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LA MAFIA CINESE IN ITALIA BLACKHAWK SERPA HOLSTER MARITIME SECURITY LAW AREA TEST BY TNM FOCUS ON FIRE TEST HECKLER & KOCH USP 9 X 21 SUPER TEST CIT PANEL LE NUOVE FRONTIERE DELLE PIASTRE BALISTICHE MILITARY • LAW ENFORCEMENT • SECURITY “POSTE ITALIANE SPA, SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE DL 353/2003 (CONVERTITO IN LEGGE 27/02/2004 N°46) ART. 1 COMMA 1 LO/MI” SPECIALE AFGHANISTAN WWW.TACTICALNEWSMAGAZINE.IT • € 6.00 TNM N°9 • SETTEMBRE 2011 PERIODICO MENSILE

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LA MAFIA CINESEIN ITALIA

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Guerra è una parola che quasi tutti i politici italiani non pronunciano mai, anche quando il Parlamento finanzia le spedizioni militari all’estero, per esorcizzarne il tragico significato come fanno quelli che solo a pronunciare la parola “cancro” temono di ammalarsi e così lo chiamano “un brutto male”. Le generazioni nate all’indomani della 2° Guerra Mondiale hanno creduto di vivere in un mondo di eterna pace perché educate a distorcere o rifiutare le notizie sulle guerre che dal 1945 hanno prodotto, intorno al loro mondo incantato, milioni di morti e di vite disgraziate. Il mito del “pacifismo europeo” è finito nel 1979 con l’invasione dell’Armata Rossa in Afghanistan e la sua umiliante sconfitta. Per tutta la durata di quella lunga e cruenta guerra i pacifisti per dogma o professione o “pacifinti” come li chiama il nostro Ministro della Difesa con un ironico ma calzante neologismo, hanno preferito nascondersi nel confortevole tepore della way of life occidentale, guardandosi bene dallo scendere in piazza a dimostrare contro le atrocità commesse sul campo di battaglia dai rappresentanti del socialismo reale.La sospensione della leva obbligatoria ha rapidamente trasformato un esercito di nolenti naioni in abili soldati di professione ed a raffica, ad un’Italia addormentata in un illusorio eterno benessere, sono così apparsi gli inaspettati scenari di un mondo in guerra. In verità c’erano già stati dei precedenti in Eritrea (1946) ed in Somalia (1950) e poi in Corea, in Congo ed in Egitto. Il 1980 è stato l’anno della prima vera spedizione militare italiana nel cuore di un conflitto, quello libanese, che ha rappresentato un punto di svolta: gli italiani hanno incominciato a capire che la guerra aveva posti liberi anche per loro. Poi in rapida successione c’è stata la liberazione del Kuwait invaso dall’Iraq (1991) la Somalia (1993) il Mozambico (1994) la Bosnia (1995) e il Kosovo (1999) coevo alla missione a Timor Est ed infine la guerra all’Afghanistan dei talebani (2001) nella coalizione “Enduring Freedom” a cui abbiamo partecipato con un’intensa attività aeronavale. La guerra in Iraq (2003) ha risvegliato lo spirito

guerriero dei pacifisti che hanno misteriosamente identificato il simbolo della pace con la bandiera arcobaleno, vessillo degli omosessuali californiani e nord europei. Adesso siamo ancora in Afghanistan con la coalizione ISAF, mentre i bombardamenti contro la Libia hanno letteralmente svuotato gli arsenali dell’Aeronautica Militare. Un discorso a parte merita il nostro intervento in Libano del 2006, pubblicizzato dal Governo Prodi come una distribuzione in massa di nutella e baci ai bambini libanesi, ad opera delle nostre “materne” soldatesse che venivano mostrate alla televisione come tenere nurse di un asilo nido. Sempre al governo Prodi, durante la missione ISAF in Afghanistan, sembra si debba la cattiva usanza di pagare i nemici perché facciano i bravi con i nostri soldati di pace, magari con l’aiuto non troppo filantropico di qualche organizzazione “pacifista” e “antioccidentale”. In questo confuso marasma di ipocrisie politiche ed ideologiche operano i nostri ragazzi che hanno scelto il mestiere delle armi, assumendosi responsabilità e rischi sconosciuti alla gran parte dei loro coetanei. Questi ragazzi rappresentano una parte sana della Nazione che ha imparato ad apprezzare il valore del metodo e della disciplina e che crede nelle Istituzioni Repubblicane a cui ha giurato fedeltà con la propria vita. Sono questi i veri portatori di pace, non perché stendono la bandiera multicolore dei gay sui loro balconi (il nesso tra pacifismo e movimento gay è un vero mistero!) ma perché sanno bene che la pace si conquista e si mantiene con le armi. Pruderie politiche ed ecclesiali continuano a camuffare i nostri interventi militari come operazioni umanitarie, termine declinato sino alla nausea in infinite ed ipocrite sfumature. Nascondere la realtà delle cose barando sul senso delle parole è un compendio di misere furbizie che sfumano nella viltà. I soldati, proprio per il loro particolare lavoro, sono abituati a riconoscere i vili dal loro modo di fare e giustamente ne diffidano, perché la viltà è la colpa più infamante agli occhi di chi ha scelto il mestiere delle armi, oggi più che mai un mestiere nobilissimo.

IL MESTIERE DELLE ARMI“Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra,ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te.”(Lev Trotsky - Fondatore e comandante dell’Armata Rossa e Commissario del Popolo Sovietico alla Guerra)

Mirko Gargiulo

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TACTICAL NEWS MAGAZINEMilitary - Law Enforcement - Securityn°9 - settembre 2011 - mensile

Direttore responsabile: Giuseppe Morabito

Direttore editoriale: Mirko Gargiulo [email protected]

Direttore commerciale: Giovanni Petretta [email protected]

Art director: Matteo Tamburrino

Impaginazione: echocommunication.eu

Collaboratori: Davide Pane, Gianluca Favro, Gianluca Sciorilli, Pasquale Camuso, Gianluca H., Fabio Rossi, Livio Nobile, Galdino Gallini, Riccardo Braccini, Marco Sereno Bandioli, Carlo Biffani, Giovanni Di Gregorio, Roberto Galbignani, Zoran Milosevic, Gabriele Da Casto, Marco Strano, T. Col. GdF Mario Leone Piccinni, Antonello Tiracchia, Marco Buschini, Michele Farinetti, Ovidio Di Gianfilippo, Antoine Khan

