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Il Grand Tour da Montaigne a Heine Grand Tour è locuzione francese codificatasi in ambito linguistico inglese; venne usata per la prima volta nel 1636 per il viaggio in Francia di Lord Granborne. La si trova quindi sotto la penna di Richard Lassels nel Voyage of Italy: or a Com- pleat Journey Through Italy (1670), e da allora sino alla fine del Settecento designò il viaggio di formazione intrapreso dal fior fiore dell’aristocrazia e dell’intellighenzia europea – segnatamente inglese, francese e tedesca – attraverso la Francia e, soprattutto, l’Italia. Il Grand Tour ha una sua precisa periodizzazione, una sua non meno precisa topografia e altrettanto codificate scansioni temporali. L’Italia era stata a lungo, su tutto l’arco del Medioevo, meta di ferventi pellegrinaggi. Cristiani di tutta Europa (i «romei») confluivano a Roma per visitare i luoghi sacri. Schiere di scolari varcavano le Alpi per studiare negli atenei di Bologna, di Padova o Pavia. Ben presto, non saranno più motivazioni eminentemente religiose o accademiche a spingere gli europei a percorrere la penisola. I santuari della cattolicità restano tappe ineludibili del viaggio, ma vengono guardati con un altro occhio, critico se non scientifico (proto-etnologico); e accanto alle basiliche di Sant’Antonio a Padova e di San Pietro a Roma, o accanto alla Santa Casa di Loreto, si stagliano con sempre maggior nitidezza altre mirabilia: l’arena di Verona, le rovine di Roma antica, ma anche la Villa d’Este di Tivoli, gli edifici palladiani di Vicenza e di Venezia, i grandi palazzi fiorentini e romani, le collezioni d’arte e le biblioteche che sin dal Cinquecento aprivano le loro porte a personalità di rango. Per un’élite aristocratica di colti, se non per umili masse di pellegrini cattolici, il viaggio in Italia diventa laico ed erudito. Con alcune variazioni di percorso a seconda della provenienza dei viaggiatori, dalla Germania o dalla Francia, si codifica una nuova mappa che contempla alcune tappe obbligate. L’Italia del Grand Tour si configura come una piramide rovesciata che culmina a Napoli, e la cui spina dorsale è costituita dalla direttrice Firenze-Roma-Napoli. Arrivando da ovest, i francesi e gli inglesi generalmente raggiungono Firenze passando da Genova, Livorno e Pisa, oppure da Milano e Bologna, e si fermano a Venezia

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Il Grand Tour da Montaigne a HeineGrand Tour è locuzione francese codificatasi in ambito linguistico inglese; venne usata per la prima volta nel 1636 per il viaggio in Francia di Lord Granborne. La si trova quindi sotto la penna di Richard Lassels nel Voyage of Italy: or a Com- pleat Journey Through Italy (1670), e da allora sino alla fine del Settecento designò il viaggio di formazione intrapreso dal fior fiore dell’aristocrazia e dell’intellighenzia europea – segnatamente inglese, francese e tedesca – attraverso la Francia e, soprattutto, l’Italia.

Il Grand Tour ha una sua precisa periodizzazione, una sua non meno precisa topografia e altrettanto codificate scansioni temporali. L’Italia era stata a lungo, su tutto l’arco del Medioevo, meta di ferventi pellegrinaggi. Cristiani di tutta Europa (i «romei») confluivano a Roma per visitare i luoghi sacri. Schiere di scolari varcavano le Alpi per studiare negli atenei di Bologna, di Padova o Pavia.

Ben presto, non saranno più motivazioni eminentemente religiose o accademiche a spingere gli europei a percorrere la penisola. I santuari della cattolicità restano tappe ineludibili del viaggio, ma vengono guardati con un altro occhio, critico se non scientifico (proto-etnologico); e accanto alle basiliche di Sant’Antonio a Padova e di San Pietro a Roma, o accanto alla Santa Casa di Loreto, si stagliano con sempre maggior nitidezza altre mirabilia: l’arena di Verona, le rovine di Roma antica, ma anche la Villa d’Este di Tivoli, gli edifici palladiani di Vicenza e di Venezia, i grandi palazzi fiorentini e romani, le collezioni d’arte e le biblioteche che sin dal Cinquecento aprivano le loro porte a personalità di rango. Per un’élite aristocratica di colti, se non per umili masse di pellegrini cattolici, il viaggio in Italia diventa laico ed erudito. Con alcune variazioni di percorso a seconda della provenienza dei viaggiatori, dalla Germania o dalla Francia, si codifica una nuova mappa che contempla alcune tappe obbligate.

