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Oscar Wilde De Profundis www.liberliber.it

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  • Oscar WildeDe Profundis

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    QUESTO E-BOOK:

    TITOLO: De ProfundisAUTORE: Wilde, OscarTRADUTTORE: Manzotti Bignone, AdelinaCURATORE: NOTE: La traduzione di Adelina Manzotti Bignone, pubblicata per la prima volta nel 1919, stata con-dotta sulla prima edizione inglese del 1905. Da que-sta prima edizione Robert Ross, al quale era stato affidato il manoscritto da Wilde, espunse ogni rife-rimento a Bosie (Lord Alfred Douglas) e alla fami-glia Queensberry. Il testo non difforme a quello che sar pubblicato integrale per la prima volta nel 1947 a cura del figlio dello scrittore; tutte le frasi nelle quali lo scrittore si rivolge, essendo il testo una lettera scritta dal carcere, a Bosie sono per voltate in forma impersonale. Solo nel 1962 il testo del '47 sar poi purgato da alcune omissioni e correzioni introdotte da Robert Ross grazie alla paziente opera dello studioso Rupert Hart-Davis condotta direttamente sul manoscritto che Ross don nel 1908 al British Museum, con la clauso-la di non renderlo pubblico prima del 1960.

    CODICE ISBN EBOOK:

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  • DIRITTI D'AUTORE: no

    LICENZA: questo testo distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/libri/licenze/

    TRATTO DA: De profundis ; La ballata del carcere di Reading ; Lettere dalla prigione ; Poesie scelte / Oscar Wilde ; traduzione di Adelina Manzotti Bigno-ne. - Milano : Edizioni delle Alpi, stampa 1935. - 220 p. ; 19 cm

    CODICE ISBN FONTE: non disponibile

    1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 5 novembre 2013

    INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilit bassa 1: affidabilit media 2: affidabilit buona 3: affidabilit ottima

    DIGITALIZZAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

    REVISIONE:Catia Righi, [email protected]

    IMPAGINAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

    PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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  • Indice generale

    PREFAZIONE DELL'EDITORE...................................8DE PROFUNDIS..........................................................18PREFAZIONE..............................................................19DE PROFUNDIS..........................................................20LA BALLATA DEL CARCEREDI READING...............................................................87

    I.................................................................................89II................................................................................93III..............................................................................96IV............................................................................104V..............................................................................109VI............................................................................113

    LETTERE DALLA PRIGIONE.................................114I...............................................................................115II..............................................................................118III............................................................................123IV............................................................................127

    POESIE SCELTE.......................................................131REQUIESCAT........................................................132UDENDO CANTARE IL DIES IRAENELLA CAPPELLA SISTINA..............................133E TENEBRIS..........................................................134VITA NUOVA........................................................135NELLA CAMERA D'ORO....................................136IMPRESSIONI DEL MATTINO...........................137

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  • MADDALENA PASSEGGIA................................138LA BELLA DONNA DELLA MIA MENTE.........140IN RIVA D'ARNO..................................................142SILENTIUM AMORIS..........................................143DAI GIORNI DI PRIMAVERAALL'INVERNO(PER MUSICA)......................................................144INNO FUNEBRE...................................................145LA VERA SCIENZA..............................................146CANZONETTA......................................................147SOTTO IL BALCONE...........................................148NELLA FORESTA.................................................149A MIA MOGLIE CON UNA COPIADEI MIEI POEMI..................................................150

    INDICE.......................................................................151INDICE...................................................................152

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  • OSCAR WILDE

    De ProfundisLa ballata del carcere di Reading

    Lettere dalla prigione

    Poesie scelte

    TRADUZIONE DI ADELINA MANZOTTI BIGNONE

    EDIZIONI DELLE ALPIVia Agnello, 8

    MILANO

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  • PREFAZIONE DELL'EDITORE

    Oscar Fingal O' Flahertie Wills Wilde nacque a Du-blino il 16 ottobre 1854. Suo padre, William, era un ce-lebre chirurgo e letterato, uomo di carattere leggero. Sua madre, nata Elge, era anch'essa letterata e parente di Carlo R. Mathurin, autore del romanzo Melmoth the Wanderer. Il fratello maggiore di Wilde, William, fece il giornalista a Londra e mor nel 1899; la sorella mino-re, Isola, mor bambina e inspir con la sua morte a Oscar la poesia Requiescat.

    Il salotto di Casa Wilde era brillante e frequentato da persone eminenti. Lady Wilde, profonda conoscitrice di greco e di latino, collaborava col pseudonimo di Spe-ranza in un giornale rivoluzionario nel quale trattava con efficacia le questioni dell'irredentismo Irlandese.

    Gli anni dell'infanzia di Wilde passarono cos in un ambiente denso di studi, di dotte conversazioni, di ricer-che archeologiche eseguite dal padre in continue visite alle rovine di antichi monumenti dell'Irlanda.

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  • A 11 anni, nel 1865, Wilde entr nella Portora Royal School di Enniskillen. Segu i corsi con buoni risultati, ma fu sempre ribelle alle matematiche.

    La passione della lettura si rivel fortissima in lui, preparando fin dai giovani anni la base formidabile della sua coltura specialmente classica.

    A 19 anni, nel 1873, entr all'Universit di Dublino, al Trinity College. Nel 1874 ottenne la medaglia d'oro Berkeley per uno studio sui poeti comici greci. Nello stesso anno pass all'Universit di Oxford, al Magdelein College. Nel 1876 ebbe il certificato di prima classe nel-le Literae humaniores. Nel 1877 fece in Italia e in Gre-cia un viaggio che lasci profonda influenza sull'arte sua. Nel 1878 vinse il famoso premio Newdigate per il poema Ravenna. Nello stesso anno lasci Oxford col diploma di bachelor of arts. Venne a Londra, dove la sua fama cominci presto a diffondersi.

    Nel 1880 pubblic i suoi lavori giovanili sotto il tito-lo: Poems by Oscar Wilde. Il successo fu grandissi-mo: si vendettero subito cinque edizioni. Nel 1882 fu in-vitato in America dove tenne molte conferenze sull'arte, a Boston, a New York, a Chicago. I suoi poemi uscirono in edizione americana. Torn a Parigi dove termin il dramma La duchessa di Padova che fu rappresentato subito a New York ma fu pubblicato nel 1908. Nel 1883 torn in America per la rappresentazione del suo dram-ma Vera. And poi a Parigi dove lavor al poema La Sfinge che scrisse in varie riprese e pubblic nel 1884. Torn in Inghilterra per tenere una serie di conferenze in

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  • provincia. Il 29 Maggio 1884 spos Miss Constance Mary Lloyd, figlia di un avvocato di Dublino, bella, buona, ricca. Abit in Chelsea, Tite Street 16, dove ri-mase fino al 1895. La sua casa, arredata con ricchissimi mobili, piena di oggetti di gusto squisito, fu celebre a Londra.

    Collaborava allora come critico letterario nella Pall Mall Gazette e scriveva articoli sul Teatro nella Revue dramatique. Diresse poi dal 1887 al 1889 il periodico The Woman's World.

    Nel 1885 sulla Nineteenth Century apparve il saggio Shakespeare e i costumi teatrali che fu poi intitolato La verit delle maschere. Nel 1885 gli nacque un fi-glio: Cirillo, e un altro, Viviano, gli nacque nel 1886. In questo anno Wilde, sempre pi avido di bellezza e di nuove sensazioni, cominci la fatale discesa nel vizio che doveva portarlo alla prigione. Nel 1887 pubblic Il delitto di Lord Savile, Il modello milionario, Il principe felice e altri racconti. In questo anno, trenta-quattresimo della sua vita, la fama di Wilde universa-le. La potenza del suo ingegno gli procura onori e glo-ria; la coscienza di questa potenza, manifestata conti-nuamente con atteggiamenti originali gli procura molti amici ma anche molti nemici. In cerca sempre di nuove sensazioni divent indifferente alle conquiste femminili che prima lo avevano tanto occupato, e scivol in com-plicazioni in pieno contrasto con la morale vigente.

    I suoi guadagni che subito diventarono altissimi gli permettevano una vita estremamente lussuosa e strava-

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  • gante. Non il caso qui di riferire i numerosi aneddoti della sua vita.

    Nel 1889 pubblic Il ritratto del signor W. H. sul Blackwood's Magazine; Penna matita e veleno sulla Fortnightly Review; La decadenza del mentire sulla Nineteenth Century. Su questa ultima rivista usc nel 1890 Il critico considerato come artista e nello stesso anno Il ritratto di Dorian Gray sul Lippincott's Ma-gazine. Nel 1891 pubblic sulla Fortnightly Review la prefazione al Ritratto di Dorian Gray per rispondere a coloro che ritenevano immorale il suo romanzo. Subi-to dopo apparve in volume Il ritratto di Dorian Gray, con l'aggiunta di sette capitoli.

    Nel 1891 inoltre pubblic La casa dei melograni e riun in volume col titolo di Intenzioni i saggi: La decadenza del mentire, Penna, matita e veleno, Il critico considerato come artista, ai quali aggiunse il nuovo saggio La verit delle maschere. Pubblic sulla Fortnightly Review L'anima dell'uomo sotto il sociali-smo, e poi L'amabile arte di farsi dei nemici, e a Pa-rigi, dove continuamente si recava, scrisse in francese la tragedia in un atto Salome pubblicata poi nel 1893. Nel 1892 Salome doveva essere rappresentata a Lon-dra da Sara Bernhardt, ma la censura inglese ne proib l'esecuzione. Il 20 febbraio 1892 fu rappresentata a Lon-dra la commedia Il ventaglio di Lady Windermere, il 19 aprile 1893 Una donna di poco conto, il 3 Gennaio 1895 Un marito ideale, il 14 Febbraio 1895 L'im-

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  • portanza di esser Fedele, e poi Una tragedia fiorenti-na.

    Intanto la sua notoriet non gli aveva permesso di te-nere nascosti i suoi vizi. Nel 1895 non solo perdette il processo di diffamazione ch'egli aveva intentato al mar-chese di Queensbury, ma fu arrestato sotto un'imputa-zione pi grave. Ebbe la libert provvisoria perch i giu-dici non erano concordi nel giudizio. Gli amici sperava-no ch'egli fuggisse dall'Inghilterra. Invece rimase, sub il processo e fu condannato a due anni di prigione per per-versione sessuale. Entr nel carcere di Reading il 25 maggio 1895. L'uomo di genio divent agli occhi di tutti un uomo esecrando. L'artista meraviglioso fu dimentica-to. Il suo nome fu sinonimo di obbrobrio. La sua ricchis-sima raccolta di mobili e di oggetti d'arte and dispersa all'asta. Molti suoi libri furono bruciati. Le rappresenta-zioni dei suoi drammi furono proibite.

    Verso la fine della prigionia scrisse la lettera da dove fu poi tratto il De Profundis, pubblicato nel 1905. Usc dal carcere il 19 Maggio 1897. Non pot riprendere mai pi l'attivit letteraria di prima. L'artista era stato ucciso nell'uomo condannato in nome della morale co-mune.

    Dopo la liberazione abit a Berneval sur Mer vicino a Dieppe, dove cominci La Ballata del carcere di Rea-ding che continu a Napoli. Torn a Parigi, dove nel febbraio 1898 apparve in volume la ballata che aveva dapprima offerto a varii giornali senza poterla vendere.