Fotografie: ISAF, Department of Defense, Stato Maggiore Esercito, U.S. Navy, NATO Multimedia, The National, Command Special Naval Warfare, Onu Media Press, Zoran Milosevic, Michele Farinetti, Giuseppe Lami, Marco Buschini, Alessandro Tenaglia, Marta Nobile

Ufficio stampa: Marcello Melca [email protected]@tacticalnewsmagazine.it

Redazione: [email protected]

Periodico mensile edito da:CORNO EDITOREPiazza della Repubblica n. 6 20090 Segrate - Milano - P.IVA 07132540969

Stampa: Reggiani SpaVia C. Rovera 40, 21026 Gavirate (VA)

Distributore: Pieroni Distribuzione s.r.l. Viale Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano

Registrazione Tribunale di Milano n.509 del 27 settembre 2010Iscrizione al ROC 20844

Tutti i diritti di proprietà letteraria, artistica e fotografica sono riservati, ne è vietata dunque ogni duplicazione senza il consenso scritto della Corno Editore

02EDITORIALE

06NEWS

018INTERVISTE SEGRETEGUADAGNARECON SODDISFAZIONE

020HOT POINTLA META È ANCORA LONTANA

024SITUATION REPORTSVENEZUELA,ROCCAFORTE DELL’ANTIAMERICANISMO RADICALE

028FOCUS ONMARITIME SECURITY

040SUPER TEST BY TNMCIT PANEL - TECHNICAL ANDPERFORMANCE SPECIFICATION

048SPECIALE AFGHANISTANSPECIALE AFGHANISTAN

050SPECIALE AFGHANISTANAFGHANISTAN VIAGGIOALLE ORIGINI DEL CHAOS

058SPECIALE AFGHANISTANTANTO PER INCOMINCIARE

064SPECIALE AFGHANISTANQUESTA RADIO È UN’ARMA

066SPECIALE AFGHANISTANAFGHAN FRAMES

080SPECIALE AFGHANISTANUN BAMBINO CHIAMATOAMDULLAH

090SPECIALE AFGHANISTANI PIZZAIOLI DEL 185°

094TEST BY TNMBLACKHAWK! SERPATECNOLOGY HOLSTER SYSTEM

104LAW AREAGLI ARTIGLI DEL DRAGONE CINESE SULLE CITTÀ ITALIANE

114BERETTA DEFENCESHOOTING ACADEMYBERETTTA PUNTAALLA FORMAZIONE

118TRAINING REPORTLAS VEGAS - ATC 2011

122POLICE FORCECOMBAT PSYCHOLOGYASPETTI PSICOLOGICIDELL’INTERVENTO DI SOCCORSOIN CASO DI PUBBLICA CALAMITÀ

128FIRE TESTLA PISTOLA SEMIAUTOMATICAUNIVERSALE

136REPORT FROMEXPO RICCIONE - LE GIORNATE DELLA POLIZIA LOCALE

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Il Generale dI BrIGata CarmIne masIello InContra GlI studentI dI GIornalIsmo dell’unIversItà dI Herat

Herat, afghanistan (14 settembre) - Il Generale di Brigata Carmine Masiello, Comandante del Comando Regione Ovest della missione ISAF, ha incontrato oggi, a Camp Arena, 7 studenti e 6 studentesse di giornalismo dell’Università di Herat accompagnati da 3 professori.Nel corso dell’incontro, il Generale Masiello, ha voluto sottolineare l’importanza che i giovani ricoprono nel processo di ricostruzione del paese. I giovani rappresentano il presente dell’Afghanistan ma soprattutto il futuro di un paese desideroso di stabilità e sicurezza.Sono stati evidenziati i risultati raggiunti fino ad oggi grazie all’efficace sinergia tra forze ISAF e Forze di Sicurezza Afgane, spiegando l’importanza del processo di transizione in atto nel paese che vede la Città di Herat come una delle protagoniste. Proprio dalla città di Herat il processo di transizione si espanderà gradualmente a tutte le restanti provincie afgane rendendo gli afgani i soli protagonisti del destino del loro paese. Il compito di questi giovani e dei loro colleghi, finiti gli studi, sarà quello di raccontare il loro Afghanistan, diverso, rinnovato e sempre in evoluzione; un Paese dove le parole sicurezza, democrazia e libertà rappresentano la normalità non la notizia.

ISAF Regional Command West - Afghanistan

FermatI 4 sospettI nel Corso dI una operazIone ConGIunta Fra le Forze dI sICurezza aFGHane e FuCIlIerI dI marIna del reGGImento san marCo.

Baqwa, afghanistan (13 settembre 2011) – Questa mattina nel corso di un operazione congiunta le forze di sicurezza afghane con i fucilieri di Marina del Reggimento San Marco hanno rinvenuto e sequestrato alcuni fucili e diversi contenitori di materiale sensibile. L’ operazione che si è svolta nelle vicinanze del villaggio di Gwergan nei pressi di Bawa ha portato peraltro al fermo da parte delle Forze di sicurezza Afghane di 4 persone sospette. Il Reggimento San Marco sta operando nella delicata zona di Baqwa dal 10 Settembre data in cui ha sostituito il 186 Reggimento Paracadutisti Folgore.

Il prt ItalIano dà InIzIo aI lavorI per la CreazIone dI un pronto soCCorso e la CostruzIone dI due nuovI ComandI dI polIzIa

Herat, afghanistan (15 sttembre) - Con le cerimonie di posa della prima pietra, sono iniziati oggi i lavori per la costruzione di una centrale operativa per la risposta alle emergenze sanitarie, che sarà attiva 24 ore su 24, e la costruzione di due nuovi comandi di polizia nella città di Herat.Il progetto per la creazione del pronto intervento è uno dei progetti realizzati dal Provincial Reconstruction Team (PRT), su base 132° Reggimento Artiglieria di Maniago, e dalla Cooperazione Italiana. L’obiettivo è quello di creare un vero e proprio pronto intervento, unico nella regione Ovest dell’Afghanistan.Il pronto intervento verrà realizzato in un edificio dedicato, vicino all’ospedale di Herat. Una centrale operativa attiva giorno e notte, dotata di 7 linee telefoniche, propri medici e infermieri, sarà costantemente collegata a 5 ambulanze che saranno messe al servizio gratuito della popolazione attraverso il numero d’emergenza.Il centro di pronto intervento, oltre a dare impulso allo sviluppo dell’imprenditoria locale che impiega materiale e manodopera locale, darà occupazione a circa 50 persone, per le quali la Cooperazione Italiana provvederà alla formazione e professionalizzazione.I comandi di polizia sono invece realizzati in stretta cooperazione con le forze di sicurezza di ISAF e inseriti in una strategia ideata dal Governo Afgano volta al supporto della polizia impegnata nella provincia con oltre 2 mila uomini.Herat, una delle maggiori città dell’Afghanistan, rappresenta il cuore della ripresa economica del paese ed è una delle sette località individuate e inserite dal presidente afghano Hamid Karzai nel processo di riconsegna alle autorità locali. Grazie anche al contributo del Governo Italiano e delle forze ISAF nel settore della sanità e della sicurezza, la provincia di Herat rappresenta un esempio da seguire, una speranza e una spinta allo sviluppo per tutto il paese.