L’Italia del Grand Tour si configura come una piramide rovesciata che culmina a Napoli, e la cui spina dorsale è costituita dalla direttrice Firenze-Roma-Napoli. Arrivando da ovest, i francesi e gli inglesi generalmente raggiungono Firenze passando da Genova, Livorno e Pisa, oppure da Milano e Bologna, e si fermano a Venezia alla fine del periplo. I tedeschi invece, entrando in Italia più a est (dal Brennero), iniziano l’itinerario con la visita di Verona, Padova e Venezia (e spesso anche di Mantova). La via del ritorno conduce da Napoli nuovamente a Roma, dove pertanto la stragrande maggio- ranza dei viaggiatori soggiorna due volte. Da Roma si può risalire verso Firenze, oppure (con tappe a Terni, Spoleto e Foligno) biforcare verso Loreto e risalire lo stivale lungo la costa adriatica, fermandosi ad Ancona, Urbino, Rimini, San Marino, Ferrara.

Mancano – si sarà notato – località a sud di Napoli: fino alla seconda metà del Settecento l’Italia finisce con l’antica Partenope, e «tutto il resto è Africa», come dirà ancora nel 1806 Augustin-François Creuzé de Lesser nel suo Voyage en Italie et en Sicile en 1801 et 1802.

Centro e fulcro è Roma, «unica città comune e universale» (Montaigne), «capitale del mondo» (Goethe), ma anche città d’oltretomba (Chateaubriand), e quindi scenario privilegiato di rêveries sia classiche che romantiche.

Per quanto riguarda il calendario dei viaggi, si arriva in Italia a settembre, a Firenze ad ottobre, a Roma a novembre; il primo soggiorno romano si protrae, con escursioni ai colli e nell’Agro romano, fino a Pasqua; si prosegue poi per Napoli, dove ci si sofferma fino a giugno (per ascendere il Vesuvio e visitare, a partire da metà Settecento, Pompei ed

Ercolano); dopo il secondo soggiorno romano, si risale la penisola durante

l’autunno e si arriva a Venezia nel febbraio successivo, prima di tornare a nord. Sono ovviamente possibili tabelle di marcia più serrate, in modo da ridurre il viaggio all’arco (minimo) di un anno.

il Grand Tour finisce con il tramonto improvviso della forma di vita aristocratica che ne ave- va legittimato l’eccentrico ma pianificato svagamento, non- ché con la dispersione di ciò che Goethe chiamò il «corpo ar- tistico» (Kunstkörper) dell’Italia. Allo scadere della rapinosa epopea napoleonica, vennero alla luce alcune tra le maggiori testimonianze di quell’irripetibile stagione, prima fra tutte laItalienische Reise di Goethe (1816-17), come a fissare nella memoria europea un patrimonio perduto per sempre.

Perché partire? Molti si mettono in viaggio per completare la propria formazione. Ma c’è chi parte per scappare. Il signore di Montaigne, Michel Eyquem, autore degli Essais, la- sciò il suo castello presso Bordeaux il 22 giugno 1580, seguendo un tortuoso itinerario che lo condusse a traversare la Francia settentrionale e la Germania meridionale prima di

sconfinare in Italia (fig. 1). La Francia era dilaniata dalle guerre di religione, e al desiderio di conoscere altri paesi si mischia- va, come annota il segretario redattore della prima parte del diario, «un po’ di passione del disprezzo del proprio paese, che aveva in odio e in uggia per altre considerazioni». Anche Goethe scappa oltralpe, abbandonando segretamente, il 3 settembre 1786, i bagni termali di Karlsbad, in Boemia: non per fuggire da guerre civili, ma cercando un esito all’impasse nel-

