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WORK AS A PROCESS OF PERSONAL DEVELOPMENT
IL LAVORO COME PROCESSO DI SVILUPPO PERSONALE
EDITED BY GIOVANNI MASINO Abstract This volume introduces a conception of work as a process of personal growth and development. Three fundamental moments of passage are discussed, in which the life and work connection becomes evident: the transition from education to work, the daily relationship between work and extra-work life, the evaluations in the workplace upon which the career paths depend. Critical reflections about mainstream theories, methodologies and practices are suggested. Examples and case studies illustrate their limitations and negative consequences. Finally, alternative organizational choices aimed at improving the work situations and facilitating, in the workplace, the development and well-being of people, are proposed. Keywords Education, Recruitment, Work-life reconciliation, Competencies, Organizational action.
Work as a process of personal development / Il lavoro come processo di sviluppo personale, Masino Giovanni (Ed.). Bologna: TAO Digital Library, 2013. Proprietà letteraria riservata © Copyright 2013 degli autori Tutti i diritti riservati ISBN: 978-88-906740-8-2
The TAO Digital Library is part of the activities of the Research Programs based on the Theory of Organizational Action proposed by Bruno Maggi, a theory of the regulation of social action that conceives organization as a process of actions and decisions. Its research approach proposes: a view on organizational change in enterprises and in work processes; an action on relationships between work and well-being; the analysis and the transformation of the social-action processes, centered on the subject; a focus on learning processes. The contributions published by the TAO Digital Library are legally deposited and receive an ISBN code. Therefore, they are to be considered in all respects as monographs. The monographs are available online through AMS Acta, which is the institutional open archive of the University of Bologna. Their stable web addresses are indexed by the major online search engines. TAO Digital Library welcomes disciplinary and multi- or inter-disciplinary contributions related to the theoretical framework and the activities of the TAO Research Programs: - Innovative papers presenting theoretical or empirical analysis, selected after a double peer review
process; - Contributions of particular relevance in the field which are already published but not easily
available to the scientific community. The submitted contributions may share or not the theoretical perspective proposed by the Theory of Organizational Action, however they should refer to this theory in the discussion. EDITORIAL STAFF Editor: Bruno Maggi Co-editors: Francesco M. Barbini, Giovanni Masino, Giovanni Rulli International Scientific Committee: Jean-Marie Barbier CNAM, Paris Science of the Education Vittorio Capecchi Università di Bologna Methodology of the Social Sciences Yves Clot CNAM Paris Psychology of Work Renato Di Ruzza Université de Provence Economics Daniel Faïta Université de Provence Language Science Vincenzo Ferrari Università degli Studi di Milano Sociology of Law Armand Hatchuel Ecole des Mines Paris Management Luigi Montuschi Università di Bologna Labour Law Roberto Scazzieri Università di Bologna Economics Laerte Sznelwar Universidade de São Paulo Ergonomics, Occupational Medicine Gilbert de Terssac CNRS Toulouse Sociology of Work
ISSN: 2282-1023
www.taoprograms.org – [email protected] http://amsacta.cib.unibo.it/
Pubblicato nel mese di Giugno 2013 da TAO Digital Library – Bologna
TAO DIGITAL LIBRARY - 2013!
IL LAVORO COME PROCESSO DI SVILUPPO PERSONALE
A CURA DI GIOVANNI MASINO
Indice
GIOVANNI MASINO, Il lavoro come processo di sviluppo personale – Introduzione
GIOVANNI MASINO, Dall’istruzione al lavoro: un’alternativa possibile
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, La conciliazione vita-lavoro: quali opzioni organizzative?
DOMENICO BERDICCHIA, Gestione delle competenze: critica e proposta interpretativa
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Il lavoro come processo di sviluppo personale - Introduzione
Giovanni Masino, Università di Ferrara
Si può parlare di lavoro focalizzandosi su una moltitudine di temi,
utilizzando una varietà di approcci e rappresentando interessi diversi. Tuttavia,
a volte si dimentica che il lavoro costituisce una parte importante del percorso
di vita delle persone. Questo per ragioni tanto banali quanto rilevanti: perché
nel lavoro le persone impiegano una porzione significativa del loro tempo, e
perché in esso trovano senso e identità. In questo volume sono presentati
contributi che, pur occupandosi di questioni diverse, prendono avvio da questa
semplice ma rilevante premessa di “valore”: il lavoro inteso come processo di
crescita e di sviluppo personale. Come vedremo, non è solo una premessa ma
anche, e forse ancor di più, un auspicio. È comunque un’impostazione che
induce a focalizzarsi su alcune questioni, che non sempre sono al centro
dell’attenzione della letteratura. Anzitutto, il fatto che il percorso lavorativo,
così come il percorso di vita, è puntuato da passaggi che ne marcano
sensibilmente i contenuti e gli esiti.
Vi sono passaggi che avvengono saltuariamente, o anche solo una volta
in tutta la vita di una persona. È il caso del passaggio dal mondo dell’istruzione
al mondo del lavoro, di cui si occupa Giovanni Masino nel suo contributo.
Riguarda principalmente i giovani, i quali si trovano a dover prendere decisioni
cruciali riguardanti un futuro difficile da immaginare in base a informazioni ed
esperienze che poco o nulla hanno a che fare con quanto si troveranno di fronte
una volta immessi nel mercato del lavoro. L’autore evidenzia che la gestione di
questa “transizione”, non solo da parte dei soggetti ma anche delle imprese e
delle istituzioni che se ne occupano, può avere riflessi notevoli, non solo al
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livello individuale ma anche, in aggregato, in termini di capacità dei sistemi
economici di produrre ricchezza e, in modo ancor più rilevante, benessere.
Vi sono poi passaggi che, invece, nell’esperienza di ogni lavoratore
avvengono tutti i giorni. Si tratta dei passaggi dall’ambito di lavoro alla vita
extra-lavorativa. Di questo si occupano Massimo Neri, Francesca Mattioli e
Matteo Rinaldini nel loro articolo. La questione è normalmente denominata
“conciliazione vita-lavoro”, e gli autori ne ripercorrono la storia attraverso una
panoramica che riguarda più discipline. In effetti, appare assai utile una visione
in grado di mettere a confronto vari contributi disciplinari, perché diversi
ambiti - legislativo, organizzativo, economico, sociologico e psicologico - si
intrecciano in modo articolato. Affrontare il lavoro come processo di crescita e
sviluppo della persona implica, necessariamente, dover allargare lo sguardo
oltre il lavoro in senso stretto, includendo il modo in cui l’attività lavorativa è in
relazione con le altre attività che, nel loro insieme, definiscono un’esperienza
complessiva di vita.
Vi sono inoltre passaggi che avvengono saltuariamente, nel contesto
lavorativo, ma che caratterizzano in modo decisivo lo sviluppo professionale e
il senso che le persone attribuiscono al proprio lavoro. Si tratta dei passaggi di
carriera e di tutti quei momenti valutativi sempre più diffusi nelle politiche e
nelle pratiche aziendali. Di questo si occupa Domenico Berdicchia, in un
contributo che porta l’attenzione in particolare sulla valutazione e gestione delle
competenze. Affermare che le cosiddette “risorse umane”, e in particolare le
loro competenze, rappresentano l’elemento irrinunciabile per qualsiasi
aspirazione di successo da parte delle imprese, è dichiarazione tanto diffusa
quanto (forse proprio per questo) vuota di significato. Occorre vedere che cosa
succede nella realtà. Occorre capire se e come le persone sono veramente
valorizzate, e se i metodi utilizzati mantengono le promesse formulate. L’autore
esplora questo tema sia sul piano teorico, sia sul piano pratico, e aiuta a
comprendere che i metodi più diffusi di gestione delle competenze risultano
antitetici rispetto a una visione del lavoro come percorso di crescita e di
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sviluppo della persona, e dunque, paradossalmente, antitetici a una autentica
valorizzazione delle sue capacità.
I tre contributi mettono quindi a fuoco diversi momenti di passaggio e di
transizione. Essi appaiono particolarmente utili a comprendere il senso del
lavoro rispetto a una prospettiva ampia, centrata sulla persona e sul suo
benessere. Proprio questa prospettiva ampliata porta i tre contributi a
evidenziare un altro filo conduttore comune, di particolare rilevanza. In
ciascuno di essi, infatti, si trova l’esigenza di porre questioni di fondo, a monte
delle alternative progettuali. Questioni che hanno a che fare con il modo di
concepire i temi, le categorie di analisi, gli schemi interpretativi. Secondo quale
concezione si adotti, la realtà è osservata e compresa in modo diverso, i
problemi sono considerati o ignorati o posti diversamente e, di conseguenza,
anche le soluzioni, le scelte concrete, variano in modo sensibile. Giovanni
Masino aiuta a capire che la concezione del sistema dell’istruzione e del sistema
di reclutamento ha grande influenza sull’esperienza di transizione verso il
lavoro da parte dei giovani. Anche attraverso un esempio concreto, l’autore
arriva a ipotizzare un modo di concepire, e quindi gestire, tale esperienza in
grado di superare l’idea stessa di transizione. Neri, Mattioli e Rinaldini
pongono l’accento sulla concezione della conciliazione vita-lavoro, evidenziano
i limiti dell’approccio prevalente, e propongono uno schema di analisi che,
partendo da una concezione alternativa, può aiutare a identificare e
comprendere processi che, trasversalmente ai due “mondi” separati da
“conciliare”, influscono sull’esperienza delle persone nel loro percorso
complessivo, nient’affatto separabile in parti discrete. Domenico Berdicchia,
infine, invita a riflettere sul modo di concepire la competenza e dunque il
contributo del lavoratore - a qualsiasi livello si collochi - al cambiamento
organizzativo. Anche quest’autore mostra che gran parte delle contraddizioni,
delle difficoltà, e anche degli insuccessi, dei metodi tradizionali e più diffusi
sono proprio dovuti a una concezione di fondo che finisce per sottovalutare ciò
che è più prezioso della persona, ossia la sua unicità, fino a ridurla a dizionari
precodificati di “competenze” e comportamenti predefiniti e omologati. Mentre
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un diverso modo di concepire le competenze e l’organizzazione permette di
conseguire quegli obiettivi che le stesse imprese si propongono.
Complessivamente, questi tre contributi appaiono accomunati non solo
da riflessioni critiche su teorie, metodologie e pratiche diffuse, ma anche da una
premessa di valore che diventa, alla fine, un auspicio. L’auspicio che la
riflessione organizzativa sappia (e debba) interpretare il lavoro attraverso l’uso
di concetti e teorie che mettano al centro la persona, e possa aiutare a
immaginare modi di progettare e regolare il lavoro come parte di un processo
più ampio di crescita, di sviluppo personale e di benessere.
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Dall’istruzione al lavoro: un’alternativa possibile
Giovanni Masino, Università di Ferrara
La situazione del mercato del lavoro, particolarmente in Italia e per i giovani, è disastrosa. Indicatori quali il “qualification mismatch” e lo “skill mismatch” testimoniano l’insoddisfacente efficaca della transizione dallo studio al lavoro. In questo contributo si argomenta che in parte il problema è riconducibile al modo in cui le imprese gestiscono i processi di selezione e inserimento dei giovani e al modo in cui il sistema dell’istruzione progetta i percorsi di apprendimento. Si illustra un caso di studio in cui transizione, selezione e inserimento vengono realizzati in base a una differente prospettiva concettuale. Parole chiave: Istruzione, Reclutamento, Transizione, Alternanza studio-lavoro, Apprendimento
Introduzione
Il fenomeno della disoccupazione giovanile, che in questi anni di crisi
economica va assumendo una dimensione allarmante, dovrebbe spingere a una
riflessione sul rapporto tra percorsi formativi e inserimento nel mondo del
lavoro. Questo è il proposito che anima questo contributo. A partire da dati che
evidenziano non solo un problema occupazionale in senso stretto, ma anche
limiti qualitativi nei risultati dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro,
sosterremo che alla radice di tali problemi vi è il modo in cui la concezione
ampiamente dominante dei sistemi di istruzione e di inserimento in azienda
informa la progettazione di azioni poco efficaci al fine di favorire la cosiddetta
“transizione” dall’istruzione al lavoro. Sosterremo inoltre che è possibile
immaginare una concezione alternativa. A suffragio di ciò, descriveremo il caso
di un’iniziativa promossa dall’Università di Ferrara che, in quasi tredici anni, ha
coinvolto centinaia di imprese e oltre mille studenti. In essa è possibile
rintracciare almeno alcuni aspetti riconducibili a un modo radicalmente diverso
e più efficace di immaginare i percorsi di transizione. Le questioni concettuali e
teoriche, come vedremo, si connettono alla “pratica” in un rapporto stretto e
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immediato. Per immaginare soluzioni veramente innovative e risolutive dei
drammi della disoccupazione e della “cattiva occupazione” giovanile, occorre
partire da una riflessione concettuale, e dalla messa in discussione di alcuni
aspetti che, quasi sempre, vengono invece dati per scontati.
L’inefficienza dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro
L’efficienza1 del mercato del lavoro è assai lontana dalla perfezione
teorica. Vi è ampia disponibilità di dati che provano questa affermazione. Vi
sono infatti inefficienze di vario tipo. Da un lato, si riscontrano inefficienze di
tipo “quantitativo”, illustrate dal riscontro di posti di lavoro disponibili e che
restano vacanti. Secondo l’Istat, il tasso di posti di lavoro vacanti2 nel 2011 era
dello 0.8%, in riduzione allo 0.5% nel 2012. Sono numeri importanti perché
corrispondono, in valore assoluto, a diverse decine di migliaia di opportunità di
lavoro che, evidentemente, l’attuale mercato del lavoro non riesce a mettere a
frutto. Sono dati che acquistano ulteriore significato se si pensa che il periodo
considerato è caratterizzato da una profondissima crisi economica e
occupazionale, che spinge verso il basso le opportunità inevase. Negli anni
precedenti la crisi, infatti, il tasso era ancora più alto (0.8% nel 2005, 1.1% nel
2007).
La nostra attenzione è qui orientata anche a una inefficienza del mercato
del lavoro che potremmo chiamare “qualitativa”, riguardante la difficoltà delle
persone a trovare occupazioni che valorizzino le proprie qualità e, d’altro canto,
la difficoltà delle imprese a trovare persone che soddisfino le proprie necessità e
aspettative. È un fenomeno di particolare rilievo, anche se spesso sottovalutato.
Vediamo i dati disponibili.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!1! In questo lavoro utilizzeremo il termine “efficienza del mercato del lavoro” in senso lato, includendo sia questioni relative all’efficienza in senso stretto, dunque relative ai costi associabili con le dinamiche di incontro di domanda e offerta di lavoro, sia l’efficacia, cioè la qualità del risultato di tale incontro. 2 Il tasso di posti di lavoro vacanti è misurato come il rapporto percentuale fra il numero di posti vacanti e la somma di posti vacanti e posizioni lavorative occupate, con esclusione delle qualifiche dirigenziali.
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Nei Paesi OCSE, circa un quarto degli occupati sono oggi sotto-qualificati
(ossia possiedono una qualificazione inferiore rispetto a quella necessaria nelle
mansioni che svolgono) e circa un quinto sono sovra-qualificati (ossia
possiedono una qualificazione superiore a quella necessaria). Questo dato
generale va analizzato in maggiore dettaglio per comprenderne il significato e
le ragioni.
Anzitutto, occorre distinguere tra qualificazione formale e competenze
possedute. Le due variabili sono collegate ma distinte. La qualificazione formale
fa riferimento al titolo di studio o comunque ai livelli formali di istruzione e
formazione ricevuta. Il livello di competenze invece fa riferimento alle
conoscenze e alle abilità effettivamente possedute dai soggetti,
indipendentemente dai titoli acquisiti. E’ chiaro che soltanto una parte delle
competenze vengono a formarsi tramite percorsi di istruzione formale, mentre
un’altra parte si forma con l’esperienza lavorativa, oppure si perde o diventa
obsolescente, particolarmente durante i periodi di inattività.
La differenza tra i due costrutti (qualificazione formale e competenze
possedute) è molto importante. Per esempio, le indagini OCSE mostrano che
solo il 40% delle persone sovra-qualificate dichiara di possedere le competenze
necessarie per poter svolgere mansioni di più elevato livello, responsabilità o
complessità. E che solo il 12% delle persone sotto-qualificate ritiene di avere
necessità di ulteriore formazione al fine di poter svolgere efficacemente il
proprio lavoro. In altre parole, vi è una sovrapposizione molto parziale tra il
livello di qualificazione formale e il livello di competenze possedute. Questo
significa, dunque, che il problema noto come qualification mismatch – ossia la
discrepanza tra qualificazione necessaria e qualificazione posseduta – coincide
solo parzialmente con il problema dello skill mismatch – ossia la discrepanza tra
competenze necessarie e competenze possedute. Naturalmente il qualification
mismatch è meno complicato da misurare, in quanto la qualificazione viene
codificata in base alla formazione istituzionale ricevuta. Tuttavia, lo skill
mismatch, pur essendo di più difficile misurazione, è più importante dal punto
di vista pratico, perché si riferisce all’effettivo patrimonio di capacità esistenti e
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male utilizzate da un sistema economico. Entrambi i fenomeni rappresentano,
seppure sinteticamente e in modo diverso, l’inefficienza del mercato del lavoro
in termini di divario tra le capacità potenzialmente utilizzabili e quelle
effettivamente utilizzate. In altre parole, essi rivelano in quale parte, cioè con
quale efficienza, un Paese o un territorio utilizza le qualità del proprio “capitale
umano”. Quanto è serio questo fenomeno?
E’ interessante notare che, confrontando questi valori (sia quelli italiani,
sia quelli medi a livello internazionale), il fenomeno più significativo
sembrerebbe quello dell’over-skilling (oltre il 30% è la media dei paesi OCSE),
ossia l’insieme di persone che hanno un livello di competenze superiore a ciò
che richiede la loro mansione. Inoltre, anche la differenza tra over-skilling e
under-skilling sembra essere particolarmente pronunciata (circa il 20%).
Analogamente, la over-qualification è superiore alla under-qualification, anche se
la differenza in questo caso è di pochi punti percentuali. In altre parole, il
mondo occidentale sembra caratterizzato da una diffusa difficoltà a utilizzare le
capacità possedute delle persone al lavoro, e questo riguarda le competenze
effettivamente presenti ancor più delle qualificazioni formali. Il fatto che un
lavoratore su tre non trova, sul luogo di lavoro, piena espressione delle proprie
qualità è un dato che dovrebbe fare riflettere, così come il fatto che i titoli
formali di istruzione non sembrano aiutare a colmare questo divario – anzi, ci si
potrebbe chiedere se i percorsi formativi formali non siano in realtà parte del
problema invece che parte della soluzione. In effetti, secondo i dati OCSE, il
rapporto tra il mis-match relativo alla qualificazione formale e quello relativo
alle competenze possedute rivela fenomeni interessanti. Per esempio,
considerando solo i lavoratori occupati in categorie coerenti con i rispettivi
percorsi formativi, si trova che solo il 36% delle persone over-qualified sono
anche over-skilled, e che solo il 12% delle persone under-qualified sono anche
under-skilled. In altre parole, soltanto una piccola parte dei mismatch relativi alle
competenze sono spiegabili in termini di percorsi formativi formali acquisiti.
Cosa significano questi due dati? Proviamo a trarne qualche significato
sintetico.
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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Da un lato, si può evidenziare che la grandissima maggioranza (circa
l’88%) delle persone under-qualified, cioè coloro che non possiedono un titolo di
studio adeguato per la mansione che svolgono, sono comunque in grado di
acquisire competenze e abilità necessarie sul luogo di lavoro. Dunque, emerge il
grande valore formativo del lavoro, che riesce a compensare, in parte, il difetto
di preparazione ottenuto con i percorsi della qualificazione istituzionale e
formalizzata.
D’altro lato, è anche vero che una larga parte delle persone over-qualified
(circa il 63%) non sono over-skilled, e questo può significare che esse perdono
parte delle competenze acquisite durante la vita lavorativa (per obsolescenza,
per insufficiente aggiornamento, etc.) oppure non maturano, nei percorsi
formativi, competenze adeguate a ricoprire quelle mansioni per le quali erano
state formate. Non è possibile stabilire quale di queste due spiegazioni sia
quella più significativa, ma è ragionevole ipotizzare che la seconda abbia un
peso rilevante. In ogni caso, entrambi gli elementi rappresentano questioni che
dovrebbero interessare le politiche del lavoro: si pone in seria discussione, in
altre parole, se il mercato del lavoro è in grado di utilizzare proficuamente le
competenze esistenti anziché dissiparle, e se i percorsi formativi istituzionali
sono in grado o meno di formare competenze concretamente utili e apprezzate
sul mercato del lavoro.
In che modo la crisi economica ha influito su queste dinamiche? E’
possibile tracciare qualche ipotesi ragionevole basandosi su dati che, pur non
recentissimi, riflettono quelle situazioni che, tipicamente, aumentano di
importanza nelle situazioni di crisi o recessive, sintetizzabili nel termine job
separation (licenziamento, perdita di lavoro per chiusura dell’impresa,
allontanamento dal lavoro per ragioni personali). I dati sui licenziamenti sono
di particolare interesse. Tra le persone licenziate, aumenta in modo significativo
il rischio di over-qualification e di over-skilling, mentre diminuisce la probabilità
di under-qualification. Inoltre, all’aumentare del tempo trascorso per cercare un
lavoro, aumenta la probabilità di over-qualification. Le dinamiche occupazionali
tipiche dei periodi di crisi tendono quindi ad acuire il problema, perché da un
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lato la lontananza dal lavoro può accelerare l’obsolescenza delle competenze
possedute, d’altra parte la ricerca di lavoro costringe le persone ad
accontentarsi di occupazioni che non richiedono elevati livelli di qualificazione
o di competenze. In effetti, i dati aggregati mostrano una relazione molto chiara
tra il tasso di disoccupazione e il grado di over-qualification della forza lavoro:
tanto più il tasso di disoccupazione in un certo anno è superiore a quello degli
anni precedenti, tanto più aumenta il grado di over-qualification. A tutto questo
va aggiunto un ulteriore aspetto, di enorme importanza, anche se spesso
sottovalutato: esiste una chiara (nonché prevedibile) relazione tra la presenza di
over-qualification e il grado di soddisfazione sul lavoro: all’aumentare dell’uno,
diminuisce il secondo.
Dunque, si può concludere che sul mercato del lavoro sono presenti
fenomeni negativi (di “inefficienza” allocativa) di tipo quantitativo, ma anche, e
soprattutto, di tipo qualitativo. La crisi sembra aggravare il problema, che in
termini generali può essere letto come una progressiva erosione della qualità
complessiva del capitale umano disponibile, sia in termini di competenze e
abilità presenti, sia in termini psicologici e motivazionali. Si tratta di un
problema che travalica i confini dell’ambito economico, e riguarda anche la
questione, tanto generale quanto importante, riguardante come e quanto
l’attuale sistema di “incontro” tra offerta e domanda di lavoro sia in grado di
produrre benessere nella società: non solo in termini di ricchezza materiale, ma
anche di sviluppo personale, soddisfazione, felicità.
La transizione verso il lavoro e il problema dei mis-match
Riteniamo che una gestione consapevole e innovativa dei processi di
transizione dall’istruzione al lavoro possa aiutare a ridurre i problemi di mis-
match sopra illustrati.
Va anzitutto evidenziato che l’azione sulla transizione, riguardando per
lo più le nuove generazioni, tocca un punto nevralgico della capacità di
rinnovamento delle competenze di una società. La crisi economica, come è
confermato dai disastrosi dati occupazionali, in particolare in Italia, colpisce
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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soprattutto i giovani. La crisi rende più difficile per i giovani la transizione dalla
scuola al lavoro a causa della riduzione delle possibilità occupazionali. Per
questa ragione ci si può attendere un aumento della propensione a prolungare
il periodo educativo, in quanto la crisi ne riduce il costo-opportunità. In realtà,
la relazione è più complessa, in quanto influenzata da una molteplicità di
elementi che includono le politiche dei singoli Paesi e le specificità economico-
sociali dei territori. Inoltre, va considerato che all’alternativa scuola-lavoro si
aggiunge, anche per i giovani, lo stato di inattività, che come vedremo in alcuni
contesti può assumere una rilevanza drammatica.
Se si analizza la tendenza di medio termine (1999-2009), si osserva che
nella gran parte dei paesi OCSE il tempo medio di permanenza nella scuola (ai
suoi vari livelli) è aumentato di ben 8 mesi. In Italia l’aumento è di poco
superiore a tale media. La tendenza all’aumento è proseguita, nei paesi OCSE,
anche nel periodo 2008-09, dunque durante la crisi, seppure di poco. Ciò non è
vero per l’Italia, paese nel quale si è avuta invece una leggera diminuzione.
Questo tuttavia non è un segnale positivo, al contrario: in particolare in Italia,
l’alternativa della inattività si incunea pericolosamente tra scuola e lavoro. Nel
2009, il tasso di inattività dei giovani italiani tra i 25 e i 29 anni è decisamente
più elevato rispetto alla media OCSE (quasi il 20% contro il 10% circa della
media OCSE); una differenza analoga riguarda i giovani dai 20 ai 24 anni.
Questo dato non è compensato dalla percentuale di giovani in fase di
istruzione, per il quale il valore dell’Italia è sostanzialmente in linea con la
media OCSE (circa il 15% per il giovani tra i 25 i 29 anni di età, e circa il 40% per
i giovani tra i 20 e i 24 anni), né è compensato dal tasso di occupazione dei
giovani, che infatti è sensibilmente inferiore in Italia rispetto alla media OCSE e
alla media europea. Peraltro, anche il dato relativo ai giovanissimi (tra 15 e 19
anni) non appare particolarmente favorevole all’Italia. Dunque, la situazione
dei giovani italiani di fronte alla transizione verso il lavoro si presenta
particolarmente difficile, anche se confrontata con le medie OCSE. Il confronto,
evidentemente, appare molto meno favorevole quando il termine di paragone
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non è l’ampio insieme dei paesi OCSE, ma i paesi occidentali più virtuosi, che
per l’Italia dovrebbero rappresentare un riferimento più naturale e rigoroso.
In questo quadro, emerge la grande importanza dei programmi di
transizione finalizzati all’accompagnamento dei giovani in uscita dai percorsi di
istruzione e in entrata nel mercato del lavoro, attraverso periodi di
apprendistato o comunque attraverso fasi in cui vengono valorizzate le possibili
sinergie tra didattica e lavoro. I dati OCSE evidenziano infatti una chiara
relazione inversa tra la percentuale di giovani impegnati in questi programmi e
il tasso di disoccupazione e il tasso di inattività degli stessi. In quei Paesi in cui
questi programmi coinvolgono un maggiore numero di giovani, i tassi di
inattività e di disoccupazione sono sostanzialmente più bassi.
Il significato di questi dati è piuttosto chiaro. La difficoltà che i giovani
incontrano a inserirsi proficuamente sul mercato del lavoro, particolarmente
(ma non solo) in un periodo di crisi, può essere ridotta attraverso programmi
che non solo facilitano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma che
consentono l’acquisizione di competenze specificamente finalizzate
all’inserimento lavorativo. Peraltro, la rilevanza di questo tema è significativa
non solo relativamente al problema dell’occupazione giovanile. Lo è anche
rispetto alla questione, altrettanto importante, riguardante la possibilità delle
imprese di accedere a capacità personali e professionali adeguate alle proprie
necessità di sviluppo. Vediamo perché.
Da un lato, vi è la necessità di integrare i programmi educativi con
periodi di primo contatto con il mondo del lavoro, appunto al fine di formare,
attraverso l’esperienza lavorativa, competenze maggiormente coerenti (rispetto
a quanto consentito dai programmi formativi tradizionali) con le richieste
effettive delle imprese. Abbiamo già citato la differenza sostanziale che esiste
tra il fenomeno della qualificazione formale, e dei relativi mismatch esistenti, e la
creazione di competenze effettive, che per parte importante si formano e si
modellano sul luogo di lavoro, nel corso del tempo. Dunque, le esperienze di
studio-lavoro consentono di anticipare la formazione delle abilità pertinenti alle
mansioni effettivamente richieste dalle imprese e dunque di ridurre i fenomeni
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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di mis-match. E’ importante notare l’effetto positivo che queste esperienze
possono avere sui giovani dal punto di vista della loro motivazione e
consapevolezza. Un primo contatto, impegnativo e realistico, con il mondo del
lavoro può quindi sviluppare nei giovani una spinta verso una logica di
formazione permanente, di personalizzazione dei propri percorsi formativi e,
più in generale, di investimento su se stessi.