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AROUND THE WORLD

COMMERCIALI

GermanIa: test posItIvo per Il sIstema WaBep

Rheinmetall e il suo partner industriale Israel Aerospace Industries (IAI) hanno testato con successo il nuovo sistema da ricognizione a attacco dell’Esercito tedesco, denominato WABEP. Attualmente in fase di sviluppo, WABEP (che sta per “Wirksystem zur abstandsfähigen Bekämpfung von Einzel-und Punktzielen” o “Sistema d’Arma per l’Ingaggio a distanza di Obiettivi Individuali e di Punto”) è costituito dallo UAV da ricognizione di Rheinmetall KZO e dal drone d’attacco di IAI Harop, una munizione in grado di sostare in volo nell’area di interesse e dirigersi al momento giusto sul bersaglio assegnatogli.Il test eseguito segna il completamento delle prove da parte del costruttore. Il passo successivo, già in essere, consiste in una fase dimostrativa con la partecipazione diretta del Deutsches Heer. Durante i precedenti voli di prova il drone d’attacco Harop e lo UAV KZO (Kleinfluggerät Zielortung), utilizzato per l’assegnazione del bersaglio, hanno operato in rete, affidandosi per la trasmissione dei dati a sistemi di comunicazione installati a bordo di un bimotore DA42 OPALE (Optional Piloted Aircraft Long Endurance), che in futuro saranno integrati a bordo del KZO.L’Harop, originariamente concepito per missioni di soppressione delle difese aeree nemiche (SEAD), con guida autonoma o assistita dall’operatore, è capace di restare a lungo in volo in attesa di trovare il bersaglio, e verrà utilizzato contro obiettivi di alto valore con tempistiche d’attacco ridotte, senza mettere in pericolo di scoperta la piattaforma di sorveglianza KZO, la quale potrà inviare il segnale per interrompere la missione di attacco poco prima dell’impatto.Lo scambio dei dati tattici fra le due stazioni di controllo a terra e i droni Harop e KZO è stato collaudato positivamente in simulazioni che hanno preso in considerazione diversi scenari operativi. Il KZO ha rilevato e identificato un gran numero di punti di riferimento fra impianti e infrastrutture, così come obiettivi fissi e in movimento, trasmettendo i dati utili via Opale all’Harop in base ai quali ha raggiunto il bersaglio.In linea con i futuri protocolli operativi “man-in-the-loop”, l’autorizzazione definitiva alla distruzione del bersaglio è arrivata dopo il completamento della procedura di verifica dell’obiettivo condotta da entrambe le stazioni di controllo a terra.(difesanews.it)

Bae systems e nortHrop Grumman partner nella Gara t-X

BAE Systems e Northrop Grumman hanno annunciato una partnership strategica per competere assieme nella gara T-X per la sostituzione dell’addestratore T-38C Talon della US Air Force, prodotto dall’allora Northrop Corporation e in servizio nelle varie versioni da oltre 50 anni. Il requisito per sostituire l’aereo su cui sono transitate generazioni di piloti americani è di 350 macchine. Le due società offriranno la soluzione a basso rischio Hawk Advanced Jet Training System (AJTS) basata sul diffuso velivolo britannico entrato in servizio a metà anni ’70 e che nell’attuale versione T Mk2 viene impiegato come lead-in trainer dei piloti Eurofighter inglesi. Alla piattaforma aerea, che nel caso verrà prodotta negli Stati Uniti con BAE nel ruolo di prime contractor, verrà abbinato il servizio d’addestramento basato su simulatore Ground Based Training System (GBTS), in grado di facilitare la transizione su velivoli come F-35 Lightning II e F-22 Raptor. Oltre 900 Hawk sono stati venduti nel mondo a 18 clienti internazionali, e la sua variante navale T-45C sarà la piattaforma addestrativa su cui verranno formati i piloti di JSF della US Navy e dell’US Marine Corps, del Regno Unito, Canada e Australia. L’Hawk competerà contro il T-50 di Lockheed Martin/KAI, selezionato lo scorso maggio dall’Indonesia, e il T-100 (M-346) di Alenia Aermacchi (già selezionato da Italia, UAE e Singapore), attualmente alla ricerca di un partner americano (Boeing, L3?) con cui formulare una valida offerta commerciale. M-346 e T-50 sono l’uno contro l’altro anche per le analoghe gare in Polonia e Israele. (difesanews.it)

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presentato lo uas vtol sHrIke

AeroVironment ha presentato lo Shrike, l’ultimo arrivato nel settore dei sistemi aerei a controllo remoto della società californiana, caratterizzato per essere portabile, furtivo, e capace di decollare e atterrare verticalmente.Lo Shrike è il risultato del programma cominciato nell’agosto del 2008 con la ricezione del relativo contratto dalla DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) teso a sviluppare un sistema senza pilota piccolo e leggero in grado di fornire innovative capacità di sorveglianza e intelligence per l’US Army, non ottenibili dalle piattaforme UAS (unmanned aircraft system) attualmente operative.“Non solo lo Shrike può librarsi a punto fisso per più di 40 minuti con a bordo una videocamera ad alta risoluzione, ma può anche trasmettere diverse ore di video in diretta come un sensore remoto fissato sulla zona di interesse”, ha detto Tom Herring, Vice Presidente Senior e General Manager della divisione UAS di AeroVironment.Herring ha affermato che lo UAS Shrike offre le stesse immagini di qualità superiore, l’autonomia e la protezione dei dati raccolti che è possibile trovare in tutti i piccoli sistemi aerei senza pilota offerti da AeroVironment come il Raven, lo Wasp e il Puma. Silenzioso abbastanza da non venire rilevato facilmente, lo Shrike pesa circa 2.2 kg ed è abbastanza piccolo da stare in uno zaino. Per il suo controllo è possibile utilizzare lo stesso Ground Control System comune a tutti i velivoli UAS di AV.Tra gli acquirenti internazionali dei prodotti AeroVironment vi sono le forze armate di Danimarca, Paesi Bassi, Spagna, Francia, Italia, Norvegia, Repubblica Ceca, Thailandia e Australia.