la quale sentiva di essersi ingolfato con l’aver intrapreso, al servizio del duca di Sachsen-Weimar, una febbrile attività amministrativa che intralciava lo sviluppo della sua opera letteraria. In questi due casi, altamente significativi, il viaggio in Italia scaturisce da una forte sensazione di disagio, che si esprime – letteralmente e metaforicamente – in patologie mediche: Montaigne è tormentato dal mal della pietra e si fermerà in svariati luoghi di cura, primi fra tutti i Bagni di Lucca, inventariandone meticolosamente le proprietà terapeutiche. Goethe confessa di aver sofferto per anni di una strana malattia che gli impediva, pena orrendi dolori, di «guardare un qualsivoglia autore latino, di considerare qualsiasi cosa rinnovasse in [lui] l’immagine dell’Italia». Già gli inglesi di età elisabettiana consideravano il viaggio in Italia come una medicina per guarire la malinconia: un viaggio, dunque, taumaturgico e terapeutico.

Come viaggiare? Il poeta inglese John Milton, che intraprende il Grand Tour fra il maggio del 1638 e l’agosto dell’anno successivo (fig. 2), sottolinea con fierezza la peculiarità del- la sua iniziativa, esibendo la propria qualità e la propria fede: Milton infatti non era un nobile (costituisce quindi l’esempio, assai raro in quei tempi, di un viaggiatore borghese), né era cattolico bensí protestante (come Goethe, del resto). La baldanza con la quale manifestò le proprie convinzioni, anche in ambienti ecclesiastici, non mancò di impensierire i suoi amici italiani. A Firenze, o meglio ad Arcetri, nella tarda estate del 1638, Milton rende visita a Galileo, da anni agli arresti domiciliari, come ricorderà nel suo Paradise Lost (I, 287-91) e soprattutto nell’Areopagitica: «È là che trovai e visitai il celebre Galileo, invecchiato, prigioniero dell’Inquisizione, perché in astronomia pensava diversa- mente dai suoi censori francescani e domenicani». Ricordo che suona come un monito ai compatrioti, affinché salvaguardino la libertà: di fatto, il viaggio in Italia consente a Milton di definirsi come inglese e come esponente di una «nazione filosofica».

Montaigne, che viaggia a cavallo accompagnato da una dozzina di persone (il fratello, il cognato, due amici e vari do- mestici), cerca invece di conservare l’incognito in modo da non «rendersi rimarchevole per qualche atteggiamento nemico del gusto di coloro che lo vedevano». Vuole insomma passare inosservato, ma per meglio osservare e agevolare il contatto con la gente: con artigiani, gentiluomini, eruditi italiani, polacchi, francesi, con medici e poeti (si sa che rese visita a Torquato Tasso prigioniero a Ferrara). Soprattutto, Montaigne vuole «provare del tutto la diversità dei costumi e dei modi», adattandosi di volta in volta alla cucina del luogo e agli usi domestici.

Così anche Goethe, che viaggia sotto il falso nome di Filippo Miller, spacciandosi per pittore e vivendo come un italiano. Durante la visita del santuario di Santa Rosalia sul monte Pellegrino, presso Palermo, un monaco lo prenderà per un genovese. L’amico Johann Gottfried Herder si stizzirà di queto mimetismo, temendo che nascondesse un vero e proprio mutamento identitario. E infatti nel corso dei due anni vissuti in Italia Goethe rinacque italiano, malgrado avesse inizialmente sentenziato che gli abitanti della penisola «stanno troppo discosti da noi»: «uomini di natura che sotto lo splendore e la dignità della religione e delle arti non sono affatto diversi da come sarebbero nelle caverne e nelle foreste». Giunto a Napoli, forse alludendo agli ozi trascorsi a Capua da An-

nibale, confessa di essersi dimenticato di se stesso, e di riconoscersi a malapena: gli sembra «di essere un uomo completamente diverso». Nel giro di qualche mese, Goethe s’è completamente assimilato. A Roma non frequenta soltanto gli esponenti della colonia tedesca, ma anche scrittori e intellettuali italiani, come Vincenzo Monti.

