel Palmach. Prese un taxi per tornare al suo appartamento periferico, dove entrò usando le chiavi che gli erano appena state riconsegnate insieme agli altri effetti personali. Nella camera da letto immersa nel buio intravide la sagoma di Rivka, sua moglie, che dormiva, e la leggera coperta che s'alzava e s'abbassava seguendo il suo respiro. Sbirciò nella camera vicina e guardò i due figli, Shlomo di sei anni, e Dov, di due. Fu assalito da un desiderio violento d'infilarsi nel letto accanto alla moglie e di dormire per parecchi giorni, ma sapeva di dover fare prima un'altra cosa. Depose la sua valigia e si spogliò senza far rumore togliendosi anche le calze e la biancheria. Ne indossò di nuova, tolta dal cassetto, mentre Rivka continuava a dormire,

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indisturbata. Dall'armadio prese i calzoni dell'uniforme, puliti e stirati come li trovava sempre quando ritornava a casa, e si allacciò i lustri scarponi di pelle di vitello nera. Le camicie kaki e le cravatte erano al loro posto di sempre; sulla camicia c'erano delle pieghe nette, lasciate in alcuni punti dal ferro da stiro. Sopra s'infilò il giubbotto, adornato solo dalle scintillanti stellette d'acciaio da ufficiale dei paracadutisti e dai cinque nastrini che si era guadagnato nel Sinai e in operazioni oltre confine. L'ultimo capo fu il berretto rosso. Quando fu vestito, prese gli indumenti che si era tolto e li infilò in una borsa. C'era già un pallido chiarore, a est, quando uscì di nuovo e trovò la piccola automobile parcheggiata nel posto in cui l'aveva lasciata un mese prima, di fronte alla casa. Anche se era solo il 26 febbraio, tre giorni prima della fine dell'ultimo mese invernale, l'aria era già dolce e prometteva una primavera serena. Josef guidò in direzione est, fuori da Tel Aviv, e imboccò la strada per Gerusalemme. Dell'alba gli piacevano il silenzio, la pace e la limpidezza, che non cessavano mai di meravigliarlo. Aveva ammirato migliaia di volte, mentre era di pattuglia nel deserto, il fenomeno del sorgere del sole, fresco e splendida, prima che arrivasse il caldo torrido del giorno che talvolta portava combattimento e morte. Era l'ora migliore. La strada lo condusse attraverso la campagna fertile e piatta della pianura litoranea, verso le colline color ocra della Giudea; attraversò il villaggio di Ramleh, che si stava svegliando. Dopo Ramleh, c'era una deviazione attorno al Saliente di Latroun: quasi otto chilometri che costeggiavano gli avamposti delle forze giordane. Alla sua sinistra, Josef intravide i fuochi delle cucine della Legione araba che innalzavano sottili fili di fumo azzurro. C'erano pochi arabi svegli, nel villaggio di Abu Gosh, e quando Josef fu arrivato in cima alle ultime colline prima di Gerusalemme, il sole aveva rischiarato l'orizzonte a est e scintillava sulla Cupola della Roccia nel settore arabo della città divisa. Parcheggiò l'automobile a quattrocento metri dalla sua destinazione, il mausoleo di Yad Vashem, e percorse a piedi il tratto che restava. Lungo il viale fiancheggiato dagli alberi piantati in ricordo dei Gentili che avevano aiutato gli ebrei, s'avviò verso le grandi porte di bronzo che proteggono il reliquiario dei sei milioni di suoi compatrioti morti nell'olocausto. Il vecchio guardiano gli disse che a quell'ora non era ancora aperto, ma Josef gli spiegò quello che voleva e l'uomo lo lasciò passare. Josef entrò nella cripta e si guardò attorno. C'era già stato altre volte a pregare per la sua famiglia, ma i massicci blocchi di granito grigio che formavano la cripta lo intimidivano ancora. Avanzò fino alla balaustra e osservò i nomi scritto ti in nero, in lettere ebraiche e romane, sul grigio pavimento di pietra. Nel sepolcro ardeva solo la luce della Fiamma eterna, che tremolava sopra la vaschetta nera dalla quale scaturiva. Alla sua luce, Josef lesse i nomi sul pavimento, fila per fila:

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Auschwitz, Treblinka, Belsen, Ravensbrück, Buchenwald... Erano innumerevoli, ma lui trovò quello che cercava: Riga. Non aveva bisogno di una yarmulka per coprirsi la testa: portava ancora il berretto rosso, che sarebbe bastato. Dalla borsa prese uno scialle di seta bordato di frange, il tallith, lo stesso tipo di scialle che Miller aveva trovato tra gli effetti personali del vecchio di Altona, e il cui significato non aveva compreso. Se lo avvolse attorno alle spalle. Poi prese un libro di preghiere e lo aprì alla pagina giusta. Tenendo il libro in una mano avanzò fino alla ringhiera d'ottone che separava la cripta in due parti, e guardò la fiamma davanti a lui. Dato che non era molto religioso, dovette consultare frequentemente il libro, mentre recitava la preghiera ormai vecchia di cinquemila anni.