D’altro lato, è anche vero che queste occasioni di incontro, di dialogo e di
conoscenza reciproca, consentono alle imprese di valutare con maggiore
chiarezza il potenziale dei giovani, e di scoprire interessanti possibilità di
inserimento che non potevano nemmeno essere immaginate senza, per
l’appunto, questi momenti di contatto. E’ bene ricordare i numerosi studi che
mettono in evidenza il grande divario generazionale che esiste tra coloro che
appartengono alla cosiddetta generazione dei millennials (convenzionalmente, i
nati dal 1980 al 2000) e coloro che appartengono alla cosiddetta generazione “X”
(convenzionalmente, i nati dal 1960 al 1980) e, ancor più, gli appartenenti alla
generazione dei baby boomers. Si tratta di un divario che sembra in aumento, e
che mette a confronto generazioni con atteggiamenti, aspettative, conoscenze e
valori decisamente diversi se non contrapposti. E’ del tutto plausibile che queste
differenze si riflettano anche sul luogo di lavoro – e, ancor più, nei “luoghi” in
cui domanda e offerta di lavoro si incontrano, proprio perché domanda e
offerta sono tipicamente popolate da soggetti assai distanti sul piano
generazionale.
Dunque, se è vero che c’è un problema di comprensione, da parte dei
giovani, delle aspettative che provengono dal mondo del lavoro, è anche vero
che c’è un problema almeno altrettanto importante di comprensione, da parte
delle imprese, di ciò che ad esse possono offrire i giovani delle ultime
generazioni. Quindi, i processi di integrazione studio-lavoro della transizione
verso l’impresa possono contribuire, anche per questa via, a ridurre quel
problema di mis-match che abbiamo evidenziato in precedenza: non solo in
termini quantitativi - minore disoccupazione, minore inattività - ma anche in
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 14
termini qualitativi, ossia migliore corrispondenza tra aspettative dei giovani ed
esigenze (più o meno consapevoli) delle imprese.
Occorre specificare che il mondo delle esperienze di transizione e
integrazione tra studio e lavoro è estremamente variegato. Si passa da iniziative
più tradizionali, come i tirocini e gli stage in varie modalità e forme, a
esperienze più avanzate in cui la compenetrazione tra didattica e lavoro può
diventare assai più profonda e articolata. Di più: vi sono, da un lato, programmi
che prevedono un basso grado di personalizzazione, tutoraggio e
accompagnamento, e altri programmi che invece investono con forza proprio in
tale direzione. Dunque, vi è una grande varietà di esperienze, ed è chiaro che la
loro utilità può variare in relazione a tali caratteristiche. I dati OCSE che
abbiamo illustrato per evidenziare la relazione positiva tra esperienze di studio-
lavoro e occupabilità non discriminano tra diversi tipi di esperienze, dunque è
del tutto plausibile che se fossimo in grado di distinguere le diverse forme,
osserveremmo in modo ancora più netto l’effetto positivo generato da un
approccio genuinamente “integrato” alla transizione. Detto questo, è anche
plausibile che qualsiasi esperienza che porti a momenti di contatto e dialogo
“anticipato” e “gestito” tra studente in fase d’uscita e impresa, per quanto
semplice, possa produrre un effetto benefico di comprensione reciproca e di
facilitazione all’ingresso nel mondo del lavoro.
Una critica ai sistemi di istruzione e di reclutamento: la questione della
separazione
Gli sforzi per favorire la transizione tra istruzione e inserimento
lavorativo operano, per definizione, al fine di creare un “ponte” tra due
“mondi”: quello del sistema educativo, dalla scuola all’università, e il mondo
del lavoro, e in particolare i sistemi di reclutamento e selezione delle imprese.
Sono sforzi ammirevoli ma che incontrano spesso grandi difficoltà, e i risultati
non soddisfano necessariamente le attese, anche se come abbiamo visto sopra i
Paesi in cui queste iniziative sono più consistenti e diffuse ottengono
comunque, in aggregato, benefici occupazionali misurabili.
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 15
La ragione di tali difficoltà è riconducibile al fatto che tali “mondi” sono
troppo distanti tra di loro. Sono mondi che non creano le condizioni per
favorire l’attraversamento del “ponte” da parte dei soggetti che, concluso il
ciclo scolastico, si immettono alla ricerca di uno sbocco professionale. Si tratta di
un problema riconducibile alla concezione di fondo delle attività di istruzione
da un lato e di reclutamento e selezione dall’altro. Qui sosteniamo che se si
partisse da una concezione alternativa, la “transizione” non dovrebbe neppure
essere necessaria, perché è proprio la “separazione” netta tra tali sistemi a
costituire il primo e fondamentale (ancorché non unico, come vedremo più
avanti) ostacolo a un percorso efficace che porti naturalmente e senza soluzioni
di continuità dall’istruzione al lavoro. Dunque, al fine di comprendere in modo
più consapevole la questione della “transizione”, occorre chiedersi da che cosa e
verso che cosa si “transita”, e in che modo. Bisogna partire da un ragionamento
complessivo su come viene concepita l’istruzione, e su come vengono concepite
le attività di selezione, reclutamento e inserimento nel luogo di lavoro. In
questo e nel prossimo paragrafo parleremo appunto di ciò.
L’istruzione (non solo quella universitaria) è quasi sempre gestita
attraversi criteri (progettuali e valutativi) che tendono a limitare o ad eliminare
del tutto le reali possibilità di integrazione con i processi di inserimento vero e
proprio nel mondo del lavoro. Non bisogna farsi ingannare dalle terminologie:
anche le esperienze comunemente chiamate di “alternanza” più avanzate e
consolidate (come quella tedesca) in realtà contemplano una sostanziale
separazione tra istruzione e lavoro. Questa impostazione è tipica di una visione
funzionalista dei sistemi sociali, in cui le logiche progettuali rispondono a
requisiti di omogeneità tecnica (la classica idea di “funzione”) secondo principi
di netta separazione tra i vari sistemi e sotto-sistemi. Dunque, i singoli “sistemi”
vengono progettati e valutati in base a criteri di efficacia e di efficienza
“interni”, palesemente auto-referenziali – in altre parole, secondo una logica di
“sistema chiuso”. Non si tiene adeguatamente conto delle contiguità di ogni
“sistema” con processi che precedono o che seguono, appunto perché non si
contempla, di fatto, l’idea e dunque la visione di un “processo” che può
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 16
travalicare i confini dei sistemi. Quando si parla di transizione tra istruzione e
lavoro, questa logica di sistema chiuso comporta problemi significativi. In
particolare, si perdono di vista proprio gli obiettivi più rilevanti, cioè quelli che,
per loro natura, sono collegati a esperienze personali che, inevitabilmente,
attraversano i confini spaziali e temporali dei due “sistemi” (Zucchermaglio,
2005). Stiamo parlando, naturalmente, delle esperienze degli
studenti/lavoratori, che nel loro percorso di vita, vivono (o vorrebbero vivere) i
percorsi formativi, di inserimento lavorativo e poi di sviluppo professionale
non come momenti separati, ma come un unico processo di crescita e di
realizzazione personale, un processo il cui orizzonte dovrebbe essere ampio,
ricostruito continuamente, in costante espansione ed esplorazione di ambiti e di
attività, nonché orientato anche a prospettive di lungo termine e non solo alla
“sopravvivenza” nel breve. Al contrario, una logica di separazione dei vari
sistemi impedisce di agire con efficacia attraverso la progettazione di azioni e
processi che attraversano i loro confini. Si progettano così attività che trovano
ed esauriscono il loro senso all’interno del sistema nel quale vengono svolte. Si
confondono fini e mezzi. L’insegnamento, ad esempio, diventa il fine, non più il
mezzo per raggiungere l’obiettivo che dovrebbe essere perseguito in un
processo di sviluppo personale, ossia l’apprendimento. Il sistema
dell’istruzione rischia di diventare un insieme di attività di “insegnamento”
senza una vera preoccupazione per l’“apprendimento”. Il vero obiettivo
perseguito, più o meno implicitamente, è la legittimazione e la perpetuazione di
attività (e degli interessi cristallizzati ad esse associati), che non contribuiscono,
se non incidentalmente, al fine dello sviluppo personale e professionale degli
studenti.
Dunque, nel complesso, il modo in cui istruzione e selezione sono
progettati e realizzati sembrano scontare i problemi tipici di una impostazione
funzionalista, ossia la chiusura e la separazione tra i due sistemi in nome della
loro eterogeneità tecnica, la loro tendenza alla autoreferenzialità e la inevitabile
perdita di vista delle finalità riguardanti i processi di apprendimento e di
sviluppo personale (e organizzativo) che li attraversano. Se questo è vero, non
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 17
dovrebbe sorprendere l’inefficacia della transizione tra i due “mondi” che,
inevitabilmente, diventano sempre più distanti e che faticano a comunicare. Le
asimmetrie informative tra coloro che escono dai percorsi di istruzione e le
imprese rappresentano non sono la causa di un problema, ma il più evidente
sintomo.
La presunzione di razionalità
Il problema della “separazione” non è l’unico imputabile alla concezione
funzionalista. Un altro aspetto critico riguarda la presunzione di razionalità su
cui essa si basa. In particolare, le modalità di selezione e reclutamento più
diffuse nelle imprese rivelano, ancora oggi, un chiaro retaggio di stampo
taylorista. In questo stesso volume, Berdicchia evidenzia come la gestione delle
competenze di tipo mainstream utilizza un approccio il cui assunto
fondamentale è la capacità (presunta), da parte dell’impresa, di predeterminare
con esattezza quali sono le competenze, codificate e definite in grande dettaglio,
in grado di garantire le prestazioni desiderate da parte dei soggetti. Un
approccio del tutto analogo si trova nelle attività di selezione e reclutamento:
l’impostazione classica implica la perfetta capacità dell’impresa di identificare
le caratteristiche personali, non solo quelle già in “possesso” da parte del
candidato ma addirittura anche quelle future (il cosiddetto “potenziale”), che
rispondono alle esigenze di oggi e di domani dell’impresa stessa. È del tutto
evidente che in tale presupposto vi è una presunzione di razionalità “forte” (o
“assoluta”), nient’affatto distante, come si diceva sopra, dalla visione taylorista
del rapporto tra uomo e organizzazione. È anche bene notare che tale
presunzione di razionalità riguarda tutti i diversi aspetti dell’attività di
selezione: la capacità di conoscere con precisione quali sono i bisogni
dell’impresa (attuali e futuri) in termini di capacità e competenze richieste; la
capacità di valutare con precisione quali sono le caratteristiche personali (attuali
e potenziali) dei soggetti in grado di soddisfare tali esigenze; la capacità di
ricercare e identificare, sul mercato del lavoro, soggetti con tali caratteristiche. È
una presunzione di razionalità che lascia ben poco spazio al diverso contributo
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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conoscitivo che potrebbe essere portato da altri soggetti implicati, le istituzioni
formative da un lato e, ancor più, i soggetti stessi (i candidati) dall’altro: tanto
più la presunzione di razionalità da parte dell’impresa è forte, e tanto meno vi è
necessità di confrontarsi con l’esterno. La domanda fondamentale,
naturalmente, è la seguente: quanto è giustificata questa presunzione di
razionalità? Sul piano empirico, la risposta è nei dati di fatto: le evidenze
riguardanti i problemi di mis-match del mercato del lavoro, già descritti in
precedenza, sembrano suggerire che l’inefficienza/inefficacia delle allocazioni
superi nettamente un livello meramente “fisiologico”. C’è sicuramente
un’insufficiente “valorizzazione” sul luogo di lavoro delle competenze, delle
aspirazioni, delle capacità delle persone, e dunque anche del loro “potenziale”.
Si può aggiungere un ulteriore tassello alla riflessione critica. Non solo
questa presunzione di razionalità forte opera al livello della singola impresa,
ma opera anche al livello di sistema nel suo complesso. L’approccio più
utilizzato per il reclutamento e la selezione è quello secondo cui si affermano e
diffondono le cosiddette best practice, ossia pratiche per lo più standardizzate e
largamente accettate come il modo “corretto” e “migliore” di fare selezione e
reclutamento. Si tratta di approcci di tipo psicometrico, che partendo da una
analisi delle mansioni vacanti e delle competenze richieste, valutano la coerenza
(il cosiddetto fit) tra queste e le caratteristiche dei soggetti attraverso tecniche
più o meno complesse (da interviste, strutturate o meno, a test psicologici e
motivazionali, a valutazioni di referenze e curricula, fino a strumenti più
articolati come i cosiddetti assessment center). Queste pratiche sono considerate
best, dunque si assume la loro superiore razionalità in modo relativamente
indipendente dai contesti organizzativi, dalle finalità specifiche, dalle singole
persone coinvolte. Il sistema nel suo complesso legittima e impone la sua
razionalità (“sistemica”, per l’appunto) anche rispetto alla razionalità delle
singole imprese. Le critiche possibili sono numerose (Newell, 2009). Da un lato,
il problema della staticità di un approccio fortemente basato sul fit
(adattamento, corrispondenza) tra job (mansione) e persona: quando il lavoro
cambia non è detto che la corrispondenza ottimale, quand’anche possa essere
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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identificata, sia sostenibile nel medio-lungo periodo (Judge, Ferris, 1992).
D’altra parte, metodi basati su una logica di corrispondenza e di best practice
inibiscono le possibilità di cambiamento e di innovazione anziché favorirle,
poiché non fanno altro che replicare capacità e competenze esistenti, e dunque
riproducono la “cultura organizzativa” presente anziché rinnovarla (Newell,
2009). Il problema aumenta ulteriormente se si considera la varietà dei contesti,
particolarmente rilevante in imprese multinazionali operanti a livello globale:
un approccio unificato non consente l’adeguamento delle “risorse umane” a
mercati e contesti variegati, anche perché persone provenienti da culture
diverse possono rispondere in modo eterogeneo (e dunque essere valutati in
modo diverso) ai medesimi metodi di selezione, e dunque possono risultare
svantaggiati per ragioni che non hanno a che fare né con le proprie qualità
personali né, paradossalmente, con il potenziale fit rispetto al lavoro proposto
(Shackleton, Newell, 1994). Infine, se è vero che la letteratura manageriale esalta
l’idea del commitment (impegno, coinvolgimento personale, dedizione) come
requisito fondamentale per l’efficacia dei contributi lavorativi dei soggetti,
allora dovrebbe essere chiaro che esso non può costituire un criterio su cui è
possibile basare un metodo di selezione, tanto meno se questo è standardizzato,
perché è chiaro che il coinvolgimento e la dedizione di una persona al lavoro
non è (solo) una qualità personale “intrinseca”, ma l’esito di un processo che si
sviluppa nel tempo, il quale dipende non solo dal soggetto ma dalla relazione
tra questo e l’organizzazione (Newell, 2009): un processo in cui lo sviluppo
personale, l’investimento dell’azienda sulla persona, le opportunità interne ed
esterne, gli incentivi intrinseci ed estrinseci, e una serie lunga di altri elementi
possono avere una influenza decisiva e certamente non prevedibile al momento
della selezione. Nonostante l’evidenza di questi e altri aspetti critici, l’approccio
più diffuso resta quello descritto, frutto evidentemente di una cultura
manageriale complessiva che tende a privilegiare approcci orientati alla
generalizzazione, al controllo e alla standardizzazione, e probabilmente anche
alla collegata difficoltà di immaginare soluzioni alternative, forse perché la
stessa cultura perpetua, oltre ai contenuti, anche un quadro cognitivo secondo
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 20
cui si dà per scontato che tali metodi siano, al netto dei difetti, comunque i
migliori possibili.
La situazione non è troppo diversa per quanto riguarda il mondo
dell’istruzione e la sua presunzione di razionalità. Non ci addentriamo in
questa sede in una analisi e riflessione dettagliata, poiché ciò esulerebbe dagli
scopi e dall’economia di questo lavoro. Ci limitiamo a riportare le parole di Ken
Robinson (2006; 2009; 2010; 2013), una delle più rispettate voci critiche sul
sistema educativo occidentale, il quale afferma esplicitamente che tale sistema
non è in grado di far prosperare le persone e favorire lo sviluppo del loro
talento naturale, perché basato su un modello che egli chiama, in modo
appropriato, “meccanicistico”. Robinson (2013), in breve, sostiene che il sistema
dell’istruzione è fondato su una logica organizzativa simile a quella
“industriale–mainfatturiera” classica, cioè su criteri di “massificazione” e
“standardizzazione” dell’educazione che oggi non sono più desiderabili né
efficaci. In particolare, Robinson illustra la contraddittorietà delle condizioni
educative prodotte da tali criteri rispetto alle diverse condizioni e ai diversi
principi sui quali si basa la possibilità delle persone di prosperare e svilupparsi
al massimo del loro potenziale.
Un primo principio è l’enorme diversità che caratterizza le persone, fin da
bambini: è la diversità dei talenti, delle aspirazioni, delle capacità, delle
predisposizioni, delle preferenze. Il sistema educativo, al contrario, spinge
fortemente verso il conformismo, perché riduce notevolmente la possibile varietà
dei percorsi di apprendimento, e dunque frustra fin dal principio le possibilità
di pieno sviluppo delle persone in un modo che sia coerente con la loro
personalità unica. Occorrono percorsi e curricula che celebrino la grande
diversità naturale dei talenti, anziché schiacciarla.
Un secondo principio è la curiosità, ossia l’aspirazione che le persone
dovrebbero vedere soddisfatta, in un sistema educativo “sano”, di poter
scegliere percorsi non solo vicini alle proprie predisposizioni, ma che offrano
loro la possibilità di sperimentare, di cambiare, di esplorare nel corso della vita
alternative e idee diverse. Al contrario, il sistema educativo spinge alla
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 21
compliance, cioè alla passività e alla linearità, alla sequenzialità, alla
canalizzazione delle esperienze formative entro percorsi già predeterminati e da
cui, una volta inseriti, è molto difficile uscire senza pagare un prezzo molto
elevato.
Un terzo principio riguarda la creatività, cioè l’enorme capacità di
innovazione, di ideazione, di costruzione personale e di continua re-invenzione
che caratterizza le persone. Al contrario, il sistema educativo dominante tende
alla standardizzazione dei contenuti, per esempio attraverso l’uso dei test di
valutazione non come strumento diagnostico ma come strumento per
l’omologazione; tende inoltre all’insufficiente valorizzazione del mestiere di
insegnante, spesso inteso non come facilitatore di un processo di
apprendimento autonomo e creativo, in quanto basato appunto sulla
personalizzazione e sulla creazione di condizioni favorevoli a generare e
coltivare passioni, ma come mero “trasmettitore” di nozioni a un “pubblico” di
“ricevitori” passivi e indifferenziati.
Robinson definisce l’approccio dominante nel sistema educativo
occidentale di tipo command and control (comando e controllo), cioè fortemente
accentrato e standardizzato. Vi sono esempi, purtroppo rari, di esperienze
educative alternative e di successo, e queste hanno sempre le stesse
caratteristiche: alta personalizzazione, varietà e variabilità dei percorsi
formativi, valorizzazione del mestiere dell’insegnante, decentramento
decisionale. L’alternativa è quindi, secondo Robinson, una logica organizzativa
dei processi educativi ispirata a un “modello agricolo” anziché
“manifatturiero”, cioè una situazione in cui la leadership viene esercitata non in
un’ottica di command and control, in cui una razionalità forte, centralizzata ed ex
ante pretende di realizzare “prodotti” umani standardizzati e pre-disegnati, ma
agisce invece per “coltivare”, cioè per creare le condizioni favorevoli allo
sviluppo autonomo dei talenti e delle capacità, assecondandone le qualità
naturali.
La riflessione critica di Robinson sul sistema educativo è del tutto
analoga a quella svolta sopra, riguardante i sistemi di reclutamento e selezione,
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 22
e rimanda alla concezione del sistema stesso. Una concezione chiaramente
funzionalistica, persino meccanicistica, in cui elemento centrale è l’assunzione
di una razionalità sistemica in grado di individuare la one best way
dell’istruzione e di diffonderla attraverso best practice codificate e
standardizzate.
Per concludere, possiamo dire che una riflessione sul problema
dell’inserimento lavorativo deve fare i conti con una concezione (delle attività
di istruzione e di reclutamento) che di fatto ostacola la possibilità di
immaginare iniziative di transizione genuinamente finalizzate a migliorare
l’efficacia della allocazione delle persone sul mercato del lavoro. Una “efficacia”
che naturalmente va intesa in relazione agli obiettivi di tutte le parti in causa,
non solo di alcune: per le imprese, l’obiettivo di poter inserire persone che
rispondono veramente, non solo nel breve ma anche nel lungo termine, alle
esigenze di crescita e sviluppo organizzativo e competitivo; per le persone,
l’obiettivo di intraprendere un percorso di sviluppo personale (e professionale)
autonomo, soddisfacente, coerente con le proprie predisposizioni e che risuona
con il proprio spirito e la propria identità più profonda. Ken Robinson chiede
una “rivoluzione” del sistema educativo occidentale. Crediamo che una
qualsiasi ipotesi di trasformazione profonda del sistema educativo non possa
che iniziare dal superamento della visione “separata” dei due sistemi, e debba
mettere al centro il processo di gran lunga più importante, quello che taglia
orizzontalmente, sia lungo la dimensione temporale, sia nello “spazio” delle
discipline e delle professioni, i due ambiti di attività: lo sviluppo e la crescita
della persona. Come dare concretezza a questa ipotesi? Non abbiamo una
risposta pronta, naturalmente. Abbiamo tuttavia un punto di partenza, che è la
necessità di un cambiamento nella concezione di fondo dell’istruzione e
dell’inserimento lavorativo. E abbiamo anche un esempio concreto che forse,
certo non in modo completo né perfetto, ma almeno per alcuni aspetti, può
portare suggerimenti e idee su come sia possibile immaginare e progettare una
transizione verso il lavoro di altro tipo, o meglio, una “non-transizione”, ossia
un percorso che, senza soluzioni di continuità, accompagna le persone nel loro
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 23
processo di crescita e sviluppo personale. Nel prossimo paragrafo descriveremo
il caso di studio in questione.
Il caso del progetto PIL dell’Università di Ferrara: caratteristiche generali
Il progetto PIL (Percorsi di Inserimento Lavorativo) prende avvio nel
2001 presso la Facoltà di Economia dell’Università di Ferrara. Nell’arco di
qualche anno viene esteso a tutte le facoltà dell’Ateneo. E’ un percorso di
transizione piuttosto articolato basato su una logica di alternanza studio-lavoro,
finalizzato a portare alla luce sia il valore formativo dell’attività lavorativa per
gli studenti, sia i vantaggi conseguibili dalle imprese, sia la valorizzazione del
ruolo attivo, di natura sociale oltre che culturale, da parte dell’Università. La
genesi del PIL è precedente al 2001. Esso, infatti, nasce sulla scia di
un’esperienza simile nell’impresa multinazionale Montell-Basell iniziata nel
1996 (Flammini, Foschi, Gandini, 1996).
La caratteristica principale del PIL è che si tratta di un progetto
formativo. Non è dunque un’iniziativa di placement (cioè di “collocamento”),
anche se il lavoro ne è parte imprescindibile. Tutto il percorso è pensato come
esperienza formativa in cui didattica, lavoro e attività di orientamento e
tutoraggio si integrano in modo virtuoso. Nei percorsi formativi tradizionali, le
varie fasi sono tipicamente pensate in sequenza: l’istruzione universitaria
precede – eventualmente – una formazione di specializzazione post-laurea, e
questa a sua volta precede l’attività lavorativa. Le tre fasi sono scarsamente o
per nulla integrate. Nel progetto PIL, le tre fasi sono invece fortemente
integrate. L’integrazione va intesa non solo in senso temporale, ma anche nel
senso che i passaggi da una fase all’altra sono progettati e gestiti in modo
unitario e omogeneo. Il candidato “ideale” per il progetto PIL è infatti uno
studente cui mancano alcuni esami alla laurea. Quindi, è uno studente che vive
l’ultima parte della sua esperienza scolastica sperimentando se stesso (le
proprie capacità, le aspettative, i desideri) in un percorso di avvicinamento
progressivo e guidato al lavoro.
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 24
Le fasi del percorso PIL
Il progetto PIL si articola in diversi momenti successivi. In sintesi, il
percorso è il seguente: 1) l’Università, in collaborazione con partner esterni
specializzati, ricerca imprese disposte a partecipare al progetto attraverso una
convenzione scritta con la quale esse assumono una serie di impegni, il più
importante dei quali è la messa a disposizione di almeno un contratto di lavoro
annuale per uno studente in una mansione specifica o in una certa posizione
organizzativa; 2) gli studenti, una volta iscritti, vengono istruiti (a più riprese e
con dovizia di particolari) sulle “regole del gioco”, sui vantaggi, sui rischi, sugli
impegni; 3) viene svolto un colloquio introduttivo per conoscere, uno a uno, gli
studenti iscritti; 4) inizia una fase di aula più tradizionale finalizzata ad aiutare
gli studenti nella transizione verso il mondo del lavoro, 5) le imprese
partecipanti si presentano agli studenti, una alla volta, in seminari specifici, e
illustrano il posto di lavoro offerto; 6) gli studenti si candidano a effettuare
colloqui individuali presso le aziende, che quindi vengono realizzati; 7) gli
studenti, attraverso una modalità regolata nei dettagli, scelgono l’azienda
presso la quale svolgere l’esperienza lavorativa; 8) gli studenti allocati iniziano
un periodo di stage di tre mesi circa, preparatorio di un contratto di lavoro di
un anno nella stessa azienda, che inizia dopo lo stage senza soluzione di
continuità; 9) il percorso lavorativo di 15 mesi (3+12) viene costantemente
monitorato dallo staff del PIL attraverso rientri e altre iniziative analoghe; 10) a
conclusione del percorso, ogni studente prepara un report sull’intera esperienza
e la discute oralmente con una commissione apposita.
Vediamo con qualche dettaglio le fasi più importanti.
La prima parte del percorso mette a disposizione degli studenti una serie
di stimoli e di strumenti di apprendimento sia di tipo tradizionale, sia più
innovativi, quasi sempre caratterizzati da elevate possibilità di
personalizzazione. Vi è anzitutto una fase d’aula, in cui gli studenti, provenienti
da facoltà molto diverse tra loro, sono esposti a lezioni di tipo tradizionale
finalizzate alla comprensione del mondo del lavoro. Sono perciò trattati, in un
numero di ore comunque ridotto, sia temi appartenenti ad ambiti disciplinari
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 25
tradizionali (il diritto del lavoro, le forme contrattuali tipiche, la sicurezza sul
lavoro, la qualità, l’organizzazione aziendale, ecc.), sia altri temi di natura più
specifica (tecniche di comunicazione, preparazione ai colloqui, redazione di un
curriculum, ecc.) In questo primo periodo, una parte consistente in termini di
ore e, soprattutto, molto importante sul piano formativo, è rappresentata dagli
incontri con le aziende partecipanti al PIL. È questo il primo momento in cui gli
studenti vengono a contatto con le imprese e i loro rappresentanti. Manager e
imprenditori vengono in aula, una impresa alla volta, per incontrare gli studenti
in un seminario che dura circa un’ora e mezza, per ogni impresa. L’azienda
presenta se stessa e, soprattutto, descrive agli studenti l’opportunità lavorativa
(in tutti i suoi aspetti: dalle mansioni alle opportunità eventuali di carriera, dalle
conoscenze richieste al livello stipendiale) che offrirà nei mesi seguenti a uno o
più studenti partecipanti. Oltre alla presentazione, il seminario prevede un
ampio spazio di dialogo tra studenti e rappresentanti aziendali, per domande e
risposte in grande libertà. Un “moderatore”, appartenente allo staff del PIL, è
sempre presente per facilitare il dialogo. In questo modo, gli studenti del PIL
incontrano molte decine di imprese. Queste occasioni costituiscono un
momento cruciale del PIL, un impegno che ogni azienda partecipante prende
formalmente con l’Università. Le aziende coinvolte hanno caratteristiche
estremamente variegate, in termini di settore di appartenenza, di dimensioni, di
provenienza: non vi sono “filtri” al tipo di impresa che può essere coinvolto. È
quasi superfluo sottolineare il grande valore formativo che una iniziativa di
questo tipo comporta per gli studenti. È la prima occasione di incontro tra
“domanda” e “offerta” di lavoro, che tuttavia avviene in un contesto
monitorato, accompagnato e regolato. Gli studenti, alla fine di questi numerosi
eventi, maturano un’idea molto più precisa di ciò che chiede il mercato del
lavoro e di ciò che potrebbe significare, per loro, una esperienza in ciascuna
delle aziende passate in rassegna. Iniziano quindi ad acquisire un senso molto
concreto delle possibilità offerte. Iniziano a proiettare e visualizzare se stessi in
un contesto lavorativo. Gli incontri, infatti, sono solitamente caratterizzati da
una partecipazione molto attenta, sia da parte degli studenti, sia da parte dei
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 26
manager, perché gli uni e gli altri hanno un interesse specifico: gli studenti
sanno che faranno un’esperienza di lavoro lunga e significativa in una delle
imprese presentate, e dunque hanno interesse a cogliere tutti gli aspetti utili per
valutare il loro maggiore o minore interesse a scegliere una impresa o un’altra.