Come e cosa guardare? Ne L’Italie en 1818, Stendhal propone di distinguere coloro che s’interessano ai costumi (mœurs), ovvero ai «pregiudizi» e alle «diverse maniere di cer- care la felicità di un popolo», da coloro che vedono soltanto i muri (murs). Acutamente il romanziere francese individua così i due tipi fondamentali di viaggiatori in Italia, due tipi che sembrano coesistere piuttosto che avvicendarsi nel corso dei secoli: da un lato gli esponenti del viaggio scientifico, i quali palesano un’attenzione antropologica per la

popolazione (atteggiamento che si accentua durante l’illuminismo); dall’altro gli esponenti del viaggio di formazione culturale ed estetica, per i quali la penisola è prevalentemente un museo a cielo aperto. Stendhal non assegna all’osservazione del paesaggio una valenza differenziale, e i testi gli danno ragione, benché la sensibilità per la natura si fosse acuita, estetizzandosi, nel corso del Settecento.In effetti, pur ammirando la facciata della Certosa di Pavia, i parchi di Pratolino e della villa di Ca- stello, o i paesaggi dell’Umbria, Montaigne osserva con insaziabile curiosità costumi e istituzioni politiche, considerando l’Italia alla stregua di un libro di storia e di un laboratorio politico.

Fedele al compianto amico Étienne de La Boétie, per il quale i veneziani incarnavano «l’ideale delle libertà politiche», Montaigne vuole vedere a tutti i costi Venezia. E, al ri- torno, conferma l’ipotesi dell’amico: «aveva ragione». Similmente Montesquieu concepisce il suo iter come un viaggio di studio sul campo: intraprese i suoi viaggi con l’intenzione di nutrire le proprie opere di storico e teorico delle istituzioni: «Il suo obiettivo era di esaminare dappertutto il fisico e il morale, di studiare le Leggi e la costituzione di ogni paese, di visitare i Sapienti, gli Scrittori, gli Artisti celebri». E infatti gli appunti italiani di Montesquieu pullulano di meticolose e penetranti notazioni di sociologia, di topografia e di geografia, di geologia, di climatologia e di idrometria, di diritto costituzionale e di storia politica. A Venezia osserva che gli stranieri non sono ammessi nei «cazins» nei quali i veneziani incontrano le loro dame; sempre a Venezia discetta sui modesti emolumenti riservati al doge e sulla limitatezza dei suoi poteri. A Torino si stupisce, viceversa, dell’ampiezza delle prerogative che il sovrano s’è arrogate a danno della nobiltà, nonché dei suoi interventi sul mercato agricolo, a profitto dei propri interessi economici e imprenditoriali. A Genova constata che «tutti i nobili sono dei veri mercadans» gelosi delle loro immense ricchezze, tant’è vero che negli sfarzosi palazzi sovente alloggia «una sola serva che fila». Come a Montaigne e a Milton, preme a Montesquieu incontrare studiosi e filosofi: Antonio Conti a Venezia, Bernardo Lama a Torino, Ludovico Antonio Muratori a Modena, Scipione Maffei a Verona. Gli preme anche – ricorda ancora d’Alembert – studiare i capolavori della pittura italiana, allo stesso modo in cui studiava la natura. Ammira sì la «grande maniera» del Giudizio universale di Michelangelo e la «fusione dei colori» nel Correggio, ma il pittore che più gli è congeniale è Giulio Romano: negli affreschi del Palazzo Te a Mantova, «tutto è così ben ordinato che non c’è nulla di confuso. L’occhio vede tutto e tutto d’un colpo». Esattamente come nei libri di Montesquieu.

Del secondo tipo di viaggiatori Stendhal si limita a tracciare l’identikit, senza far nomi. Avrebbe potuto citare i grandi viaggiatori inglesi fra Sei e Settecento: John Evelyn, Ri- chard Lassels o Joseph Addison. Non c’è dubbio tuttavia che intendesse celiare Chateaubriand, il cui Itinéraire de Paris à Jérusalem (1811) abbondava in descrizioni di rovine greche. Stendhal aveva certo presenti anche le lettere scritte a Louis de Fontanes e a Joseph Joubert da Roma e Napoli durante la missione diplomatica del 1803-804 (fig. 4), uscite sul «Mer- cure de France» nel 1806 e destinate a essere raccolte in volu-me soltanto nel 1827, nell’ambito dell’edizione delle Œuvres complètes: testi nei quali Chateaubriand, indulgendo a una bozzettistica neoclassica di maniera, compone preziosi idilli e landscapes che sembrano (per prendere a prestito un celebre motto di Cézanne) «rifare Poussin sulla natura».