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  • Scriveva sotto il pseudonimo di Sebastiano Melmoth. Due sue lettere sui maltrattamenti nelle prigioni furono pubblicate dal Daily Chronicle.

    Nella primavera del 1900 and a Roma dove fu attrat-to dalla bellezza e dalla ricchezza delle cerimonie reli-giose del Vaticano. Era tale il suo piacere nell'assistere alle meravigliose funzioni, che si present per sette vol-te alle udienze papali. In maggio torn a Parigi. Pochi amici lo aiutarono. Passava il suo tempo nei caff a bere, ridotto ormai a una larva. La sua volont si estinse completamente e torn fanciullo. Abitava all'Albergo di Alsazia al n. 13 della Rue des Beaux-Arts. Si ammal di meningite, presa in seguito a un attacco di sifilide terzia-ria. Aveva continuamente l'emicrania. Il 10 ottobre sub un'operazione e parve ristabilirsi. Ma in Novembre peg-gior. Il 29 Novembre fu battezzato. Nel pomeriggio del 30 mor. Fu sepolto il 3 Dicembre al cimitero di Ba-gneux. Il 20 luglio 1909 i suoi resti furono trasportati al Pre Lachaise.

    * * *

    impossibile non esprimersi con parole di entusia-smo quando si parla dell'opera di Wilde. L'arte di Oscar Wilde ha raggiunto altezze vertiginose. Il suo astro ha brillato molto intensamente e gli uomini non l'hanno po-tuto fissare. Ma una nube nera si interposta e tutti si sono sentiti in diritto di giudicare e disprezzare l'uomo e l'artista. Purtroppo i suoi contemporanei inglesi non

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  • compresero la sua arte n la sua vita. Wilde ha messo il suo genio nella sua vita. Anzi egli stesso disse che la sua vita era la sua opera d'arte. Questa frase che lo doveva assolvere lo fece condannare.

    Ma la nube nera sparita e l'astro briller per molto e molto tempo ancora.

    Wilde ha scritto non tanto per i suoi contemporanei quanto per i posteri. Egli ci ha detto delle cose la cui bellezza sar analizzata un po' per volta; ha lasciato pro-fumi fortemente concentrati che dureranno nel tempo e piaceranno sempre. Tutti i letterati dal '90 ad oggi hanno attinto all'opera di Wilde; tutti attingeranno anche in se-guito. Molte cose scritte da Wilde furono da lui copiate; ma il suo genio gli permetteva di dare la sua impronta a tutto. Anche alle cose inverosimili e senza senso dette bellezza. Spettatore della sua stessa vita, riconobbe la propria potenza e si educ e miglior. Godeva egli stes-so della propria creazione libera, senza impacci di scuo-le, di norme, di tradizioni.

    Perci prefer la conversazione della quale fu princi-pe, perci prefer l'arte dello scrivere alle altre belle arti. Leggendo Wilde si ha la netta impressione dell'artista che crea con la parola cose meravigliose. I suoi parados-si non saranno pi tali domani; ma essi, pur potendo es-sere oggetto di discussione, sono bellissimi. Non si pu definire l'opera di Oscar Wilde con le definizioni fino ad oggi sufficienti.

    * * *

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  • Il De Profundis che qui presentato in fedele e corretta traduzione composto di alcuni brani tolti da una lunga lettera scritta da Wilde verso la fine della sua pena e indirizzata a un suo amico (che non era il Ross) che avrebbe avuto una parte importante sia prima che dopo il processo nella vita di Wilde. La lettera fu poi consegnata da Wilde stesso al Signor Ross con le istru-zioni per la sua pubblicazione parziale che avvenne nel 1905, cinque anni dopo la morte dell'autore. Altri brani della lettera comparirono nel 1913 in seguito a vicende giudiziarie. Se ne sta preparando la traduzione italiana. Ma la pubblicazione integrale della lettera sar impossi-bile per molto tempo ancora.

    Il De Profundis il poema di dolore di un'anima macerata dalla prigione. Vediamo passare in triste se-quenza tutti i sentimenti delle anime delicate davanti alla libert cara e perduta: la disperazione, il desiderio della morte, il sentimento potente di rivolta contro la so-ciet. Poi la carit, lo spirito di fraternit, la rassegnazio-ne, l'assoluta umilt, il riconoscimento dei propri falli e del giusto castigo, la piet. Infine il sollievo che d la fede, e l'orizzonte che si apre nel pallido crepuscolo del-la speranza per l'anima purificata dal dolore.

    Wilde ha gustato pienamente tutta la coppa del piace-re, ma ha anche sorbito fin l'ultima stilla della coppa del dolore. Nel De Profundis l'anima sua si riporta in modo naturalissimo a Cristo, e in Cristo trova la pace invano domandata agli uomini. Meravigliosa questa Imitazione di Cristo per la sua semplicit di espressione,

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  • per la sua potenza e profondit di sentimento. Lo spirito di Wilde vede in Cristo il pi grande artista la cui in-fluenza sull'arte stata incommensurabile.

    Questo libro deve essere letto con l'attenzione che merita un'opera d'arte purissima e grande. Ogni pagina, ogni riga, ogni parola contengono briciole d'anima. Il DE PROFUNDIS dovrebbe tenersi sempre vicino perch in ogni momento della vita vi si possono trovare espressio-ni che hanno profonda completa corrispondenza col no-stro spirito. Nella gioia vi si sentir il memento di chi, avendo tutto goduto, tutto sofferto, ha trovato nel dolore la fonte radiosa di purificazione, nell'angoscia vi si tro-veranno espressioni che renderanno meno pesante l'atro-ce disperazione.

    Forse per un contrasto che ha origine nella infinita variet di espressione dell'anima, questo libro rammenta le MILLE E UNA NOTTE nell'edizione integrale. Mentre Wil-de ci permette di osservare, per cos dire, dall'interno un'anima sensibilissima, le MILLE E UNA NOTTE ci fanno vedere tutto il mondo esterno all'anima, nel quale per l'anima si riflette incessantemente in ogni colore, in ogni poesia, in ogni allucinante visione. E giustamente questi due capolavori vengono considerati come libri che dn-no consolazione e pace.

    * * *

    La ballata del carcere di Reading fu scritta da Wil-de subito dopo la liberazione. Il suggestivo poema fu da

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  • lui molto studiato e limato. Una tristezza senza speranza pare che sovrasti ogni pensiero, ogni frase, ogni parola della poesia. Forse questa Ballata fu composta da Wilde con la speranza di riprendere almeno in piccola parte il posto di prima nell'estimazione pubblica. Non ebbe for-tuna. Il poeta si rassegn al suo destino.

    * * *

    Chiudono il presente volume le lettere dalla prigione scritte all'amico Roberto Ross. Esse oltre a dare una di-mostrazione della bont d'animo di Wilde costituiscono un nuovo monumento elevato all'amicizia. bene infatti dedicare un reverente omaggio a Roberto Ross ai cui buoni sentimenti si deve se l'opera di Wilde non anda-ta dispersa come gli sterili zelatori della morale avreb-bero voluto. segno di grande generosit e di gentilezza d'animo, il non abbandonare quelli che cadono in basso. Generosit che al momento della condanna di Wilde avr di certo raggiunto l'eroismo.

    Roberto Ross stato meritatamente l'erede letterario di Wilde perch ha avuto fede nella sua arte meraviglio-sa. La sua figura molto simpatica a noi italiani che sia-mo particolarmente ammiratori dei Cavalieri dell'Ideale.

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  • DE PROFUNDIS

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  • PREFAZIONE

    Per lungo tempo s'acu la curiosit intorno al mano-scritto del DE PROFUNDIS che si sapeva in mano mia, per-ch l'autore ne aveva accennato a var altri amici. Que-sto libro non ha bisogno d'introduzione e meno ancora di spiegazione. Ho solo da dire che fu scritto dal mio amico negli ultimi mesi della sua prigionia, ed la sola opera ch'egli componesse in carcere e l'ultima sua in prosa. (LA BALLATA DEL CARCERE DI READING venne poi composta e concepita dopo che l'autore fu liberato).

    Vorrei sperare che il DE PROFUNDIS che esprime cos veramente e con tanta pena l'effetto d'uno sfacelo socia-le e della prigionia sopra una tempra singolarmente in-tellettuale e artificiale dar al lettore un'impressione ben diversa dell'ingegnoso e delizioso scrittore.

    ROBERT ROSS.

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  • DE PROFUNDIS

    ...Un assai lungo momento il soffrire.Noi non possiamo dividerlo per stagioni, ma soltanto

    renderci conto de' suoi modi e calcolarne i ritorni. Per noi, il tempo stesso non cammina; e sembra piuttosto descrivere un circolo intorno ad un centro di dolore. La paralizzatrice immobilit di un'esistenza in cui ogni par-ticolare regolato da un immutevole dspota (in modo che noi mangiamo, beviamo, dormiamo e preghiamo o, almeno, c'inginocchiamo per pregare secondo le leggi di una formula ferrea); questo carattere statico che rende, fino nei pi piccoli atti, ogni giornata uguale alla precedente, pare che si comunichi a tutte quelle forze esterne delle quali l'essenza consiste appunto in un mu-tamento continuo.

    Noi non sappiamo nulla del periodo della semina o del raccolto, dei mietitori proni in mezzo alle spighe, o dei vendemmiatori sparsi tra i vigneti; nulla sappiamo dei prati verdi che gli alberi di primavera nevicano di

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  • petali e che gli alberi del verziere, in autunno, cospargo-no di frutti maturi e nulla mai ne possiamo sapere.

    Per noi non c' che una stagione: quella del dolore. Sembra che ci abbiano anche defraudato del sole e della luna. Fuori il cielo pu essere d'azzurro e d'oro, ma la grossa vetrata del piccolo abbaino dalle sbarre di ferro sotto cui ci si accuccia non lascia filtrare appena che una povera luce sporca. Dentro le celle c' sempre la semi-chiara del crepuscolo; e il crepuscolo invade pure ogni cuore. Nell'orbita del pensiero, come in quella del tem-po, il moto non esiste pi. La cosa stessa che da gran pezzo voi, personalmente, avete dimenticato o che pote-te dimenticare con facilit, la medesima cosa mi succe-de ancora in questo stesso momento e mi accadr nuo-vamente domani. Tenete presente tutto ci e vi sar pos-sibile comprendere il perch io scrivo in questo tono...

    Una settimana dopo mi trasferiscono qui.. Passano ancora tre mesi e mia madre muore. Nessuno seppe quanto profondamente io l'amassi e la venerassi.