Le imprese, dal canto loro, sanno che almeno uno dei ragazzi che hanno di
fronte passerà 12 mesi di lavoro (remunerato) al proprio interno, sanno che
questo rappresenterà per esse un investimento significativo, e dunque hanno un
chiaro interesse ad ascoltare, a dialogare e a presentarsi in modo efficace.
La seconda fase cruciale è la “candidatura” degli studenti ai colloqui
aziendali. Qui non siamo più in un contesto di “aula” tradizionale, ma il valore
formativo di questa fase è comunque significativo, perché gli studenti sono
chiamati a valutare e fare scelte concrete che potranno influenzare
notevolmente il loro percorso nei successivi 15 mesi. Gli studenti, infatti,
devono candidarsi a sostenere colloqui con alcune tra le imprese partecipanti al
PIL (non tutte, perché solitamente le imprese partecipanti sono diverse decine,
per cui si stabilisce un numero massimo di colloqui che può variare a seconda
delle annate, ma che normalmente non supera gli 8-10 colloqui per studente).
Gli studenti sono accompagnati ai colloqui da un tutor. Il colloquio,
naturalmente, serve anche alle aziende al fine di valutare i singoli studenti.
Questo è infatti l’unico momento, in tutto il percorso PIL, in cui l’attività
coincide (ma solo in apparenza) con le azioni “tipiche” del processo di selezione
e reclutamento tradizionalmente svolto dalle aziende. Va notato che lo scopo e
il senso sono del tutto diversi: l’impresa è sì chiamata a esprimere una
valutazione sui singoli candidati, che poi viene inclusa nella elaborazione di
una “classifica” degli studenti (di cui si dirà tra poco), ma il “peso” di tale
valutazione è moderato da due elementi di notevole importanza. Da un lato,
questa classifica tiene conto anche di altri aspetti che non sono controllati
dall’azienda, dunque la valutazione aziendale, seppure rilevante, non è decisiva
ai fini della classifica. D’altro lato, soprattutto, la scelta finale sull’allocazione
finale dello studente in azienda non è in capo all’azienda, ma secondo le regole
del PIL viene lasciata, deliberatamente, allo studente. Vedremo tra breve come
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 27
questo avviene e perché, ma si può già riflettere sul fatto che, nel percorso PIL,
il colloquio aziendale non è per l’azienda un momento la cui valenza è
principalmente selettiva, ma rappresenta invece la continuazione di quel
processo di incontro, dialogo e conoscenza reciproca che è iniziato,
collettivamente, con i seminari aziendali e che poi prosegue, individualmente,
per l’appunto con i colloqui.
Esauriti i colloqui si svolge la fase denominata “mercatino”. Viene stilata
la sopra citata “classifica” degli studenti (una lista, dunque null’altro che un
ordine di priorità nella scelta, e non certo una valutazione di merito) basata su
un semplice calcolo ponderato che tiene conto della media dei voti degli
studenti (cioè la valutazione dell’Università) e delle valutazioni dell’azienda nei
colloqui individuali. Secondo l’ordine di questa lista, ogni studente sceglie (tra
le aziende con le quali ha sostenuto un colloquio, cioè quelle per le quali egli
stesso aveva espresso la propria candidatura) in quale azienda proseguire la
propria avventura nel progetto PIL, ovvero l’azienda nella quale svolgere uno
stage di tre mesi seguito da un anno di lavoro contrattualizzato. In virtù di
questa regola, non è detto che il “miglior” candidato, secondo la valutazione di
una certa azienda, vada necessariamente a svolgere la sua esperienza lavorativa
proprio in quell’azienda. Anzi, tipicamente le “allocazioni” possono prendere
direzioni molto diverse e variegate. Succede molto spesso che lo studente
“preferito” da una azienda non scelga la stessa azienda ma un’altra. Al
contrario, succede altrettanto spesso che l’azienda preferita dallo studente non
sia disponibile al momento della sua scelta (perché quel posto è stato già scelto
da un altro studente che lo precedeva nella lista) e dunque sia costretto a
scegliere un’altra azienda, sempre tra quelle per le quali si era candidato e nella
quale aveva svolto un colloquio. Dunque, non si tratta di un processo che,
regolato in questo modo, ottimizza, in prima istanza, le preferenze reciproche
azienda-studente (né potrebbe esistere un algoritmo del genere, semplicemente
perché le preferenze reciproche non si distribuiscono in modo simmetrico). Ed è
una regolazione che comunque concede il maggior grado di discrezionalità allo
studente, e non all’impresa. La scelta, alla fine, spetta agli studenti, nell’ambito
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 28
delle regole sopra delineate. Su questo elemento vale la pena soffermarsi, in
quanto rappresenta forse uno degli aspetti più originali del percorso PIL, e che
in un certo senso genera sia difficoltà sia vantaggi che, in ultima analisi,
risultano nettamente prevalenti. Le difficoltà riguardano il fatto che non è facile
accettare, da parte delle imprese, di rinunciare alla scelta diretta dello studente
da inserire nel proprio organico. E questo costituisce, tra gli altri, uno degli
elementi di complessità della gestione del percorso PIL, in particolare per
quanto riguarda la ricerca di aziende disposte a offrire un contratto di lavoro di
un anno e a sottoporre tale disponibilità a un quadro di regole che,
indubbiamente, le priva di una parte importante di discrezionalità. Le aziende
che si avvicinano per la prima volta al PIL sono restie ad accettare tutto questo,
faticano a comprenderne il senso e temono di dover accettare candidature non
soddisfacenti. Le imprese “fidelizzate” invece, quelle che hanno già partecipato
al PIL, ne riconoscono il valore, grazie all’esperienza positiva vissuta. Ma è un
aspetto il cui valore è tanto difficile da spiegare in anticipo, quanto centrale
nella costruzione di un apparato regolativo coerente e, in molti aspetti,
innovativo quale tenta di essere il PIL, e dunque irrinunciabile. D’altra parte i
risultati concreti, come vedremo, ne provano l’efficacia.
Dunque, concluso il “mercatino”, gli studenti sono “allocati” in posti
disponibili nelle varie aziende. Ogni studente inizia quindi un periodo di stage,
di circa tre mesi, presso l’azienda. Al termine di tale stage segue,
obbligatoriamente (nel senso che l’impresa si impegna in tal senso tramite
convenzione) un anno di lavoro contrattualizzato secondo le normative e le
consuetudini vigenti. Lo stage dunque non è un momento valutativo. L’azienda
non valuta lo studente in quei tre mesi per decidere se offrirgli il contratto o
meno. Lo stage, invece, ha una valenza puramente formativa e preparatoria
all’esperienza lavorativa. Quest’ultima dovrà riguardare l’ambito di attività e le
mansioni presentate agli studenti già durante i seminari collettivi. Tutta
l’esperienza lavorativa (sia in stage, sia durante l’anno di contratto) è monitorata
e seguita dallo staff del PIL, il quale organizza “rientri” periodici, ossia
momenti in cui l’esperienza in itinere viene appunto verificata, in cui eventuali
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 29
problemi vengono discussi e dove comunque si costituisce un momento di
socializzazione e scambio tra gli studenti del PIL, e tra loro e lo staff. Va anche
notato che nella grande maggioranza dei casi gli studenti studiano durante
l’esperienza lavorativa, vuoi per completare gli ultimi esami, vuoi per redigere
la tesi di laurea, che spesso riguarda aspetti collegati all’esperienza lavorativa
stessa. Alla fine del percorso lavorativo, cioè alla conclusione dei 12 mesi di
contratto, gli studenti (che nel frattempo possono non essere più tali, qualora si
siano laureati) sono chiamati a scrivere una relazione in cui, secondo una serie
di linee guida ben definite, raccontano dell’esperienza, dall’inizio fino agli
ultimi momenti, e la interpretano alla luce di quanto vissuto grazie ad essa,
anche in chiave critica. Tale relazione viene poi discussa oralmente di fronte a
una commissione apposita.
Le motivazioni dei partecipanti e i risultati
In questo paragrafo descriveremo brevemente i risultati ottenuti dal PIL
e le motivazioni che spingono aziende e studenti a parteciparvi. Anzitutto
qualche dato generale. In oltre 10 anni di sperimentazione, il progetto ha
coinvolto circa 1000 studenti dell’Università di Ferrara e oltre 400 aziende. Il
risultato principale del PIL, dal punto di vista degli studenti, è un significativo
miglioramento della loro occupabilità sul mercato del lavoro. Abbiamo
sottolineato che il PIL è un percorso didattico, non un processo di collocamento
in senso stretto. Per questo, l’enfasi è su quanto l’esperienza formativa
realizzata consenta a laureandi e laureati di potersi collocare sul mercato del
lavoro con maggiore efficacia. Infatti, a un anno dalla laurea, l’occupabilità
degli studenti PIL è nettamente superiore alle medie comparabili relative a
studenti che non seguono il percorso PIL. Tale vantaggio tende a mantenersi
anche in seguito, e si traduce anche in una più rapida stabilizzazione del
rapporto di lavoro. È bene notare che non si tratta, se non in parte, di una
differenza imputabile al fatto che gli studenti vengono poi assunti in via
definitiva dalla azienda nella quale hanno svolto l’esperienza PIL, ma al fatto
che l’esperienza del PIL accelera il processo formativo e rende questi studenti
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
!TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 30
più appetibili sul mercato del lavoro per le aziende perché essi possono vantare,
a parità di età e di qualificazione formale, una maggiore esperienza e maturità.
Tale superiore maturità, d’altra parte, si trasforma in maggiore consapevolezza,
da parte degli studenti stessi, di quale possa essere un percorso professionale
più adatto e rispondente alle loro preferenze e attitudini. Dunque, una volta
esaurita l’esperienza PIL, per questi (ormai ex) studenti la transizione verso il
mercato del lavoro diventa un processo molto meno traumatico, che può essere
affrontato in modo più consapevole e con un curriculum più ricco.
È interessante notare che esiste una certa varietà di motivazioni che
spingono gli studenti a intraprendere il percorso PIL. Da una ricerca svolta
dallo staff del PIL, emergono tre motivazioni principali, che sostanzialmente si
equivalgono per diffusione. Da un lato, vi è la ricerca di una prima esperienza
lavorativa che sia il più possibile coerente con l’ambito disciplinare scelto nel
percorso di studio. Quindi, per alcuni studenti, è chiara la voglia di “mettersi
alla prova” e di dare un contesto applicativo alle nozioni e ai concetti appresi
durante lo studio. Una seconda motivazione riguarda invece un interesse
specifico per il “mestiere” proposto dall’azienda durante i seminari. In questo
caso, non è l’ambito disciplinare ad essere trainante, quanto l’interesse per il
tipo di profilo professionale, o per le attività specificamente richieste dalle
imprese che offrono il contratto di lavoro. Una terza motivazione, più generica
ma non meno importante, riguarda l’interesse per una prima, piena esperienza
lavorativa in sé, in quanto utile e formativa in modo relativamente
indipendente dall’ambito disciplinare o professionale nel quale si svolge. Si
tratta di motivazioni diverse, anche se non si escludono a vicenda. Ciascuna
delle tre motivazioni appare comunque prevalente in circa un terzo degli
studenti intervistati.
La comprensione di queste motivazioni è importante perché aiuta a
focalizzare l’attenzione su come un processo come quello qui presentato possa
aiutare i futuri lavoratori ad acquisire consapevolezza e conoscenze su un
“mondo” - il lavoro – che in gran parte ignorano, e dove gli errori di ricerca di
un “posto” dipendono in gran parte dalla mancanza di strumenti adeguati a
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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colmare tale lacuna di conoscenza. Per questo, nel percorso PIL, persino le
eventuali esperienze negative da parte degli studenti (che comunque sono
largamente minoritarie) producono comunque un valore formativo utile: ciò
che gli studenti imparano non è solo un insieme di competenze e capacità
relative a quella specifica attività, in una specifica azienda. Imparano,
soprattutto, a gestire in modo consapevole il processo di ricerca del lavoro, e
imparano, vivendolo, il processo di lavoro stesso (il rapporto con i capi, con i
colleghi, il rispetto delle scadenze, le responsabilità, etc.) indipendentemente
dai suoi contenuti e dall’ambito disciplinare/professionale nel quale si colloca.
In questo senso, la prima delle tre motivazioni (relativa alla coerenza
disciplinare) è forse la più “ingenua”, perché prefigura l’idea, legittima, forse
anche auspicabile ma spesso illusoria, che la formazione accademica sia in
grado di preparare per il mondo del lavoro in un modo che connette senza
incertezze l’ambito disciplinare di provenienza con l’ambito professionale di
destinazione. D’altro canto la terza motivazione (relativa all’interesse per una
prima esperienza lavorativa in sé) è invece la più lungimirante, perché lascia
aperte tutte le possibilità e coglie appieno il senso complessivo del percorso PIL
come esperienza formativa che matura gli studenti e li rende più occupabili nel
processo di transizione verso il mondo del lavoro.
I risultati di questo percorso sono importanti anche dal punto di vista
delle aziende. Le ricerche effettuate su questa sperimentazione più che
decennale mostrano che anch’esse partecipano a proposito di una varietà di
obiettivi. Vediamo i principali, illustrati da alcune testimonianze fornite da
imprenditori coinvolti a più riprese nel progetto PIL.
Per alcune imprese, il PIL rappresenta principalmente una modalità
vantaggiosa di selezione e reclutamento di giovani laureati. Ecco un commento
di un imprenditore utile a illustrare la questione: “il giovane è in grado di mettere
in gioco potenzialità spesso inimmaginabili prima dell’immersione nei tanti mestieri
necessari a un’azienda [...] il giovane può trarre dall’esperienza un risultato formativo
valorizzabile nella stessa azienda o nel mercato del lavoro di riferimento”.
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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Per le piccole imprese, in particolare, ricercare e selezionare laureati può
essere complicato, perché relativamente inusuale, oppure costoso; appoggiarsi a
un percorso come il PIL può rappresentare per esse una facilitazione: “Noi
possiamo avere buone carte per indurre i giovani interessati a sviluppare nuove
competenze e, anche, a cambiare il proprio progetto professionale iniziale; questi
cambiamenti possono portare alla luce punti di vista e opportunità non conosciuti, ma
di grande interesse e valore, sia per noi sia per i giovani”.
Per le aziende che hanno un marcato interesse a intraprendere o
sviluppare programmi di innovazione tecnologica o gestionale, il progetto PIL
rappresenta una risorsa interessante nel momento in cui può mettere a
disposizione un collegamento stabile con l’Università che vale non soltanto
come modalità di selezione ma anche come processo di trasferimento
tecnologico: “Far entrare giovani in questo contesto, a 23-24 anni, per aziende come la
nostra è fondamentale: i giovani sono più flessibili, più plasmabili, riescono a vedere con
prontezza i risvolti pratici di quello che hanno studiato nella teoria e che continuano a
studiare”.
Infine, per altre aziende, il PIL può rappresentare la possibilità di
mantenere una certa flessibilità operativa attraverso il mantenimento di
posizioni che vengono coperte, di anno in anno, da nuovi studenti: “Questi
soggetti giovani, con una formazione medio-alta, con un approccio personale,
metodologico e mentale diverso, non di rado costringono il gruppo di lavoro in cui
vengono inseriti a mettersi in discussione, stimolando a sviluppare modalità di lavoro e
di organizzazione interna nuove”.
Come nel caso delle motivazioni degli studenti, questi obiettivi ben
rappresentano il chiaro bisogno di conoscenza riguardante quanto il mondo dei
laureandi/laureati possa offrire alle aziende, un bisogno che, evidentemente, il
mercato del lavoro e i processi di selezione e reclutamento tradizionali non
riescono a soddisfare. L’esperienza aneddotica (che tuttavia è forte di 13 anni di
sperimentazione e di una numerosità di casi ormai ragguardevole) ci aiuta a
comprendere appunto come il PIL riesca a contribuire a colmare questo divario
di conoscenza reciproca tra i due “mondi”. Non è affatto inusuale, durante il
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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PIL, trovare studenti che all’inizio si mostrano certissimi di una visione nitida
circa il loro futuro professionale, ma poi, nel giro di pochi mesi, cambiano
completamente idea e trovano un percorso di grande soddisfazione e successo
in contesti nei quali non potevano nemmeno immaginare di poter impiegare
proficuamente le proprie capacità. Non è nemmeno inusuale il caso di aziende
che, arrivate in aula con idee chiarissime su quale tipo di candidato intendono
inserire nel proprio contesto lavorativo, poi si accorgono che profili del tutto
diversi possono essere ugualmente adatti, o addirittura scoprono, stimolati dal
dialogo con gli studenti, di avere “bisogni” di competenze cui non avevano
nemmeno pensato. La storia del PIL è ricca di esempi e aneddoti di questo tipo.
Il PIL è un percorso perfettibile, irto di difficoltà e di complessità, spesso
di non facile soluzione. Ma non è difficile immaginare che esso possa fornire
l’architettura per una metodologia che, con opportune variazioni, può essere
applicata proficuamente anche in altre situazioni. È comunque un percorso che
ha prodotto, in una storia ormai sufficientemente lunga da potersi considerare
significativa, risultati di grande interesse, sia sul piano qualitativo, sia sul piano
quantitativo. Con ciò ci riferiamo non solo ai dati sulla occupabilità degli
studenti, ma alla qualità del loro inserimento lavorativo, al contributo di nuove
idee, nuove conoscenze e nuove energie che portano alle imprese, e anche al
fatto che il PIL consente allocazioni tanto “felici” nei risultati quanto inusuali,
diverse dai percorsi occupazionali tradizionali, e dunque completamente
impreviste dagli stessi partecipanti, studenti e imprese. Allocazioni che il
mercato del lavoro non avrebbe potuto generare. Ci si deve dunque chiedere, a
questo punto, a che cosa è dovuto questo tipo di risultati e di opportunità che
una esperienza siffatta produce. Quali sono le ragioni, e cosa si può imparare da
esse.
La necessità di un mutamento di concezione
Abbiamo illustrato il caso del PIL ferrarese perché ci pare possa essere
interpretato come un’esperienza di transizione che “rompe” alcuni degli schemi
tradizionali di stampo funzionalista. Il PIL tenta di superare proprio quei
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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problemi di “separazione sistemica” tra mondo dell’istruzione e mondo del
lavoro; reinterpreta l’apprendimento e lo declina in una chiave di più elevata
personalizzazione e di maggiore attenzione al processo di sviluppo individuale;
cerca di sfuggire alla trappola della razionalità previa e assoluta e di costruire,
collettivamente e durante il processo d’azione, una soluzione maggiormente
soddisfacente grazie al confronto tra i soggetti implicati. Vediamo nel dettaglio
ciascuno di questi punti.
Un primo caposaldo del PIL è l’alternanza intesa come vera e propria
integrazione, non solo temporale, tra istruzione e lavoro. Altre esperienze di
alternanza non rinunciano alla sequenzialità e, soprattutto, alla separazione tra
istruzione e lavoro. Il PIL, al contrario, cerca di affrontare il problema della
transizione non attraverso la costruzione di un “ponte” più lungo e robusto, ma
avvicinando le due “sponde”. Il PIL non è concepito come il “passaggio” tra
istruzione e lavoro, ma come una fase di un processo di sviluppo personale che,
nel modo più naturale, integra istruzione e lavoro senza soluzione di continuità.
Questo aspetto è molto importante perché, se realizzato compiutamente, può
portare alla luce sia il valore formativo del lavoro, sia il valore
professionalizzante dell’istruzione. Non è cosa semplice, perché le “resistenze”
sono molteplici e provengono da ogni parte. Concretamente, il PIL tenta di
realizzare tale idea, da un lato attraverso la previsione di contenuti formativi
orientati non tanto alla professione futura, del tutto imprevedibile, ma al
processo di ricerca e confronto con il mercato del lavoro (con la parte iniziale di
didattica in aula, gli incontri con le aziende, la preparazione ai colloqui), d’altra
parte integrando l’esperienza lavorativa e lo studio (i rientri in aula, lo studio
svolto durante il periodo lavorativo e, soprattutto, le tesi svolte su temi
pertinenti all’esperienza di lavoro).
Un secondo caposaldo del PIL è il tentativo di “comporre” in un
processo collettivo tutte le “razionalità” coinvolte, inevitabilmente limitate,
anziché affidarsi alla presunzione di razionalità “sistemica”, assoluta e previa,
che si impone ai soggetti. Questo significa puntare sul dialogo, sull’incontro,
sullo scambio di informazioni, e soprattutto su una regolazione del processo
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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che “incorpora”, necessariamente, una partecipazione concreta alla scelta più
importante (l’allocazione di ogni studente in una certa impresa) da parte di
ciascuno dei soggetti implicati. La valutazione dell’Università, che pure ha un
peso minoritario sulla scelta finale, comunque influisce in tutti i momenti di
tutoraggio e supporto agli studenti (e anche di supporto informativo
all’impresa). La valutazione dell’impresa trova il suo momento di influenza
nella valutazione data ai singoli candidati durante i colloqui. La valutazione
dello studente, infine, assume una rilevanza importante sia attraverso le
candidature nel “mercatino”, sia, soprattutto, nella scelta finale. Si può
certamente dire che la discrezionalità dello studente è molto valorizzata nel PIL,
pur in un quadro di regole che tenta di contemplare anche le esigenze delle
imprese e la capacità di giudizio dell’Università.
Dunque, non è più solo l’impresa a selezionare, con modalità
standardizzate e statiche, il personale da inserire nel proprio organico.
L’impresa accetta, partecipando al PIL, di mettere in discussione la propria
razionalità relativa al reclutamento e, indirettamente, anche quella riguardante i
propri bisogni di capitale umano.
Ma non è nemmeno solo lo studente a decidere, in assoluta autonomia e
scarsità di informazioni, di candidarsi a un certo posto di lavoro, come accade
sostanzialmente per quella grande maggioranza di laureati che, in Italia ma non
solo, non sono affiancati in alcun progetto di transizione e accompagnamento
verso il lavoro. Lo studente, partecipando al PIL, accetta un sistema di regole
che se da un lato gli offre opportunità, d’altra parte lo aiuta a comprendere
meglio i percorsi di inserimento lavorativo possibili e lo “spinge” a immaginare
in modo meno vincolato il proprio percorso professionale.
Inoltre, non è più nemmeno solo l’Università a presumere di saper
indirizzare con precisione i propri laureandi verso specifici percorsi di carriera,
perché il PIL rappresenta, anche per l’Università, una sorta di “ammissione”
circa l’inevitabile imperfezione del collegamento tra percorsi formativi e sbocchi
professionali; il PIL stesso aiuta a comprendere che la varietà di tali
collegamenti non è prevedibile a priori.
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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Per tutte queste ragioni, il PIL può essere visto come un tentativo, pur
perfettibile, di realizzare il percorso di sviluppo personale secondo un
approccio fondamentalmente diverso, possiamo dire “epistemologicamente”
alternativo rispetto alle esperienze di transizione più tradizionali. In altre
parole, troviamo qui il tentativo di superare proprio i limiti fondamentali
dell’impostazione funzionalista riscontrabile nei sistemi di istruzione e
reclutamento largamente diffusi. Questa “alternatività” dell’approccio riguarda,
anzitutto, la rinuncia a ragionare in termini di “sistemi”, e quindi il disegno
delle iniziative focalizzando l’attenzione sui “processi”, e in particolare sul
processo di medio-lungo termine che, in questo contesto, è di gran lunga il più
importante: lo sviluppo personale e professionale dei giovani.
Il tentativo del PIL costituisce, a parere di chi scrive, un’esperienza che si
avvicina a un’idea di percorso di sviluppo personale coerente con i presupposti
della Teoria dell’Agire Organizzativo (Maggi, 1984/1990; 2003; 2011). Le stesse
caratteristiche del PIL che sopra abbiamo evidenziato sembrano confermare
questa ipotesi, peraltro suffragata da ulteriori considerazioni su altri aspetti del
programma, tra cui la valutazione e gli incentivi (Masino, 2012). Si può
approfondire ulteriormente la riflessione. In questa sede, ci piace sottolineare
un aspetto della teoria di Maggi che appare particolarmente rilevante per gli
scopi di questo lavoro. In un saggio sull’insegnamento nelle attività di
educazione e formazione, l’autore pone un interrogativo volutamente
provocatorio: si possono trasmettere saperi e conoscenze? (Maggi, 2010). In tale
contributo, egli pone in luce l’impossibilità di “trasmettere” conoscenza.
L’insegnamento non è trasmissione da parte del docente, ma creazione delle
condizioni favorevoli a una assunzione di iniziativa e responsabilità da parte
del discente. L’apprendimento, d’altra parte, non è mera “ricezione” ma è,
anzitutto, una scelta del discente, e i risultati dipendono in gran parte dal modo,
inevitabilmente soggettivo, in cui egli interpreta il processo di apprendimento
stesso. Si sceglie di apprendere o meno, e ciò che viene appreso è frutto di una
costruzione di significato fortemente individuale (Maggi, 2010). Non è difficile
vedere che si tratta di una posizione in netta contrapposizione con il modo in
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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cui il sistema della formazione è progettato e realizzato, in tutti i contesti. Si
tratta di una concezione di apprendimento (e di insegnamento) radicalmente
alternativa a quella dominante. Lo si può verificare anche al livello “macro”,
quando ci si rende conto che i percorsi formativi sono solitamente pensati come
“canali” precostituiti che non prevedono, nella loro architettura generale o nella
regolazione di dettaglio, la possibilità di apprendimento personalizzato né,
tanto meno, la possibilità di “uscita” e di sperimentazione. Al contrario, tali
possibilità vengono solitamente o impedite o sanzionate. Il ruolo attivo del
discente rappresenta non il “cuore” del processo di apprendimento, la sua
essenza, ma un elemento di “disturbo” della razionalità forte del sistema. Ci si
può chiedere allora in che modo l’esempio del programma PIL può aiutare a
comprendere la possibilità di realizzazione di un apprendimento basato
appunto non sull’ipotesi di “trasmissione”, ma sulla creazione di condizioni
favorevoli all’attivazione di processo autonomo da parte del soggetto. Pur nella
varietà dei processi che anche nel PIL si realizzano - comprese alcune fasi
iniziali, di durata comunque ridotta, in cui è utilizzato un approccio di tipo
tradizionale - i momenti formativi più significativi e caratterizzanti di questa
metodologia sono costituiti da situazioni in cui appare chiara la rinuncia
all’idea di insegnamento come trasmissione e di apprendimento come ricezione.