Il super-ComputerCHe prevede le rIvoluzIonI

Pare che i fatti accaduti in Tunisia, Egitto e Libia fossero stati previsti da un professore dell’università dell’Illinois che, assieme ai suoi studenti, è riuscito a creare un supercomputer in grado di prevedere le rivoluzioni. Come fa? Semplicemente elaborando gli articoli dei quotidiani, i servizi tv e i dati in arrivo dai think tank. Per ora gli studiosi si sono concentrati sugli eventi che hanno portato alla primavera araba, ma il team di ricerca è assolutamente convinto che il computer funzioni anche con gli eventi futuri.E gli scienziati dicono anche che il sistema avesse fornito indicazioni preziose sulla localizzazione geografica di Osama bin Laden, che poteva essere estratta dagli articoli dei quotidiani internazionali che lo davano nel nord del Pakistan, esattamente dove fu poi trovato.

GermanIa. mInIstro InternI, “nel paese mIlle potenzIalI terrorIstI IslamICI”

In Germania ”ci sono circa mille persone che si possono considerare come potenziali terroristi islamici”. Lo ha detto, a pochi giorni dal decimo anniversario dell’attacco alle Twin Towers di New York, il ministro degli Interni tedesco Hans-Peter Friedrich in un’intervista pubblicata dal tabloid Bild in edicola oggi. Secondo Friedrich, dei mille soggetti sotto osservazione solo nei confronti di 128 ci sono indicazioni concrete del fatto che potrebbero commettere reati potenzialmente pericolosi per la sicurezza del Paese, compreso un attentato. Sono circa 20, ha inoltre precisato il ministro, i radicali islamici in Germania ad aver frequentato campi di addestramento della rete terroristica islamista internazionale. Tutti i soggetti potenzialmente pericolosi sono sotto stretta osservazione, ha spiegato Friedrich, aggiungendo pero’ che ”i pericoli maggiori provengono oggi da singoli individui slegati dalle organizzazioni” islamiste radicali. La Germania, ha infine ribadito il politico del partito bavarese Csu, non intende accogliere altri prigionieri del carcere speciale statunitense di Guantanamo. Nell’estate del 2010 il governo tedesco ha sottoscritto con gli Usa un accordo per trasferire in Germania due prigionieri, che dal loro arrivo sono ”sotto stretta sorveglianza”, ha chiosato Friedrich.

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venezuela. CHavez a BrICs su lIBIa, ‘non restIamo a BraCCIa Conserte’

Il presidente venezuelano, Hugo Chavez, ha rivolto oggi un appello ai cosiddetti Paesi Brics (Brasile, India, Cina, Russia e Africa del Sud), e dell’America Latina a ”coordinare una controffensiva” contro la ”barbarie” in corso in Libia. ”Non possiamo restare a braccia incrociate”, ha detto Chavez intervenendo per telefono ad una tv statale, convinto che Muammar Gheddafi, seppur nascosto, è ben lungi” dall’abbandonare il Paese. Il presidente venezuelano, che l ha da poco concluso un terzo ciclo di chemioterapia per battere il tumore che l’ha colpito, ha esortato i Paesi del Brics ”a stabilire meccanismi che consentano di riportare la pace in Libia”.

medIo orIente, erdoGan nuovo leader della “prImavera araBa”?

“È tempo che la bandiera palestinese sventoli alle nazioni unite”Per il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan si tratta di un dovere che accomuna l’intero popolo arabo, non ci sono altre strade percorribili: “Lo Stato palestinese deve essere riconosciuto”. Incondizionato l’appoggio ad Abu Mazen, che la prossima settimana presenterà all’Assemblea generale delle Nazioni Unite la domanda di adesione.“Dobbiamo lavorare insieme con i nostri fratelli palestinesi. La loro causa è una questione di dignità umana”. Nel discorso pronunciato oggi al Cairo, davanti ai ministri degli Esteri dei Paesi membri della Lega Araba, il leader turco non si discosta di una virgola dalla dura linea anti-israeliana assunta prima della partenza per quello che in molti hanno ribattezzato “il tour della Primavera Araba” e che porterà Erdogan dall’Egitto alla Tunisia, passando per la Libia.I rapporti tra Ankara e Tel Aviv sono ai minimi storici e la causa è da attribuirsi, secondo il premier turco, all’irresponsabilità del governo israeliano che, come un “bambino viziato”, non è disposto a cedere di un millimetro da prese di posizione che conducono inevitabilmente allo stallo politico. Israele si sta isolando e l’unico modo per uscire dall’empasse è cedere di qualche passo: scusarsi ufficialmente per il blitz del maggio 2010 contro la Mavi Marmara, risarcirne le vittime e porre fine immediatamente all’assedio in atto nella Striscia di Gaza. Condizioni, queste, rifiutate con decisione da Tel Aviv, ma che, secondo Erdogan, rappresentano l’unica via per tornare alla normalizzazione dei rapporti turco-israeliani. L’intento del leader di Ankara è quello di creare un fronte comune contro Israele, non solo ideologico, ma anche strategico.Ma Erdogan vuole andare oltre e proporsi come il leader comune delle primavere arabe. La diplomazia del nuovo mondo arabo deve muoversi, nella visione di Recep Tayyip Erdogan, seguendo una linea comune. Ecco quindi che il “tour della Primavera Araba” assume un significato preciso: proporre la propria visione politica come colla unificatrice del mondo arabo e, di contro, la propria leadership come guida delle nuove Nazioni emergenti.

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arrestato Con oltre 9 kG dI HasHIsH

Comando provinciale di roma - 16 settembre 2011 I Carabinieri della Compagnia di Pomezia, hanno

arrestato per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, un cittadino romano di 30 anni, trovato in possesso di oltre nove chili di hashish. L’arresto è maturato nel corso di servizi investigativi finalizzati al contrasto del fenomeno del consumo e dello spaccio di sostanze stupefacenti lungo il litorale. I militari dell’Arma, nel corso di vari servizi di osservazione e pedinamento

svolti da alcuni giorni nei confronti dell’individuo, avevano notato movimenti sospetti, che lasciavano presupporre che fosse dedito ad illecite attività, lungo il litorale tra Torvaianica ed Ostia. Pertanto, durante uno di questi servizi di pedinamento ed appostamento, alcuni Carabinieri in borghese sono intervenuti all’interno dell’abitazione del sospettato ed al termine di minuziosa perquisizione, hanno rinvenuto e sequestrato numerosi panetti di hashish, del peso complessivo di nove chili e trecento grammi, per un valore economico stimato in circa 50.000 euro. Dopo i rilievi segnaletici presso la Compagnia Carabinieri di Pomezia, il giovane arrestato è stato subito tradotto al carcere di Regina Coeli, a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.L’ipotesi avanzata al momento dagli inquirenti, è che il giovane fosse un “grossista” che riforniva i pusher che operano su strada lungo il litorale tra Ostia e Torvaianica.