    La sua morte fu per me una cosa terribile; ma io, gi un tempo principe dello stile, non trovo nemmeno una parola per esprimere la mia angoscia e la mia vergogna. Essa e mio padre mi avevano lasciato in retaggio un nome glorioso d'onore e di nobilt, non solo nei campi della letteratura, dell'arte, dell'archeologia e della scien-za, ma anche nella storia del mio paese d'origine e nella sua evoluzione nazionale. Ebbene, io ho macchiato que-sto nome d'un obbrobrio eterno. Io ne ho creato un epi-teto ignobile per il volgo. Io l'ho trascinato nel fango. Io

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  • l'ho dato in bala dei bruti, affinch lo rendano brutale ed ai nemici perch ne facciano un sinonimo di follia. Quel che ho sofferto allora e lo strazio che ancor oggi io provo, no! nessuna penna lo potr scrivere, nessun fo-glio di carta lo potr rivelare. Mia moglie, sempre buona e nobile verso di me, temendo che la notizia della scia-gura mi giungesse per mezzo di estranei, quantunque tanto malata, si mise in viaggio da Genova per l'Inghil-terra per venire essa stessa ad annunciarmi questa perdi-ta irreparabile. Le lettere di simpatia mi arrivarono da tutti coloro che avevano ancora serbato dell'affetto verso di me. E perfino delle persone che io non avevo mai co-nosciuto direttamente, quando seppero che una nuova disgrazia era venuta ad abbattersi sulla mia vita, scrisse-ro, pregando di comunicarmi ch'essi m'erano accanto nel grande dolore...

    Tre mesi passano. La tabella-calendario della mia condotta e del mio lavoro giornaliero, appesa esterna-mente sull'uscio della mia cella, con scrittovi sopra il mio nome e la mia condanna, m'informa che siamo giunti al mese di maggio...

    La prosperit, il piacere e il successo possono essere volgari e refrattari, ma il dolore la pi sensibile di tutte le cose create. Nulla succede nel mondo del pensiero cui il dolore non faccia eco con delle vibrazioni infinita-mente vive e terribili. In suo confronto, la sensibilissima foglia d'oro battuto, che indica la direzione delle forze che l'occhio non riesce ad afferrare, grossolana.

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  • Il dolore una ferita che sanguina quando una mano la tocca, tranne quella dell'amore, ed anche premuta da una carezza buona essa fa sangue, quantunque non la strazi pi la sofferenza.

    Dovunque c' il dolore ivi santa la terra. Un giorno si capir ci che questo significa. Nulla si sapr prima di questo. *** e delle indoli come la sua, s, possono com-prendere. Quando, costretto fra due gendarmi, io fui condotto dalla mia prigione alla Corte dei Fallimenti, *** attese nel lungo e tragico corridoio per potersi to-gliere con atto grave il suo cappello davanti a me, in co-spetto della folla che fu ridotta al silenzio da un gesto cos semplice e cos dolce, mentre io passavo innanzi a lui colle manette ai polsi e colla testa china.

    Molti uomini si sono guadagnati il regno dei Cieli con delle opere assai meno meritevoli di questa. Non con tale spirito, forse, e animati da simile amore che i Santi si inginocchiavano per lavare i piedi dei poveri o si curvavano per baciare sulle guancie i lebbrosi? Io non gli ho mai detto una parola di ci ch'egli fece quel gior-no. Non so nemmeno, in questo momento, s'egli pensa ch'io abbia potuto intravedere il suo atto.

    Oh, non una cosa per la quale si rivolgono dei rin-graziamenti formali con delle parole formali! Io l'ho rac-chiusa nel tesoro del mio cuore. Ivi la serbo come un de-bito segreto che sono felice di pensare che non potr as-solvere mai. La imbalsamo e la rinfresco con la mirra e gli aromi d'infinite lagrime.

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  • Guardate: la saggezza non mi riusc di nessun profitto e la filosofia rimase infeconda e gli adagi e le frasi di coloro che tentarono di consolarmi furono come della polvere e della cenere nella mia bocca, ma il ricordo di quel piccolo gesto d'amore, adorabile e silenzioso, ha riaperto per me tutte le fonti della piet, ha fatto fiorire il deserto come una rosa, m'ha strappato dalla dispera-zione solitaria dell'esilio per mettermi in armonia col grande cuore ferito e spezzato del mondo. Quando gli uomini saranno capaci di comprendere non solo quanto quel gesto fu bello, ma pure quale intimo significato ebbe per me e quale valore avr per me sempre, allora forse essi sapranno in che modo e in quale stato d'animo mi devono avvicinare.

    I poveri sono saggi e pi caritatevoli e pi propensi alla bont di noialtri. Per loro la prigionia una tragedia nella vita di un uomo, una sciagura, una disgrazia, qual-che cosa, insomma, che merita la simpatia altrui. Essi parlano di colui che in carcere come di uno che passa un guaio, semplicemente. l'espressione che adopera-no sempre ed essa contiene la perfetta saggezza dell'a-more. Invece, con le persone del nostro ceto diverso. Per noi, la prigione trasforma un uomo in un paria. Io, e alcuni altri nel mio stesso caso, non abbiamo diritto n all'aria, n al sole. La nostra presenza turba la gioia de-gli altri.

    Siamo ricevuti come degli intrusi, quando ritorniamo nel mondo. Non ci si vorrebbe lasciar godere nemmeno il chiaro di luna. E i nostri figliuoli non ce li portano

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  • via? Cos ci si spezzano questi dolcissimi vincoli che ci ricollegano all'umanit. Siamo dannati alla solitudine, mentre i nostri figli sono pur vivi. Ci rifiutano l'unico mezzo che potrebbe guarirci e farci rinascere, l'unica dolcezza che sarebbe in grado di spandere un balsamo sul cuore angosciato e di mettere un po' di pace nell'ani-ma in pena...

    Bisogna, s, ch'io mi dica che da me stesso io mi sono distrutto e che nessuno, piccolo o grande, non si pu ro-vinare che con le sue proprie mani. Io sono pronto a dir-lo; mi sforzo di confessarlo, quantunque, forse, in que-sto momento, non lo si creda. Senza alcuna compassio-ne io sostengo contro di me l'implacabile accusa.

    Per quanto terribile sia stato ci che il mondo mi ha fatto di male, quel che io feci a me stesso fu pi tremen-do ancora.

    Ero in simbolica comunione con l'arte e con la cultura del mio tempo. Sul principio della mia virilit lo avevo compreso e avevo, in seguito, forzato i miei contempo-ranei a comprenderlo. Pochi uomini, durante la loro vita, hanno occupato un posto simile al mio col pieno ri-conoscimento altrui. La posizione ideale di un artista messa in luce, di solito (se pure lo ), dallo storico o dal critico, molto tempo dopo che l'artista e la sua et sono scomparsi. Invece, per me, la cosa accadde diversamen-te. Io ne ebbi la coscienza e la diedi anche agli altri.

    Byron fu una figura simbolica, ma relativamente alla passione e alla stanchezza passionale della sua opera.

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  • Il mio rapporto col mio tempo fu pi nobile, pi co-stante, d'una importanza e d'un valore pi grandi.

    Gli di m'avevano quasi tutto donato. Ma io mi la-sciai poltrire e mi concessi dei lunghi periodi di tregua insensata e sensuale. Mi divertii a fare l'ozioso, il dandy, l'uomo alla moda. Mi circondai di poveri caratteri e di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio ge-nio e provai una gioia bizzarra nello sperperare una gio-vinezza eterna. Stanco di vivere sulle cime, discesi vo-lontariamente in fondo agli abissi per cercarvi delle sen-sazioni nuove. La perversit fu nell'orbita della passione quel che il paradosso era stato per me nella sfera del pensiero.

    Infine il desiderio si cangi in una malattia, o in una folla, o in entrambe le cose. Divenni noncurante della vita altrui. Colsi il mio bene dove mi piacque e passai oltre. Dimenticai che ogni pi piccola azione quotidiana forma o deforma il carattere e che, per conseguenza, ci che si compiuto nel segreto della propria intimit si sar poi costretti a proclamarlo al mondo intero. Cos, non fui pi padrone di me stesso. Non riuscii pi a do-minare la mia anima e la ignorai. Permisi al piacere di governarmi e finii coll'essere abbattuto da una sventura orrenda. Adesso non mi rimane pi che una cosa: l'asso-luta umilt.

    Ecco quasi due anni, tra poco, che io sono in prigio-ne! Da principio una selvaggia disperazione cominci ad impossessarsi di me; mi abbandonavo a una pena tale ch'era disprezzabile anche a vedersi, a un'ira terribile ed

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  • impotente, all'angoscia e all'indignazione, alla tortura che mi strappava i pi acuti singhiozzi, a una miseria che non aveva nessuna voce per esprimersi, a un dolore muto. Sono passato attraverso tutte le forme possibili della sofferenza. Meglio ancora di Wordsworth, io ben so ci ch'egli intese di dire in quel suo distico

    La sofferenza costante e oscura e misteriosa,e ha la natura dell'Infinito.

    Ma quando, talvolta, io mi rallegro all'idea che le mie sarebbero interminabili, non potevo, per, sopportare ch'esse fossero prive di significato. Ora, io trovo riposta in un oscuro angolo della mia natura qualcosa che mi dice: nulla c' al mondo che sia vuoto di senso ed il sof-frire meno di qualunque altra cosa. Questo quid, nasco-sto nel pi profondo del mio io, come un tesoro in un campo, l'Umilt.

    l'ultima cosa che mi resta, e la migliore; l'estrema scoperta alla quale io sono arrivato, il punto di parten-za di tutto uno sviluppo nuovo. una verit che si for-mata nel mio intimo essere e cos pure io so ch'essa venuta in un momento favorevole. Se alcuno me ne avesse parlato, l'avrei respinta; ma siccome l'ho trovata io stesso, ci tengo a serbarla. Bisogna ch'io la conservi! l'unica cosa che ha in s i germi della vita, di una nuo-va esistenza, una Vita Nuova per me. Tra tutte le cose, essa la pi strana; non si pu acquistarla che a patto di rinunciare a tutto ci che si possiede. E, solamente

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  • quando si tutto perduto, ci si accorge di averla guada-gnata.

    Ora che ho capito ch'essa in me, io vedo assai chia-ramente ci che in realt occorre che io faccia. E allor-ch adopero una frase come questa, non ho bisogno di aggiungere che non alludo a nessuna sanzione, a nessun ordine imperativo dal di fuori. Io non ne ammetto. Sono molto pi individualista di quanto lo sia mai stato. Nien-te mi sembra che abbia il minimo valore, tranne ci che si estrae dalla propria intimit. La mia indole in traccia d'un nuovo mezzo di realizzazione: ecco tutto ci di cui io devo preoccuparmi. E la prima cosa che mi occorre questa: liberarmi di qualsiasi risentimento amaro contro il mondo.

    Io sono completamente senza denaro, assolutamente senza focolare. Eppure c' qualcosa di peggio, sulla ter-ra. Sono del tutto sincero quando affermo che, piuttosto che lasciare questo carcere conservando nel mio cuore dell'amarezza contro il mondo, preferirei di mendicare con gioia il mio tozzo di pane di porta in porta. Se non ottengo nulla dal ricco, ricever pur qualche cosa dal povero. Coloro che molto posseggono sono di solito avari; ma quelli che hanno ben poco lo dividono volen-tieri. Non mi farebbe nessun caso il dormire sulla fresca erba in estate e, al sopraggiungere dell'inverno, riparar-mi al caldo in un mucchio di fieno o sotto la tettoia di una capanna, purch avessi sempre dell'amore dentro il mio cuore. Le cose esterne della vita mi pare ora che non abbiano pi alcun valore. Voi vedete, dunque, a

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  • quale intensit di individualismo io sono arrivato, o, piuttosto, io vado accostandomi, poich il viaggio an-cor lungo e sulla strada per la quale io cammino ci sono delle spine.