Gli studenti sono chiamati a farsi protagonisti, attivamente e, soprattutto,
autonomamente, del loro percorso formativo. La regolazione complessiva del
processo fornisce loro ampi margini di scelta, di costruzione del percorso, di
attivazione della loro esperienza; fino al momento in cui questa impostazione
culmina, ossia quando sono gli studenti stessi a scegliere l’impresa nella quale
svolgere la loro esperienza di alternanza studio-lavoro. Tutto questo, si noti,
non ha a che fare con la flessibilità delle regole del gioco, o con regole “a maglie
larghe”. Al contrario, il PIL non prevede regole più flessibili o meno pervasive
rispetto ad altre esperienze di transizione. E, in ogni caso, non è questo che fa la
differenza. È invece rilevante l’oggetto della regolazione: la creazione di
occasioni di incontro e di dialogo, il prevedere valutazioni reciproche, l’attenta
distribuzione delle capacità decisionali. È questo che rende la regolazione
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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adeguata a generare un percorso che è di apprendimento non nel senso della
“ricezione” di qualcosa di esogeno, ma nel senso della appropriazione e della
interpretazione soggettiva di opportunità e, dunque, della costruzione di un
proprio percorso. L’architettura regolativa del PIL non vede lo studente come
destinatario passivo di un insieme di attività regolate, ma utilizza le attività
regolate per indurlo a farsi soggetto attivo, che regola egli stesso, in modo
altamente discrezionale, il proprio percorso di apprendimento.
È chiaro che anche il programma PIL soffre di alcuni compromessi, di
imperfezioni, e presenta aree di possibile miglioramento. Non è stato qui
presentato come “ricetta” o “modello”, ma come esempio di un modo in cui un
processo formativo alternativo dal punto di vista della sua concezione di fondo
può essere immaginato. Un processo in cui le autoreferenzialità e le logiche di
“sistema chiuso” vengono rifiutate o quanto meno combattute; in cui viene
riconosciuta la razionalità limitata di tutti i soggetti, e si cerca di affrontarla
attraverso un elevato grado di partecipazione diffusa; in cui il focus
dell’attenzione, e dunque l’obiettivo primario, è costituito dal processo di
sviluppo della persona, anche, ma non solo, in ottica professionale; in cui si
riconosce il valore formativo del fare, dunque del lavoro, ma si cerca anche di
portare alla luce il valore professionalizzante dell’istruzione; in cui il ruolo
dell’Università, e dunque dell’insegnante, non è quello di costruire canali
formativi invalicabili e, in essi, di “trasmettere” conoscenza come si trasmette
un segnale radio, ma quello di creare le migliori condizioni possibili affinché le
persone siano invogliate a farsi carico del proprio apprendimento e, in ultima
istanza, del proprio percorso di crescita personale. Da parte dell’Università, si
tratta di una scelta organizzativa. Si tratta di scegliere la regolazione, e dunque
anche le finalità, della propria azione formativa. A monte di ciò vi è,
inevitabilmente, una scelta epistemologica.
Conclusioni
Il passaggio dall’istruzione al lavoro è uno dei momenti più delicati e
importanti nella vita di una persona. Vengono prese decisioni che ne
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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condizionano in modo decisivo il futuro. La tesi che qui abbiamo sostenuto è
che l’efficacia di tale passaggio dipende non solo da come esso è gestito, ma
anche e soprattutto da come sono concepite le attività che immediatamente lo
precedono e lo seguono, ossia l’istruzione e il lavoro. Abbiamo visto che la
concezione largamente più diffusa di tali fasi, chiaramente ispirata a una logica
funzionalistica, produce difficoltà e inefficienze. La crisi economica contribuisce
non solo ad acuirle, ma anche a portarle alla luce. Perciò il periodo di crisi
dovrebbe indurre a sperimentare soluzioni alternative. Si richiede tuttavia un
ripensamento radicale, iniziando dalla concezione di fondo dei due “sistemi”, o
per lo meno della fase finale dell’istruzione e delle fasi di reclutamento da parte
delle imprese. La radicalità di tale ripensamento non preclude una possibilità
concreta di successo. Il caso del programma PIL, qui descritto e discusso,
costituisce un esempio che va nella direzione auspicata. Una alternativa è
dunque possibile. In questa sede non abbiamo citato le notevoli difficoltà con
cui programmi quali appunto il PIL devono fare i conti, in particolare nel
riuscire a far comprendere, in tutti gli ambienti e in particolare nel mondo
dell’istruzione e nel mondo dell’impresa, il senso e la necessità del
cambiamento. Questo non dovrebbe sorprendere: una delle conseguenze
negative dell’auto-referenzialità e della logica di sistema chiuso è la produzione
di una sorta di inerzia cognitiva, una difficoltà a mettere in discussione ciò che
si è profondamente abituati a dare per scontato. E’ difficile pensare, vincolati da
tale inerzia, all’istruzione e al reclutamento non come due mondi separati e
altamente razionali, ma come un insieme di processi di azioni e decisioni
limitatamente razionali e orientate a un obiettivo che “taglia” trasversalmente i
loro confini convenzionali: un obiettivo che a sua volta è configurabile come un
processo, ossia la crescita personale e professionale dello studente, futuro
lavoratore. E’ difficile anche perché fare ciò significa ammettere tutti i limiti
sopra evidenziati, in particolare il limite di razionalità di sistemi ormai molto
consolidati, attorno ai quali sono costituiti interessi che tendono a perpetuarsi e
a riaffermarsi. Non è facile nemmeno ragionare sulle attività in termini che
dovrebbero essere del tutto ovvi, ma che nell’autoreferenzialità invisibile si
GIOVANNI MASINO, DALL’ISTRUZIONE AL LAVORO: UN’ALTERNATIVA POSSIBILE
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perdono: per esempio, è difficile pensare all’insegnamento come facilitazione
all’apprendimento auto-regolato, e non come trasmissione passiva; è difficile
pensare al lavoro come percorso formativo e di crescita personale, e non come
mera applicazione omologata e standardizzata di capacità preesistenti e
indipendenti dal contesto e, soprattutto, indipendenti dalla individualità
irriducibile dei soggetti, vero e unico “valore” del cosiddetto “capitale umano”;
è difficile pensare al reclutamento come selezione reciproca anziché unilaterale,
come dialogo anziché come monologo. E, in ogni caso, la traduzione nella
pratica di un modo diverso di pensare a questi processi, ossia la realizzazione di
un cambiamento concreto in termini organizzativi, incontra innumerevoli
resistenze. Insistere sulla necessità di investire risorse e attenzione politica sulla
cosiddetta “transizione” tra istruzione e lavoro è importante per gli effetti
concreti sulla occupabilità dei giovani, sulla qualità della loro occupazione e sul
beneficio in termini di benessere collettivo e di competitività dei sistemi
economici. Ma non solo: una disponibilità a investire e sperimentare in questa
direzione potrebbe innescare una riflessione profonda sulla inadeguatezza dei
sistemi attuali di istruzione e reclutamento. Si può arrivare alla presa d’atto che
il passaggio più importante è, a ben vedere, il superamento dell’idea stessa di
“transizione” tra sistemi diversi e separati. Il miglior modo di aiutare le persone
ad attraversare i “confini” tra sistemi di fatto incompatibili è quello di eliminare
i confini stessi, e di agire sul piano organizzativo chiarendo gli obiettivi e
ponendosi nell’ottica di quello che dovrebbe essere il vero e unico protagonista:
la persona e il suo processo di sviluppo e crescita.
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TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 42
La conciliazione vita-lavoro: quali opzioni organizzative?
Massimo Neri, Francesca Mattioli, Matteo Rinaldini Università di Modena e Reggio Emilia La conciliazione vita-lavoro è uno dei temi più attuali nel dibattito politico e accademico. Questo articolo dapprima descrive l’evoluzione del concetto di conciliazione vita-lavoro attraverso una rivisitazione interdisciplinare della letteratura. In seguito propone una sintesi delle riflessioni e delle pratiche organizzative e manageriali; una interpretazione critica della letteratura di mainstream, e dei risultati controversi riscontrabili nelle pratiche di conciliazione vita-lavoro, conduce alla presentazione di una ipotesi di lavoro che si basa sulla proposta formulata da Masino e Zamarian riguardante l’introduzione di artefatti tecnici nel processo organizzativo. E’ quindi proposto uno schema di analisi delle pratiche di conciliazione fondato su categorie concernenti (possibili) scelte di progettazione, adozione e uso, nell’intento di fornire un contributo alla contrattazione di secondo livello. Parole chiave: Conciliazione vita-lavoro, Agire organizzativo, Progettazione organizzativa, Gestione delle risorse umane Introduzione all’attualità del tema
Nell’ultimo quindicennio il tema della conciliazione vita-lavoro ha
assunto una posizione rilevante all’interno del dibattito politico, tanto da
diventare, nel discorso pubblico, una delle priorità nell’agenda dei governi dei
paesi occidentali ed essere considerato uno degli snodi strategici verso cui far
convergere politiche del lavoro, politiche sociali e politiche di pari opportunità
(Saraceno, 2006). Non a caso il tema è stato (ed è tuttora) oggetto di una corposa
produzione normativa, iniziando da quella prodotta dagli organismi
sovranazionali. Lo stesso modello sociale europeo cui l’Unione Europea aspira è
largamente pervaso dal concetto di conciliazione.
E’ possibile delineare sinteticamente i passaggi fondamentali che
caratterizzano il percorso normativo europeo sulla conciliazione. Negli anni ‘60
e ‘70, la legislazione europea tende a ricercare la parità di trattamento tra
uomini e donne sul luogo di lavoro, con il principale obiettivo di favorire la
partecipazione di queste ultime al mercato del lavoro (Calafà, 2001), assumendo
come dato il loro ruolo di caregiver. E’ dagli anni ’80, tuttavia, che inizia una
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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politica europea più articolata sul tema, nella quale trova posto la questione
relativa alla ripartizione del lavoro di cura, domestico e familiare. Il quadro
normativo continua in questi anni a essere orientato principalmente allo
sviluppo dell’occupazione femminile, ma in una più accentuata ottica di
condivisione dei diritti e delle responsabilità, cominciando dal principio di
eguaglianza.
La conciliazione come questione di uomini e di donne emerge in modo
palese solo nel 1989 con la Carta comunitaria dei diritti sociali dei lavoratori, e
dagli anni ‘90 si impone come questione ricorrente negli atti normativi e nelle
politiche europee che si susseguono, evidenziando un cambiamento
nell’orientamento delle strategie comunitarie nei confronti dei temi della
famiglia e delle responsabilità familiari. L’attenzione si sposta dalla riduzione
delle discriminazioni di genere alla lotta a ciò che ostacola l’integrazione delle
donne nel mercato del lavoro (Calafà, 2001), anche attraverso l’introduzione di
politiche family friendly (Gherardi, Poggio, 2003).
Il trattato di Lisbona del 2000 e il Libro Bianco del 2003 si pongono
l’obiettivo di proporre risposte in grado di fortificare il mercato del lavoro
europeo per un’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica
del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi
e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale. Tali atti assegnano
alla conciliazione un ruolo ufficiale e manifesto, assumendola come “uno dei
cinque pilastri della strategia dell’Unione nei termini di un’equa ripartizione
delle responsabilità familiari” (Trifiletti, 2010: 12). Negli anni successivi sono
state generate numerose direttive e raccomandazioni e sono stati stanziati
finanziamenti specifici (Fondi Strutturali Europei) che hanno supportato
operativamente linee politiche e azioni concrete. Nel tempo si è assistito dunque
a un cambiamento di traiettoria: da politiche di tutela del lavoro di cura, i cui
principali destinatari erano le donne, a politiche sempre più attente alla
redistribuzione dei carichi familiari. Da un certo momento in poi, inoltre, le
istituzioni europee hanno inserito la questione della conciliazione all’interno di
una più generale strategia di flessibilizzazione del lavoro. Gradualmente il tema
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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è stato riconosciuto e inserito tra le priorità delle agende di molti Stati membri, i
quali hanno predisposto politiche e dispositivi legislativi finalizzati
all’implementazione di specifiche strategie di conciliazione e all’introduzione di
misure da condividere e discutere in sede di contrattazione collettiva.
L’analisi del percorso europeo evidenzia anche come il tema sia stato
promosso e proposto attraverso diverse modalità, alle quali sono corrisposte
diverse incisività in termini legislativi. Talvolta la Commissione si è limitata a
dare indicazioni, altre volte ha proposto linee guida da seguire e solo in alcuni
casi sono state emanate direttive che ciascun Paese membro ha avuto l’obbligo
di recepire. Ciascun Paese membro ha declinato gli obiettivi attraverso misure e
azioni differenti. L’efficacia delle politiche adottate, dunque, è variata
sostanzialmente secondo il paese considerato, il sistema di welfare esistente o la
cultura prevalente rispetto alle attività di cura (Donati, 2005; Del Boca, Rosina,
2009). Oggi sembra piuttosto difficile parlare di politiche di conciliazione
europee riferendosi a un insieme organico di azioni e strumenti; la complessità
dei fattori in gioco e le profonde differenze emergenti dal confronto dei contesti
demografici e socio-culturali non consentono, infatti, di individuare né un
linguaggio comune in tema di conciliazione, né risposte concrete condivise.
Nel contesto italiano la regolazione giudica si è dapprima concentrata sul
diritto di uguaglianza e pari opportunità delle donne. Già la Costituzione
introduce nell’ordinamento il principio di uguaglianza, ma solo negli anni ‘60 e
‘70 la legislazione si concentra sulla parità di trattamento ed equità tra i generi,
sulla visione della maternità come valore sociale e, dunque, sulla tutela di tale
condizione. Dalla metà degli anni ’80 si verifica un cambiamento delle politiche
in tema di conciliazione: da politiche di esclusiva difesa della maternità e parità
di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (L. 1204/1971 e L.
903/1977) a politiche che promuovono azioni positive per la realizzazione della
parità uomo-donna nel lavoro (L. 125/1991 e L. 215/1992). Tuttavia, il punto di
svolta normativo per la facilitazione di azioni e misure a supporto della
conciliazione tra i tempi di vita e di cura, di lavoro, formazione e di relazione
appare con la L. 53 del 2000. Tale legge contiene disposizioni per il sostegno
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi delle città. Con questa norma la legislazione italiana
promuove l’integrazione degli uomini nell’attività di cura, considerando al
contempo tutti gli aspetti, i sistemi e gli attori (economici e sociali) che sono o
possono essere coinvolti in tale attività affinché vengano realizzate azioni
integrate ed efficaci piani di intervento per la conciliazione. All’inizio del nuovo
millennio si inaugura un processo di progettazione di politiche specifiche per
l’armonizzazione tra tempi di vita e di lavoro, con l’istituzione dei congedi
famigliari, la piena titolarità del congedo paterno, la nascita del congedo per la
formazione, le misure di coordinamento dei tempi di funzionamento delle città
e la promozione dell’uso del tempo per fini di solidarietà sociale. La norma
affronta il tema, per la prima volta al livello nazionale, in modo esplicito e con
l’obbiettivo dichiarato di coinvolgere una pluralità di attori economici e sociali.
E’ un tentativo di promuovere in modo sinergico sia l’aspetto aziendale e di
sicurezza sociale della conciliazione (attraverso, ad esempio, i congedi
famigliari), sia l’aspetto riguardante l’intero sistema sociale1. Il presupposto
implicito da cui prende le mosse il provvedimento legislativo è che la ricerca
dell’equilibrio vita-lavoro, per essere efficace, non debba essere perseguita e
messa in atto esclusivamente dagli attori direttamente toccati dalla questione
“conciliazione”, ma anche da tutti gli attori capaci di favorire e accompagnare
l’integrazione tra sfera di vita e sfera lavorativa. La legge individua, infatti,
ruoli, azioni e misure d’intervento tanto per i lavoratori e le imprese, quanto per
gli enti locali, le istituzioni e le organizzazioni territoriali.
Il dispositivo normativo della L. 53 del 2000, unitamente alla possibilità
di utilizzare i fondi comunitari e nazionali stanziati, ha, quindi, stimolato la
generazione di una molteplicità di progetti locali, sia al livello territoriale sia al
livello aziendale2.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!1 Si pensi alle cosiddette “politiche dei tempi” (Bonfiglioli, 2006). 2 Attraverso la L. 53/2000 si estende e si incentiva l’uso dei congedi parentali alla figura paterna, facilitando un maggior coinvolgimento degli uomini nella suddivisione dell’attività di cura. La norma propone una maggiore flessibilizzazione degli orari di lavoro e la discussione tra le parti sociali della realizzazione di azioni positive per la conciliazione nei luoghi di lavoro, rafforzando quest’ultimo obiettivo con lo stanziamento di finanziamenti diretti
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Il parziale spostamento del baricentro legislativo in materia di welfare
dovuto alla L. Cost. n. 3 del 2001, ha contribuito a far si che gli interventi di
conciliazione vita-lavoro, consistenti in termini numerici, siano stati spesso
implementati a discrezione della sensibilità degli attori di volta in volta
coinvolti (Sindaci, Consiglieri di Parità, attori politici, imprenditori, ecc.) e siano
altrettanto spesso stati costruiti sulla base delle specifiche caratteristiche dei
singoli contesti locali (Bifulco, 2005; Balbo, 2008; Trifiletti, 2010). In Italia, le
politiche di conciliazione, in linea con quelle di welfare, infatti, hanno raggiunto
dimensioni, caratteristiche e risultati diversi “tanto a seconda delle condizioni
di contesto, quanto in rapporto alle capacità e alle possibilità che gli attori locali
hanno di leggere, amministrare, orientare, lo sviluppo del territorio” (Ranci,
2005: 18). Tutto ciò ha, da una parte, garantito la possibilità di affrontare,
attraverso interventi di conciliazione calibrati ad hoc, un contesto italiano
particolarmente eterogeneo (evitando, quindi, di calare sul territorio interventi
troppo astratti e decontestualizzati), dall’altra parte ha prodotto un ventaglio di
provvedimenti in relazione debole con le linee politiche nazionali e soprattutto
una frammentazione territoriale delle politiche di conciliazione vita-lavoro,
dando luogo a un vero e proprio processo di “geopardizzazione”3 (Lodigiani,
Riva, 2010).
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!all’implementazione di azioni di riorganizzazione aziendale (art. 9 L. 53/2000, recentemente modificato dall’art. 38 della L. 69/2009, che pone l’accento sulla creazione di reti territoriali per la conciliazione). Infine, viene sottolineato il ruolo che gli enti locali possono esercitare attraverso le politiche dei tempi e degli orari. 3 Non a caso negli ultimi anni, il Piano ITALIA 2020 e la L. n. 92 del 2012, benché molto contestati e discussi (Gottardi, 2010; Del Boca, 2010), hanno riproposto il tema all’interno delle linee di policies nazionali, puntando su una maggiore disponibilità dei servizi e/o degli interventi di cura alla persona e sul potenziamento dei supporti finalizzati a consentire alle donne la permanenza, o il rientro, nel mercato del lavoro. Le norme hanno soprattutto voluto stimolare l’attenzione delle parti sociali e incentivare la proposizione del tema come oggetto di contrattazione collettiva in linea con la tradizione di altri paesi europei (ISFOL, 2011) e supportati da una riflessione della letteratura in merito alla necessità di affrontare il tema anche in sedi differenti da quelle normative (Piazza, 2007; Murgia, Poggio, 2007; Calafà, 2006). La contrattazione si pone, infatti, come strumento di mediazione tra “le due polarizzazioni di iniziative unilaterali delle imprese da un lato e l’individualizzazione del rapporto di lavoro dall’altro” (Murgia, Poggio, 2007).
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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Le linee di sviluppo generali del dibattito sulla conciliazione vita-lavoro
Al di là del recente processo di regolamentazione normativa in materia
di conciliazione, dell’accelerazione di tale processo e dei risultati frammentati e
non sempre soddisfacenti cui si è pervenuti fino ad oggi, la questione della
conciliazione vita-lavoro è oggetto di dibattito all’interno delle scienze sociali ed
economiche italiane fin dagli anni ‘70 e appare trasversale a diversi campi
disciplinari. Non s’intende in questa sede ripercorrere esaustivamente
l’articolazione del dibattito che si è sviluppato negli ultimi quaranta anni4. E’
utile, tuttavia, mettere a fuoco almeno due linee di sviluppo generali della
riflessione sulla conciliazione vita-lavoro, peraltro fortemente collegate5.
La prima tendenza della riflessione sulla conciliazione vita-lavoro è
definibile come quella della “degenderizzazione” del tema (Riva, Zanfrini, 2010;
Sabbadini, 2004). Tale tendenza si è presentata principalmente attraverso la
progressiva inclusione del genere maschile all’interno della questione
conciliazione vita-lavoro. Contemporaneamente è emerso l’orientamento a
comprendere all’interno del tema della conciliazione altre categorie di attori
sociali, come disabili, stranieri, giovani, ecc. Ripercorrendo il dibattito che si è
sviluppato in ambito sociologico, economico e organizzativo, dunque, è
possibile individuare la propensione a emancipare la questione della
conciliazione vita-lavoro dal ristretto ambito femminile e a ricondurla in un
alveo bipartisan rispetto al genere e più articolato rispetto alle categorie di
soggetti coinvolti o coinvolgibili. Alla base di tutto ciò sta evidentemente
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!4 Per una esaustiva rassegna sul tema, si vedano Trifiletti, 2010; Naldini, Saraceno, 2011. Per un approfondimento rispetto all’evoluzione del concetto nella normativa europea si veda Carparelli, Tassa, 2011. Il tema è stato affrontato in modo particolare dal punto di vista delle politiche della famiglia e del welfare da: Bould, Crespi, 2008; Donati, 2005; 2008; Donati, Prandini, 2008. 5 Nel glossario contenuto nella pagina web www.donne-lavoro.bz.it, la conciliazione è definita come “un tema che non è più solo un problema individuale delle donne, ma sta diventando un tema sociale, che può coinvolgere anche gli uomini e le organizzazioni. La vita e il tempo quotidiano sono composti da molteplici occupazioni per tutti, a seconda dei cicli di vita e delle situazioni familiari, ma anche dei bisogni di studio, di tempo libero e di altre attività. La conciliazione è un concetto che coinvolge molti soggetti in una specie di ecosistema (individui, aziende, sistema sociale) e che sta entrando nella cultura di chi opera per il miglioramento dei sistemi lavorativi e sociali”.
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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l’assunzione delle profonde trasformazioni sociali e culturali che negli ultimi
decenni hanno investito l’Italia, e non solo. La tendenza alla
“degenderizzazione” della riflessione sulla conciliazione, naturalmente, non
significa che la questione femminile si sia esaurita o sia stata relegata a
questione marginale all’interno del dibattito scientifico e culturale (Piazza, 2001;
Naldini, Saraceno, 2011). I contributi teorici, le ricerche e le proposte progettuali
relative alla conciliazione vita-lavoro continuano ad avere come oggetto
prevalente la condizione femminile, se non altro perché una delle più radicali
trasformazioni sociali cui si è accennato sopra è stata proprio la
femminilizzazione del mercato del lavoro e della struttura occupazionale
(anche se non nelle misure auspicate, né in modo omogeneo in tutto il territorio
italiano) e perché ancora oggi non si possono ritenere esaurite le criticità
riguardanti l’accessibilità delle donne al lavoro e alla carriera lavorativa
femminile. E’ innegabile, tuttavia, che, rispetto agli anni ’70, si sia logorato il
“monopolio femminile” sul tema della conciliazione vita-lavoro (Bombelli,
2003; Piazza, 2006; Biancheri, 2006). Il concetto di conciliazione vita-lavoro è
passato così dal rappresentare la premessa per l’inclusione e la qualità della vita
e del lavoro delle donne a rappresentare la premessa fondamentale della qualità
del vivere sociale di tutti i cittadini (Trifiletti, 2010). Le ricadute progettuali di
questo spostamento (o estensione) del tema conciliazione vita-lavoro non sono
di poco conto. In molti, infatti, hanno evidenziato che con il passare del tempo
gli interventi di conciliazione vita-lavoro hanno coltivato la tendenza alla
fuoriuscita dai confini delle politiche di genere, allargando il proprio raggio
d’azione nell’ambito della gestione delle risorse umane (Bombelli, 2004; Cuomo,
Mapelli, 2007; Piazza, 2007; Castellucci et al., 2009).
La seconda linea di sviluppo del dibattito sulla conciliazione - come già
detto, strettamente collegata alla prima - è quella definibile come tendenza alla
“defamilizzazione”. Il tema della conciliazione si è, infatti, presentato
inizialmente come conciliazione tra tempi di cura famigliare e tempi di lavoro.
L’entrata in crisi del “sistema famiglia-lavoro” (Pleck, 1977) - affermatosi
parallelamente al processo di industrializzazione delle società occidentali e
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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della rispettiva allocazione del lavoro remunerato e non remunerato in base al
genere (separazione tra famiglia e mercato del lavoro) - ha indubbiamente
rappresentato lo stimolo principale per mettere a fuoco il problema della
conciliazione in termini di tempi da dedicare alle responsabilità famigliari e
tempi di lavoro (Saraceno, 2006). La crisi del sistema suddetto e la presenza
sempre più importante delle donne nel mercato del lavoro, infatti, rimettono in
discussione il sistema di conciliazione precedente, in cui la donna, con il ruolo
di responsabilità che le era assegnato nella famiglia, rappresentava il principale
punto di riferimento del processo di conciliazione famiglia-lavoro (Crouch,
1999; Saraceno, Naldini, 2004; Reyneri, 2007). Con tutto ciò si impone l’esigenza
di riflettere sulla conciliazione tra tempi di cura della famiglia e tempi di lavoro,
che (forse anche per inerzia) ha continuato a esprimersi per molto tempo come
un problema esclusivamente femminile. Negli ultimi anni, tuttavia, le
trasformazioni culturali e sociali, unitamente ai cambiamenti della domanda di
lavoro, hanno determinato un graduale spostamento del focus della
conciliazione, dall’esclusivo ambito dei tempi di cura della famiglia6 (che a loro
volta si sono ulteriormente estesi e articolati e hanno ampliato il loro significato)
all’ambito dei tempi di cura di sé, sia nella gestione quotidiana, sia nella
gestione delle fasi che attraversano la vita intera (Ghislieri, Piccardo, 2003;
Haas, 2005; Pfau-Effinger, 2005; 2006; Hobson et al., 2008). In sostanza, in
accordo con Naldini e Saraceno (2011: 14) si sostiene che “sia gli uomini che le
donne […] finiscono per avere meno tempo per sé. Ciò non significa solo il
tempo per il riposo o per le attività ludiche. Significa anche […] tempo per la
partecipazione sociale e politica e per la vita di relazione al di fuori della
famiglia”. Non a caso la terminologia ufficiale - sia in ambito di analisi sia in
ambito progettuale - è mutata e oggi si tende a parlare di equilibrio tra tempi di
vita e tempi di lavoro (work-life balance) e sempre meno di conciliazione tra
tempi di cura della famiglia e tempi di lavoro (Lewis, Campbell, 2008;
McGinnity, Whelan, 2009). !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!6 La psicologia e la sociologia della famiglia statunitensi hanno a lungo approfondito il problema esclusivamente come conflitto fra la vita lavorativa e vita famigliare. Per una rassegna esaustiva in merito si veda Perry-Jenkins et al., 2000; Greenhause, Sing, 2003.
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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L’accezione terminologica non è irrilevante e riflette in un qualche modo
l’evoluzione del concetto nel dibattito culturale. Infatti, benché nel linguaggio
corrente e in quello legislativo si tenda a trattare di conciliazione vita-lavoro ed
equilibrio vita-lavoro in modo indifferenziato, è stato rilevato (Carparelli, Tassa,
2011) che queste espressioni implicano concetti distinti. Il primo, “conciliazione
vita-lavoro”, enfatizza la possibilità di adattare la sfera lavorativa alla sfera di
cura della famiglia assumendo i rispettivi ambiti di vita come definiti e
riconosciuti socialmente; il secondo, equilibrio vita-lavoro, enfatizza invece la
possibilità di adattare la sfera lavorativa alle esigenze soggettive, le cui
caratteristiche non possono essere rilevabili a priori.
La tendenza a emancipare il tema della conciliazione dall’ambito
famigliare e di genere rappresenta peraltro un risultato attribuibile (in che
misura rimane oggetto di dibattito) alle istanze che di volta in volta i movimenti
femministi hanno posto. Come anticipato, non è questa la sede per proporre un
approfondito commento su queste dinamiche: qui si vuole solo sottolineare il
fatto che il processo di “de-ideologizzazione” (e di inevitabile “re-
ideologizzazione”), che emerge dalla messa in discussione delle relazioni
“conciliazione/ambito femminile” e “conciliazione/ambito famigliare”, si
presenta oggi come un potenziale elemento di rottura con il passato. Tutto ciò
può, tuttavia, declinarsi in una sorta di processo di individualizzazione (o
personalizzazione) della questione conciliazione vita-lavoro che inevitabilmente
richiama la questione delle relazioni di potere nei luoghi di lavoro (e quindi
della contrattazione a livello aziendale) e nella società in generale. Non si può
trascurare, inoltre, il dato da cui si è partiti, ovvero che alcune specifiche
categorie (in primis le donne) continuino a rappresentare, come molte ricerche
rilevano, fasce svantaggiate (o per lo meno vulnerabili) sia nell’accesso al
lavoro, sia nella possibilità di gestire i tempi famigliari e i tempi di lavoro.