Genio tutto occhi, e memore dell’insegnamento di Winckelmann, Goethe concepisce il viaggio in Italia come un’«alta scuola» della vista: in Italia tutto è da vedere perché vi si vede il tutto, in una sorta di panopticum che minaccia di stordire il malcapitato viaggiatore. Solo a questo patto si può sostenere la luce che irradia dalle tele di Tiziano, e la visione gigantesca di Michelangelo. Ad aiutarlo saranno le letture dei classici latini e greci, rinnovate sul posto. Esaminando campioni mineralogici presso il monte Pellegrino, e trascurando i ragguagli

storici della guida che lo accompagna, il poeta tedesco riesce a «farsi un’idea delle vette eternamente classiche dell’antichità della terra». «Non esiste miglior commento all’Odissea»: in presenza degli arcaici paesaggi siciliani, e anzi avendone presente per sempre nell’ani-

ma ogni singolo rilievo, la parola di Omero gli diventa «una parola viva». Non sfuggirà il singolare paradosso della posi- zione di Goethe nell’ambito della letteratura di viaggio in Italia: è tra i primi, dopo Johann Hermann von Riedesel (1766) e Patrick Brydone (1770), ad avventurarsi oltre Paestum e lo stretto di Messina, ma la sua Sicilia è quella di Ulisse (fig. 5). Novello Ulisse, in un giardino nei pressi della rada di Palermo si sente trasportato sull’isola dei Feaci. Come rendere testimonianza del Grand Tour? Scrivendo testi sperimentali, che segnano spesso una svolta nell’opera di ciascun autore, perché elaborano un nuovomodo,intentato,di fare letteratura di viaggio (non a caso resteranno a lungo inediti i diari di viaggio di Montaigne e di Montesquieu). Ma l’adeguazione della scrittura all’esperienza del viaggio investe la lingua stessa. Goethe osserva che di fronte alla straripante ricchezza delle impressioni bisognerebbe scrivere «con mille stili» (ossia con mille penne). Ad altri non basta una sola lingua. Montaigne, che dal soggiorno romano in poi si fa carico in prima persona della stesura del diario, adotta improvvisamente l’italiano durante il primo soggiorno ai Bagni di Villa presso Lucca, nel maggio del 1581; tornerà al francese solo nel novembre dello stesso anno, varcando il Moncenisio.

La fine del Settecento registra dunque il momento di massima simbiosi tra l’intellighenzia europea d’Antico Regime e l’Italia intesa e presa nella sua complessa realtà politica, sociale, economica, culturale, linguistica. Nell’Ottocento – dopo Napoleone e dopo il Congresso di Vienna – l’Italia non sarà più il locus amoenus nel cui alveo un ceto vario ma ristretto di nobili e di ricchi borghesi percorreva le tappe di un itinerario iniziatico, obbedendo a una spinta interiore: al richiamo dell’arte, dell’archeologia, della musica, della natura. Il viaggio moderno, organizzato o meno, si qualifica ormai come viaggio d’evasione, di vacanza, orientato verso mete circoscritte e avulse da un più ampio contesto culturale.

Nell’estate del 1828 Heinrich Heine si fermerà come Montaigne ai Bagni di Lucca, dopo avere attraversato la pianura padana in una diligenza «accuratamente chiusa da ogni parte» per riparare i viaggiatori dal polverone delle strade lombarde, negando così al poeta la vista del paesaggio italiano evocato dall’incantatorio Lied di Mignon nel Wilhelm Meister di Goethe: «Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni...?» Il “Giro” di Heine toccherà quindi Firenze, Bologna, Ferrara, Padova e Venezia, ma di queste tappe il diario nulla dice (fig. 8). Finisce così, sardonicamente, la tradizione del Grand Tour, prima di essere volgarizzata e commercializzata, ormai nel Novecento, dai tour operator di mezzo pianeta.

(Adattamento sintetico di un articolo di Edoardo Costadura)