    Certo, so bene che andare elemosinando per la via non sar il fatto mio e che, se io mi stendessi la sera sul-l'erba fresca vi comporrei dei sonetti alla luna. Quando uscir di prigione, R... mi aspetter al di l dell'enorme portone ferrato ed egli il simbolo non solo del suo pro-prio affetto, ma anche di quello di molti altri. Credo, ad ogni modo, che avr da vivere per circa diciotto mesi e, se non potr pel momento scrivere de' bei libri, almeno potr leggerne; e quale felicit sar pi grande? In se-guito spero d'essere capace di riacquistare le mie facolt creatrici.

    Ma se accadesse altrimenti, se non mi restasse pi un amico al mondo, se nessuna casa mi fosse pi aperta, neanche per piet, se dovessi prendere la bisaccia e il ta-barro logoro della miseria assoluta fino a quando io fos-si libero da ogni risentimento, da ogni rancore, da ogni indignazione, potrei sempre affrontare la vita con molta pi calma e fiducia che se il mio corpo fosse coperto di porpora e di lino prezioso e la mia anima scoppiasse di odio.

    N avr, veramente, nessuna difficolt. Quando si de-sidera con fede l'amore, lo si trova l, che ci attende.

    Inutile dire che il mio compito non termina qui. Se cos fosse; sarebbe troppo facile. C' ben altro davanti a me. Devo scalare delle montagne assai pi irte; ho da at-

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  • traversare delle valli infinitamente pi cupe. E mi biso-gna trarmi d'impaccio colle mie sole mani. N la religio-ne, n la morale, n la ragione mi possono dare alcun giovamento.

    No, la morale non mi aiuta. Io sono un antinomista nato. Sono di quelli che son fatti per le eccezioni e non per le regole. Ma mentre io vedo che non c' niente di male in ci che si compie, mi accorgo per che c' qual-cosa di cattivo in ci che si diventa. bene anche aver imparato questo.

    La religione non mi aiuta. La fede che altri nutrono per ci che invisibile io la dedico a quel che si pu toccare e osservare. I miei di abitano nei templi co-struiti dalla mano dell'uomo ed solo nell'ambito dell'e-sperienza reale che la mia fede si definisce e si comple-ta; essa troppo integra, forse, perch, come molti di coloro o tutti coloro che hanno collocato il loro cielo so-pra la terra, io vi ho scoperto non pure la bellezza del paradiso, ma anche dell'inferno. Quando penso alla reli-gione, sento che mi piacerebbe fondare un ordine mona-stico per coloro che non possono credere: si dovrebbe chiamare la Congrega degli Infelici e nei suoi riti, da-vanti a un altare, privo di qualsiasi fiamma di ceri, un prete senza pace nel cuore, celebrerebbe l'officio con del pane profano o un calice vuoto. Ogni cosa, per essere vera, deve diventare una religione, e l'agnosticismo, come una qualunque altra religione, dovrebbe avere le sue cerimonie. Non ha esso seminato dei martiri? Ebbe-ne, dovrebbe mietere i suoi santi e lodare ogni giorno il

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  • Signore d'essersi nascosto agli occhi degli uomini. Ma, sia la fede o l'agnosticismo, n l'una n l'altro mi devono rimanere due fatti esterni. Bisogna che i loro simboli siano una mia creazione stessa.

    Spirituale soltanto ci che foggia la sua propria for-ma. Se non posso riuscire a trovarne il segreto nel mio intimo io, non lo scoprir giammai: se non lo reco con me, non mi si riveler mai pi.

    La ragione non mi aiuta. Essa mi dice che le leggi se-condo le quali mi hanno condannato sono ingiuste e cru-deli e che il sistema sociale per cui ho sofferto ingiusto e malvagio. Ma, tuttavia, occorre ch'io le creda giuste e rette. E, precisamente come nel campo dell'arte non ci si occupa se non del valore che un fatto particolare ha di per se stesso in un particolare momento, cos succede nell'evoluzione etica del carattere.

    Occorre ch'io ritenga come un bene per me tutto ci che mi accaduto. Il letto di tavole, il cibo nauseabon-do, le due funi che si devono sfilacciare in istoppa sino a che le dita indolenzite divengono insensibili, le vili corves con le quali cominciano e finiscono le giorna-te, gli aspri comandi che sembrano una necessit dell'or-dine, l'orribile casacca che rende persino grottesco il do-lore, il silenzio, la solitudine, la vergogna tutto questo bisogna ch'io lo trasformi in esperienza spirituale. Non c' neppure una degradazione del corpo che non contri-buisca a spiritualizzare l'anima.

    Voglio arrivare ad un punto tale che mi sia possibile dire semplicemente e senza ostentazione di sorta che le

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  • due grandi date della mia vita corrispondono ai giorni in cui mio padre mi mand ad Oxford e in cui entrai in ga-lera. Io non dir che la prigione sia la miglior cosa che mi sia capitata, perch questa frase avrebbe un sapore di eccessiva amarezza verso di me. Preferirei dire o sentir dire di me stesso ch'io sono stato una natura cos tipica del mio tempo che, nella mia perversit e per l'amore di questa perversit, ho mutato le buone cose della mia vita in male e le cattive in bene.

    Tuttavia, ci che gli altri dicono o che io dico interes-sa poco. La cosa importante che mi si offre e che devo fare se il breve periodo dei miei giorni a venire non sar sciupato, n perduto, n troncato consiste nell'as-sorbire in me tutto ci che mi stato fatto e d'incorpo-rarmelo e di accettarlo senza rimpianto, senza paura, senza ripugnanza. Il male supremo la superficialit. Tutto ci di cui ci si rende conto bene.

    Nei primi tempi della mia prigionia, alcuni mi consi-gliarono di dimenticare chi io ero. Disastroso consiglio! Invece, soltanto rendendomi ragione di quel che sono ho potuto trovare un po' di conforto. Adesso, altri mi esor-tano a dimenticare, quando sar libero, d'essere mai sta-to in carcere. So bene che sar fatale ugualmente. Ci significa che io sarei senza tregua torturato da un senti-mento intollerabile di sventura e che tutte le cose create per me come per gli altri: la bellezza del sole e della luna, il corteo delle stagioni, la musica dell'aurora e il si-lenzio della notte fonda, la pioggia che scroscia tra le foglie o la rugiada che inargenta i prati, tutte queste me-

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  • raviglie diventerebbero opache per me, perderebbero il loro potere di guarire e di comunicare la gioia. Ramma-ricarsi delle esperienze fatte, vuol dire arrestare il pro-prio sviluppo; negarle equivale a mettere una menzogna sulle labbra della nostra vita. Sarebbe come rinnegare l'anima.

    Perch, come il corpo assorbe sostanze di ogni sorta, cose volgari ed impure, ed anche quelle che un sacerdo-te o una visione hanno purificato, e le converte in forza e in agilit, in gioco armonico di muscoli, in carni deli-cate, in capelli ricciuti e multicolori, in labbra, in occhi ridenti, cos l'anima a sua volta ha le proprie funzioni nutritive e pu trasformare in nobilt di pensieri e in passioni di gran valore ci che per s stesso vile, cru-dele e degradante; e a maggior ragione essa pu trovarvi i suoi pi efficaci mezzi di affermazione e rivelarsi pi perfettamente mediante ci che era destinato alla profa-nazione e alla distruzione.

    Mi occorre sottomettermi francamente al fatto d'esse-re stato il carcerato ordinario di una ordinaria prigione e, quantunque ci sembri curioso, bisogner ch'io impari a non provarne vergogna. necessario accettare la cosa come un castigo, e, se uno vergognoso della pena sof-ferta, tanto valeva non averla mai nemmeno patita.

    Certamente, ci sono molte colpe di cui mi hanno ac-cusato e che io non ho mai commesso; ma ce n' gran numero che mi hanno rimproverato e che in realt ho compiuto e un numero pi grande ancora di quelle che ho commesso e delle quali non sono mai stato accusato.

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  • E poich gli dei sono strani e ci puniscono tanto per ci che umano e buono in noi quanto per ci che cattivo e perverso, io devo sottomettermi alla legge che fa paga-re il fio s per il bene che per il male compiuto.

    Non ho nessun dubbio sulla perfetta giustizia di ci. Questo giova o dovrebbe giovare a comprendere due cose e a non provare nessuna vanit n per l'una n per l'altra. Se, dunque, io non ho alcuna vergogna del mio castigo (come spero), sar capace di pensare, di cammi-nare e di vivere libero.

    Non pochi uomini, dopo la loro liberazione, portano con s la prigione nell'aria che li circonda, e, alla fine, come delle povere creature avvelenate, si cacciano in qualche buco per morirvi. ben triste ch'essi siano ri-dotti a questo e la societ che ve li costringe ingiusta, tremendamente ingiusta. La societ s'arroga il diritto d'infliggere all'individuo dei castighi spaventevoli, ma essa ha anche il difetto supremo d'essere superficiale e di non giungere a comprendere ci che fa.

    Quando il castigo subto, la societ abbandona l'uo-mo a se stesso, vale a dire proprio nel momento nel qua-le dovrebbe cominciare il suo pi alto dovere verso di lui. Essa ha paura delle azioni e rifugge da coloro che ha punito come si evita un creditore del quale non ci si pu liberare, o l'uomo a cui si imposta una irreparabile sor-te. Da parte mia io esigo che, se mi rendo ragione di quanto ho sofferto, la societ deve capire ci che mi ha inflitto, e, per conseguenza, non c' amarezza n odio da una parte n dall'altra.

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  • Oh, lo riconosco che, da un certo angolo visuale, le cose saranno per me molto diverse da quel che sono per gli altri; ed necessario, per la natura stessa del mio caso, ch'esse siano cos. I poveri ladri e gli ammoniti, incarcerati qui con me, sono, sotto molti rispetti, assai pi felici ch'io non sia. Il cantuccio di citt oscura o di campo verdeggiante che assistette alla loro colpa pic-colo. Per trovare gente che ignori il loro delitto essi non hanno da superare una distanza maggiore di quella che un uccello percorre dal crepuscolo all'alba. Ma, per me, il mondo ridotto ad un palmo e, da qualsiasi lato io mi volga, il mio nome vergato con lettere di piombo sulla roccia. Poich io non sono entrato dall'oscurit nella sfe-ra di luce effimera del delitto, ma bens da una specie di eternit di gloria in una specie di eternit d'infamia, e mi sembra talvolta d'aver dimostrato se pure occorre que-sta prova che tra l'uomo famoso e l'infame non c' che un passo e forse anche meno d'un passo.

    Pertanto, nel fatto che gli uomini mi riconosceranno dovunque io vada e che conosceranno la mia vita, alme-no nelle sue ore di follia, io vedo un bene per me; ci mi costringer ad affermarmi nuovamente come artista e al pi presto possibile. Se riuscir a creare una sola e bella opera d'arte, mi sar possibile di trovare un antidoto al veleno della malizia, di smontare i sarcasmi dei vili e di sradicare la lingua del disprezzo.