Inoltre, può essere altrettanto ragionevole affermare che la tendenza a
ricorrere a categorie e relazioni non pre-costituite rappresenti un movimento
emancipatorio. Tuttavia, la discussione dei precedenti assunti inerenti alla
conciliazione come armonizzazione tra tempo famigliare e tempo di lavoro (ad
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esempio l’assunzione dei tempi di vita come tempi di cura della famiglia;
l’assunzione dei tempi di cura della famiglia come tempi di genere; l’assunzione
di confini netti tra tempi dell’ambito produttivo e tempi dell’ambito
riproduttivo) e la riformulazione del tema della conciliazione come
armonizzazione tra tempo di vita e tempo di lavoro, espongono la questione al
rischio di nuove reificazioni, cominciando dalla collocazione del tempo di
lavoro al di fuori dei tempi vita e viceversa.
In questo articolo si è comunque scelto di utilizzare l’espressione
“conciliazione vita-lavoro” (e non, quindi, equilibrio vita-lavoro), nella
convinzione che, al di là della terminologia utilizzata, né in letteratura, né nella
prassi si sia verificata una autentica rottura concettuale.
Nelle pagine seguenti desideriamo illustrare come la riflessione e la
prassi organizzativa hanno affrontato le questioni sopra delineate.
La conciliazione negli studi organizzativi
Senza ambizione di esaustività, esponiamo in modo schematico le
interpretazioni più diffuse in campo organizzativo riguardanti il tema della
conciliazione vita-lavoro.
La conciliazione come attenuazione del conflitto di ruolo. In una prospettiva
tipicamente funzionalista, la questione della conciliazione è stata interpretata in
relazione alle potenziali forme emergenti di conflitto inter-ruolo, che in questo
caso sarebbe determinato da richieste provenienti dal ruolo di lavoro e da un
ruolo non di lavoro (famigliare o altro) che possono essere, per alcuni aspetti,
incompatibili (Greenhouse, Beutell, 1985). Ipotizzato (e in alcuni casi misurato
con strumenti di rilevazione psicometrici) l’effetto disfunzionale che questo
conflitto tra tempi di vita e tempi di lavoro ha sulla prestazione lavorativa e
sullo stress individuale, si propone di circoscriverne l’impatto negativo,
identificando quali condizioni e risorse possano rendere più sinergica la
partecipazione degli attori ai ruoli potenzialmente confliggenti. Il tutto
chiaramente all’interno di una cornice di soddisfacimento di bisogni di
MASSIMO NERI, FRANCESCA MATTIOLI, MATTEO RINALDINI, CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: QUALI OPZIONI ORGANIZZATIVE?
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integrazione e di adattamento del sistema organizzativo (attraverso il buon
funzionamento delle sue parti) all’ambiente.
La conciliazione come strumento di competitività. Un ulteriore impulso
all’interesse delle discipline organizzative per il tema della conciliazione vita-
lavoro appare nella sottolineatura, proposta da alcune riflessioni teoriche, di
due fattori strettamente collegati tra loro: il cambiamento della domanda di
lavoro da parte da parte delle imprese e la crescente importanza attribuita, dagli
anni ‘80, allo strategic human resource management (Scapolan, 2008). Rispetto alla
prima dimensione, si sostiene che l’affermazione e l’estensione di una logica di
market oriented governance of labour (Alves et al., 2007), unitamente al modello di
concorrenza iper-competitiva che si accompagna ai processi di globalizzazione,
ha determinato cambiamenti profondi nella domanda di lavoro da parte delle
imprese.
Tra i cambiamenti più significativi della domanda di lavoro si trova
senz’altro la ri-articolazione della richiesta dei tempi di lavoro, che ha seguito
diverse traiettorie, talvolta contradditorie (frantumazione dei confini tra i tempi
di lavoro e di non lavoro, estensione del tempo di lavoro, aumento dei ritmi
lavorativi, estemporaneità dei periodi lavorativi, ecc.). In questa accezione, la
questione si pone quindi nei (soliti e abusati) termini della esaltazione della
nozione di flessibilità. Allo stesso tempo, nelle discipline organizzative si è
insistito sull’idea che le risorse umane rappresentano un ruolo chiave per il
successo dell’organizzazione. Ne consegue che l’attrazione e il mantenimento
dei talenti sul mercato, la valorizzazione del capitale umano presente
nell’organizzazione, la valorizzazione delle diversità presenti all’interno
dell’organizzazione, lo sviluppo delle diverse competenze e soprattutto la
combinazione di tutto questo con altri asset materiali e immateriali
dell’organizzazione possono rappresentare la chiave per il successo
dell’impresa7. La resource based view (Barney, 1991) è spesso la proposta teorica
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!7 Si veda, rispetto all’approccio in termini di incremento della produttività o delle performance aziendali, Bevan et al., 1999; Chincichilla et al., 2011; Konrad, Mangel, 2000; De Biase, 2002; Castellucci et al., 2009; Bombelli, 2010; sul miglioramento della motivazione dei lavoratori, Cocozza, Cilona, 2011; sull’incremento delle performance aziendali e dell’attrattività del
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di riferimento. La conciliazione è qui proposta come funzionale alla
“estrazione” di valore competitivo dalle risorse umane inserite
nell’organizzazione. In questa prospettiva, dunque, la ricerca di una migliore
conciliazione tra vita e lavoro è finalizzata all’acquisizione degli (ipotizzati)
vantaggi enunciati dalla letteratura.
La conciliazione come vincolo sociale. Negli ultimi anni l’istituzionalismo (o
neo-istituzionalismo) di matrice sociologica ha prodotto diversi contributi sul
tema della conciliazione anche in ambito organizzativo, ove si inserisce
l’approccio alla “organizzazione sociale totale del lavoro” (Borghi, Rizza, 2006;
Glucksmann, 1995; 2005). In questa prospettiva, la ricerca di legittimazione
istituzionale è per l’impresa una linea guida imprescindibile per la propria
sopravvivenza. Per utilizzare una terminologia coerente con l’approccio
istituzionalista, i mutamenti che si verificano all’interno dell’ambiente
istituzionale dell’organizzazione, una volta riconosciuti e, dunque, costituenti e
strutturanti il campo organizzativo, non possono che esercitare una spinta al
cambiamento dell’organizzazione stessa. L’analisi di qualsiasi attività
lavorativa e la modalità in cui essa si forma o si riproduce attraverso le persone
deve necessariamente mettere in relazione tutte le diverse forme di lavoro e le
trasformazioni che intercorrono nell’istituzione lavoro (Borghi, 2007). In altri
termini, i cambiamenti degli stili di vita delle donne e in generale di tutti i
cittadini, i mutamenti sociali e culturali, i cambiamenti normativi di diverso
tipo e livello, le trasformazioni dell’istituzione famigliare, del welfare, delle
istituzioni regolatrici dei mercati e in generale di tutte le istituzioni hard e soft
non possono che esercitare una pressione orientata all’attivazione di pratiche di
conciliazione vita-lavoro. Le azioni progettuali in termini di conciliazione vita-
lavoro riconducibili a questa prospettiva partono dall’assunzione delle rigidità
organizzative nel riconoscimento di vincoli sociali (istituzionalizzati o quanto
meno a uno stadio di elevata istituzionalizzazione) e sono orientate alla
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!personale aziendale nella fase di recruitment, Beauregard, Henry, 2009; sulla valorizzazione delle competenze delle risorse umane, Piazza, 2007; sul commitment dei lavoratori, Roehling et al., 2001; sulla gestione e la limitazione di stress e fatica, Tausig, Fenwick, 2001; Halpern, 2005.
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trasformazione delle organizzazioni per attenuare le criticità di conciliazione di
cui i soggetti e le loro famiglie si fanno carico. Si tratta, dunque, di una sorta di
invasione del campo organizzativo per orientare la strutturazione dello stesso.
In sostanza, alla luce di questo quadro dei contributi che hanno
affrontato la questione della conciliazione, appare che le prospettive teoriche di
mainstream – riconducibili alla logica del sistema predeterminato rispetto ai
soggetti – sono quelle che più hanno ispirato la trattazione. E’ possibile, infatti,
identificare come tratto comune ai percorsi citati il tentativo di superamento
della impostazione fordista a favore della cosiddetta rivoluzione post-fordista,
trainata, comunque, dalla logica del sistema predeterminato rispetto ai soggetti
nella declinazione organicista. Allo stesso tempo, non sembra sostanzialmente il
caso di affidarsi alla distinzione tra approcci alla gestione delle risorse umane
cosiddetti strumentali e approcci alla gestione delle risorse umane cosiddetti
costitutivi (Costa, Giannecchini, 2005).
Se, infatti, l’impostazione che abbiamo presentato sotto il titolo di
conciliazione come attenuazione del conflitto di ruolo rientra pienamente in una
logica di strumentalità funzionale delle risorse alle esigenze del sistema, non si
ritiene sufficiente la dichiarazione d’intenti contenuta nell’impostazione
resource-based, relativa alla valorizzazione delle persone, per riconoscere a tale
approccio un carattere costitutivo della realtà organizzativa, alla luce della
declinazione che di questo approccio (e di altri contigui, come quello delle
competenze) è stata estesamente offerta (Neri, 2008).
Non a caso, per quel che riguarda le soluzioni riconducibili alla visione
della conciliazione come strumento di competitività, si osserva come la
prevalenza delle proposte messe in campo ha riguardato interventi di ri-
progettazione a livello micro (che tanto ricordano la progettazione
organizzativa di matrice socio-tecnica), spesso accompagnati da politiche di
supporto psicologico (counseling, coaching, ecc.) e di (ri-)addestramento e
formazione; qualora si siano proposte riflessioni su casi specifici lo si è fatto,
comunque, al fine di individuare le best-practice della conciliazione.
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Quando invece la conciliazione è stata assunta come vincolo sociale e la
prospettiva teorica di ispirazione ha riconosciuto i debiti nei confronti della
fenomenologia organizzativa (come il neo-istuituzionalismo di matrice
sociologica di cui si è detto), traducendosi in un “funzionalismo debole” (Vaira,
2010), gli interventi si sono qualificati prevalentemente come pressioni situabili
al livello dell’ambiente istituzionale (ad esempio la generazione di normative al
livello europeo, nazionale o locale; specifici accordi quadro tra le parti sociali;
innovazioni diffuse da comunità epistemiche e/o imprenditori istituzionali) che
hanno una potenziale capacità di impatto sulle dinamiche organizzative interne
solo indiretta.
Tutto questo insieme di riflessioni ha indubbiamente fatto crescere
l’attenzione sulla conciliazione e ha svolto una funzione sensibilizzante rispetto
al tema. Tuttavia, i risultati in termini di aumento della conciliazione vita-
lavoro all’interno delle organizzazioni non sono stati quelli sperati. Sia sul
piano nazionale sia europeo, le ricerche evidenziano la permanenza di uno stato
di difficoltà maggiore per le donne nella ricerca di equilibrio tra tempi di vita e
tempi di lavoro e soprattutto l’emergenza dello squilibrio esistente nella
ripartizione delle responsabilità e delle attività di cura, che ricadono
prevalentemente sul genere femminile (Eurostat, 2008; ISFOL, 2009; OECD,
2010; ISTAT, 2010; 2011; Eurofound, 2011). La Commissione Europea stessa,
attraverso l’analisi dei dati nazionali sottolinea che la conciliazione continua ad
essere nei fatti una questione prevalentemente femminile. La partecipazione
delle donne al mercato del lavoro risulta, infatti, influenzata negativamente
dalla presenza di figli o dall’investimento in attività di cura famigliari (media
EU27 -11,3%; EU15 -10,9%), mentre al contrario, la presenza di bambini nelle
famiglie incide anche sull’incremento della partecipazione maschile (media
EU27 +7,7%; EU15 8,8%) (Eurofound, 2011). In Italia, le donne che decidono di
interrompere il lavoro dopo la nascita dei figli continua ad attestarsi al 20%
circa, e riguarda sia le donne più giovani sia quelle meno giovani (ISTAT, 2010).
E’ stato peraltro osservato (Saraceno, 2006) che in un mercato del lavoro
profondamente trasformato, dove i giovani accedono in larga parte con
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contratti atipici, la legislazione vigente in materia di maternità si rivolge alle
sole lavoratrici dipendenti e a tempo indeterminato. Il 43% delle donne italiane
con età inferiore ai 40 anni, non rientrando nel target di riferimento della L.
53/2000, non accede alla tutela della maternità garantita alle lavoratrici
“standard” (Ponzellini, 2010). Inoltre, occorre aggiungere la presenza di un
modello di welfare di tipo mediterraneo, e una scarsa offerta di servizi per
l’infanzia nella maggior parte del territorio.
La scelta di avere uno o più figli da parte delle donne in Italia induce
forti cambiamenti nell’ambito lavorativo e tra questi l’abbandono del posto di
lavoro è solo quello più manifesto (Rondinelli, Zizza, 2010). Le donne, infatti,
sono portate a scegliere un impiego in settori più femminilizzati, come ad
esempio il terzo settore, dove è più diffusa una gestione flessibile dell’orario di
lavoro; all’interno delle organizzazioni rischiano l’isolamento già nel periodo
pre-parto (Todisco, 2010); al rientro dalla maternità si devono confrontare con
culture maschili del face-time (Fuchs et al., 1998; Pogliana, 2009) e vedono
sfumare le possibilità di crescita professionale; spesso a parità di ruolo e
responsabilità ricevono emolumenti inferiori rispetto ai colleghi maschi.
Al livello aziendale, infine, si contano numerose iniziative di pari
opportunità e diverse misure di conciliazione, ma tutto ciò non sembra avere
scalfito il “soffitto di vetro”, ovvero una vera e propria barriera nell’accesso alle
posizioni organizzative di vertice per le donne (Bombelli, 2000; Connell 2002;
Sestito, 2002; Garofalo, 2002). Questo porta a esasperare la tradizionale
dicotomia tra produzione e riproduzione, lavoro e famiglia e soprattutto
l’assenza di cittadinanza della maternità all’interno delle organizzazioni
(Gherardi, Poggio, 2003; Saraceno, 2008; ISFOL, 2009).
Critica allo stato dell’arte della riflessione e della pratica sulla conciliazione
Come già ricordato, la riflessione sul tema e la diffusione di pratiche e
strumenti di conciliazione hanno accresciuto la sensibilizzazione, portando la
questione all’attenzione di tutti gli operatori socio-economici ma, allo stesso
tempo, non è ragionevolmente possibile considerarsi completamente soddisfatti
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rispetto allo stato dell’arte della riflessione teorica e rispetto ai risultati
raggiunti.
Per quanto riguarda la riflessione, si può osservare che nell’impostazione
riferibile al mainstream economico-organizzativo la progettazione di strumenti
per la risoluzione del conflitto vita-lavoro si è risolta perlopiù
nell’implementazione di misure che presuppongono un’ottica “curativa”,
ovvero che tendono ad alleviare le conseguenze derivanti dalla mancata
conciliazione più che agire sulle cause. Come si è già detto, congedi familiari8,
part-time e implementazione di best practices risultano le misure più utilizzate. I
primi due strumenti rispondono a un’impostazione della risoluzione del
problema che è possibile definire “normativa”; tali strumenti sono introdotti
nell’organizzazione prevalentemente da prescrizioni legislative (sia nazionali
sia europee) alle quali corrisponde una riprogettazione “adattativa” e, nella
maggior parte dei casi, temporanea. L’implementazione delle best practices
rientra, invece, in ciò che possiamo definire un’impostazione “imitativa” della
risoluzione del problema. Secondo questa impostazione si determina uno o più
modelli di supporto alla progettazione e si individuano buone pratiche sulla
base dei risultati ottenuti e considerati ottimali, sia nel caso in cui essi
rispondano a criteri di incremento dell’efficienza marginale, sia nel caso in cui
rispondano ad altri criteri di legittimazione. Successivamente, se ne prevede la
riproduzione sistematica e l’applicazione, scegliendo in base alla migliore
corrispondenza ai requisiti funzionali dei modelli stessi. Spesso, inoltre, in
seguito a indagini psicometriche (studi di clima, analisi motivazionali,
misurazione dello stress da lavoro, ecc.) si propongono interventi di
riprogettazione micro che ripercorrono la tradizione che va dalla scuola socio-
tecnica fino alle proposte di Hackman e Oldham (1980). In ogni caso, è possibile
affermare che nel mainstream organizzativo la conciliazione si riduce a una
“banale” questione di progettazione micro-organizzativa, assimilabile a quella,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!8 Una recente ricerca dell’IZA (Lalive et al., 2011), condotta in Austria, ha evidenziato che i congedi parentali rappresentano un ottimo strumento per la tutela del lavoro e il mantenimento del reddito in occasione della nascita del figlio, ma allo stesso tempo possono portare a un significativo allontanamento e ritardo nel rientro al lavoro.
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altrettanto dibattuta, della flessibilità del lavoro9, riproponendo le criticità - più
volte evidenziate da Maggi (1984/1990; 2003; 2011)10 - dell’azione di design, cui
né la riflessione teorica né la prassi tradizionale sono riuscite (sinora) a trovare e
proporre rimedio.
Un ulteriore aspetto rende complessa l’analisi e la proposta di efficaci
interventi a supporto delle possibilità di conciliazione vita-lavoro: l’aspetto
attinente la questione dei confini organizzativi. La maggior parte degli studi
empirici realizzati fino ad ora sul tema si è prevalentemente limitata a esplorare
i fabbisogni in termini di flessibilità e servizi di un target di lavoratori
appartenenti alla stessa azienda e ha confinato le necessità o gli ostacoli alla
soddisfazione all’interno delle mura aziendali. Analizzando il mainstream
organizzativo descritto nei paragrafi precedenti, in altre parole, il campo di
azione organizzativa si risolve all’interno della singola azienda. Alcune recenti
ricerche (Mattioli, 2012) mostrano al contrario l’opportunità di ampliare l’analisi
del fabbisogno di conciliazione oltre i confini aziendali, a maggior ragione
quando si considera la dimensione piccola e media delle aziende che
caratterizzano il territorio italiano ed europeo11.
L’opportunità di esplorare un approccio di governance territoriale (Piazza,
2005; Calafà, 2006) prevede la cooperazione tra le parti sociali
nell’individuazione di bisogni, interessi e responsabilità di conciliazione e nella
definizione di soluzioni derivanti dallo scambio tra tutti gli attori coinvolti
(individui, famiglie, istituzioni, operatori pubblici e privati erogatori di servizi,
aziende, organizzazioni sindacali e associazioni datoriali). Tale approccio
favorisce la costruzione di network che si aprano allo studio del problema non
per la singola azienda (come avviene ora nelle multinazionali) o per il singolo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!9 Non a caso nel sito del Ministero del Lavoro, si propone una guida per presentare progetti utili a “Incrementare la conoscenza degli strumenti a disposizione delle aziende per favorire la conciliazione tra esigenze di lavoro e impegni familiari”. Tali progetti sono definiti come progetti di flessibilità per la conciliazione. 10 Sul tema si veda anche Masino, 2005; Fabbri, 2010. 11 Potenzialmente, l’ottica di analisi territoriale può rappresentare un esempio di forma dialogica che porta a uscire dai confini organizzativi, a trattare la conciliazione come tema condiviso e discusso tra diverse parti al di fuori della stessa organizzazione e che può dare luogo ad azioni sinergiche che tengano conto della molteplicità di fattori di cui si compone (Mattioli, 2012).
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lavoratore (ad esempio il sistema dei voucher), ma per i bisogni dell’intero
tessuto sociale (Eurofund, 2007; Murgia, Poggio, 2007; Commissione Europea,
2008; Saraceno, 2009). Tutto ciò fa emergere l’impasse che la letteratura
mainstream mostra allorquando il livello di analisi eccede quello intra-
organizzativo. Sono, infatti, noti i limiti degli approcci che negli ultimi
vent’anni hanno monopolizzato la riflessione sulla progettazione inter-
organizzativa, reificando l’organizzazione e i suoi confini12.
Le critiche rivolte per altro verso agli approcci di mainstream da parte dei
sostenitori della prospettiva soggettivista (basata, intra alias, sul rifiuto della
generalizzazione delle nozioni di famiglia, diversità ecc., e fondata sulla
convinzione che tali nozioni siano costrutti socialmente costruiti), non riescono
a incidere sulla realtà organizzativa. Le teorie proposte in questa prospettiva,
sostanzialmente ancorate a una critica anti-manageriale, tendono, infatti, a
rinunciare più o meno esplicitamente a indicazioni di progettazione
organizzativa, delegando l’intervento di conciliazione a soggetti esterni
all’impresa (il legislatore, l’innovatore istituzionale, la comunità epistemica,
ecc.).
Una proposta di riflessione sul tema
Secondo la ricerca effettuata da McKinsey & Company (Rizzi et al., 2013),
l’implementazione di servizi di sostegno e assistenza in azienda potrebbe
generare benefici netti pari a due volte gli investimenti sostenuti, aumenterebbe
l’engagement index del lavoratore, ridurrebbe le assenze e in generale si
concretizzerebbe in minori costi a carico dell'impresa.
In un recente convegno nel quale, alla presenza dell’allora Ministro del
Lavoro Fornero, è stato presentato il Gender Gap Report 2012 (nel quale si
evidenzia il cronico ritardo del nostro paese nello sviluppo e nella gestione del
lavoro di genere), si è sostenuto che “oggi molte aziende hanno messo in atto
interventi a favore della conciliazione o dell’empowerment delle donne, ma la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!12 Ci si riferisce in particolare all’impostazione dell’economia organizzativa di Williamson (1985), in relazione alla quale, a parere di chi scrive, le più incisive critiche sono formulate da Maggi, 1988.
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sostenibilità e qualità di questi interventi è garantita solo se le politiche di
genere sono introdotte trasversalmente nei processi e procedure
organizzative”13.
Da più parti, iniziando dai vertici istituzionali, si condivide l’idea che la
conciliazione sia una questione da affrontare in termini prevalentemente
organizzativi, ed è paradossale che proprio nel momento in cui alla scienza
organizzativa è attribuita ampia legittimazione in materia, la stessa non sia
apparentemente in grado di proporre soluzioni sufficientemente adeguate. Si
tratta, quindi, di capire quale opzione si ritiene praticabile, nel tentativo di
fornire un valido supporto a operatori pubblici e privati che si concentrano
sulla questione in oggetto e di produrre spazi di riflessione sul lavoro utili
anche al fine di evitare possibili distorsioni nei processi di contrattazione (in
particolare di secondo livello). Si ritiene necessario rivolgersi a una prospettiva
di studio che permetta di evitare l’impasse delle impostazioni illustrate nelle
pagine precedenti, derivante dall’assunzione del soggetto e dell’organizzazione
come due entità separate e contrapposte, e del sistema come entità
predeterminata. Inoltre si sostiene la necessità di superare la passività dei
soggetti coinvolti nel processo organizzativo che gli approcci di mainstream (più
o meno implicitamente) presuppongono.
Appare utile affidarsi ad approcci che si oppongono sia al mainstream
oggettivista sia alla prospettiva soggettivista, e in particolare alla teoria
dell’agire organizzativo proposta da Maggi (1984/1990; 2003; 2011): essa
fornisce un contributo fondamentale alla comprensione del fenomeno
organizzativo, e si è distinta per una rilevante produzione scientifica sul tema
dei rapporti tra lavoro e benessere.
Tra i tanti aspetti che si ritengono utili al fine della riflessione sulla
questione della conciliazione vita-lavoro, si vuole sottolineare come questa
teoria aiuti a sviluppare il tema del coordinamento anche a partire dal processo
che caratterizza un solo soggetto “per poi passare sia all’azione congiunta di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!13 Da www. repubblica.it, 21 novembre 2012. Il virgolettato è da attribuire a Roberta Bortolucci, presidente del Centro Studi Progetto Donna e Diversity Management.
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più soggetti in un processo, sia infine al coordinamento tra processi d’azione, di
uno o più soggetti” (Maggi, 2011: 77); si vuole inoltre evidenziare (altro aspetto
fondamentale in tema di conciliazione) come questa teoria sviluppi il tema della
cooperazione, offrendo una lettura che permette di evitare di confondere la
finalizzazione dell’azione cooperativa con la sua regolazione (ivi: 80). E,
soprattutto, secondo questa teoria i soggetti sono parte attiva (dunque, anche
responsabili) del processo organizzativo, e la fonte del potenziale cambiamento
non si colloca al di fuori del processo stesso. Ci si è quindi chiesto quali
contributi coerenti con questa impostazione possano aiutare chi si occupa di
presidiare pratiche di conciliazione, fuori e dentro i confini dell’impresa. In
prima istanza si è scelto di utilizzare - in modo consapevolmente arbitrario - un
lavoro proposto da Masino e Zamarian (poi perfezionato dallo stesso Masino)14
allo scopo di “contribuire alla costruzione di un quadro concettuale e teorico
per l’interpretazione delle opportunità di cambiamento dei processi di
regolazione derivanti dall’uso di artefatti (semplici o complessi)”; gli autori,
proponendo il loro contributo, esplicitano chiaramente la sua coerenza “in
particolare, con la proposta teorica di Maggi” (Masino, 2011: 164). A titolo
esemplificativo, scegliamo il caso del telelavoro, opzione che, da Tofler (1980) in
poi, è stata prevalentemente interpretata come una soluzione in grado di
aumentare contestualmente la produttività dell’impresa e la soddisfazione dei
lavoratori15.
Molti, anche recentemente, sono gli studi che hanno invece messo in
discussione gli effetti del telelavoro, ed evidenziato alcuni aspetti negativi, non
solo in termini di processi di isolamento e di integrazione, apprendimento
organizzativo e innovazione aziendale, ma anche in termini di stress e di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!14 Il contributo, inizialmente proposto da Masino e Zamarian (2003), è stato in seguito ripreso in Masino, 2005. Di seguito ci si riferisce anche a Masino, 2011. 15 I vantaggi, oltre che sul piano della soddisfazione personale (sostanzialmente connessa alla possibilità di conciliazione vita-lavoro) e dei risparmi aziendali (in termini di recruitment, assenteismo, gestione delle emergenze, ottimizzazione dei locali e di altri costi fissi di funzionamento, ecc.) si dovrebbero concretizzare anche a livello di sistema sociale, relativamente a riduzione di traffico e inquinamento.
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conflitto di vita-lavoro16; infine non sembra da trascurare l’impatto che
l’introduzione del telelavoro in azienda ha su coloro che non sono direttamente
interessati dall’intervento. Come affrontare quindi la questione
dell’introduzione di pratiche di telelavoro e dell’interpretazione degli effetti
attesi?
Masino (2011: 168-169) afferma che quando si ragiona sul cambiamento
organizzativo trainato dall’introduzione di un artefatto - si pensi nel nostro caso
all’introduzione di un’applicazione di telelavoro - l’influenza della stessa
“applicazione” non è spiegabile in base alle sue caratteristiche intrinseche e
oggettive, ma dipende dalle scelte dei soggetti agenti. Trovare categorie di
analisi che permettano di non banalizzare questa scelta di applicazione che
implica cambiamento (nei termini di Masino, occorre non reificare
l’interpretazione del fenomeno) è ciò che permette di evitare grossolani errori di
interpretazione: per esempio ipotizzare che l’introduzione di un processo di
telelavoro/part-time si risolva in una radicale trasformazione delle modalità di
coordinamento. Questa introduzione può invece produrre nella situazione di
lavoro un rafforzamento dello status quo (nei termini delle politiche di genere:
esiti di ulteriore segmentazione nel mercato del lavoro di genere o la
conservazione nel tempo di condizioni di subordinazione femminile).