«"Yisgaddal, Veyiskaddash, Shemay rabbah...."»

E fu così che un maggiore dei paracadutisti dell'esercito d'Israele, su una collina nella Terra Promessa, finalmente recitò il kaddish per l'anima di Salomon Tauber, ventun anni dopo che quell'anima era morta a Rifa.

Sarebbe bello che le cose di questo mondo potessero terminare sempre con un finale ben definito. Ma accade di rado. La gente continua a vivere e a morire nel posto e nel momento che le è destinato. Per quanto è stato possibile stabilire, ecco quanto è successo ai principali protagonisti di questo libro. Peter Miller tornò a casa, si sposò e continuò a fare il giornalista, ma scrivendo solo le cose che la gente ama leggere dal parrucchiere o mentre fa colazione al mattino. Nell'estate del 1970, Sigi era incinta del loro terzo figlio. Gli uomini dell'Odessa si dispersero. La moglie di Eduard Roschmann ritornò a casa e più tardi ricevette un telegramma dal marito che le comunicava di essere in Argentina. Si rifiutò di seguirlo. Nell'estate del 1965 gli scrisse al loro vecchio indirizzo, la Villa Jerbal, per chiedergli il divorzio di fronte al tribunale argentino. La lettera fu inoltrata al nuovo indirizzo di Roschmann, e la donna ricevette una risposta che acconsentiva alla richiesta, ma davanti al tribunale tedesco. Alla risposta era allegata una dichiarazione di consenso per il divorzio, divorzio che fu concesso nel 1966. La moglie di Roschmann vive ancora in Germania, ma ha ripreso il cognome di nubile, Müller, e di Müller in Germania ce ne sono decine di migliaia. La prima moglie del nazista, Hella, abita in Austria. Alla fine il Werwolf riuscì a placare le ire dei suoi superiori in Argentina, e si sistemò in una piccola tenuta che comprò con il denaro realizzato dalla vendita delle sue proprietà sull'isola spagnola di Formentera. La fabbrica di radio fu messa in liquidazione. Gli scienziati che lavoravano ai sistemi di teleguida per i missili di Helwan trovarono tutti un lavoro nell'industria o nelle università. Il progetto al

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quale avevano lavorato a loro insaputa fallì. I missili di Helwan non si alzarono mai. Il corpo centrale era pronto, e anche il propellente. Le testate erano in produzione. Coloro che mettono in dubbio l'esistenza dei missili dovrebbero leggere la testimonianza resa dal professor Otto Yoklek al processo Josef Ben Gal, tenuto dal 10 al 26 giugno 1963 davanti al tribunale provinciale di Basilea, in Svizzera. I quaranta missili già costruiti, inutilizzabili per mancanza di un sistema elettronico in grado di guidarli sui loro obiettivi in Israele, erano ancora nella base abbandonata di Helwan quando furono distrutti dai bombardieri durante la "guerra dei sei giorni". Prima che questo avvenisse, gli scienziati tedeschi erano già tornati in Germania. La consegna alle autorità dei documenti di Klaus Winzer inferse un duro colpo ai piani dell'Odessa. L'anno che per loro era cominciato così bene terminò in modo disastroso, al punto che alcuni anni dopo un legale della Commissione Z di Ludwigsburg sarebbe stato in grado di dire: "Il 1964 è stato un ottimo anno, per noi. Sì, davvero un ottimo anno". Alla fine del 1964 il cancelliere Erhard, scosso da quelle rivelazioni, lanciò un appello nazionale e internazionale, invitando tutti coloro che conoscevano i nascondigli dei criminali S.S. a farsi avanti e a informare le autorità. La reazione fu molto positiva e il lavoro degli uomini di Ludwigsburg ricevette un enorme stimolo che continuò per diversi anni ancora. Degli uomini politici responsabili del commercio di armi tra la Germania e Israele, il cancelliere tedesco Adenauer visse nella villa di Rhöndorf, sul suo amato Reno, vicino a Bonn, e vi morì il 19 aprile 1967. Il premier israeliano David Ben Gurion continuò a essere membro del Knesset (Parlamento), fino al 1970, quando finalmente si ritirò nel kibbutz di Sede Boker, nel cuore delle aspre colline del Negev, sulla strada tra Beer Sheba e Eilat. Ama ricevere visitatori e parlare con animazione di molti argomenti, ma non dei missili di Helwan e delle minacciose pressioni effettuate sugli scienziati tedeschi che vi avevano lavorato. Degli uomini del servizio segreto implicati nella storia, il generale Amit rimase controllore fino al settembre 1968 e sulle sue spalle ricadde la grave responsabilità di assicurare che il suo paese ricevesse informazioni precise in vista della guerra dei Sei Giorni. Come la storia ha registrato, ottenne un brillante successo. Al suo ritiro dalla vita politica fu nominato presidente e direttore generale delle Industrie Koor di Israele, di proprietà dei lavoratori. Vive ancora molto modestamente, e la sua incantevole moglie Yona si rifiuta come sempre di assumere una cameriera preferendo fare con le sue mani tutto il lavoro domestico. Il suo successore, tuttora in carica, è il generale Zvi Zamir. Il maggiore Uri Ben Shaul fu ucciso il mercoledì 7 giugno 1967 alla testa di una compagnia di paracadutisti che si apriva combattendo la strada nella Città Vecchia di Gerusalemme. Fu colpito al capo da una pallottola di un legionario arabo, e cadde a quattrocento metri a est della porta di Mandelbaum. Simon Wiesenthal vive ancora a Vienna, dove lavora, raccogliendo un