    Se la vita, com'essa sicuramente, deve anche per me essere un problema, io non sono un quesito di minor va-lore per la vita stessa. Gli uomini dovranno assumere

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  • qualche attitudine a mio riguardo, attraverso un giudizio su di s medesimi e su di me. Non faccio nessuna allu-sione personale. I soli con i quali mi piacerebbe di tro-varmi in compagnia, ora, sono gli artisti e coloro che hanno sofferto: coloro che sanno cos' la bellezza e che sanno cos' il dolore; tranne costoro, nessun altro m'in-teressa. E non domando pi niente alla vita. In tutto ci che ho affermato fin qui, io non mi preoccupo che della mia attitudine mentale verso la vita considerata nel suo insieme. Presento che uno dei primi punti che devo toc-care per la mia propria perfezione e perch io sono cos imperfetto, si di non vergognarmi d'essere stato puni-to.

    In seguito bisogner imparare ad essere felice. Un tempo conoscevo la felicit per istinto o almeno, crede-vo di conoscerla. C'era sempre la primavera, nel mio cuore, una volta! Mi occorreva la gioia ed ero nato per essa. Sino all'estremo limite io riempivo la mia vita di piacere, come si colma sino all'orlo una coppa di vino. Adesso da un punto di partenza del tutto nuovo che mi accosto alla vita, ed anche il concepire la felicit mi rie-sce, spesso, difficile. Mi ricordo, durante il mio primo semestre a Oxford, di aver letto nel Rinascimento di Walter Pater un libro che ebbe sulla mia vita una cos strana influenza! che Dante pone nel profondo Inferno coloro che vivono spontaneamente nella tristezza. Andai subito in biblioteca e cercai quel passo della Divina Commedia, l dove detto che al disotto della sinistra

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  • palude giacciono quelli che furono tristi nella dolcezza dell'aria ripetendo

    Tristi fummoNell'aer dolce che dal sol s'allegra.

    Sapevo che la chiesa condannava l'accidia, ma questa idea mi parve assolutamente fantastica, come un genere di peccato inventato da un sacerdote ignorante della vita reale. Non potevo neppure capire come Dante, il quale dice che il dolore ci unisce a Dio, fosse cos aspro verso gli innamorati della melanconia, dato che davvero ne esistessero. Non sospettavo allora che questa diver-rebbe un giorno una delle pi grande tentazioni della mia vita.

    Durante la mia permanenza nel carcere di Wandsworth, io ero malato d'un languore di morte. Era il mio unico desiderio morire.

    Poi, quando fui trasferito qui, dopo due mesi d'infer-meria, e m'accorsi che la mia salute andava migliorando a poco a poco, fui preso dall'ira. Decisi di suicidarmi il giorno stesso in cui sarei uscito di prigione. Dopo qual-che tempo, questo furioso accesso si calm e stabilii, in-vece, di vivere, ma di fasciarmi tutto di tristezza come un re si panneggia nella sua porpora, di mutare in un luogo di pianto ogni casa della quale avessi varcato la soglia, di imporre a' miei amici la sottile tortura della mia ipocondria, d'insegnar loro che la tristezza il vero segreto della vita, di tormentarli con un dolore che fosse

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  • loro estraneo, di soffocarli con la mia pena. Ora ho i sentimenti molto diversi. Capisco che sarebbe una in-gratitudine ed una crudelt da parte mia atteggiarmi in modo che, quando i miei amici m'incontrassero, fossero costretti a mostrarsi ancora pi melanconici di me per testimoniarmi la loro simpatia; oppure per riceverli e offrir loro un degno trattamento invitarli a sedersi si-lenziosamente davanti a delle erbe amare o a dei cibi fu-nerari. No; bisogna ch'io impari ad essere gaio e felice.

    Le due ultime volte che io ebbi il permesso di vedere qui i miei amici, provai d'essere allegro per quanto pos-sibile e di mostrare la mia gaiezza per compensarli, un poco, del disturbo che essi s'erano presi, venendo sin qua dalla capitale. Non fu che un compenso molto, mol-to lieve, lo so, ma son certo che a loro piacque. Son pas-sati otto giorni sabato da che ho visto R... per un'ora e mi sforzavo di mostrare nel modo pi espressivo possi-bile la gioia che provavo in quell'incontro.

    Il fatto che ora, per la prima volta in tutta la mia pri-gionia, io sento un reale desiderio di vivere, mi prova che ho ragione nelle idee e nelle opinioni che formulo qui per me stesso.

    Tanto lavoro ho davanti a me che mi parrebbe una terribile tragedia il morire prima di averne potuto com-piere almeno una parte! Scorgo nell'arte e nella vita de-gli sviluppi imprevisti di cui ciascuno un nuovo mezzo di perfezione.

    Bramo di vivere per esplorare questo mondo nuovo per me. Volete dunque sapere in che consiste questo

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  • nuovo mondo? Credo che lo possiate anche indovinare. il mondo nel quale ho vissuto. Il dolore, infine, e tutto ci che il dolore insegna: ecco il mio nuovo mondo.

    Vivevo, un tempo, esclusivamente per il piacere. Al-lontanavo da me i patimenti e il dolore in ogni loro aspetto; li odiavo; avevo risoluto d'ignorarli sino a quan-do mi fosse stato possibile vale a dire di considerarli come delle forme d'imperfezione. Sofferenza e dolore non sarebbero entrati nell'orbita della mia vita. Non ave-vano nemmeno un posto nella mia filosofia. Mia madre, che conosceva la vita intera, mi citava spesso i versi di Goethe scritti da Carlyle sur una pagina d'un libro ch'e-gli le aveva donato una volta e tradotti cos da lui stesso:

    Colui che non ha mai mangiato ilsuo pane nel dolore,

    Che non ha mai passate le ore dellanotte ad attendere piangendo il mattinoche tarda,

    Colui non vi conosce, o potenze delCielo!

    Erano i versi che quella nobile regina di Prussia trattata da Napoleone con tanta grossolana brutalit re-citava nella sua umiliazione e nel suo esilio; erano i ver-si che mia madre mi ripeteva spesso nel tormento della sua vita, prossima a spegnersi. Io rifiutai, allora, assolu-tamente, di riconoscere o d'ammettere l'enorme verit che essi contenevano. Mi rammento molto bene ch'io le

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  • ripetevo di non aver nessun desiderio di mangiare il mio pane nel dolore e di trascorrere le notti aspettando in pianto un'alba d'amarezza.

    Non avevo nessuna idea che proprio l eravi nascosta una delle singolari sorprese tenute in serbo dal destino per me e che, veramente, non altro io farei se non man-giare il mio pane nel dolore per un anno intero. Ma cos che anch'io ho avuto la mia parte; e che, durante questi ultimi mesi, ho potuto comprendere, merc osta-coli e lotte senza pari, qualcuno degli insegnamenti che si celano nell'intimo del dolore. Preti e gente che adope-rano frasi senza misura parlano, alle volte, della soffe-renza come d'un mistero. Invece essa una rivelazione. Fa distinguere delle cose che non si erano mai vedute prima e permette di considerare l'insieme della storia da un punto di vista tutt'affatto diverso. Quel che intorno all'arte, ad esempio, si era sentito in modo vago e per istinto, ora lo si afferra intellettualmente ed emozional-mente con una chiarezza perfetta di visione e con una intensit assoluta, comprensiva.

    Oramai io sono persuaso che, poich il dolore la su-prema emozione di cui suscettibile l'uomo, esso ad un tempo il tipo e il modello di ogni grande arte. Ci che l'arte ricerca continuamente quella certa maniera d'essere nella quale anima e corpo divengono uni e indi-visibili; nella quale l'esteriore l'espressione dell'intimi-t, in cui la forma stessa una rivelazione. Tali maniere d'essere non sono numerose; in un dato momento ci pos-sono servire di modello la giovinezza e l'arte che si pre-

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  • occupa della giovinezza; in un altro noi possiamo crede-re invece che, per la sua finezza e sensibilit d'espressio-ne, per l'idea che suggerisce d'uno spirito diffuso negli oggetti esterni e che si riveste a volta a volta d'aria e di terra, di nebbia e di volumi e per la morbidezza de' suoi atteggiamenti, de' suoi toni, de' suoi colori l'arte del paesaggio moderno realizza per noi pittoricamente ci che i Greci ottennero con tanta perfezione plastica. La musica, nella quale ogni soggetto assorbito dall'espres-sione e non pu separarsene, un esempio complesso di quel che io voglio dire, cos come un fiore o un fanciul-lo sono degli esempi semplici; ma il dolore il tipo pi alto nella vita e nell'arte.

    Dietro la gioia e il sorriso ci pu essere un tempera-mento ruvido, aspro e scaltro. Ma dietro il dolore non c' che il dolore. L'angoscia, contrariamente al piacere, non si maschera mai. La verit, in arte, non consiste in una corrispondenza tra l'idea madre e l'esistenza acci-dentale; essa non la identit della forma con l'ombra o della forma riflessa dal cristallo con la forma stessa; non l'eco rinviata dall'anfratto d'una collina cos come non , nella valle, una sorgente d'acqua argentata che mostra la luna alla luna e Narciso a Narciso. La verit in arte l'unit d'una cosa con s stessa, l'esteriore come diretta emanazione dell'interiore; l'anima connaturata con la carne e il corpo con lo spirito. Per questa ragione non esiste nessuna verit che sia comparabile al dolore. Ci sono alcuni momenti in cui il dolore sembra divenire la Verit Unica. Le altre cose possono essere delle illu-

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  • sioni dell'occhio o del desiderio, create per accecare l'u-no e soddisfare l'altro, ma solo col dolore che si sono creati i mondi e alla nascita di un fanciullo o di una stel-la presiede il dolore.

    Ma di pi: v' nel dolore una realt intensa, straor-dinaria. Ho detto di me stesso ch'ero in comunione sim-bolica coll'arte e colla cultura della mia et. Ebbene: non c' un solo infelice, chiuso con me in questa galera mi-serabile, che non si trovi in comunione simbolica col se-greto stesso della vita. Perch il segreto della vita di soffrire. questo che si nasconde in tutte le cose. Quan-do cominciamo a vivere, quel che dolce a noi sembra tanto dolce e quel che amaro ci sembra tanto amaro che noi rivolgiamo inevitabilmente tutti i nostri sforzi verso il piacere e non cerchiamo soltanto di nutrirci di miele per un mese o due, ma non vogliamo altro ali-mento, in tutta la nostra vita, ignorando cos che corria-mo rischio d'affamare la nostra anima.

    Mi sovviene d'essere entrato una volta in questo argo-mento con una delle pi belle figure che abbia mai co-nosciuto, una donna di cui indicibile la simpatia, la no-bile bont verso di me, prima e dopo la tragedia della mia prigionia; essa mi ha realmente aiutato, quantunque ella lo ignori, a portare il fardello delle mie pene pi di qualsiasi altra creatura al mondo; e tutto ci con il solo fatto della sua esistenza, perch essa quello che : un ideale e una forza influente ad un tempo, una suggestio-ne di ci che si potrebbe divenire quanto un aiuto effet-tivo per divenirlo, un'anima che comunica la sua dolcez-

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  • za all'aria che si respira e fa sembrare il mondo dello spirito semplice e naturale come la limpidit del sole e del mare; per lei la bellezza e il dolore camminano dan-dosi la mano e recano la stessa novella. Nell'occasione di cui parlavo mi ricordo d'averle detto che c'era in una sola strada-budello di Londra abbastanza sofferenza per mostrare che Dio non ama l'uomo e che, in qualunque luogo il dolore si rivelasse, (fosse pure quello d'un fan-ciullo piangente in un piccolo giardino per una colpa non commessa) la faccia intera della creazione ne era completamente sfigurata.