Masino (2005; 2011) propone tre categorie analitiche, relative (in
successione esclusivamente nella catena logica) alle decisioni di progettazione
dell’artefatto, di adozione, d’uso (Fig. 1), nella convinzione che il cambiamento
non possa essere compreso “a meno di analizzare l’evoluzione degli artefatti, e
il loro rapporto con la regolazione, in termini di scelte, analiticamente
identificabili e interpretabili” (Masino, 2011: 169). Desideriamo impiegare tali
categorie nell’esempio del telelavoro (Fig. 2).
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!16 Dal contributo “classico” di Cowan, 1984, gli effetti del telelavoro sono stati studiati in innumerevoli lavori di ricerca e interpretati in maniera controversa. Qui ci si limita a citare l’interessante e recentissimo studio di Bloom et al., 2013.
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Figura 1 – L’artefatto-in-uso nella regolazione organizzativa (Masino, 2005: 144)
E’ importante ricordare quanto Masino (2011: 167) sottolinea, in coerenza
con la teoria dell’agire organizzativo, e cioè che si tratta di categorie analitiche,
che quindi non devono essere confuse con le azioni concrete e con i soggetti
agenti; e inoltre che le sovrapposizioni e le sequenzialità che si possono
presentare in concreto sono illimitate: è possibile che “lo stesso soggetto agente,
nello stesso momento, ponga in essere azioni interpretabili analiticamente in
termini di progettazione e/o di adozione e/o d’uso, e non necessariamente in
quest’ordine” (ibid.).
Inoltre va tenuto presente che lo schema analitico di Masino, proposto
per l’interpretazione del cambiamento derivante dall’uso di artefatti, è nel
nostro esempio esteso all’interpretazione di una modalità di coordinamento dei
processi di lavoro, quale è il telelavoro, che può impiegare diversi artefatti.
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1. SCELTE DI PROGETTAZIONE
Quali caratteristiche tecniche ha il software / la soluzione tecnica prescelta?
- quali sono le funzionalità, quale il grado e il tipo di user-friendlyness, quali le
possibilità di personalizzazione, le caratteristiche dell’interfaccia, ecc.?
- ognuna di queste caratteristiche implica vincoli e opportunità per gli
utilizzatori (e per il management) e la scelta – intenzionale - di progettazione
richiede una teoria dell’uso da parte dei soggetti agenti.
2. SCELTE DI ADOZIONE
Come viene integrato il telelavoro nei processi dell’impresa?
- quali persone e ruoli sono legittimati a utilizzarlo? esso sostituisce
completamente l’attività “in presenza” o solo in parte? per quali attività viene
utilizzato? come si rapporta l’attività di telelavoro con altre attività ? ecc.
- tutte queste scelte sono in parte vincolate dalle caratteristiche tecniche del
software/soluzione tecnica (scelte di progettazione), e a loro volta implicano
vincoli e opportunità per gli utilizzatori (scelte di utilizzo).
3. SCELTE DI UTILIZZO
Come viene effettivamente utilizzato il telelavoro dagli operatori / dalle operatrici?
- quali funzionalità vengono usate e quali vengono ignorate? quali funzionalità
vengono usate per scopi e/o con modalità non previste dalle istruzioni? quanto
e come vengono sfruttate le possibilità di personalizzazione? ecc.
- ognuna di queste scelte è in parte vincolata dalle scelte di progettazione e di
adozione, e nel contempo è espressione di affermazioni di autonomia.
Figura 2 – L’applicazione delle categorie di analisi delle azioni e decisioni di progettazione, di adozione e di utilizzo, all’esempio del telelavoro.
Questo contributo di Masino alla riflessione organizzativa - in particolare
un contributo alla riflessione sul cambiamento organizzativo - ci appare
importante in quanto, senza “forzare la mano” in una direzione normativa,
permette di riconoscere in modo sufficientemente semplice e al tempo stesso
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concreto la complessità che caratterizza il processo di introduzione di nuove
soluzioni organizzative; permette inoltre di rifuggire dalla semplificazione che,
reificando gli elementi che compongono questo processo (persone, sistemi,
tecniche), porta inevitabilmente a ragionare in termini di “adattamento” di una
componente rispetto a un’altra, e conseguentemente di intendere questo
processo in termini di “questo regola, quest’altro subisce”. La distinzione
analitica tra decisioni di progettazione, decisioni d’adozione e decisioni d’uso
permette l’affrancamento dal determinismo fondato sul rapporto causale tra
strumenti adottati e risultati ottenuti.
Presentando il caso del telelavoro abbiamo desiderato fornire un esempio
di applicazione della proposta interpretativa di Masino e Zamarian che
riteniamo coerente, poiché nel caso scelto è forte l’impronta tecnologica; ma
crediamo che sia possibile utilizzare questo impianto logico all’analisi di
situazioni nelle quali la conciliazione assume forme meno caratterizzate
tecnologicamente, ove si possano apprezzare le potenzialità di estensione del
raggio d’azione interpretativo. Si pensi, come altro possibile esempio,
all’introduzione di servizi orientati alla conciliazione quali disbrigo pratiche,
banca delle ore o spesa/acquisti in azienda. In particolare, ci si propone di applicare
prossimamente la proposta interpretativa di Masino e Zamarian agli interventi
di riorganizzazione che originano dai fabbisogni di part-time, di congedi
parentali, in generale da ciò che la vulgata organizzativa ha individuato come
esigenza di “flessibilità reciproca soggetto-organizzazione”.
Il quadro analitico proposto potrebbe inoltre essere utile per interpretare
interventi di conciliazione vita-lavoro sviluppati al livello territoriale e che si
concentrano sul livello inter-organizzativo. Si pensi ad esempio a servizi di
conciliazione (come gli asili) messi a disposizione (o supportati) dalle istituzioni
locali e coinvolgenti più imprese della stessa area. Interventi come questi
possono essere molto frequenti in realtà come quella italiana, in cui le piccole
imprese, che sono la grande maggioranza, non hanno spesso le risorse e le
competenze per agire individualmente. In queste situazioni, una chiave di
lettura alternativa a quella deterministica, come quella prevalentemente
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utilizzata nell’attività di policy-making, potrebbe rivelarsi più utile per
interpretare i processi di definizione degli obiettivi e di scelta degli strumenti
ritenuti più adeguati al contesto di riferimento.
Considerazioni conclusive
Da più parti del mondo politico, imprenditoriale, sindacale, ecc. giunge
lo stimolo a intendere la questione della conciliazione vita-lavoro anche come
questione organizzativa, presentando istanze che al ricercatore non fashion-
victim richiamano precise domande di ricerca. Rispetto a quali elementi
dell’organizzazione del lavoro le nuove pratiche di conciliazione hanno
rilevanza? Come cambiano le modalità di coordinamento e controllo all’interno
dell’organizzazione e tra organizzazioni? Come cambia la produzione e la
diffusione di informazione e conoscenza? Come si interpretano i processi di
valorizzazione/dequalificazione delle competenze e di cambiamento delle
mansioni?
Non appare né onesto né utile provare a rispondere a queste domande
con quadri interpretativi che hanno già dimostrato la loro inefficacia. Qui si è
provato a estendere il fecondo lavoro di Masino alla questione dibattuta, con
l’impegno di approfondire l’analisi in tale direzione per vagliare opportunità e
limiti di questa – che speriamo accettabile - estensione.
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Gestione delle competenze: critica e proposta interpretativa
Domenico Berdicchia, Università di Ferrara Questo articolo contribuisce al dibattito sulla gestione delle competenze in relazione al cambiamento organizzativo. Nella prima parte, le prospettive oggettiviste e socio-costruttiviste vengono discusse attraverso una disamina delle teorie disponibili e dei loro limiti, sia sul piano concettuale sia empirico. Successivamente, si esplorano le possibilità interpretative offerte da un differente concetto di competenza, coerente con un approccio teorico nel quale l’organizzazione è concepita come regolazione del processo d’azione. Infine, si illustra un caso di studio riguardante una impresa multinazionale, allo scopo di mostrare come diverse teorie portano a differenti modi di comprendere la gestione delle competenze e la sua relazione con il cambiamento organizzativo. Parole chiave: Competenze, Gestione delle risorse umane, Agire organizzativo, Cambiamento organizzativo, Processo di regolazione Introduzione
Da oltre un trentennio, nella letteratura manageriale e organizzativa, il
tema delle competenze nelle pratiche di gestione del personale viene visto e
affrontato come un’opportunità per migliorare la competitività delle imprese e
per sostenere e guidare i processi di cambiamento organizzativo. Sin dai suoi
primi passi, il metodo delle competenze è presentato come una possibilità di
superare i modi tradizionali di intendere e gestire l’organizzazione (Boyatzis,
1982), basati sulla definizione rigida di posizioni, sulla prevedibilità dei
contributi individuali, in favore di una maggiore discrezionalità riconosciuta ai
lavoratori, coerente con le accresciute esigenze di flessibilità delle imprese.
Rapidamente nella pubblicistica sul tema matura la convinzione che “un
approccio basato sulla competenza debba essere l’atto finale che integra il
cambiamento” (Boam, Sparrow, 1992; trad. it. 1996: 46). Si moltiplicano i
contributi che evidenziano come “il metodo delle competenze interpret[i] in
modo coerente i grandi cambiamenti dell’organizzazione” (Altomare, Artuso,
1997: 95) e come: “In un’epoca nella quale l’economia è sempre più aperta, la
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concorrenza sempre più aspra […] il management delle competenze [sia]
diventato una sfida decisiva” (Geffroy, Tijou, 2002; trad. it. 2002: 29). Pur con
alti e bassi, la retorica che accompagna la rapida e pervasiva diffusione di
contributi scientifici e prassi manageriali basate sulle competenze non muta la
sua influenza nel tempo, trovando proprio recentemente la sua massima
diffusione. Il rinnovato interesse che oggi si nutre per questo tema è
ampiamente testimoniato da autorevoli contributi scientifici (Campion, et al.,
2011; Sanchez, Levine, 2009), conferenze (“Competence Modeling for European
HR and Policies Bridging Business, Education, and Training” promossa nel
2011) e numeri tematici di riviste accademiche sulle quali si può leggere di “rise,
fall, and rebirth of competence approaches” (Sultana, 2009). Contestualmente i
sistemi di gestione delle competenze hanno trovato recentemente la loro
massima diffusione non solo in aziende, ma anche in organizzazioni militari
(Tian, et al., 2009; U.S. Government, 2011; Young, Dulewicz, 2009), istituti ed
enti di ricerca (CERN Bulletin, 2011; Frank, 2012).
Tuttavia, le logiche che legano la gestione delle competenze alle
opportunità di cambiamento organizzativo, nonostante l’accettazione quasi
dogmatica di tale relazione da parte di manager e studiosi d’impresa, sono
tutt’altro che condivise, e interpretazioni assolutamente distanti tra loro
alimentano un dibattito internazionale ancora irrisolto. Teorie molto diverse,
ispirate da concezioni differenti, promuovono spiegazioni discordi. Perché, in
che modo e a quali condizioni il “ricorso alle competenze” nei sistemi di
gestione del personale può alimentare e supportare il cambiamento
organizzativo?
Competenze e cambiamento organizzativo secondo diverse concezioni
Per rispondere al nostro interrogativo di ricerca ci sembra opportuno
partire dalla proposta di Maggi (1984/1990; 2001; 2003). Questo autore, dopo
aver evidenziato i molteplici significati che la nozione di competenza assume
non solo nelle molte letterature interessate, ma anche nelle diverse lingue (a
seconda delle differenti origini etimologiche), evidenzia come in ambito
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organizzativo qualsiasi sforzo volto a esplorare la relazione tra competenze e
cambiamento organizzativo non possa prescindere da una contestuale
riflessione sulle concezioni di organizzazione, che circoscrivono diversamente
non solo il significato che essa riveste e il modo in cui il cambiamento
organizzativo può essere interpretato, ma anche quello di competenza. L’autore
propone di distinguere tre fondamentali concezioni di organizzazione. A queste
associa diverse concezioni di competenza. Ripercorriamo brevemente tale
proposta.
In una prima concezione l’organizzazione può essere vista come sistema
meccanico o come sistema organico. Se si ragiona in termini di sistema meccanico, la
competenza è “una ‘attribuzione’, che precisa il contributo di ciascuno secondo
regole esplicite e consolidate” (Maggi, 2001: XVIII). Gli attori sono visti come
parti meccaniche del sistema che è progettato ex ante, secondo razionalità
assoluta. I compiti sono demandati ai soggetti, che devono attenersi alle
prescrizioni del sistema. Nel sistema organico i soggetti rivestono ruoli
predefiniti; non è richiesta l’esecuzione di rigide prescrizioni, ma piuttosto
l’esercizio della discrezionalità per conseguire gli obiettivi richiesti dal sistema.
In questa concezione “la competenza è ‘saper fare’, un saper fare teso al
miglioramento, tramite la mobilitazione dei caratteri personali che si accordano
con il ruolo” (ivi: XIX).
In una seconda concezione il sistema emerge dalle interazioni di
individui attraverso la reiterazione dei comportamenti che si istituzionalizzano.
La razionalità è a posteriori ed è legata al senso attribuito ex post dai soggetti alle
loro azioni. “La competenza qui è un ‘saper comprendere’ le contraddizioni e
gli effetti controintuitivi del sistema, attraverso la riflessione sul vissuto” (ibid.).
Infine, in una terza concezione, “il sistema sociale è inteso come processo
di azioni e decisioni, dotate di senso, orientate a risultati attesi e a valori” (ibid.).
Il sistema non è separato dal soggetto, ma è concepito come divenire di azioni e
decisioni che ciascun soggetto agente alimenta intervenendo nella sua
regolazione. Sono rifiutati i presupposti della razionalità assoluta: la razionalità
che guida il processo è intenzionale e limitata. “La competenza secondo questo
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
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modo di vedere è ‘saper giudicare’ l’azione in rapporto al processo” ovvero
“saper valutare la strumentalità delle azioni, le alternative dei risultati, la
regolazione delle azioni, delle loro relazioni, dei loro svolgimenti, e la
congruenza reciproca di tutte queste dimensioni del processo” (ivi: XX).
Ciascuna concezione di organizzazione, oltre a connotare diversamente il
significato di competenza, naturalmente porta a diversi modi di intendere il
cambiamento organizzativo (Maggi, 2003). Tradizionalmente, i contributi di
matrice oggettivista hanno ricondotto i cambiamenti organizzativi a uno sforzo
di integrazione (condizionato dalle funzioni svolte) di un certo sotto-sistema in
un sistema più ampio (Parsons, 1951) o ad un tentativo di migliore adattamento
a vincoli ambientali (Lawrence, Lorsch, 1967) o tecnologici (Woodward, 1965).
Sebbene con alcune differenze, “les approches objectivistes traitent du
changement organisationnel en termes de relations déterministes entre les
modifications structurelles et des contraintes exogènes, environnementales et
technologiquens” specificando che quindi “la notion de changement qui en
résulte n’est alors pas différente de celle d’adaptation passive” (Maggi, 2003:
82).
Al contrario, gli approcci soggettivisti e sociocostruttivisti vedono il
cambiamento come un fenomeno erratico e largamente imprevedibile in quanto
emergente dalle interazioni dei soggetti che attraverso la propria azione ri-
definiscono il sistema sociale in continua trasformazione. Importanti contributi
di autori come Weick (1995) descrivono la realtà come costruita dalle relazioni
tra gli attori e interpretabile nei suoi cambiamenti solo ex post a partire dai loro
vissuti soggettivi. Un’altra prospettiva è offerta dalle teorie istituzionaliste
(DiMaggio, Powell, 1983). Greenwood e Hinings (1996) evidenziano come
“Institutional theorists declare that regularized organizational behaviors are the
product of ideas, values, and beliefs that originate in the institutional context”
(Greenwood, Hinings, 1996: 1025) e come “to the institutional school […] the
prevailing nature of change is one of constant reproduction and reinforcement
of existing modes of thought and organization (i.e., change is convergent
change)” (ivi: 1027). Il cambiamento è dunque interpretabile in base alla
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 80
tensione all’isomorfismo che caratterizza le organizzazioni.
Infine, se si condivide una visione di organizzazione come processo di
azioni e decisioni, il cambiamento si configura come un processo euristico di
mutamento guidato da razionalità intenzionale e limitata. Tale mutamento è
orientato non da sforzi di adattamento, ma piuttosto da processi di
apprendimento innescati dalla riflessione sulla strumentalità delle azioni in
relazione agli obiettivi desiderati (Maggi, 2003). Il cambiamento in questa
concezione è costante e pervasivo: continuamente l’organizzazione cambia,
orientando il proprio divenire attraverso un processo di preordinazione di
mezzi e fini. Tale cambiamento è intrinseco al corso di azioni, ed è attivato e
sostenuto attraverso un processo di analisi, riflessione e ri-progettazione alla
base di ogni singola scelta compiuta, o anche solo ipotizzata. Si tratta di un
cambiamento alimentato dalle valutazioni di ciascun soggetto agente
nell’organizzazione. L’analisi del processo è progettazione del cambiamento e
costituisce un tentativo di orientarlo attraverso scelte più consapevoli, ispirate
da criteri di coerenza, di adeguatezza e di ricerca di esiti soddisfacenti,
necessariamente guidate da razionalità limitata.
In questo articolo – che trova nella riflessione di Maggi il presupposto
fondamentale, sia in relazione al significato della nozione di competenza nelle
diverse concezioni, sia per l’impostazione relativa alla necessità di interpretare
la relazione tra competenze e cambiamento organizzativo in modo non
disgiunto dalla visione del mondo adottata - sono presentate e analizzate alcune
teorie sul tema delle competenze al fine di riflettere sulla diversa natura delle
dinamiche di cambiamento di volta in volta proposte e auspicate.
La tesi sostenuta è che il metodo mainstream delle competenze sia
criticabile in quanto poco strumentale agli obiettivi di cambiamento che sembra
voler promuovere. L’obiettivo è duplice. Dapprima, attraverso l’analisi della
teoria e la discussione di uno studio di caso, si evidenzia come il metodo
mainstream delle competenze, nonostante dichiaratamente volto a promuovere
dinamiche di cambiamento legate alla centralità della persona, al
riconoscimento della sua iniziativa, delle sue potenzialità e della sua capacità di
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 81
valutazione, riproponga in realtà quelle stesse logiche di integrazione e
adattamento a stati progettati che tradizionalmente hanno ispirato le logiche di
cambiamento nella teoria oggettivista. Successivamente si propone in che modo
e a quali condizioni la valorizzazione delle competenze, in una logica di
regolazione del processo, possa costituire un’opportunità di cambiamento
organizzativo.
La concezione mainstream e la concezione sociocostruttivista
Le teorie che trattano la nozione di competenza, argomentandone la
strumentalità nelle pratiche di gestione del personale a supporto del
cambiamento organizzativo, sono assai numerose e concettualmente anche
molto distanti tra loro; tuttavia è possibile circoscrivere e distinguere i principi e
le logiche che tipicamente accomunano quelle coerenti con la concezione
oggettivista da principi e logiche tipiche della visione sociocostruttivista.
I contributi di matrice oggettivista, decisamente più frequenti in
letteratura e ampiamente recepiti nelle prassi aziendali, trovano nelle
pionieristiche riflessioni di McClelland (1973), e nei successivi lavori di Boyatzis
(1982) e Spencer e Spencer (1993) i riferimenti più comuni. Nell’ambito di un
pluriennale lavoro di ricerca che trova sistematizzazione in due monografie
spesso definite, nella letteratura mainstream sul tema, i “pilastri” del
“movimento delle competenze”, questi autori propongono una visione della
competenza quale insieme di caratteristiche individuali alla base di una
performance lavorativa superiore in una mansione. Più esattamente, la
competenza è definita come quell’insieme di motivazioni e tratti che, assieme
all’immagine di sé, predicono le skill di comportamento-azione di un soggetto al
lavoro, causalmente legate a una performance superiore (Spencer, Spencer, 1993).
Questa concettualizzazione promette - nella proposta degli autori - di superare
uno dei più grandi limiti che tradizionalmente ha caratterizzato gli sforzi di
organizzazione e gestione del personale in impresa: “Models based on task or
function analysis focus on the job and do not address the person in the job. In doing so,
the models include many specific and detailed descriptions of activities, but no mention
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
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is made of the characteristics that enable or increase the likelihood of a person’s
performing those activities. These models do not establish a causal link between
characteristics of people and performance in a job” (Boyatzis, 1982: 8).
L’idea, che costituisce la pietra miliare del “metodo delle competenze” e
ne sintetizza con tutta evidenza il criterio di fondo, è semplice e intuitiva: si
tratta, da un lato, di esplicitare e formalizzare per ogni mansione l’elenco delle
competenze necessarie, ritenute cioè a monte di una buona prestazione
lavorativa; dall’altro lato, di ricercare un soggetto in possesso delle medesime, al
fine di favorire il miglior incontro possibile tra persona e ruolo, e migliorare in
tal modo la performance. In teoria, più il profilo di competenze individuali si
avvicina a quello richiesto dalle mansioni da svolgere, più la persona sarà adatta
al ruolo predisposto, essendo in grado di assumere i comportamenti richiesti.
Le competenze possono essere codificate e mansioni uguali richiedono
competenze omogenee. La costante ricerca della corrispondenza tra competenze
richieste e competenze possedute può, nel metodo mainstream, supportare
ciascuna fase di gestione del personale, dalla selezione (aiutando a individuare
chi può ricoprire al meglio il ruolo), alla predisposizione di percorsi di
formazione (volti a colmare eventuali lacune di competenze ), alla definizione
dei piani di carriera e degli incentivi, stabiliti sempre in base alla
“corrispondenza fra mansione e persona”. Ciò che in letteratura è individuato
come fondamentale novità dell’approccio proposto dagli autori è la tecnica di
definizione delle competenze necessarie per ciascun ruolo, tecnica che adotta
una logica induttiva. A partire dall’osservazione delle azioni svolte dai best
performer, e attraverso l’utilizzo di appositi “dizionari” che indicano i nessi
causali tra comportamenti e caratteristiche a monte, possono essere
formalizzate tutte le qualità di chi ha già ottenuto un’ottima prestazione
lavorativa in un particolare ruolo. Le stesse costituiranno dunque le
competenze necessarie per una performance superiore in tutti i ruoli analoghi.
Nonostante una netta presa di distanza dalle teorie fino a quel momento
consolidatesi, gli assunti che ispirano questo approccio alla gestione delle
competenze rimangono fedeli a una concezione oggettivista, che individua nelle
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 83
leggi deterministiche dell’adattamento i principi cui l’organizzazione (reificata)
deve ispirarsi: “The organization has policies and procedures, which are usually
reflected in the internal structure and system of the organization. It also has a direction.
This may take form of a mission, purpose or corporate strategy. The organization has
physical, financial, and technical resources, which include its assets and its products. It
also has a tradition and culture. All of these factors contribute to the internal
organizational environment. The organization exists in the context of a larger
environment” (Boyatzis, 1982: 12-13). Le esigenze dell’organizzazione, dettate da
contingenze esterne, sono ripartite in ruoli che descrivono e prescrivono il
contributo atteso da ciascuno e lo articolano in specifiche attività da svolgere:
“The role describes a set of activities and responsibilities expected of a person in the […]
job” (ivi: 17). Il disegno dei ruoli non può prescindere dalle caratteristiche del
contesto organizzativo e non può ignorarne le specificità, che anzi vincolano
deterministicamente la progettazione: “for the performance of a job to be effective,
the definition states that specific result and action taken to obtain them must mantain
or be consistent with policies, procedures, and conditions of the organizational
environment” (Boyatzis, 1982: 13). Anche i soggetti chiamati a ricoprire i ruoli
predisposti non sfuggono alla logica dell’adattamento: “The internal
organizational environment transmits and translates the external environment to its
members” (ibid.). Ciascuno è ritenuto competente quando sa fare ciò che il ruolo
gli richiede.
Quella che sembra essere la principale novità introdotta dal “metodo
delle competenze”, ovvero la tecnica induttiva utilizzata per identificare le
competenze necessarie e spostare il focus dalla posizione all’individuo, non
sembra in realtà poter raggiungere tale obiettivo. La “centralità” del soggetto
nell’organizzazione, auspicata in tutto questo impianto e ancora oggi reclamata
dalla maggior parte delle teorie mainstream sul tema, svanisce proprio nel più
rilevante momento del processo organizzativo: la progettazione. Questa
continua a essere demandata a un analista che, dapprima osserva il sistema e
identifica i best performer, presso i quali la relazione competenze necessarie -
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perfomance superiore trova fattuale compimento1; successivamente comprende,
esplicita e formalizza tale relazione (sempre in termini di competenze e
comportamenti) e la ripropone, generalizzandola, come “modello” per tutti i
ruoli uguali nell’organizzazione. La distanza che intercorre tra competenze
possedute e competenze necessarie indica il percorso e l’orizzonte del
cambiamento richiesto a ogni lavoratore e, di riflesso, all’intera organizzazione
quale somma di ruoli. Non senza contraddizioni rispetto a tutto l’impianto di
ragionamento, gli autori (Spencer, Spencer, 1993) specificano che qualora non
sia disponibile in impresa un gruppo di best performer da osservare (nel caso
cioè di single-incumbent jobs) o nel caso in cui si debbano progettare nuovi ruoli,
ad esempio per l’implementazione di una nuova strategia (future jobs), occorre
abbandonare il metodo induttivo e stabilire ex ante le competenze necessarie per
il nuovo ruolo. Il criterio rimane lo stesso: favorire una migliore
“corrispondenza mansione/persona”. La specificazione ex ante o ex post delle
caratteristiche necessarie non sembra cioè mutare la logica di fondo del
“metodo delle competenze”, basata sul tentativo di arricchire, articolare e
dettagliare le job demands (ora anche di tipo “psicologico-comportamentali”) da
un lato e, dall’altro lato, di indagare le caratteristiche personali, al fine di
migliorare le possibilità di integrazione e adattamento della persona al ruolo
che gli è affidato. Proprio questa sembra essere dunque la chiave interpretativa
delle opportunità che il metodo mainstream dischiude per il processo di
cambiamento: favorire un’efficace integrazione e un miglior adattamento del
soggetto al cambiamento progettato, attivato, orientato e governato dal sistema.
I limiti di questa impostazione sono molteplici, essenzialmente
riconducibili a contraddizioni interne alla costruzione teorica. Infatti, sebbene si
auspichi invarianza di comportamento a parità di competenze nello stesso ruolo
(presupposto fondamentale in tutto l’impianto di ragionamento) gli stessi autori
riconoscono che “it would be inaccurate to say that the person’s competency causes
1 In tal senso i best performer possono essere ritenuti custodi “inconsapevoli” di quella conoscenza che illustra quali mezzi (competenze) siano adeguati per il conseguimento dei fini desiderati (performance in un ruolo).
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
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the effective behavior, but that it is a cause” (Boyatzis, 1982: 192). La possibilità di
interpretare i comportamenti dei soggetti al lavoro in funzione delle sole
caratteristiche personali appare cioè fortemente ridimensionata dalla variabilità
di un contesto in divenire (che concorre a orientare le scelte e i comportamenti
osservati) e che le teorie di matrice psicologico-individuale non sono attrezzate
a cogliere.
Alle teorie oggettiviste si oppongono quelle di derivazione
sociocostruttivista. Anche in queste il tema delle competenze è centrale nelle
dinamiche di cambiamento organizzativo, ma i presupposti sono
diametralmente opposti a quelli delle teorie mainstream. Il punto di partenza è
una concettualizzazione dell’organizzazione e del rapporto tra soggetto e
organizzazione profondamente differente. Si rifiuta l’idea di poter pre-definire
posizioni che circoscrivano e prescrivano il contributo di ciascuno e qualsiasi
tentativo di classificazione ex ante del lavoro: gli individui non occupano dei
ruoli previamente costruiti e ad essi demandati, ma, al contrario, costruiscono e
assumono dei ruoli da cui “risulta” il contesto organizzato. Questo è
caratterizzato in modo univoco dalle relazioni che si consolidano a partire dalle
interazioni tra soggetti. Non ha alcun significato qualsiasi tentativo di
formalizzare i requisiti necessari per lo svolgimento di un’attività, dedotti
dall’analisi del lavoro e tradotti in qualità cercate nei soggetti. Non è la
collocazione della persona giusta nel posto giusto che migliora l’efficacia
dell’organizzazione, ma la possibilità di realizzare uno spazio comune di
crescita nel quale l’individuo possa condividere i suoi vissuti, le sue esperienze,
le sue pratiche professionali (in una parola, le sue competenze) con il contesto a
lui circostante. Tale luogo (metaforico) è la comunità di pratica (Brown, Duguid,
1991). Si tratta di gruppi non canonici formati a partire da un insieme di
relazioni durature tra persone, attività e mondo, in connessione e parziale
sovrapposizione con altre comunità di pratiche (Lave, Wenger, 1991).