CooperazIone InternazIonale:preFetto CIrIllo InContra Il dIrettoredella polIzIa GIudIzIarIa FranCese.

Il vice direttore Generale della pubblica sicurezza 14 settembre 2011 - Direttore Centrale della Polizia Criminale, Prefetto Francesco Cirillo ha ricevuto, presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale,il Dottor Christian Lothion, Direttore Centrale della Polizia Giudiziaria francese. L’incontro è stato l’occasione per approfondire alcune importanti tematiche nella cooperazione di polizia fra i due Paesi.Particolare interesse è stato dedicato al tema dell’aggressione dei beni riconducibili alla criminalità mafiosa, al meccanismo di coordinamento nazionale nelle attività investigative relative al traffico di sostanze stupefacenti, nonché al potenziamento della rete degli Ufficiali di collegamento italiani all’estero.Nel corso del vertice è stata prospettata da parte italiana, ricevendo

ampio accoglimento dalla controparte, l’idea di costituire un gruppo di lavoro bilaterale italo-francese, sul modello di quella già esistente con la Germania, al fine di potenziare lo scambio informativo tra i due Paesi in materia di contrasto alla criminalità organizzata, al traffico di sostanze stupefacenti, nonché alla localizzazione e sequestro dei patrimoni illeciti.

COMUNICATI

nuovo maXI sequestro dI sIGarette

Comando provinciale Cagliari - 20 settembre 20111000 casse contenenti sigarette di contrabbando sono state sequestrate dalla Guardia di Finanza in stretta

collaborazione con l’Ufficio delle Dogane nel porto container di Cagliari. A distanza di pochi giorni dal sequestro di oltre 10 tonnellate di sigarette, un ulteriore colpo è stato inferto alle organizzazioni criminali internazionali dedite al traffico illecito di T.L.E. grazie al costante monitoraggio del traffico merci in transito nel porto del capoluogo sardo. Le sigarette provenivano sempre dagli Emirati Arabi

Uniti stipate all’interno di un container imbarcato su una nave diretta in un porto vicino a Marsiglia (Francia). L’intervento è stato portato a termine sotto la “regia” del II Reparto del Comando Generale del Corpo, che ha fornito l’input indispensabile a organizzare e a finalizzare l’attività operativa. La rete tesa dai Finanzieri è scattata subito dopo l’attracco della nave. La preziosa integrazione operativa con la locale Agenzia delle Dogane ha consentito di individuare il container sospetto che è stato immediatamente sottoposto al controllo dei sofisticati scanner in dotazione. Il prezioso carico venuto alla luce consisteva in 10 tonnellate di T.L.E. di contrabbando, pari a oltre 1000 casse di sigarette corrispondenti a 500 mila “pacchetti”. Continua il lavoro delle Fiamme Gialle costantemente impegnate nel monitoraggio delle varie forme di traffici illeciti al fine di adeguare e rendere sempre più incisiva l’azione dei dispositivi di prevenzione e repressione.

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COMMERCIALI

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SOD produce abbigliamento tecnico militare di altissimo livello fin dagli inizi del 1938.L’azienda di Empoli è sempre alla ricerca di nuove proposte per soddisfare ogni esigenza dei propri clienti. La SPECTRE SHIRT è una camicia da combattimento in NyCo 50%-50% con trama Rip-Stop. La linea ergonomica modella il corpo e ne segue il profilo seguendo i movimenti nella concitazione delle azioni più estreme.Tutta la parte frontale è stata costruita pensando ad un utilizzo con body armour o plate carrier. La chiusura frontale è affidata ad una poderosa cerniera YKK in pattern.

Caratteristiche:

• pattina frontale con chiusura a velcro protegge la cerniera e ne blocca il cursore in modo comodo e sicuro.

• tasche pettorali sono capienti ed ergonomiche e la chiusura è a cerniera YKK con alloggio per cursore.

• sul davanti sono presenti diversi pad di velcro in pattern per alloggiare ID patches di vario tipo.

• soffietto posteriore e le maniche ergonomiche creano un confort estremo ed una perfetta vestibilità.

• le tasche sono state studiate per non intralciare i movimenti anche in presenza di equipaggiamenti importanti.

• sulle tasche delle maniche si trovano dei pad di velcro in pattern per alloggiare ID patches di vario tipo.

• i gomiti sono protetti da una toppa in Cordura che alloggia le protezioni soft in dotazione.

• le protezioni soft sono di materiale termoformato e possono essere sagomate dagli utenti a piacimento per garantirne la massima efficacia.

• la chiusura dei polsi è a velcro in pattern. • il tipo di tensione richiesto alla chiusura del polso

condiziona anche il comportamento delle protezioni

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TNM ••• 012

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CrIspI... qualItà made In ItalysummIt BroWn GtX

Summit GTX utilizza una membrana GORE-TEX® e suole Vibram® con tecnologia Supergrip. La tomaia è

in pelle scamosciata idrorepellente con rinforzi in tessuti ad alta resistenza. Questo scarponcino è l’ideale per

escursioni in alta montagna.

Caratteristiche:

•Tomaia camoscio indrorepellente e tessuto ad alta tenacità

•Gore-TEX performance comfort footwear lining•Sottopiede a struttura differenziata con inserto anti

torsione •Protezzione bordone in gomma •Suola Vibram con mescola

Supergrip ed intersola ammortizzante.

•Peso 640 gr

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pICColo ma utIlIssImouzI metal deteCtor

Il metal detector di Uzi è un dispositivo in grado di rilevare anche piccole componenti di metallo. E’ ideale per rilevazioni rapide ed accurate. Questo metal detector è ideale per gli aeroporti, le prigioni, le scuole, gli stadi, i terminali del trasporto, gli eventi sportivi, discoteche e molto altro. Caratterizzato da un sofisticato e sensibile circuito elettronico interno, questo metal detector e’ in grado di rilevare: armi medie , coltelli ,l amette da barba , taglierini, involucri di alluminio utilizzati per celare droga e minuscoli gioielli. ll metal detector di Uzi è un dispositivo di sicurezza professionale ed è caratterizzato da funzionamento silenzioso, la sua sensibilità è registrabile ed è realizzato in robusto ABS. Include la custodia di trasporto per cintura. Funziona con una batteria 9V (non inclusa). Dimesnione superficie di scansione Scan 19cm x 6 cm - lunghetta totale: 41cm - peso 380g

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56 GrammI dI utIlItàGps BusHnell Gps BaCktraCk poInt-5

Facilissimo da usare. Non richiede mappe. Utilizza l’ultima tecnologia GPS u-blox ad alta sensibilità.