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fatto qui, un'informazione là, scoprendo lentamente i nascondigli degli assassini S.S., e ogni anno raccoglie una messe di successi. Leon morì a Monaco nel 1968 e dopo la sua morte il gruppo di uomini che aveva guidato nella sua crociata di vendetta personale perse vitalità e si sciolse. E veniamo infine al sergente maggiore Ulrich Frank, il comandante del carro armato che era passato davanti a Miller sulla strada per Vienna. Si era sbagliato sul destino del suo carro, il Drago della Roccia: il carro non finì tra i rottami. Fu portato via da un'autogru, e Frank non ne seppe più niente. Quaranta mesi più tardi, in ogni caso, non lo avrebbe più riconosciuto. La sua corazza grigio-acciaio era stata scrostata del precedente colore e ridipinta di un marrone color sabbia, per mimetizzarlo nel paesaggio del deserto. La croce nera dell'esercito tedesco era stata tolta dalla torretta e sostituita con una stella a sei punte celeste, la Stella di Davide. Il nome che Frank gli aveva dato era stato a sua volta sostituito con quello di "Spirito di Masada". Era ancora comandato da un sergente maggiore, un uomo dal naso a becco e dalla barba nera, di nome Nathan Levy. Il 5 giugno 1967, l'M-48 cominciò la sua prima e unica settimana di combattimento da quando era uscito sui suoi cingoli dalle officine di Detroit, nel Michigan, dieci anni prima. Fu uno dei carri armati che il generale Israel Tal lanciò in battaglia due giorni dopo per conquistare il passo di Mitla, e a mezzogiorno del sabato 10 giugno, incrostato di polvere e di olio, ammaccato dalle pallottole e con i cingoli logorati dalle rocce del Sinai, il vecchio Patton si bloccò sulla riva orientale del Canale di Suez.

NOTE.

NOTA 1. Il procedimento bruciò malamente i cadaveri ma non distrusse le ossa. I russi più tardi riportarono alla luce questi 80 mila scheletri. NOTA 2. L'offensiva russa nella primavera 1944 portò il fronte così lontano verso ovest che le truppe sovietiche si spinsero a sud degli

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stati baltici e attraverso il Mar Baltico a ovest di questi. L'Ostland rimase isolato dal Reich. I generali della Werhmacht avevano previsto quello che sarebbe successo e avevano pregato Hitler di far ritirare le 45 divisioni di stanza nella zona. Egli aveva rifiutato, insistendo nel suo pappagallesco slogan "vittoria o Morte". La morte era tutto quello ch'egli aveva da offrire ai 500 mila soldati intrappolati nella sacca. Tagliati fuori dai rifornimenti, essi combatterono con munizioni sempre più scarse per ritardare un destino sicuro, e alla fine si arresero. Della maggioranza, fatta prigioniera e trasportata in Russia nell'inverno 1944-1945, pochi ritornarono dieci anni dopo in Germania.

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