L’individuo, attraverso la partecipazione legittimata alla comunità, ne diviene
membro e attraverso la condivisione sviluppa le competenze situate nelle
pratiche in uso. La partecipazione, lungi dall’essere riconducibile
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 86
all’“internalizzazione di conoscenze che vengono dall’esterno” (Zucchermaglio,
1996: 66) o di “qualcosa di statico […] portato dall’esterno all’interno, […]
costituisce il processo di appropriazione; […] la partecipazione attiva [è] la
pratica essenziale attraverso la quale si raggiunge la competenza nello
svolgimento di un’attività” (ivi: 71). Si tratta per questo di competenze non
codificabili, ma sviluppabili esclusivamente attraverso la pratica, lo
svolgimento dell’attività, il fare; la comunità ne è unica depositaria e solo la
condivisione legittimata da parte dei membri del gruppo può favorire la
socializzazione delle stesse. Qualsiasi tentavo di orientare “esternamente”
l’operato di tali comunità non solo non sarebbe proficuo, ma addirittura
arriverebbe a compromettere l’esistenza stessa del gruppo non canonico: “Per
favorire il lavoro, l’apprendimento e l’innovazione un’organizzazione deve […]
legittimare e sostenere la miriade di attività innovative messe in atto dai suoi
membri. Questo sostegno non deve essere intrusivo altrimenti rischia
semplicemente di sottoporre i potenziali innovatori alla restrittiva influenza
della visione canonica esistente (Brown, Duguid, 1991: 350).
Liberata da vincoli, la comunità diviene il luogo privilegiato nel quale si
producono frequenti cambiamenti sospinti dallo svolgimento dell’attività, dalla
pratica, che formula nuovi problemi da risolvere e propone nuovi modi
alternativi di fare le cose. Nelle parole degli autori, “le comunità di pratica […]
sviluppano continuamente nuove visioni del mondo ricche, fluide e non
canoniche, proprio per colmare lo scarto tra la visione statica e canonica della
loro organizzazione e i problemi posti da una pratica che cambia. Questo
processo di sviluppo è intrinsecamente innovativo […]. Uno dei vantaggi
principali di queste piccole comunità auto-costituite risiede nella loro possibilità
di superare la tendenza alla staticità delle grandi organizzazioni […]; i
comportamenti reali delle comunità di pratiche cambiano costantemente sia con
la sostituzione dei lavoratori anziani con i nuovi arrivati sia con le nuove
esigenze nate dalla pratica che forzano la comunità a rivedere la sua relazione
con l’ambiente” (ivi: 345). Dunque, se lo sviluppo delle competenze attraverso
la partecipazione e la pratica alimenta l’azione della comunità, e con essa il suo
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
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potenziale trasformativo, all’organizzazione interessata ad attivare e alimentare
il processo di cambiamento non resta che, da un lato, sostenere lo sviluppo delle
competenze dei suoi membri favorendone la partecipazione a gruppi
informalmente costituiti, dall’altro lato condividere con le diverse comunità i
cambiamenti prodotti. L’interazione e la comunicazione tra i gruppi informali
estenderebbe il cambiamento dalla singola comunità al livello propriamente
organizzativo, essendo in questo caso concettualizzata l’organizzazione come
“comunità di comunità” (Cepollaro, 2008).
La relazione tra competenze, comunità di pratica e cambiamento
organizzativo di matrice sociocostruttivista presenta alcuni limiti e
contraddizioni interne. Una prima osservazione riguarda l’“automatismo” che,
nel costrutto teorico della partecipazione, lega l’ingresso in una comunità di
pratica allo sviluppo delle competenze attraverso l’acquisizione delle pratiche
in uso. Diversi autori (Zucchermaglio, 1996) hanno descritto come in qualsiasi
gruppo possano esistere “problemi di controllo sulle risorse per apprendere o
pratiche legate alla conservazione del potere che impediscono il
raggiungimento della partecipazione piena a una comunità […]; in modo
specifico nei contesti lavorativi possono esistere ad esempio cattive relazioni
con i capi, modalità di ipercoinvolgimento nel lavoro, non efficaci modalità di
organizzazione spaziale e temporale delle attività, pratiche più simili alla
servitù che alla partecipazione. Tali condizioni possono di fatto distorcere
completamente le possibilità di apprendere attraverso la partecipazione”
(Zucchermaglio, 1996: 67). La relazione tra partecipazione, legittimazione e
sviluppo di competenze è quindi inevitabilmente mediata da diversi fattori che
allontanano la comunità di pratica dall’assomigliare a un contesto
“necessariamente formativo”. Tale problema appare difficilmente superabile
proprio nel momento in cui, in modo coerente con la proposta
sociocostruttivista, si nega la possibilità di “gestire dall’esterno” le dinamiche di
ingresso, legittimazione, condivisione e sviluppo proprie della comunità.
L’organizzazione si troverebbe così di fronte a una scelta difficile:
– disegnare top-down dei gruppi all’interno dei quali controllare e favorire lo
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sviluppo delle competenze: il concetto di comunità di pratica sarebbe però
snaturato e il potenziale delle comunità di pratica inevitabilmente
compromesso;
- sostenere incondizionatamente lo sviluppo delle comunità di pratica. In tal
caso le dinamiche di cambiamento proprie delle comunità sarebbero fatte salve,
ma l’organizzazione dovrebbe affidarsi speranzosa all’apprendimento dei
singoli membri delle comunità, che potrebbe non avvenire o comunque avere
una natura molto differente da quella sperata. La direzione, o l’attivazione
stessa del cambiamento organizzativo sarebbe del tutto imprevedibile e
ingestibile, esclusivamente affidata ai soggetti.
Un secondo limite insito nella proposta sociocostruttivista attiene al
modo con cui estendere il cambiamento prodotto da una comunità al livello
propriamente “organizzativo”. Anche concettualizzando l’organizzazione come
comunità di comunità, il processo di scambio tra comunità, e la socializzazione
dei cambiamenti prodotti, restano problematici: se infatti si cerca di rimanere
coerenti con la logica sociocostruttivista, “le narrazioni […] sono incorporate nel
sistema sociale in cui nascono e sono usate, e non possono essere
semplicemente sradicate e confezionate per la circolazione senza che si
presentino proprio gli stessi problemi osservati nelle vecchie e astratte
descrizioni canoniche” (Brown, Duguid, 1991: 352). Non solo: “l’assunzione
dell’organizzazione che, dato il mezzo ‘giusto’, le persone scambieranno
liberamente informazioni non considera il modo in cui determinate
organizzazioni, gruppi e in particolare compagnie, trattano implicitamente
l’informazione come un bene da accumulare e scambiare. […] All’interno di
queste comunità le notizie viaggiano rapide; le conoscenze della comunità sono
prontamente disponibili per i suoi membri, ma le comunità devono funzionare
dentro a compagnie che trattano l’informazione come un bene e che hanno un
potere contrattuale superiore nel negoziare i termini dello scambio. In tali
condizioni di ineguaglianza non ci si può ragionevolmente aspettare che le
comunità interne cedano gratuitamente le loro conoscenze” (ibid.).
Nella concezione sociocostruttivista lo sviluppo delle competenze per il
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
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cambiamento organizzativo può trovare fattuale compimento: si tratta
necessariamente di un cambiamento promosso dalle comunità di pratica
attraverso lo sviluppo dei singoli che volontariamente possono scegliere di
condividerlo o meno; in ogni caso si tratta di un cambiamento non progettabile,
la cui natura e direzione possono essere semmai razionalizzate solo ex post,
dopo che la pratica lo ha spontaneamente prodotto.
Competenze e cambiamento nell’organizzazione intesa come processo di
azioni e decisioni
Le teorie oggettiviste e le teorie soggettiviste non esauriscono il corposo
dibattito sulla relazione tra competenze e cambiamento organizzativo. In
diverse discipline si trovano contributi che poggiano su categorie analitiche
profondamente distanti rispetto a quelle tipiche delle teorie positiviste e
antipositiviste. Costituiscono esempi i contributi di Maggi, nell’ambito della
disciplina organizzativa (Maggi, 2003), di Clot, nell’ambito della psicologia del
lavoro (Clot, 1995) e di Terssac, nell’ambito della sociologia del lavoro (Terssac,
1992). Ciò che accomuna queste proposte è l’opposizione sia al determinismo
oggettivista, che abbraccia la logica della causazione necessaria e l’universalità
delle leggi causa/effetto, sia all’indeterminismo soggettivista, che rifiuta
qualsiasi generalizzazione, privilegiando il carattere situato e l’irripetibilità di
ogni singolo accadimento. Ciò che assume maggiore rilevanza è il processo
organizzativo e il soggetto che in esso agisce, orientandolo attraverso la propria
azione. A tal proposito, Terssac definisce la competenza come “l’insieme delle
conoscenze di cui un individuo dispone e la sua capacità di sfruttarle” nella
situazione di lavoro, essendo quest’ultima “una costruzione sociale, che risulta
dalla combinazione dei processi sociali che si sviluppano nel lavoro […] lontana
da due insidie metodologiche: quella del determinismo delle strutture sui
comportamenti e quella dell’indeterminismo dei comportamenti organizzati
sulla sola base dell’interazione tra individui” (Tersacc, 1992; trad. it. 1993: 64-
65).
Maggi, con la teoria dell’agire organizzativo – d’ora in poi TAO -
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
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(1984/1990; 2003) propone una riflessione sul concetto di competenza in
relazione all’organizzazione intesa come processo di azioni e decisioni guidate
da razionalità intenzionale e limitata. In particolare, nel già ricordato contributo
del 2001, la competenza è definita come “saper valutare la strumentalità delle
azioni, le alternative di risultati, la regolazione delle azioni, delle loro relazioni,
dei loro svolgimenti, e la congruenza reciproca di tutte queste dimensioni del
processo” (Maggi, 2001: XX). Qui l’unità di analisi cui la nozione di competenza
si riferisce non è la mansione o la comunità di pratica, ma il processo di
regolazione.
Secondo tale logica, la competenza si esprime nell’adeguatezza delle
scelte che caratterizzano e orientano il divenire di ciascun piano analiticamente
distinguibile del processo di azione, necessariamente connotato da un contesto
specifico, da soggetti agenti, da artefatti che con esso mutano nel tempo. Non si
tratta di assumere comportamenti la cui adeguatezza è valutata ex ante2; è la
valutazione nel corso dell’azione a costituire di per sé la competenza.
Necessariamente si tratta di una competenza non decontestualizzabile
perché intrinseca al processo organizzativo e alla sua regolazione, che ne ordina
mezzi e fini, e dunque “non può che formarsi e riformarsi nel processo. Ma
questo non esclude che attinga a conoscenze acquisibili, a saperi disciplinari che
possono essere coltivati e arricchiti” (Maggi, 2001: XXII).
In base a tale concettualizzazione è possibile avanzare alcune riflessioni
sul rapporto tra processo d’azione, competenza e cambiamento organizzativo.
Lungi dal rivendicare il primato del soggetto o del sistema, la
competenza perfeziona il rapporto tra soggettività e processo sociale: questa
qualifica, attraverso la valutazione non disgiunta dall’azione, le scelte e le
modalità di intervento (sempre guidate da razionalità intenzionale e limitata) di
ogni soggetto agente nel processo organizzativo. A ogni livello analiticamente
distinguibile dell’organizzazione, valori e credenze si “incontrano” con
esperienze e conoscenze nello sforzo di valutazione di mezzi e obiettivi, vincoli
e opportunità, che concorrono a delineare e modificare le scelte che 2 Per questo eletti a competenze.
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 91
costituiscono il processo, in tal senso espressione diretta delle competenze.
Partendo da differenti presupposti, la TAO propone un diverso modo in
cui l’organizzazione può trarre beneficio dalla valorizzazione delle competenze.
Anzitutto è diverso il fine ultimo: non si tratta di preservare la
“funzionalità” del ruolo o alimentare la potenza generativa delle comunità di
pratica, ma di perfezionare la “strumentalità” dei corsi d’azione; pertanto, lungi
dal promuovere un migliore adattamento alle mansioni da parte del soggetto, o
al contrario un sostegno incondizionato all’azione di quest’ultimo già per conto
proprio organizzatosi in gruppi non canonici, la teoria delle competenze nella
TAO identificare e analizzare la coerenza tra piani dell’azione organizzativa.
Poi, appare profondamente diversa la logica di fondo. Anche nella TAO
il punto di partenza è l’analisi e la comprensione delle scelte e delle azioni che
possono portare a risultati sperati, tuttavia tale sforzo non è ridotto all’indagine
di comportamenti deterministicamente indotti da regole previe ed eteronome
sancite dal ruolo e qualità psicologiche in un corso d’azione, ma riguarda
l’analisi della sua regolazione: “dans l’ensemble d’actions intentionnellement
dirigées vers un résultat désiré qui constitue le processus de travail, ces actions seront
très variables, connotées de manières différentes selon les cas. Ce qui nous aide à
comprendre leur présence dans le processus, et leurs rapports réciproques vers le
résultat, ce n’est pas la spécificité de ces actions, mais justement la régulation qui les
met en ordre dans l’unité du processus, qui leur donne un sens vers l’atteinte du
résultat qu’on désire”(Maggi, 2003: 141).
Allo stesso tempo, tale sforzo di analisi alimenta la formazione delle
competenze, ma non perché porti all’individuazione e alla formalizzazione di
lunghe liste di comportamenti desiderati altrimenti identificabili come
competenze; è piuttosto l’analisi e la valutazione del processo in sé e della sua
regolazione, la riflessione sugli esiti attesi e sulle diverse possibilità di azione,
che costituisce il momento propriamente genetico della formazione della
competenza e ne alimenta lo sviluppo.
Infine, anche le opportunità che l’organizzazione ha di favorire lo
sviluppo delle competenze risultano assai diverse; queste non si concretizzano
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 92
nella trasmissione di skills individuate come indispensabili e richieste dal ruolo,
o ancora in un’azione finalizzata a favorire la comprensione di specifiche
dinamiche e relazioni che caratterizzano una certa porzione di realtà sociale, ma
attengono al tentativo di migliorare l’analisi e la valutazione della regolazione
del processo organizzativo.
In particolare, si tratta si sostenere nell’analisi e nella valutazione ciascun
soggetto che a vario titolo opera e agisce nei processi di azione, ai diversi ambiti
decisionali analiticamente distinguibili nell’organizzazione: “il processo
organizzativo […] non si risolve nelle decisioni e nelle strutture di governo. Il
quadro d’incontro delle ragioni di incertezza nei rapporti tra piani di decisione
e d’azione organizzativa concerne ogni livello del processo” (Maggi, 1984/1990:
98).
Ciascun soggetto agente, certamente in spazi d’azione diversamente
regolati, ha necessariamente opportunità e responsabilità di valutazione e
regolazione e, pertanto, inevitabilmente contribuisce con la propria competenza
a orientare il processo organizzativo nel quale opera. L’apprendimento sia di
conoscenze tecniche e istituzionali (che informano le scelte di mezzi e obiettivi),
sia di conoscenze organizzative e metodologiche, può favorire la descrizione e
l’interpretazione del processo, facilitare in tal modo la valutazione di possibili
corsi d’azione alternativi (Maggi, 1984/1990; 2003; Albano, 2010).
L’organizzazione può dunque trarre beneficio dall’istituzione di momenti di
partecipazione3 all’analisi e alla valutazione dei processi di azione: da un lato
ciò supporta lo sviluppo della competenza di ogni singolo soggetto che prende
parte a tale attività; dall’altro lato accresce l’opportunità di interpretazione del
processo stesso.
Infatti, data la natura autonoma ed eteronoma, previa e contestuale delle
regole di ogni processo organizzativo (Maggi, 2003), lo sforzo di descrizione e
analisi si completa attraverso il contributo che ciascun soggetto, a diversi livelli,
3 Sia l’identificazione del processo analiticamente individuato per l’analisi e l’interpretazione, sia l’individuazione dei soggetti chiamati a svolgere tale attività dipendono dagli obiettivi dell’indagine.
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 93
può offrire: questi, attraverso la propria iniziativa, le proprie scelte autonome e
il proprio intervento, apporta di continuo modifiche alla regolazione del
processo attraverso azioni e decisioni che possono migliorare la descrizione del
processo e arricchirne l’interpretazione, migliorandone l’adeguatezza al futuro.
Coerentemente con i presupposti della TAO, dunque, l’analisi della
regolazione attraverso una piena e consapevole partecipazione a ciascun livello
dei diversi soggetti coinvolti incarna il “criterio delle competenze” e identifica il
processo fondamentale nel quale valorizzazione e sviluppo delle competenze
convergono e trovano congiuntamente e simultaneamente fattuale compimento.
Si tratta di un processo di supporto che può essere attivato e coltivato
attraverso la predisposizione sistematica di momenti di formazione, analisi e
confronto sulle regole del processo organizzativo, e sulla coerenza e
adeguatezza delle stesse in relazione agli esiti attesi.
Le opportunità che da tale azione deriverebbero per il cambiamento
organizzativo sono facilmente intuibili: la riflessione sulla congruenza reciproca
delle componenti analiticamente distinguibili dell’organizzazione, e la
valutazione degli effetti delle scelte, implicano la comparazione tra processi
d’azione alternativi, ovvero tra corsi d’azione possibili; in tal senso si configura
una attività di progettazione, il cui esito è l’ipotesi di disegno di un nuovo
processo d’azione composto da nuovi obiettivi e differenti mezzi, diversamente
strutturati. L’analisi della regolazione e la riflessione sui corsi d’azione
comportano la ricerca delle condizioni di adeguatezza e la valutazione dei
cambiamenti possibili. Sviluppo e valorizzazione delle competenze innescano e
alimentano così il cambiamento organizzativo, che a sua volta “richiederà”
nuovi sforzi di interpretazione e valutazione, alimentando, in un processo
ininterrotto, lo sviluppo di nuove competenze.
Uno studio di caso
Al fine di illustrare la proposta interpretativa, in questo paragrafo si fa
riferimento a uno studio di caso riguardante una grande impresa
multinazionale che opera nel settore meccanico e che da anni ha implementato
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 94
in modo fedele ai principi mainstream un metodo di gestione per competenze.
Si tratta di un’impresa che utilizza con rigore il metodo ortodosso delle
competenze così come descritto in letteratura (Spencer, Spencer, 1993). In
particolare:
- l’impresa ha identificato ciascuna posizione attraverso una descrizione
formale degli obiettivi, delle responsabilità, delle aspettative, delle attività da
svolgere, ecc.;
- per ciascuna posizione sono state codificate le competenze necessarie.
Modalità di codifica, mappatura, articolazione in livelli, legame con indicatori
comportamentali, valutazione, formazione e manutenzione nel dizionario sono
coerenti con quelli proposti nel metodo mainstream (Spencer, Spencer, 1993);
- la logica prevalente di utilizzo delle competenze, nelle fasi di gestione del
personale, si sostanzia nella costante ricerca della corrispondenza “competenze
necessarie per la posizione - competenze possedute dal soggetto”.
L’analisi del sistema osservato (approfondita attraverso l’esame di
documenti e intranet aziendali, interviste in profondità a capireparto e
responsabili di stabilimento) ha permesso di rilevare e descrivere le principali
caratteristiche e i principali limiti dell’approccio oggettivista alle competenze e
allo stesso tempo di evidenziare le opportunità che una differente
concettualizzazione di competenza, nell’ambito di un quadro teorico in cui
l’organizzazione è intesa come agire organizzativo, può offrire anche in
relazione ai processi di cambiamento.
Reparto fonderia
Neri è responsabile del reparto Fonderia ed è individuato dall’impresa
come uno dei migliori capireparto, non solo perché riesce a ottenere ottimi
risultati nel suo lavoro, ma perché è in possesso delle competenze richieste per
il suo ruolo, codificate attraverso uno dei dizionari più diffusi e utilizzati nella
letteratura manageriale sulle competenze4. Tra queste spicca “Leadership del
gruppo”, competenza che, come confermato dal responsabile di stabilimento, 4 Il dizionario adottato dall’impresa è quello di Spencer e Spencer, 1993.
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 95
“È ampiamente sviluppata da Neri e probabilmente costituisce uno dei
principali motivi del suo successo nella guida del reparto”5 (Verdi, Direttore di
stabilimento).
La Fonderia è un reparto difficile e svolge la prima delle fasi lavorative
dell’intero ciclo produttivo. Neri e gli addetti del reparto avvertono la
responsabilità di essere a monte della produzione e sono consapevoli che i loro
errori inevitabilmente si ripercuotono nelle seguenti fasi di trasformazione dei
semilavorati che ottengono: “Creare un pezzo sbagliato produce complicazioni
per le lavorazioni degli altri reparti”. Il fatto che si tratti di componenti per
caldaia impone la maggiore attenzione nella realizzazione dei pezzi, in quanto
le conseguenze di un difetto di produzione potrebbero essere davvero gravi.
La Fonderia presenta un ambiente molto automatizzato. Il lavoro è
coordinato attraverso rigidi programmi di produzione e i tempi di lavorazione
sono spesso scanditi dai macchinari: “Nel reparto Fonderia una persona deve
capire il processo della macchina […]. Una persona deve riuscire a far andare al
meglio la macchina. […] I tempi produttivi sono molto scanditi, i turni sono
tirati, i tempi ciclo sono tirati, tutto è al limite; il processo per produrre un
pezzo ormai è portato all’esasperazione come velocità, per cui una persona
nuova crea sempre dei rallentamenti, quindi il rallentamento crea
un’inefficienza del reparto che deve essere compensata da uno sforzo maggiore
del capoturno e del caporeparto: ci sono non poche difficoltà. […] L’azienda ha
un servizio tecnico che ha valutato il tempo necessario per fare un pezzo, ogni
macchina ha un tempo ciclo di un certo numero di secondi e sappiamo che la
macchina deve fare seimila pezzi al giorno per dodici macchine. Questo è il
vincolo per gli operatori: loro in realtà timbrano alle sei ed escono alle due, però
vengono valutati sul numero che fa la macchina. È ovvio che se la macchina
funziona male e loro non riescono a farla andare, ciò si ripercuote su di loro; è
come un circolo vizioso, la valutazione di quanti pezzi fare viene fatta con uno
studio di tempi macchina. […] Ho degli strumenti che sono i rapporti di
produzione che mi permettono di capire come è andata la macchina più che la 5 Questa competenza di Neri è valutata secondo il livello A 6 della scala in uso.
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 96
persona. […] Se l’azienda chiede cinquantamila pezzi al giorno, io devo dare
cinquantamila pezzi al giorno. All’azienda non interessa se io qui in reparto ho
cinque donne e sei maschi o dodici maschi, oppure dodici donne, ecc. A loro
interessa che io faccia cinquantamila pezzi e io devo far di tutto per mettere loro
nelle condizioni di fare cinquantamila pezzi, gli stampi di fare cinquantamila
pezzi e ogni cosa nel reparto di far cinquantamila pezzi” (Neri).
Solo il rispetto dei programmi di produzione permette al reparto di
conservare il suo livello di efficienza in quanto, dati i tempi stretti con i quali
opera, qualsiasi deviazione da esso facilmente comporta un rallentamento della
produzione. Tutti gli sforzi di Neri sono infatti volti a evitare deviazioni dal
programma e quindi a minimizzare i tempi di interruzione nel funzionamento
dei macchinari; a tal proposito non nasconde che un livello di robotizzazione
ancora superiore sarebbe auspicabile, data la natura dei compiti che devono
essere svolti in quel reparto. Questi sono altamente ripetitivi e per questo
logoranti, anche perché scanditi da tempi stretti ai quali non ci si può sottrarre:
la tecnologia che è necessario utilizzare in quel reparto non lo permette. Lo
spazio per l’iniziativa personale è ridotto al minimo: “Ormai i processi sono
standardizzati, i consigli dal basso sono pochi per il logorio fisico delle persone
nel reparto e per la poca volontà a emergere; è l’aspetto più negativo del mio
reparto. […] Una volta qualcuno mi ha detto: ‘Non chiedermi di fare un minuto
di straordinario, non chiedermi nulla più di quello che faccio’. Anche il
rapporto umano è a livelli bassissimi, non solo per i ritmi incessanti ai quali non
si può derogare, ma anche per l’ambiente fisico che caratterizza il reparto; i
grossi macchinari sono molto rumorosi e impongono l’uso di tappi che rendono
difficile l’interazione” (Neri).
Il tipo di mansioni e l’ambiente del reparto hanno contribuito a
diffondere una percezione del lavoro come fatica, come sforzo, come
costrizione, e questo è evidente nei comportamenti che molti dei collaboratori di
Neri assumono: “Qui il sistema produttivo ha preso il sopravvento su tutto e
anche le persone ormai si sono standardizzate”. Il rispetto delle regole è la
principale cura del personale della Fonderia: “L’efficacia di una persona è
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 97
legata all’osservanza delle regole; […] stampare una valvola o una pentola per
gli operatori è indifferente, però devono sapere cosa io gli dico di stampare;
questo è quello che loro sentono maggiormente, il fatto di avere regole certe,
come è certo che la loro macchina chiude e apre per cinquantadue secondi. Loro
si tarano attraverso le mie indicazioni; per loro è importante sapere che
arrivano e che devono controllare certe macchine. Se arrivano e non sanno cosa
controllare, per loro è una giornata che incomincia già con qualcosa che non va.
[…] Chiedergli di pensare di far qualcosa per il loro posto non è concepibile,
hanno una visione distorta del capo, cioè deve pensarci lui a come migliorare [le
cose] e hanno ragione perché il capo serve anche a questo, nel cercare di
migliorare il posto di lavoro per quanto possibile. […] Se chiedi a un operatore
un’opinione su un lavoro, lascia stare! Sei il capo e ci pensi tu. Se però gli dici
che una cosa deve essere fatta in cinquantadue secondi, lui si metterà in moto
per farlo in cinquantadue secondi. […] Occorre essere risolutivo nei problemi;
questo è quello che si aspettano. Vogliono sempre e comunque delle risposte
certe e tempestive, correlate da […] una spiegazione che deve essere chiara e
comprensibile” (Neri).
Spesso dare l’esempio è la strategia migliore: “In Fonderia, se l’operatore
riesce a fare cento, il responsabile del reparto deve fare almeno centocinquanta,
altrimenti non si pone un esempio da imitare; ci vuole calma e tranquillità, idee
chiare e sempre delle riposte, sempre e subito, perché tutti si aspettano che il
problema, di qualsiasi natura sia, venga risolto dal capo. [Per questo] non vado
mai a casa meno sporco degli altri; quando entro in reparto la mattina sono
pulito, ma la sera vado a casa sporco più di tutti messi assieme. La mattina
timbro prima degli altri, la sera vado a casa dopo gli altri e cerco di fare al
meglio quello che fanno loro” (Neri).
Il comportamento di Neri, nel modello adottato dall’impresa, è coerente
con l’impostazione psicologico individuale, riflette la competenza “Leadership
del gruppo” e dovrebbe quindi derivare da una sua attitudine soggettiva ad
assumere il ruolo di leader del gruppo; in altre parole, dovrebbe essere una
conseguenza diretta del suo “desiderio di guidare e trascinare gli altri”, una
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 98
sorta di “disposizione a imporsi come capo” (Spencer, Spencer, 1993).
Se si interpretano invece le scelte di Neri come sforzo di intervento in un
processo di regolazione, assumono rilevanza le valutazioni che questi opera in
relazione a vincoli e opportunità, mezzi a disposizione e obiettivi che
caratterizzano il suo reparto.
Nel reparto sono distinguibili compiti eterogenei connessi in successione
e disposti in modo sequenziale. La forma di coordinamento prevalente è il
programma; molti soggetti sono impegnati nello svolgimento dei compiti
avvalendosi di grossi macchinari automatizzati. Interpretiamo questa
situazione di lavoro con il contributo teorico di Maggi: “Al processo di
coordinamento dei compiti si affianca il processo di coordinamento delle
persone che svolgono i compiti […]. Nel processo di strutturazione sociale,
come in ogni processo di coordinamento, si identificano attività di governo e
attività di regolazione. Il governo è assicurato dalle informazioni sui modi e sui
tempi di svolgimento dei compiti, sulle loro relazioni, e sulle relazioni tra i
soggetti agenti. La regolazione è assicurata dalle informazioni di verifica e di
correzione delle esecuzioni dei compiti, e delle relazioni tra i soggetti agenti.