    Ebbene, avevo del tutto torto. Ella me lo disse, ma io non le credetti. Non ero nell'ordine d'idee nel quale si arriva a una simile scoperta. Adesso constato che l'amo-re la sola spiegazione possibile della somma straordi-naria di dolore che esiste nel mondo. Non posso conce-pire nessun'altra spiegazione. Sono convinto che non ce n' una diversa, e se veramente il mondo stato costrui-to col dolore, le mani che lo hanno edificato son quelle dell'amore, perch l'anima dell'uomo, per cui il mondo fu creato, non poteva altrimenti raggiungere il limite della sua perfezione. Il piacere per un bel corpo, ma il dolore per una bella anima.

    Ma quando dico che sono convinto di queste cose, io parlo con troppo orgoglio. Di lontano, simile a una perla perfetta, si scorge la citt di Dio. La vista ne cos me-ravigliosa che sembra che un fanciullo possa raggiun-gerla in un giorno d'estate. Ma per me e per coloro che sono simili a me, differente. Si pu, s, assimilarsi una

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  • cosa in un solo istante; ma poi la si perde nelle lunghe ore che seguono interminabili, con piedi di piombo. troppo difficile rimanere sulle cime su cui l'anima sa d'innalzarsi. Noi pensiamo sotto la specie dell'eterno, ma pure noi procediamo lentamente col tempo e il tem-po come lentamente cammina, per noi che siamo in pri-gione! Non occorre ch'io ne parli ancora e nemmeno della stanchezza e dello scoraggiamento che s'insinuano dentro le celle o nella cella del nostro cuore con una cos strana insistenza che bisogna (per cos dire) lustrare e adornare la casa, affinch essi entrino come ospiti vol-gari o padroni crudeli dei quali si , per caso o per ele-zione, lo schiavo.

    Bench ora i miei amici non lo credano, pur vero che per essi (che vivono liberi, nell'ozio e nelle comodi-t) pi facile imparare lezioni d'umilt che per me, per me che comincio la mia giornata mettendomi in ginoc-chio a lavare il pavimento della mia cella. Perch la vita della prigione, colle sue privazioni e i suoi sacrifici in-numerevoli, spinge alla rivolta. E il pi terribile non gi che essa spezzi il cuore i cuori non sono fatti per essere infranti? ma che lo trasformi in una pietra. Tali volte, si sente che solo con una fronte di bronzo e delle labbra sprezzanti si pu arrivare alla fine della giornata. Ma colui che si trova in istato di ribellione non pu rice-vere il dono della grazia, (per usare la frase che la Chie-sa ama, con tanta ragione, oserei dire), perch, nella vita come nell'arte, lo stato di rivolta preclude le vie dell'ani-ma e non lascia passare i soffi del cielo. Tuttavia, se pur

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  • devo impararle in qualche luogo, qui che mi eserciter nelle lezioni d'umilt e devo essere pieno di gioia, se i miei piedi sono sulla buona via e il mio volto guarda verso la porta che chiamata bella, sebbene io debba cadere ancora tante volte nel fango e spesso disorientar-mi in mezzo alla bruma.

    Questa Vita Nuova, come la chiamo sovente pel mio amore di Dante, non a rigore una vita nuova, ma sem-plicemente, la continuazione, per via di sviluppi e di evoluzioni, della mia prima vita. Quando ero ad Oxford, l'ultimo anno, una mattina in cui passeggiavamo per gli stretti viali gorgheggianti del Magdalen College, mi ri-cordo d'aver detto a un amico che io volevo gustare tutti i frutti del giardino del mondo e che stavo per metter piede nella vita con questo desiderio chiuso nel profon-da della mia anima. cos, infatti, che vi entrai e cos che io vissi.

    Il mio solo errore fu di limitarmi esclusivamente agli alberi di quel che mi parve il lato luminoso del giardino e di fuggire l'altra parte, impaurito com'ero delle zone d'ombra e della sua oscurit. La non riuscita nel mondo, la sventura, la povert, il dolore, la disperazione, la sof-ferenza, le lagrime stesse e le parole monche che sfug-gono alle labbra in pena, il rimorso che costringe a cam-minare sui rovi, la coscienza che condanna, il volontario umiliarsi che avvilisce, la miseria che ricopre i suoi ca-pelli di cenere, l'angoscia che si lacera con un cilicio e mescola il fiele nel calice della sua bevanda di tutte queste cose insieme io ero spaventato. E siccome ero ri-

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  • soluto a non esperimentarne mai nessuna, fui poi co-stretto a gustarle ad una ad una, a nutrirmene e ad abbe-verarmene, a non avere altro nutrimento durante una in-tera stagione.

    Neppure per un istante io ho rimorso d'aver vissuto per il piacere. Pienamente mi abbandonai ad esso, come necessario fare tutto quel che si fa. Non c' volutt che io non conoscessi. In una coppa di vino gettai la perla della mia anima. Discesi al suono dei flauti pel sentiero fiorito delle primavere. Mi cibai di miele. Ma non sareb-be stato buon consiglio continuare la medesima vita, perch ci sarebbe equivalso ad una limitazione. Occor-reva procedere oltre. Anche l'altra met del giardino aveva dei segreti per me. Certo, tutto ci detto e pre-veduto nei miei libri. Una parte nel Principe Felice; un'altra, nel Giovine Re, specialmente nel passo nel qua-le il vescovo dice al fanciullo inginocchiato: Colui che ha creato il dolore non pi saggio di te? una frase che, quando la scrissi, mi parve veramente pi di una semplice frase. Una gran parte di verit dissimulata sotto l'accento fatale che, simile a un filo di porpora, serpeggia attraverso la trama di Dorian Gray. Nel Criti-co considerato come artista il presagio si rivela in molte maniere, nell'Anima dell'Uomo manifesto in chiare let-tere, anche troppo facili a leggersi; e non , esso mnito, uno dei ritornelli che ripetuti motivi rendono Salome si-mile a uno squarcio musicale e le dnno l'unit organica d'una ballata? Inoltre incarnato nel poema in prosa dell'uomo che, col bronzo della statua del Piacere effi-

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  • mero deve foggiare l'immagine del Dolore Eterno. Non poteva essere diversamente. In ciascun momento della vita si quel che si sta per essere, oltre a ci che si gi stati. L'arte simbolica, perch tutto un simbolo l'uomo.

    Se potr conquistarla completamente, questa Vita Nuova, essa sar la definitiva realizzazione della vita ar-tistica; in quanto la vita artistica semplicemente lo svi-luppo di s stesso. L'umilt per l'artista consiste nell'ac-cettare con cuore franco tutte le esperienze, come l'amo-re per l'artista il puro senso della bellezza che rivela al mondo il suo corpo e la sua anima.

    In Mario l'Epicureo, Walter Pater cerca nel senso pro-fondo, solenne e dolce della parola, di riconciliare la vita artistica con quella della religione. Ma Mario, qua-si, non che uno spettatore uno spettatore ideale cui concesso di contemplare lo spettacolo della vita con delle emozioni adeguate, ci che Wordsworth definisce lo scopo vero del poeta; tuttavia uno spettatore un po' troppo preoccupato della delicata grazia del santuario del dolore che ha pur sotto gli occhi.

    Io vedo un vincolo molto pi intimo ed immediato tra la vera vita di Cristo e la vera vita dell'artista e provo un grande piacere pensando che, assai tempo prima d'essere dominato e legato al carro del dolore, io avevo scritto, nell'Anima dell'Uomo, che colui il quale volesse condur-re una vita simile a quella di Cristo dovrebbe essere in-teramente e assolutamente s stesso e avevo preso come esempi non solo il pastore sulla montagna e il prigionie-

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  • ro nella sua cella, ma s anche il pittore per cui il mondo una festa di colori e il poeta pel quale l'universo intero un canto. Mi rammento, una volta che si discuteva in un caff di Parigi, d'aver detto ad Andrea Gide: la meta-fisica ha poco interesse reale per me e la morale nessu-no; ma tutto ci che uscito dalla bocca di Platone o di Cristo pu essere trasportato immediatamente nella sfe-ra dell'arte e trovarvi la propria espressione integrale.

    Non solo noi possiamo notare in Cristo quel vincolo intimo della personalit con la perfezione in cui consiste la vera differenza tra il movimento classico e il romanti-co nella vita; ma un fatto che la sua stessa natura era identica a quella dell'artista una immaginazione inten-sa come una fiamma. Egli ebbe nel campo dei rapporti umani quella tale simpatia immaginativa che, nel domi-nio dell'arte, forma il segreto unico della creazione. Comprese la lebbra del lebbroso, la tenebra del cieco, la crudele miseria di coloro che vivono non cercando altro che il piacere, la strana povert del ricco. Qualcuno mi ha scritto, durante il periodo pi acuto delle mie ango-scie Caduto dal vostro piedestallo, non siete pi inte-ressante. Oh, quanto egli era lontano, dicendo questo, dal segreto di Ges! per adoperare una espressione di Matteo Arnold. L'uno e l'altro gli avrebbero potuto insegnare che ci che succede ad un uomo succede ugualmente a voi. Se volete una massima da leggere dall'alba alla notte, nelle ore di gioia e nelle ore di tri-stezza, incidete sulle pareti della vostra casa queste let-tere (che saranno dorate dal sole, inargentate dalla luna):

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  • Tutto quel che capita a me stesso, capiter anche ad al-tri.

    Senza dubbio, Cristo va collocato assieme con i poeti. La sua concezione dell'Umanit era una risultante diret-ta della sola immaginazione che pu comprenderla. Egli consider l'uomo come il panteista aveva conside-rato Dio. Fu il primo a concepire l'unit delle razze divi-se. Avanti ch'Egli apparisse, c'erano stati degli di e de-gli uomini, e Cristo sentendo per mezzo della sua misti-ca simpatia che ciascuno di essi era incarnato in s, si denomina, a seconda, o il figlio di Dio o il figlio del-l'Uomo. Pi di qualsiasi altro nella storia Egli desta in noi quella facolt del meraviglioso cui si rivolge sempre l'elemento romanzesco. C' ancora in me qualcosa d'in-credibile nell'idea di questo giovine artigiano galilo che s'immagina di poter portare sulle sue spalle il peso del mondo intero: tutto quel ch'era gi stato compiuto e sof-ferto, i delitti di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessan-dro VI e di colui che fu Imperatore di Roma e sacerdote del sole, le torture di coloro i cui nomi sono legioni e che riposano nei cimiteri, le nazioni oppresse, i fanciulli martiri delle officine, i ladri, i carcerati, i proscritti, co-loro che sono diventati muti nel servaggio e de' quali so-lamente Dio comprende il silenzio; e tutto questo non era una semplice immaginazione, ma un fatto vero, compiuto, in modo che ora tutti quelli che cercano di penetrare nella sua personalit quantunque non si cur-vino davanti a' suoi altari, n s'inginocchino innanzi a' suoi preti s'avvedono, in qualche modo, che la mac-

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  • chia del loro peccato lavata ed hanno la rivelazione della bellezza del loro soffrire.