• Bussola digitale autocalibrante • Memorizza fino a 5 posizioni e punti

d’interesse • Fornisce la distanza e la direzione

verso ogni posizione memorizzata +/- 5m di accuratezza

• Compasso Digitale che fornisce le coordinate di

latitudine e longitudine • Indica l’ora, la temperatura

e l’altitudine • Schermo LCD

retroilluminato • Compatto e leggero, solo 56 grammi • Anello e moschettone inclusi per una facile

aggancio • Resistente alle intemperie

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serIe lImItata In esClusIva per l’ItalIa oakley sI taCtICal elIte Glove Fr

Nuovissimo Guanto Tattico Oakley SERIE LIMITATA in esclusiva per L’Italia. I nuovi guanti protettivi militari di Oakley hanno come requisiti proprio quello che serve aI soldati dei reparti speciali. Fire Retardant. 2 strati di Nomex 180 g per una protezione aggiuntiva della mano dal calore. Questi guanti superano le specifiche USA: ASTM D6413 e NFPA 1971 Section 7.7.3.Palmo in pelle di capretto Pittards per una migliore presa. Le nocche in carbonio rivestite in pelle Pittards aggiungono protezione e garantiscono un effetto anti gocciolamento.Dita preformate per una migliore libertà di movimento. Chiusura sul polso con un solo cinturino in velcro per un’allacciatura rapida e sicura.

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knIGHt’s armament, prodottI sempre al top kaC 45° oFFset raIl mounted mICro FoldInG sIGHts

Knight’s Armament Corp ha presentato un nuovo set di mire metalliche abbattibili “backup” di dimensioni veramente ridotte, adatte per essere installate su armi lunghe provviste di Rail Picatinny (Rail Adapter System). Le caratteristiche principali consistono nel poter essere installate, tramite un’apposita slitta con un’inclinazione di 45° e quindi, di poter essere rapidamente utilizzate in caso di necessità, in tandem con un’ottica montata in asse con la canna.La parte frontale è regolabile in elevazione mentre quella posteriore in deriva e per ranges da 200 a 600 metri.Prezzo $281.25

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veCCHIe GlorIe eXtremaratIo - C.n.1

Rivisitazione in chiave moderna del pugnale “Modello 35 da Marcia” costruito in periodo fascista per la campagna in Africa Orientale.

Destinazione d’uso:

Tattico/Collezione

Caratteristiche:

• Lama: In acciaio inox N690Co 58HRC

• Trattamento Lama: Testudo• Manicatura: Forprene• Lunghezza lama: 190mm.• Spessore lama: 6.3mm.• Lunghezza totale: 310mm.• Bilanciatura: sul ramo di guardia• Peso: 296g.• Foderi: 1 fodero cosciale in Cordura

e ABS + 1 fodero tattico in pelle nera ed abs

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massIma staBIlItà su oGnI terrenounder armour® men’s mIraGe

taCtICal runnInG sHoe

Under Armour’s Mirage è una scarpa molto leggera e stabile, progettata per i corridori con archi medi flessibili e leggera pronazione. Progettata per assicurare stabilità

e massima ammortizzazione su terreni accidentati. E’ l’unica scarpa che si avvale di un sistema integrato per

fornire ammortizzazione, stabilizzazione e propulsione. ArmourLastic® assorbe gli urti nelle zone di impatto critico nel tallone e sull’avampiede per la massima

protezione. ArmourGuide® assicura ai piedi un efficiente guida all’impatto e alla propulsione. ArmourBound® offre

la massima ammortizzazione reattiva.Ventilata all’interno con FootSleeve® è stata progettata

per avvolgere completamente il piede. Peso 357g. Prezzo: 84,99$

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X vest mk1Corpetto Corazzato modulare

Si caratterizza per una struttura modulare sia sul piano della protezione balistica sia sull’allestimento dell’equipaggiamento trasportato. Lo XVEST presenta una struttura principale in Cordura 1000 al fine digarantire la massima affidabilità e resistenza, una fodera interna in rete ad alta tenacità su specifiche Mil che garantisce un ottimo comfort in qualsiasi condizione climatica. Esso presenta una protezione balistica base di livello IIIA secondo normativa NIJ Standard-0101.03. Tale protezione è impermeabile ed adatta all’impego subacqueo; in acqua sviluppa una modesta spinta positiva tale da bilanciare parte del peso dell’equipaggiamento trasportato. Le piastre rigide sono contenute in specifiche buste amovibili e ancorabili alla struttura principale tramite elementi in velcro. Lo Xvest è prodotto in 2 taglie (M, L), l’attagliamento è garantito dal sistema di regolazione sulle spalle e sui fianchi. Il vest presenta su tutta la superficie il dispositivo di ancoraggio universale (BCM) compatibile con quAlsiasi tasca in commercio tipo molle. Lo XVEST presenta una tasca nella parte superiore del pannello frontale; essa costituisce un utile vano porta documenti. Inoltre, presenta una struttura interna a “V” utile per ancorare il PTT dell’apparato di comunicazione in dotazione, al fine di proteggerlo e renderlo immediatamente disponibile.Le spalle si caratterizzano per la presenza di due elementi mobili dotati di velcro che si sovrappongono creando un canale destinato a guidare e proteggere i tubi dei sistemi di idratazione e o i cavi dell’apparato di comunicazione.Lo Xvest si caratterizza per un dispositivo di sicurezza che azionando la maniglia di emergenza, posta immediatamente sotto il collo, svincola automaticamente una spalla (a scelta ) e le due alette laterali di regolazione liberando l’operatore dal vest. Tramite un apposito kit può essere collegato direttamente all’autorespiratore a circuito chiuso caimano MK2 o similari.

Accessori:

• Front Amm. pack: elemento frontale amovibile destinato al trasporto di un max di 10 - 15 serbatoi 5,56 st.d NATO o apparati di comunicazione, artifizi vari; esso presenta il sistema di ancoraggio BCM su tutta la superficie consentendo di collegare ulteriori tasche.