[…] Appare evidente che sempre, inevitabilmente, l’attività dei singoli soggetti
può discostarsi sia dalle regole di coordinamento dei compiti sia dalle regole di
strutturazione sociale. […] Questi scostamenti non [sono] addebitabili soltanto
alla volontà di opporsi all’organizzazione, ma [sono] riferibili più generalmente
alla complessità degli atteggiamenti e dei comportamenti umani. Nel tentativo
di ridurre tali scostamenti, ove si presupponga che i compiti siano strutturati in
modo adeguato al conseguimento del risultato, la struttura sociale deve
assicurare tutte le informazioni necessarie all’esecuzione ritenuta corretta e al
coinvolgimento dei soggetti” (Maggi, 1984/1990: 61)
Si può quindi spiegare il comportamento di Neri. Questi è consapevole
che la propensione individuale a cooperare può essere compromessa dal
logorio che quotidianamente mette a dura prova la motivazione di ciascuno nel
reparto, a causa della ripetitività delle mansioni, del logorio fisico, dei tempi
stretti e della rigida proceduralizzazione. La sua presenza nel reparto, il suo
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 99
modo di dare l’esempio, più che una forma di autorevolezza e assertività,
sembrano legati a un suo tentativo di motivare i propri collaboratori,
condividendo le fatiche. Egli immagina che svolgere l’attività come e al pari di
un normale addetto possa fungere da stimolo e da incentivo per tutto il
personale.
Più che l’espressione di una caratteristica individuale, una tensione a
primeggiare o ad affermare la propria leadership, il comportamento di Neri
sembra l’esito di scelte di coordinamento e controllo delle persone, adeguata ai
vincoli stringenti che sia la strutturazione dei compiti, sia l’adozione di
specifiche scelte tecnologiche, hanno contribuito a delineare. “I vincoli maggiori
della struttura dei compiti sulla struttura sociale, d’altronde, non vengono tanto
dalle scelte di divisione, di fatto reversibili, quanto dall’impossibilità di
divisione. I processi non scomponibili, attuabili solo con compiti associati, i
processi non arrestabili nel tempo, i compiti cognitivamente complessi,
riducono grandemente le alternative di coordinamento delle persone” (ivi: 68).
Inoltre, poiché la Fonderia si colloca a monte del processo produttivo, la
sua attività non è condizionata dall’azione di altri reparti, né
l’approvvigionamento di materie prime sembra costituire una fonte di
incertezza. Il coordinamento per programma costituisce dunque un’adeguata
modalità di coordinamento: una volta strutturati compiti, persone e mezzi in
modo coerente al conseguimento degli obiettivi, non occorre intervenire spesso
per modificarne l’ordinamento.
Con specifico riferimento alla struttura sociale, le condizioni di
variabilità delle informazioni di governo e di regolazione attengono al modo in
cui tali informazioni variano secondo la specie (omogeneità-eterogeneità) e nel
tempo (stabilità-mutevolezza). “Si riconferma per la struttura sociale la
tipologia delle soluzioni di coordinamento, secondo regole standardizzate,
secondo programma, e secondo mutuo adattamento. Quanto più sono
sufficienti informazioni uniformi e tempi stabili, tanto più il coordinamento
delle persone può essere affidato a semplici regole omogenee e routinarie. […]
Quanto più, invece, sono necessarie informazioni diverse (per fonte, modalità di
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 100
produzione, di trasmissione), anche con stabilità, oppure v’è mutevolezza,
anche per le stesse informazioni, tanto più il coordinamento delle persone deve
essere assicurato da un programma, con articolazione di regole e spazi di
retroazione. Quando infine sono necessarie informazioni continuamente diverse
e in continua mutevolezza, il coordinamento delle persone non può che
procedere per reciproci adattamenti, che sono al tempo stesso momenti
privilegiati di produzione e di trasmissione di nuove informazioni” (Maggi,
1984/1990: 67-68).
Attraverso una costante riflessione sulle caratteristiche del proprio
reparto, Neri ha ormai maturato la consapevolezza che tempi, modi e luoghi
per lo svolgimento dei compiti possono essere stabilmente definiti e comunicati,
in quanto la variabilità sia di specie, sia di tempo, è bassa. Per questo, egli
rimarca come non occorra essere pronti a intervenire repentinamente attraverso
la comunicazione di nuove regole, ma solo sforzarsi di trasmettere con
chiarezza quelle definite; ed è proprio quello che Neri fa, anche attraverso
l’esempio personale, che sicuramente costituisce un rinforzo, sebbene
informale, tacito e non scritto, delle regole che in quel reparto dovrebbero essere
seguite. Il comportamento di Neri non rappresenta l’esito di una scelta
estemporanea, ma è frutto di un insieme di valutazioni soggettive che sono
maturate nel corso di una lunga esperienza in Fonderia, durante la quale egli ha
avuto modo di riflettere sulle difficili condizioni del reparto e di sperimentare le
soluzioni più adeguate ai mezzi a disposizione, agli obiettivi e ai vincoli che
quel difficile ambiente, momento per momento, poneva alla sua attività.
In altre parole, il racconto di Neri sembra offrire un ottimo esempio di
competenza che coincide con il “saper valutare”, nell’ambito di un agire
organizzativo finalizzato alla regolazione del processo di lavoro in un contesto
di razionalità limitata e intenzionale. È proprio l’intenzionalità riferita al
processo regolativo che emerge in modo molto chiaro nel racconto di Neri; al
contrario, non sembra potersi affermare che la “competenza” di Neri nella
gestione del suo gruppo di lavoro sia ascrivibile ad attitudini soggettive, così
come previsto dalla teoria oggettivista.
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 101
Vedremo, nel paragrafo seguente, il caso di un collega di Neri che, in un
altro reparto, con caratteristiche assai diverse, ottiene risultati di eccellenza pur
comportandosi, in relazione alla medesima “competenza” (così come codificata
dall’impresa), in modo quasi diametralmente opposto.
Reparto Trattamenti chimico-fisici
Nella stessa impresa, Rossi è responsabile del reparto Trattamenti
chimico-fisici. Anche lui è giudicato uno dei best performer nel suo ruolo, e anche
lui “Ha sviluppato la competenza ‘Leadership del gruppo’ in modo
considerevole, presupposto fondamentale per essere un buon capo e ottenere
ottimi risultati in un reparto come Trattamenti chimico-fisici”6 (Verdi, Direttore
di stabilimento). Si tratta di un’unità produttiva nella quale i pressofusi sono
lavati, sgrassati e liberati dalle bave. Il reparto è dotato di diverse lavatrici
termiche, altri sofisticati macchinari disposti prevalentemente in isole di lavoro
indipendenti e macchinari a utilizzo manuale in grado di eseguire lavorazioni
su pezzi più piccoli (le minuterie) spesso lavorati per conto terzi. Nel reparto
dunque confluiscono non solo i pezzi prodotti internamente, ma anche quelli
forniti da aziende esterne che commissionano specifiche lavorazioni sui loro
prodotti. Questo rende l’organizzazione delle fasi lavorative particolarmente
complessa e difficilmente programmabile: “Io ho anche due terzisti che mi
portano valvole. Qui, quando la programmazione mi dà un indirizzo, lo fa sui
codici urgenti. Poi, avendo altre aziende che ti forniscono il materiale su cui
lavorare, lo hai disponibile a spot e le priorità cambiano continuamente […]. A
me non puoi dare un piano e dirmi: ‘Bene, hai questi codici da lavorare in
questa quantità per quella data’. Non è così: ci sono tanti altri lavori da
incastrare in base alle esigenze, per cui è una cosa non semplice” (Rossi).
Rossi fa affidamento a due uffici programmazione, uno “interno” che con
cadenza quotidiana o infrasettimanale gli fornisce le priorità in relazione alla
produzione degli altri reparti; uno invece collocato presso la direzione centrale
che appunto cerca di schedulare l’azione di reparti particolari come il suo, 6 L’azienda ha valutato la competenza “Leadership del gruppo” di Rossi secondo il livello A 5.
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 102
anche in relazione a lavorazioni eseguite per conto terzi. Sebbene gli uffici
cerchino di coordinarsi tra loro, questo non sempre avviene in tempo reale;
inoltre, spesso il terzista stesso ha difficoltà a programmare le sue urgenze, e
questo inevitabilmente si riversa sul lavoro di Rossi: “Il terzista lo può portare
[il materiale] alle cinque e mezzo della sera, alle sette del mattino, ecc. Ogni
mattina arrivo e trovo del materiale in più. Ecco perché, oltre a rispettare le
urgenze, devi guardare in giro cosa c’è da fare. Poi mi confronto con la
programmazione e inizio a lavorare i codici che servono” (Rossi).
Riprogrammare le priorità fa parte del lavoro di Rossi, e si tratta di uno
sforzo che spesso precede le analisi degli uffici di schedulazione: “A volte mi
trovo di fronte a del materiale che non si aspettava neanche la programmazione
e di cui non ho le informazioni. In quel momento mi interesso e chiedo; sono io
a dover prender l’iniziativa. […] Qua ogni giorno può essere una sorpresa. Le
informazioni mancano o arrivano strette; a volte addirittura ti arriva prima il
materiale, poi la telefonata, con la richiesta: ‘Quando me lo fai?’ […] Spesso mi
accorgo di ciò che c’è da fare solo quando arrivano, mi danno il materiale e mi
danno la bolla in mano. In quel caso devo confrontarmi con la programmazione
e sentire se loro hanno delle urgenze” (Rossi).
Rispettare semplicemente l’ordine delle priorità, o privilegiare
sistematicamente quelle di un ufficio rispetto all’altro produrrebbe risultati
pessimi per Rossi, valutato a fine anno non solo in relazione al rispetto dei
tempi di consegna del materiale, ma anche al tempo di funzionamento delle
macchine, che naturalmente egli deve cercare di massimizzare. D’altro canto,
però, l’assenza del magazzino ridimensiona la possibilità di preservare in ogni
caso il funzionamento delle macchine, al limite accumulando scorte. Per questo
Rossi è impegnato quotidianamente a mediare tra differenti esigenze di
produzione, spesso cercando un compromesso tra le indicazioni dei diversi
uffici di programmazione ai quali risponde (“Ci sono almeno tre uffici che
cercano di programmare il mio lavoro” – Rossi) e le priorità specifiche del
reparto legate a una logica di ottimale funzionamento dei macchinari. Ciò è
chiaramente evidenziato dal caporeparto: “La programmazione non ha idea di
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 103
quanto io riesca a fare. Sono io che comunico loro quanto io riesco a fare in un
certo arco di tempo. […] Il tempo lo decido io; sono io che conosco i tempi e
quindi posso stimare cosa riesco a preparare in due ore. […] A volte, per far
fronte agli imprevisti, occorre frenare con certi codici, oppure stimare nei propri
piani un tempo di lavorazione superiore a quello realmente necessario. Spesso
la programmazione ignora tutto ciò che può succedere in reparto e, nel
comunicarti le priorità, non tiene conto delle varie evenienze. Per questo è
necessario che un caporeparto a volte consideri nei suoi piani di lavoro dei
tempi di lavorazione superiori a quelli strettamente necessari. Se poi si finisce
prima del previsto, nel tempo che avanza si possono concludere altre
lavorazioni già iniziate. Poi c’è sempre la minuteria che bisogna avere il tempo
di fare e cerco di incastrarla quando più conviene al reparto, ritagliandomi
spazi di tempo qua e là. La programmazione non sempre conosce la condizione
reale del reparto, e le priorità della programmazione non sempre favoriscono
l’efficienza del reparto o massimizzano il tempo di funzionamento delle
macchine” (Rossi).
Attraverso questo approccio Rossi è riuscito a ottenere sempre ottimi
risultati, e molto lo deve ai suoi collaboratori. Egli non nasconde che la
disponibilità mostrata dai suoi collaboratori è indispensabile per conseguire tali
risultati, e che molto di quello che nel suo reparto si riesce a fare dipende dal
rapporto di fiducia faticosamente costruito nel tempo con gli addetti del suo
reparto: “Io cerco di curare molto quello che può essere il rapporto, ci tengo
molto, ci tengo perché se riesci a recuperare questa cosa è decisamente utile. Io
normalmente cerco di accontentare tutti se hanno bisogno di un permesso o se
hanno imprevisti. Poi quando sei in difficoltà ti dà soddisfazione quando sono
loro a chiedere se hai bisogno […]. Due settimane fa ad esempio una ragazza
era presente durante il lavoro, ha notato che ho avuto problemi con la macchina
e che sono rimasto indietro con la produzione. Eravamo a metà settimana, così
io ho detto dentro di me, ok recupererò. Dopo un paio di ore la ragazza mi ha
detto: ‘Ho visto quello che è successo, se hai bisogno mi rendo disponibile io.
Visto che tu mi sei sempre venuto incontro quando io ti chiedevo qualcosa, se
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 104
hai bisogno basta solo che me lo dici’. […] È successo anche con un’altra
persona che adesso non è più qui e anche con un’altra ancora che a volte,
spontaneamente, faceva il giro del reparto per vedere com’ero messo, pensa. Mi
dice: ‘Guarda che se hai bisogno questo sabato vengo ben volentieri’. Questo
poi dà soddisfazione, cioè, se tu tratti bene l’operaio, con rispetto, riesci a creare
un gruppo. […] Non devi importi o proporti come una figura autoritaria. Qui
proprio non serve a nulla. […] Probabilmente smetterebbero di essere
disponibili. […] Ieri pomeriggio è successo che i robot non funzionavano più.
Allora ho fatto in modo di procurarmi due persone (sono quelle che occorrono)
per lavorare sull’isola manuale. Io ne avevo una, così mi sono fatto in quattro
per trovare un’altra persona che da un altro reparto venisse a darmi una mano
per far fronte alle esigenze di produzione. […] Il mio modo di fare con le
persone mi porta dei risultati. Un caporeparto non deve essere bravo solo a
lavorare; devi capire un po’ tutto. Non devi essere bravo solo perché sai
aggiustare una macchina o perché sai lavorare duramente; occorre sapersi
comportare, sapersi relazionare con le persone” (Rossi).
Rossi è convinto che ascoltare e soddisfare le esigenze dei collaboratori,
avere cura del personale del reparto, sia alla base del suo successo; per questo
ha fondato il suo rapporto con i propri collaboratori sulla comprensione e sul
rispetto delle esigenze reciproche. In particolare, la comunicazione è
considerata come un aspetto indispensabile della sua attività perché in grado di
avvicinare, di evidenziare e valorizzare le reciproche esigenze, il cui
soddisfacimento è alla base del buon funzionamento dell’intero reparto. La
premura per questo aspetto è tale da aver portato Rossi anche a ricorrere a
metodi informali volti a supportare, facilitare e alimentare l’interazione con i
suoi collaboratori: “Ho dato alla gente del reparto il mio numero privato, e ho
detto loro: ‘Se avete qualche problema quando io sono a casa, contattatemi
pure’. Certo, loro sanno che non deve essere un’abitudine e chiamano quando
serve. Io ci tengo a essere informato anche se accade qualcosa alle macchine,
voglio essere sempre al corrente di tutto quello che succede qua dentro. […] Io
ho sempre cercato di avere un dialogo aperto con i miei capiturno” (Rossi).
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 105
Il comportamento di Rossi, nella logica promossa dall’approccio
mainstream alla gestione delle competenze, è ampiamente riconducibile a quella
che nel dizionario di Spencer e Spencer (1993) è indicata come “Leadership del
gruppo”. Egli, infatti, frequentemente ha ribadito la sua attenzione per i propri
collaboratori, sottolineando quanto in un reparto come il suo sia importante
ottenere le risorse e le informazioni di cui il gruppo ha bisogno e allo stesso
tempo soddisfare le necessità pratiche del gruppo7. Tuttavia, il riferimento a
una dimensione processuale dell’agire umano e a una concezione
dell’organizzazione come processo di regolazione offre l’opportunità di
interpretare diversamente le azioni di Rossi.
La natura dell’attività che il reparto svolge e il tipo di tecnologia
utilizzata permettono a Rossi di organizzare il proprio lavoro in modo molto
flessibile: le lavorazioni eseguite sono numerose (cromattazione, lavaggio,
sbavatura, ecc.) e variano per generi di pezzi; possono dunque essere svolte
contemporaneamente e parallelamente, in modo indipendente le une dalle altre.
Il fatto di non dover rispettare una sequenzialità delle operazioni, anche grazie
alla presenza delle isole di lavoro autonome, offre a Rossi una certa libertà
nell’immaginare diverse alternative di svolgimento di compiti, sempre a patto
di riuscire a ottenere un pieno coinvolgimento del personale del proprio
reparto. Dunque proprio la disponibilità dei suoi collaboratori sembra costituire
il vincolo più grande in relazione ai possibili modi di organizzare il lavoro nel
reparto: “la struttura sociale influenza la struttura dei compiti sia perché
possono essere affidati a persone diverse compiti svolgibili dalla stessa persona,
sia perché possono essere affidati congiuntamente a due o più persone compiti
separabili. In tali casi le scelte di coordinamento delle persone condizionano le
accumulazioni, e le associazioni dei compiti” (Maggi, 1984/1990: 68).
Certamente Rossi potrebbe optare per un generale incremento della forza
lavoro del reparto, ma (oltre a un eccessivo incremento dei costi) rischierebbe di
lasciare sistematicamente molte persone improduttive in mancanza di
lavorazioni da svolgere. Perciò l’unica strada che ritiene perseguibile è 7 Sono tutti comportamenti coerenti con il livello A 5 di tale competenza.
DOMENICO BERDICCHIA, GESTIONE DELLE COMPETENZE: CRITICA E PROPOSTA INTERPRETATIVA
TAO DIGITAL LIBRARY – 2013 106
usufruire degli “straordinari” degli addetti al reparto. Questo è valutato da
Rossi come lo strumento più flessibile poiché permette di servirsi di ore-lavoro
aggiuntive solo quando necessario e, soprattutto, in modo estemporaneo (cosa
di assoluto rilievo in un reparto come questo). Tuttavia, Rossi non può
costringere il personale del proprio reparto a rimanere oltre il proprio turno di
lavoro; deve affidarsi alla loro disponibilità: “Io in dieci anni che sono qui ho
sempre avuto bisogno di disponibilità, cambi turno, flessibilità, ecc. Io ho
bisogno di andare in cerca di personale per le urgenze e molto altro ancora. Ho
avuto bisogno di recuperare, di far fare i sabati, ecc. Ho sempre avuto codici
dell’ultimo minuto e ho sempre avuto bisogno di persone disponibili. Con le
persone con le quali ho un buon rapporto non ho problemi e loro ti ricambiano”
(Rossi).
La premura che Rossi mostra nel soddisfare il più possibile le esigenze
del gruppo, la flessibilità con la quale accoglie e soddisfa le richieste del
personale concedendo permessi ecc., più che l’espressione di una certa forma di
leadership o di particolari tratti caratteriali (così come proposto dalla teoria
oggettivista), appaiono l’esito di un processo di negoziazione volto ad
assicurare la cooperazione di ciascuno nel raggiungimento degli obiettivi. Rossi
conosce bene il suo lavoro, ha piena consapevolezza degli obiettivi che può
perseguire e ha molto riflettuto su come superare i limiti e allo stesso tempo
valorizzare le opportunità che quotidianamente si presentano nella sua attività.
Egli sa bene che, date le caratteristiche del suo reparto, la disponibilità del
personale costituisce una delle sue più grandi opportunità di conseguire ottimi
risultati. Non crede che sia l’unica strada possibile, né una strategia
universalmente valida da esportare altrove (“Qui per adesso funziona così,
magari le cose altrove vanno diversamente, e forse anche qui un giorno
cambieranno” - Rossi). Semplicemente ha valutato il proprio modo di
intervenire nella strutturazione sociale di questo particolare reparto come
un’alternativa possibile tra quelle percorribili, una scelta coerente con gli
obiettivi e i mezzi a disposizione, i vincoli e le opportunità che lui stesso,
attraverso un’incessante sforzo di riflessione sulle dimensioni organizzative del
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proprio reparto, è riuscito a cogliere.
Discussione e conclusioni
Sia la riflessione teorica, sia gli esempi proposti, pongono alcuni
interrogativi sul concetto di competenza e sul modo in cui questo può essere
utilizzato nelle pratiche di HRM. Dal caso presentato emerge che l’idea di
codificare e misurare le competenze al lavoro affidandosi a un inventario
predefinito di indicatori comportamentali e di collegamenti causali che li legano
a motivazioni, tratti, abilità, conoscenze e altre caratteristiche della persona, può
risultare problematica. In particolare, sebbene le teorie mainstream si basino
sull’assunto che ‘Motive, trait and self-concept competencies predict skill behavior
actions, which in turn predict job performance outcomes’ (Spencer, Spencer, 1993:
12), il caso analizzato mostra che il collegamento tra questi elementi è tutt’altro
che deterministico. L’idea di poter racchiudere e spiegare (e quindi
predeterminare) l’universo possibile dei comportamenti umani, identificando
un inventario di “motivazioni” dalle quali questi direttamente scaturiscono,
incontra dei limiti difficilmente superabili legati alla natura della razionalità
umana, limitata e intenzionale (Simon, 1947; March, 1994) e alla natura
processuale dell’agire umano (Weber, 1922; Thompson, 1967; Giddens, 1984;
Maggi, 2003). Ciascuna delle azioni dei performer certamente è sottesa a una
competenza a monte, ma questa sembra sostanziarsi più in uno sforzo di analisi
e comprensione dello specifico contesto d’azione e della sua regolazione,
ovvero in valutazioni di adeguatezza contestuali e soprattutto suscettibili di
cambiamento, piuttosto che in preferenze stabili, schemi d’azione statici o
modelli di comportamento ritenuti universalmente validi ed efficaci.
Maggi (2003) ha sottolineato l’importanza della riflessione sui processi di
lavoro. Da tale riflessione, e comprensione, sforzo di apprendimento, in un
contesto di per sé dinamico, sembrano scaturire le azioni (e la performance) dei
best performer osservati. Ciascuno di essi ha mostrato di essere costantemente
impegnato in uno sforzo di costruzione e di interpretazione del proprio
processo di lavoro, di produzione dinamica di significato, di formulazione di
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scelte e di creazione di possibili stati futuri; questi in nessun modo sembrano
prevedibili a priori, né formalizzabili completamente, e neppure riassumibili
attraverso un inventario, seppure ricco e articolato, di alternative d’azione
predefinite.
Lo studio di caso presentato mostra con chiarezza che azioni e decisioni
riconducibili (secondo il dizionario utilizzato) a livelli contigui della stessa
“competenza” (così come definita nel dizionario), diversamente radicata, sono
state frutto di strategie di azione quasi diametralmente opposte, per nulla
“dettate” da simili tratti caratteriali, né da analoghe disposizioni soggettive, e
neppure da motivazioni equivalenti.
Il modo di agire dei due capireparto, ritenuti allo stesso modo best
performer dall’azienda, non sembra poter essere descritto, né tanto meno
accomunato, dalla stessa competenza così come definita e formalizzata nel
dizionario, semplicemente facendo ricorso alla logica dei livelli. Questi ultimi
prescrivono i cambiamenti delle azioni richieste a un soggetto e individuano un
vero e proprio percorso di sviluppo individuale (“Sviluppare una specifica
competenza significa acquisirla secondo un livello più elevato della scala ed
essere in grado di modificare il proprio comportamento in modo conforme a
quello descritto [ovvero prescritto] dal nuovo e più alto livello” - Verdi,
direttore di stabilimento).
In relazione al cambiamento organizzativo, la logica dei livelli esprime
nettamente la strumentalità della proposta mainstream: per ogni ruolo sono
rimarcate le fasi di un percorso di sviluppo e trasformazione già tracciato e
predisposto, la cui adeguatezza al futuro – proprio attraverso l’esatta
esplicitazione previa dei comportamenti che i diversi livelli di ciascuna
competenza comporta – sembra poter essere giudicata ex ante a prescindere dal
contesto specifico e soprattutto dalla valutazione del soggetto che agisce nel
processo di azione.
A dispetto dei discorsi che oggi connettono il metodo delle competenze
al cambiamento organizzativo attraverso la valorizzazione del contributo
individuale e dell’iniziativa personale, non disgiunta da uno sforzo di analisi, di
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giudizio e creazione di nuove e più efficaci alternative d’azione, il sistema
osservato presenta una realtà diametralmente opposta. Il dizionario delle
competenze contribuisce a scandire con esattezza i contributi individuali e
l’articolazione in livelli ne esplicita con meticolosa precisione le trasformazioni
attese (ovvero prescritte) nel tempo: la somma discreta di queste ultime
(coerentemente con i principi oggettivisti di fondo) comporrà il cambiamento
organizzativo programmato.
Come autorevoli contributi di matrice oggettivista chiariscono, il metodo
delle competenze “acknowledges the criticality of role interpretation, and it
tries to influence it by loudly signaling the behavioral ‘themes’ that are in
alignment with the organization’s strategy, and that the organization would
like to see reflected in the incumbent’s approach to the role” (Sanchez, Levine,
2009: 56). Al di là dunque della retorica corrente, il modo in cui il metodo delle
competenze sembra poter supportare il cambiamento organizzativo è presto
svelato: proprio mirando a rafforzare processi di integrazione e adattamento a
cambiamenti progettati.
Eppure dalla nostra ricerca empirica emerge chiaramente che, proprio se
si sceglie di seguire tale logica, si rischia di indurre i lavoratori a modificare il
proprio comportamento secondo standard prestabiliti per nulla adeguati al
contesto e tutt’altro che strumentali agli obiettivi preposti. Lo sviluppo da parte
di Rossi della competenza “Leadership del gruppo” a un livello superiore, e
dunque l’assunzione di comportamenti analoghi a quelli di Neri, nel reparto
Trattamenti chimico-fisici, avrebbe effetti giudicati dallo stesso Neri tutt’altro
che positivi, impedendogli di implementare una strategia vincente nel suo
reparto, e per la quale egli è giudicato come un best performer da parte
dell’impresa.
Crediamo che il superamento di alcuni grandi limiti che penalizzano la
teoria mainstream delle competenze in relazione all’opportunità di cambiamento
richiedano una riconcettualizzazione delle nozioni di competenza e di
organizzazione. Ciascun caporeparto si è mostrato costantemente impegnato in
uno sforzo di riflessione sulle regole del proprio reparto, sugli obiettivi
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assegnati e i mezzi a disposizione e, attraverso l’analisi degli stessi e dei
rapporti di reciproca coerenza, si è fatto promotore di soluzioni adeguate, anche
attraverso la valutazione degli esiti di scelte alternative. Di propria iniziativa i
responsabili incontrati hanno cercato di riflettere sulla regolazione del lavoro
nel reparto, intervenendo in essa nel modo valutato più adeguato in relazione
non solo a regole prescritte ed eteronome, ma anche a preferenze personali e
regole autonome, definite nel corso dell’azione, che in modo anche implicito,
informale e non scritto hanno concorso a modificare il processo organizzativo.
Supportare tale sforzo di riflessione può divenire dunque il cuore di un nuovo
approccio alle competenze di cui l’organizzazione può beneficiare.
Si tratta di prendere le distanze da logiche di codifica e di
formalizzazione ex ante dei comportamenti e di riconoscere che ciascuno
nell’organizzazione, informato da riflessioni connesse all’analisi della
regolazione, mobilita continuamente le proprie risorse e opera delle scelte,
contribuendo per questo al divenire del processo. Si tratta di riconoscere che
ciascuno si appropria in modo autonomo e creativo del proprio lavoro e lo
orienta anche attraverso la propria esperienza, le proprie riflessioni, le proprie
valutazioni di adeguatezza in relazione al contesto. Alla base c’è uno sforzo di
lettura, analisi e comprensione della regolazione del processo, dal quale le
opportunità di intervento e cambiamento scaturiscono. Ciò contribuisce a
sviluppare le competenze e il processo di cambiamento organizzativo.
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