    Dicevo che Cristo va messo assieme con i poeti. vero. Shelley e Sofocle l'accompagnano. Ma tutta la sua vita intera il pi meraviglioso dei poemi. Quanto a piet e terrore, non c' niente di simile nel ciclo com-plessivo della tragedia ellnica. La purit del protagoni-sta innalza tutto il piano della sua vita ad un'altezza d'ar-te romantica donde a causa dell'orrore sono elimina-te le tribolazioni di Tebe e della schiatta dei Pelpidi; ed essa mostra ancora quanto avesse torto Aristotile ad af-fermare, nel suo trattato sul dramma, che riuscirebbe impossibile sopportare lo spettacolo d'un personaggio ir-reprensibile nel dolore. N in Eschilo n in Dante, que-sti gen austeri della pi accorata poesia, n in Shake-speare, il pi umano di tutti i grandi artisti, e nemmeno nell'insieme dei miti e delle leggende celtiche (ne' quali la bellezza del mondo s'intravvede sotto un velo di lacri-me e in cui la vita d'un uomo non da pi della vita di un fiore) si pu trovare qualcosa che, per la semplice emozione unita alla sublimit dell'effetto tragico, stia alla pari o soltanto s'approssimi all'ultimo atto della pas-sione di Cristo.

    La cena con i suoi discepoli, da uno dei quali gi stato venduto per una somma di danaro; l'angosciosa agonia nell'orto tranquillo illuminato dalla luna; il falso amico che gli si avvicina per tradirlo con un bacio; l'a-mico che credeva ancora in Lui e sul quale Egli, come su una roccia granitica, aveva sperato di poter costruire

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  • un rifugio per l'Uomo che lo rinnega, invece, nell'ora in cui il gallo saluta l'aurora; il suo isolamento assoluto, la sua sottomissione, la sua rassegnazione; inoltre: le scene nelle quali il gran sacerdote dell'ortodossia gli la-cera con furia le vesti, e il magistrato civile dell'impero chiede dell'acqua, sperando invano di lavarsi quella macchia di sangue che dovr contrassegnarlo come la rossa figura della storia; la cerimonia dolorosa della co-rona di spine una delle cose pi meravigliose nella cronaca dei tempi; la crocefissione dell'innocente sotto gli occhi di sua madre e del discepolo che l'amava, i sol-dati che si giocano a dadi gli abiti del martire; la morte terribile con la quale egli ha dato al mondo il suo pi eterno simbolo; e poi la sepoltura finale nella tomba del-l'uomo ricco; il suo corpo fasciato di bende egiziane e profumato di aromi costosi, come se fosse stato il figlio di un re... Quando si considera tutto ci unicamente dal punto di vista dell'arte, bisogna pure essere riconoscenti alla Chiesa del fatto che il supremo rito della Chiesa stessa consista nella rappresentazione della tragedia sen-za spargimento di sangue: mistica rappresentazione del-la Passione del Signore per mezzo di dialoghi, di costu-mi e di gesti. Ed per me una ragione di piacere e di ri-spetto commosso il pensare che il coro greco, altrimenti perduto per l'arte, sia sopravvissuto infine nel chierico che risponde al prete celebratore della messa.

    E per la vita di Cristo a tal punto dolore e bellezza si possono fondere nella loro manifestazione piena di si-gnificato realmente un idillio, quantunque essa ter-

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  • mini col velario del tempo che si lacera, colle tenebre che si addensano sulla faccia della terra e colla pietra trascinata fino all'ingresso della sepoltura. Si pensa sem-pre a Cristo come ad un fidanzato in mezzo a' suoi com-pagni e, d'altronde, proprio cos ch'egli si compiace di chiamarsi in alcuni luoghi; come ad un pastore che tra-scorra di valle in valle col suo gregge alla ricerca di ver-di prati e di ruscelli d'argento; come a un cantore che provi colla sua musica di costruire le mura della citt di Dio; o come a un amante le cui capacit d'amore sono troppo vaste per il nostro piccolo mondo. I suoi miracoli mi sembrano squisiti come il primo soffio della prima-vera ed altrettanto naturali. Non ho alcuna difficolt a credere che il fascino della sua persona doveva essere tale da poter dare la pace alle anime tormentate con la sua sola presenza e che coloro i quali gli toccavano la tunica e le mani dimenticavano le proprie sofferenze; e che, quando egli passava sulla grande via della vita, uo-mini che non avevano mai visto nulla nel mistero di vi-vere, ad un tratto si sentivano aprire gli occhi ed altri, ri-masti sempre sordi a tutte le voci, tranne che a quella della volutt, udivano per la prima volta la voce dell'a-more e la trovavano cos musicale come la lira d'Apol-lo; n ho difficolt a credere che le malvagie passioni s'involavano al suo avvicinarsi e gli uomini, le esistenze dei quali erano sempre state meschine, simili alla morte, balzavano fuori della tomba per cos dire appena egli li chiamava; oppure, quando egli predicava sulla montagna, la moltitudine obliava la fame, la sete e le

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  • cure del mondo; e quando egli conversava con gli amici e i discepoli durante la cena, il cibo grossolano sembra-va delicato e l'acqua assumeva il gusto del vino e tutta la casa s'empiva del profumo dolce del nardo.

    Nella Vita di Ges questo delizioso quinto evange-lo, l'evangelo secondo San Tommaso, si potrebbe chia-marlo Renan dice in qualche passo che il grande se-greto di Cristo fu quello di farsi amare dopo la morte quanto era stato amato in vita.

    Certamente, se il suo posto tra i poeti, egli il prin-cipe degli amanti. Egli vide che l'amore il principio primordiale del mondo, il segreto che cercavano i saggi ed soltanto per mezzo dell'amore che ci si pu acco-stare al lebbroso e al signore.

    Ma, oltre a tutto ci, Cristo il supremo individuali-sta. L'umilt, in quanto accettazione artistica di ogni esperienza, un semplice modo di manifestarsi. l'ani-ma dell'uomo che Cristo cerca di raggiungere senza tre-gua. Egli la chiama regno di Dio e la trova in ciascu-no di noi. La cmpara a delle piccole cose, a una sottile semenza, a un pugno di lievito, ad una perla. E non si afferra la realt della propria anima se non liberandosi di tutte le passioni estranee, di ogni coltura sovrapposta, di ogni possesso acquisito sia esso buono o cattivo.

    Io mi ostinai contro tutto, con tenacia e con ribellio-ne, sino a che non restasse in me pi che una sola cosa al mondo. Avevo perduto il mio nome, la mia posizione, la mia felicit, la mia libert, la mia ricchezza. Ero po-vero e prigioniero. Ma mi rimanevano ancora i miei fi-

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  • gli. Ad un tratto anch'essi mi furono tolti. Fu un colpo cos tremendo che non seppi pi cosa fare; mi gettai in ginocchio, curvai la testa e piansi, esclamando: Il cor-po del Signore come quello d'un fanciullo; io non sono pi degno n dell'uno n dell'altro. Ed ecco: in questo istante mi parve di salvarmi. Vidi allora che la sola cosa per me era di accettare tutto. Da quel momento in poi per quanto ci paia curioso io fui pi felice. Si che io avevo toccato la mia anima nella sua essenza suprema. In molte maniere me l'ero inimicata, ma essa mi attende-va ancora come un amico. Quando si entra in comunio-ne coll'anima, si diventa puri come fanciulli Cristo l'ha detto.

    veramente tragico che cos poche persone riescano a possedere la loro anima prima di morire. Nulla pi raro in un uomo dice Emerson di un'azione che sia proprio sua. assolutamente vero. La maggior par-te degli esseri sono degli altri esseri. I loro pensieri sono l'opinione di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni un'eco di riflesso. Cristo non fu soltanto il supremo individualista, ma anche il primo degli indi-vidualisti della storia. Si tentato di considerarlo come uno dei tanti filantropi e l'hanno pure accomunato agli altruisti, come un'ignorante e un sentimentale.

    Ma non fu, realmente, n una cosa, n l'altra. Certo, egli ha il senso della piet per i poveri, per coloro che sono relegati nelle prigioni, per gli umili, per i miserabi-li, ma egli ha molta pi compassione per i ricchi, per gli edonisti, per coloro che sacrificano la loro libert e di-

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  • vengono gli schiavi delle cose, per quelli che portano abiti preziosi e abitano in palazzi regali.

    Le ricchezze e le volutt a lui sembrano invero delle tragedie pi grandi che la penuria e il dolore. Quanto al-l'altruismo, poi, chi sapeva meglio di lui che non la volont, ma bens la vocazione quella che ci spinge a compiere il bene e che non si potrebbero cogliere dei grappoli su dei roveti, n dei fichi sui cardi?

    Vivere per gli altri, come scopo cosciente e definito, non era gi la sua fede. Non era la base della sua fede. Quando egli dice: perdonate ai vostri nemici, non af-ferma questo per amor del nemico, ma per amor di s stesso, perch l'amore pi bello dell'odio. Consiglian-do al giovane ricco: va e vendi tutto che possiedi e d-nalo ai poveri non ai poveri che Cristo pensa, ma al-l'anima del giovane, l'anima che era rovinata dalla ric-chezza. Nella visione della vita egli d'accordo con l'ar-tista il quale sa che, per l'inevitabile legge del perfetto sviluppo di s stesso il poeta deve cantare, lo scultore pensare nel bronzo e il pittore fare del mondo lo spec-chio delle proprie emozioni; appunto come il biancospi-no deve sbocciare in primavera, il grano tingersi d'oro nel giugno e la luna, ne' suoi puntuali viaggi, deve cam-biarsi di scudo in falce e di falce in iscudo.

    Ma, mentre Cristo non ha mai detto agli uomini: Vi-vete per gli altri egli ha mostrato, per, che non c' nessuna differenza tra la nostra e l'altrui vita. Con que-sto mezzo egli ha dato all'uomo una personalit estesis-sima e titanica. Dopo la sua apparizione, la storia di

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  • ogni individuo particolare si trasformata o pu trasfor-marsi nella storia stessa del mondo. Senza dubbio, an-che la cultura ha intensificato la personalit dell'uomo. L'arte ci ha dato degli spiriti innumerevoli come miriadi. Coloro che hanno temperamento artistico seguono Dan-te nell'esilio e imparano come sa di sale lo pane altrui e com' duro calle lo scender e il salir per l'altrui sca-le; essi acquistano per un momento la serenit e la cal-ma di Goethe e tuttavia non ignorano quel che Baudelai-re ha gridato a Dio:

    O Signore, dammi la forza e il coraggio di contem-plare il mio corpo e il mio cuore senza vergo-gna.

    Con loro proprio svantaggio, forse, traggono dai so-netti di Shakespeare il segreto del suo amore e se ne im-padroniscono; essi contemplano con occhi nuovi la vita moderna, perch hanno ascoltato dei notturni di Chopin o perch hanno maneggiato dei gioielli greci o hanno letto la storia della passione che un uomo ebbe un tempo lontano per una donna dalla capigliatura fine come l'oro e dalla bocca simile a una melagrana. Ma la simpatia del temperamento artistico si rivolge di necessit a ci che ha trovato la sua propria espressione. Con delle parole o con dei colori, con la musica o col marmo, dietro la ma-schera dei personaggi d'Eschilo o con le fistule traforate d'un pastore siciliano, dovettero rivelarsi l'uomo e la sua intimit.