• Rear idro pack: Porta idratatori, capace di trasportare 2 sacche da 3L, esso è dotato di sistema BCM su tutta la superficie al fine di incrementare ulteriormente la capacià di carico.

• Colore: BK,OG,COY,M

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FastmaG™ pIstol

Presentato allo Shot Show 2011, presso lo stand della ITW Military Products, questa nuova versione del FastMag™ è concepito per alloggiare caricatori bifilari da pistola cal. 9Para, 40SW e caricatori mono e bifilari cal. 45ACP. E’ costruito con un materiale polimerico anti IR e antiframmentazione denominato GhillieTEX™. E’ progettato per ridurre i tempi di ricarica e può essere posizionato su qualsiasi tipo di pals M.O.L.L.E., sia verso l’alto che verso il basso. E’ prevista anche una versione che può essere fissata ad una cintura tattica. E’ disponibile nelle colorazioni black, tan, foliage green e coyote browm.

www.itwmilitaryproducts.com

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assault lIFe vest mod. F1

Alv è un sistema concepito per rispondere alle esigenze di protezione e sicurezza dell’equipaggio di un velivolo ad ala rotante impegnato in operazioni ad alto rischio in territorio ostile ostile.Alv si compone di diversi sottosistemi:• Corpetto modulare che integra l’imbrago di sollevamento• Set balistico ad alta efficienza iii+,iv con spinta in acqua positiva• Salvagente pneumatico amovibile• Set di tasche amovibiliL’ alv è stato sviluppato per garantire un elevato comfort in volo grazie a un design sofisticato, compatto e un peso particolarmente contenuto.Il corpetto, completamente regolabile e’ prodotto in una taglia unica, integra un imbrago di sollevamento certificato.Esso è dotato di sistema di ancoraggio bcm (compatibile con sistema molle o similari) su tutta la superficie, alv e’ dotato di salvagente amovibile pneumatico ad attivazione manuale.Un completo set di tasche specificatamente sviluppate garantisce un’efficace distribuzione dei volumi e del carico.Il set balistico si compone di un giubbotto balistico ignifugo di livello Iii+ o iv, il corpetto risulta positivo in acqua consentendo all’operatore di fuoriuscire dalla carlinga del velivolo in sicurezza prima di attivare il salvagente.

Configurazioni tipiche:

A) PeR PiLoTi:

• Giubbotto balistico e piastra rigida frontale(in contesto operativo)

• Salvagente pneumatico (attivita’ sul mare)• Bombola + erogatore (attivita’ sul mare)• Kit di sopravvivenza• Fondina pb 92 + serbatoio di scorta

B) PeR SPeCiALiSTi

• Giubbotto balistico e piastre rigide frontali e dorsali (in contesto operativo)

• Sistema di idratazione dorsale• Tasche dorsali aggiuntive• Salvagente pneumatico (attivita’ sul mare)• Bombola + erogatore (attivita’ sul mare)• Kit di sopravvivenza• Fondina pb 92 + serbatoio di scorta• Tasche porta caricatori, artifizi aggiuntivi

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GuadaGNare coN soddisfazioNeQuando incontro qualche tipo interessante, ed in certi luoghi al dire il vero per il solo fatto che uno stia li vuol dire che lo è, la prima cosa che mi viene in mente è chiedergli se ha qualche storia da raccontare. Ma non tutti sono disposti a farlo e qualcuno si infastidisce. Molti italiani per esempio vorrebbero ma non lo fanno per pudore o per paura dei ritorni in Patria. Con gli americani, gli inglesi, gli australiani ed i sud africani è più facile: sono abituati a parlare liberamente di cose che in certi paesi europei sono dei veri e propri tabù culturali e sono fieri delle cose che hanno fatto e fanno. Dividono a priori i buoni dai cattivi e loro, naturalmente, si considerano i buoni. Così mentre lo guardavo nella penombra della pensilina, parlando di tutto e di niente, pensavo: “Che tipo, sembra uscito fuori da un comics della Marvel”. Ed allora a bruciapelo gli domando se aveva qualche storia da raccontare. Lui mi guarda dritto in faccia e dice: “La mia vita è una storia!” Poi divide in due il suo Toscano con un affilatissimo coltello brunito di piccole dimensioni, che aveva estratto con teatrale lentezza da una tasca sulla manica della camicia. I sigari italiani vanno a ruba tra i contractors e si trovano in quasi tutti i PX. “In Iraq era peggio. All’epoca ero il capo scorta di un dirigente di una big company, eravamo un team di tre operatori, li avevo conosciuti un anno prima, appena arrivato in Iraq. Avevo già lavorato con loro e trovarli nella mia squadra mi tranquillizzava. Dei bravi ragazzi, veramente dei bravi ragazzi con belle storie di lavoro alle spalle. Era un lavoro di routine ma pur sempre rischioso e filava sempre tutto liscio. Un giorno il nostro VIP ci dice che deve andare a Kiruk, a 150 miglia da Bagdad, dove ci sono i pozzi. Va bene diciamo noi, ma il nostro VIP parlava troppo e Sam mi disse che aveva parlato del suo viaggio, nei dettagli, nell’ufficio in quel momento pieno di gente. È un viaggio che sino a pochi mesi prima si faceva solo in elicottero, ma le cose erano cambiate e poi il VIP ci aveva più volte espresso la sua avversione per gli elicotteri che considerava insicuri. Non era un duro il VIP, ricco, ma non duro (ridendo, n.d.r.). La mattina lo andiamo a prendere con il nostro Tahoe