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  • Per l'artista, l'espressione il solo aspetto secondo il quale egli possa concepire la vita. Per lui ci che muto morto. Ma per Cristo, invece, non era cos. Con una immaginazione meravigliosa e vasta, che talvolta riem-pie di spavento, egli assunse per regno il mondo intero dell'immobilit, il mondo senza voce del dolore e ne di-venne l'interprete. Scelse come suoi fratelli coloro che sono muti sotto il servaggio e il silenzio dei quali non inteso altro che da Dio. Egli volle divenire l'occhio dei ciechi, l'orecchio dei sordi e un grido sulle labbra di co-loro che avevano la lingua recisa. Il suo desiderio era d'essere una tromba per le miriadi d'uomini che non ave-vano mai potuto esprimersi, una tromba con la quale egli lancerebbe il loro anelito verso il cielo. Con la natu-ra artistica d'un essere pel quale sofferenza e dolore era-no mezzi, attraverso cui giungere alla realt della sua concezione del bello, egli sent che un'idea non ha valo-re se non quando s'incarna, se non quando se ne forma un'immagine, e fece di s stesso l'immagine dell'Uomo del Dolore; ed appunto con questa figura che egli ha affascinato e dominato l'arte come nessuna divinit gre-ca era riuscita a fare mai.

    Poich gli dei dell'Ellade, nonostante il bianco ed il roseo delle loro agili membra, non erano, in realt, ci che mostravano d'essere.

    La fronte ben tornita d'Apollo era simile al disco del sole che sorge all'aurora dietro una collina e i suoi piedi erano come i soffi della brezza del mattino, ma egli era stato crudele contro Marsia e aveva rapito a Niobe i suoi

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  • figlioli; nell'egida d'acciaio degli occhi di Minerva non c'era mai stata piet per Aracne; il fasto e i pavoni di Giunone erano tutto ci che esisteva di veramente nobi-le in lei e il Padre degli Dei esso stesso mostr troppa tenerezza per le figlie dei mortali. Le due figure pi pro-fondamente suggestive della mitologia greca furono, per la religione, Demetra, dea della Terra, che non era am-messa nell'Olimpo, e, per l'arte, Dinysos figlio di una donna effimera che mor nel darlo alla luce.

    Eppure la vita stessa, nella sua pi modesta e pi umile sfera, produsse una meraviglia pi ammirevole che la madre di Proserpina o il figlio di Semele. Dalla bottega del falegname di Nazareth sorse una personalit infinitamente pi grande di tutte quelle create dalla leg-genda e dal mito e destinata cosa strana! a rivelare al mondo il senso mistico del vino e delle reali bellezze del giglio nella valle, come nessuno aveva fatto ancora, n sul Citerone, n a Enna.

    Il canto d'Isaia: Egli il disprezzato e l'ultimo degli uomini, un uomo di colore che conosce l'angoscia e noi gli abbiamo nascosta la nostra faccia gli era parso una profezia e la profezia fu compiuta nella sua persona. Ogni opera d'arte che creata il compimento d'una profezia, perch ciascuna opera d'arte la conversione d'un'idea in una immagine. Cos pure ogni creatura uma-na deve essere il compimento d'una profezia, perch cia-scuna creatura umana dovrebbe essere la realizzazione di qualche ideale, sia nello spirito di Dio che nello spiri-to dell'uomo. Cristo trov il tipo e lo deline; talch il

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  • sogno di un poeta virgiliano, a Gerusalemme o a Babilo-nia, nel lungo cammino dei secoli, s'incarn in colui che il mondo attendeva.

    Per me, una delle cose pi dolorose della storia si che la vera rinscita di Cristo che produsse la cattedra-le di Chartres, il ciclo delle leggende d'Art, la vita di San Francesco d'Assisi, l'arte di Giotto e la Divina Com-media di Dante non abbia avuto la libert di sviluppar-si secondo le sue proprie linee interne, ma invece sia stata interrotta e violentata dalla fredda rinscita classica che ci ha dato gli affreschi di Raffaello, l'architettura di Palladio, la tragedia francese convenzionale, la cattedra-le di S. Paolo, la poesia di Pope e tutto ci, insomma, che creato dal di fuori, secondo regole morte, che non emana dall'intimo di un potente soffio inspiratore. Ma dovunque si verifica un movimento romantico in arte, l, in un modo o nell'altro, si trova Cristo o l'anima di Cristo. Egli in Romeo e Giulietta, nel Racconto d'in-verno, nella poesia provenzale, nella Ballata del Vec-chio marinaio, nella Belle dame sans merci e nella Bal-lata della carit, di Chatterton.

    Dobbiamo all'anima di Cristo le cose e i generi pi diversi. I miserabili di Hugo, I fiori del male di Baude-laire, la nota pietosa dei romanzi russi, Verlaine e i suoi poemi; le vetrate, le tappezzerie e i lavori quattrocente-schi di Burne-Jones e di William Morris le appartengo-no non meno che il campanile di Giotto, Lancillotto e Ginevra, Thannhuser e i marmi violenti di Michelan-giolo, l'architettura gotica, l'amore per i fanciulli e l'a-

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  • more per i fiori. A queste due ultime cose, veramente, l'arte classica non accorda che poco posto, appena quel tanto che basta per farli crescere e giuocare; eppure dal dodicesimo secolo ai nostri giorni essi non hanno mai cessato di comparire nell'arte in attitudini varie e in et diverse, a un tratto e capricciosamente sorgendo, appun-to come i fanciulli ed i fiori: la primavera d sempre l'i-dea che i fiori si siano nascosti e che ricompaiano al sole per la paura che gli uomini si stanchino di cercarli e vi rinuncino; e la vita d'un fanciullo non altro che un giorno d'aprile con delle pioggie e delle zone di sole per i narcisi.

    Ora questo carattere immaginativo della natura di Cristo che lo rende il centro palpitante dello spirito ro-mantico. Le strane figurazioni del poema drammatico e della ballata sono create dalla fantasia d'un altro, ma Ges di Nazareth si interamente creato per proprio conto. Il canto d'Isaa, in vero, aveva da fare con la ve-nuta di Cristo, tanto quanto il gorgheggio dell'usignuolo coll'alzarsi della luna nulla di pi e nulla di meno. Egli fu la negazione come pure l'affermazione della profezia. Per ogni speranza che realizzava, un'altra ne distrugge-va. In ogni bellezza dice Bacone c' qualche stra-nezza di proporzione; e di coloro che, come lui, sono delle forze dinmiche Cristo dice che sono come il vento che soffia dove gli pare e nessuno pu dire, n donde venga, n dove vada. Perci il suo ascendente cos grande sugli artisti. Egli ha tutti i colori della vita: il mistero, la stranezza, il patetico, la suggestione, l'estasi

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  • e l'amore. Si rivolge allo spirito del miracolo e crea quel tale stato d'animo, solo nel quale pu essere compreso.

    E per me una gioia, ora, il considerare che s'egli tutta immaginazione il mondo stesso di una identica sostanza. Ho detto, nel Dorian Gray, che i grandi delitti del mondo accadono nell'intimo del cervello. Ma non pure nel cervello che tutto accade? Adesso sappiamo che noi non vediamo con gli occhi, n udiamo con le orecchie. Essi non sono che dei canali per trasmettere con pi o meno di esattezza le impressioni dei sensi. dentro il cervello, che il papavero rosso, e la mela odora e l'allodola canta.

    Da qualche tempo io studio con cura i quattro poemi in prosa che riguardano la figura di Cristo. Per Natale sono riuscito a procurarmi un Testamento Greco ed ogni mattina, dopo aver spazzato la mia cella e forbito i miei utensili, leggo un passo dei Vangeli, una dozzina di ver-setti presi a caso, non importa dove. una deliziosa ma-niera di cominciar la giornata. Ciascuno, anche vivendo una vita turbinosa e disordinata, dovrebbe fare cos. Ri-petizioni interminabili, ad ogni proposito e fuori scopo, ci hanno sciupato la freschezza, l'ingenuit, la grazia semplice e romantica dei Vangeli. Li sentiamo leggere e citare troppo spesso e troppo male, ed ogni insistenza di questo genere anti-spirituale. Quando si torna al testo greco, pare di entrare in un'aiuola di gigli, uscendo da una casa angusta ed oscura.

    Il piacere raddoppiato per me dal pensiero che as-sai probabile che noi adoperiamo le medesime frasi,

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  • ipsissima verba, usate da Cristo. Si ritenne per certo, a lungo, ch'egli si esprimesse in armico. Anche Renan lo credeva. Ma ora sappiano che gli abitanti della Galilea, come gli Irlandesi dei nostri giorni, erano bilingui e il greco era il linguaggio ordinario che serviva per le rela-zioni quotidiane da un capo all'altro della Palestina e, veramente, da un punto all'altro di tutto il mondo orien-tale. Ero spiacente di non poter conoscere le parole di Cristo, se non a traverso la traduzione di una traduzione. S, per me una delizia pensare che, almeno per la sem-plice conversazione, Crmide avrebbe potuto ascoltarlo e Socrate parlare con lui e Platone comprenderlo; ch'egli pronunci esattamente: (io sono il buon pastore); che quando pensava ai gigli del campo, i quali non lavorano e non filano, egli s'espresse precisamente cos: e che la sua ultima parola, quando grid: Tutto finito, la mia vita termi-nata, ha toccato il vertice della sua perfezione, fu pro-prio quella che ci riporta San Giovanni: e nulla pi.

    Leggendo i Vangeli specialmente il Quarto, quello di San Giovanni o del Gnostico, chiunque sia colui che assunse il suo nome e il suo abito io vedo di continuo che l'immaginazione messa innanzi come la base di ogni vita spirituale e materiale; e, inoltre, per Cristo l'immaginazione era una semplice forma dell'amore e l'amore era sovrano nel senso pi esteso del termine. Circa sei settimane fa il medico mi accord il permesso

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  • di mangiare del pane bianco invece del ruvido pane nero o bigio del regime ordinario. una vera ghiottoneria. Parr strano che del pane secco possa essere una ghiot-toneria. Per me lo a tal punto che, alla fine di ciascun pasto, io mangio accuratamente le briciole rimaste sul mio piatto di metallo o cadute sulla grossa salvietta che ci serve di tovaglia per non sporcare la tavola; e non lo faccio per fame il vitto che mi dnno sufficiente ma solo per non perdere nulla di ci che mi dato. in questo modo che bisogna considerare l'amore.

    Cristo, come tutte le figure affascinanti, aveva il pote-re non soltanto di dire lui stesso delle cose belle, ma an-che di farsi dire delle belle cose dagli altri. E a me piace la storia, che ci racconta San Marco, d'una donna greca la quale, dicendole Cristo (per mettere alla prova la sua fede) di non poterle dare il pane dei figli d'Israele, re-plic che i piccoli cani accucciati sotto la tavola, si nutrono delle briciole che i bimbi fanno cade-re.

    La maggior parte degli uomini vivono per l'amore e per l'ammirazione, ma invece per mezzo dell'ammira-zione e dell'amore che noi dovremmo vivere. Se alcuno ci mostra dell'amore, noi dovremmo riconoscere che ne siamo perfettamente indegni. Nessuno degno d'essere amato. Il fatto che Dio ama l'uomo ci prova che, nell'or-dine divino delle cose ideali, stabilito che un eterno amor