blindato, siamo soli, non avevamo un’altra vettura che ci accompagnava, troppo lavoro e pochi team, e questo non era buono ed il VIP ci dice che venivano con noi su un van anche due collaboratori iracheni della sua compagnia. Non era nei patti, e noi glielo facciamo presente, ma lui si infastidisce; avvisiamo il controllo e dopo varie discussioni decidiamo di partire. Discutiamo tra noi se dividerci e mandare uno dei nostri con loro, per controllarli, non li conosciamo e anche il VIP ne conosce uno solo. Decidiamo di viaggiare uniti sul Tahoe che è protetto e poi uniti siamo più forti. colo villaggio, quelli del van erano scomparsi, chiamano dicendo che sono in panne, inizia una discussione, il VIP vuole tornare indietro perché sul van ha una borsa che gli servirà a Kiruk. Chiamiamo il controllo, altra discussione con il VIP ed il controllo. Merda, la sua company è un big client ma noi abbiamo la nostra vita piena di speranze (ridendo, n.d.r.). Il controllo ci dice di fare in fretta e che ci ha mandato un altro team di rinforzo con quattro uomini. Adesso e non prima, merda! Noi ci incazziamo, non abbiamo bisogno di balie ma di un VIP che usi la testa e di un controllo con le idee chiare. Torniamo indietro, intorno al van ci sono varie persone, usiamo tutte le procedure, ma dobbiamo allontanare la gente. Ci siamo cascati dentro. Mi colpiscono con forza vicino all’orecchio e sento la puzza di capra di quelli che mi vengono sopra. Ci disarmano, ci pestano e ci infilano nel van. Siamo avviliti ancor prima che spaventati e malconci. Una cosa così non poteva succedere a noi. Però siamo vivi. Era una trappola neppure ben organizzata, portata avanti da gente improvvisata, la più pericolosa. Dopo una mezz’ora eravamo dentro una piccola casa di fango con l’entrata priva di porta, in un posto forse isolato. Due di loro erano con noi, a viso scoperto, anche noi non eravamo stati incappucciati e questo era un brutto segnale. Uno dei due era accovacciato a terra davanti alla porta, quasi assente, ed aveva il suo AK47 tra le gambe, era come se si fosse fatto, aveva tra le mani uno spago pieno di palline.. L’altro era dentro seduto a gambe larghe su una sedia sgangherata ed aveva tra

Di Antoine KhAn

TNM ••• 018

iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe

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RVISTE

SEGRETE

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le mani il mio Colt M4, la mia vest con i caricatori era per terra; i suoi trofei. Con le sue manacce sporche estraeva di continuo e malamente il caricatore e lo rimetteva, poi armava l’otturatore e ci puntava l’M4 addosso ridendo: ta-ta-ta-tàa. Fuori avevo contato due di loro ma erano sicuramente di più, loro sono come un branco, poca testa e molta violenza. Noi tre eravamo ammucchiati nell’angolo seduti per terra uno accanto all’altro con le mani legate dietro la schiena con una fascetta di teflon. Sentivo l’occhio e la tempia che pulsavano, anche i polsi mi facevano male, tutto faceva un male cane. Il VIP aveva il viso sconvolto, nella lotta aveva perso gli occhiali e guardava fisso il nulla, aveva dei graffi in faccia. Ad un tratto sento che Sam, al mio fianco, tenta di passarmi qualche cosa tra le mani, è un piccolo coltello senza manico, affilato come un rasoio con cui riesco anche io a tagliare la fascetta. Dobbiamo fare in fretta se vogliamo fare qualche cosa, è chiaro che la nostra è una situazione momentanea e che tra breve verremmo quanto meno separati dal VIP e per noi non ci sarà un bel futuro. Quello che conta è il VIP, anche per loro. Il terzo elemento del team era Little Boy, lo chiamavamo così perché aveva un fisico da peso massimo ed una faccia da bambino. Little Boy inizia a lamentarsi e noi gli diciamo di farla finita. Little Boy con la testa bassa continuava a lamentarsi con parole biascicate, invocando la mamma e piagnucolando diceva: “ohhh...quando siete pronti... mamma... gli saltiamo addosso... mamma mia ho paura... e li disarmiamo...ohhh”. Diceva questo come un grande attore, sempre piagnucolando e noi, immobili a testa

bassa, gli dicevamo di farla finita, incazzati. Quello seduto sulla porta era impassibile, pensava ad altro, forse pregava o era fatto, quello più giovane che aveva il mio bel M4 che io tengo sempre pulito e pronto, rideva e faceva gesti sconci, sputava e rideva e derideva Litte Boy. Il VIP era talmente sconvolto che non credo neppure sentisse quello che diceva Little Boy, che continuando nel suo piagnucolare ci diceva come e quando muoverci. Sentimmo arrivare una macchina, non c’era tempo da perdere. In un attimo fummo sopra i due che iniziarono a urlare. Ci fu una grande confusione, io avevo colpito con il piccolo coltello chiuso nel pugno quello con l’M4 alla tempia o forse ad un occhio, e poi uscimmo con Sam sparando, prima ai due che erano dentro e poi a quelli fuori, mentre Little Boy si prendeva cura del VIP che era impietrito. Quelli di fuori non ebbero neppure il tempo di rispondere al fuoco e si nascosero. Non sappiamo neppure noi come ma riuscimmo a rimontare sul nostro Tahoe... Eh si, lassù qualcuno ci guardava ancora, proprio così (ridendo n.d.r.)... Il Tahoe…. che era stato parcheggiato sotto una baracca di lamiera a fianco alla casetta e via, siamo schizzati proprio come una palla da baseball ben battuta. Abbiamo subito chiamato il controllo con la radio fissa. Quelli del controllo erano già in guerra, farsi fottere il VIP non è professionale. Poco dopo incrociammo alcuni humve di ragazzi dello zio Sam, veramente dei bravi ragazzi. Era finita. Quel giorno ci guadagnammo tutti i nostri soldi, proprio così, tutti e bene. Adesso il mio lavoro è molto, molto più confortevole.”

iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe seGreTe iNTerVisTe

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LA METAè ANCORA LONTANAQuesta volta, desidero approfittare dello spazio concessomi da TNM per esprimere la mia opinione in merito ai noti fatti libici riguardanti i tre presunti security contractors catturati e trattenuti nelle galere di Gheddafi per un mese circa. Ma vorrei prima chiarire un paio di aspetti, secondo me determinanti. In quest’ultimo mese, sia dal nostro sito web, che dalla fan page di TNM, ho lanciato, a più riprese, riflessioni di carattere generale sull’intera storia, venendo spesso tacciato di spocchia, di boria e d’essere incline a giudizi di facciata se non addirittura di comodo. Vorrei quindi cogliere l’occasione gentilmente datami dalla rivista per chiarire che, se parlo di quella vicenda è perché la mia storia personale e professionale me ne dà diritto. Se esprimo pareri, in questo caso poco “buonisti”, è perché ritengo di avere le conoscenze tecniche per farlo. E questa volta vorrei raccontarvi perché, episodi come quello accaduto in Libia ai danni di tre italiani nello scorso mese di agosto, rappresentino a mio giudizio la peggiore delle iatture in termini di credibilità nei confronti di una categoria che tenta faticosamente di ricavarsi uno spazio ed un’identità nel panorama mondiale del risk managementIl processo di valutazione, gestione e mitigazione del rischio, può essere considerato alla stregua di una catena, composta da molti anelli, strettamente vincolati l’uno all’altro e tutti dotati di eguale dignità e della medesima

importanza. Nell’interpretazione “italiota” del mondo della security in aree a rischio, si fa una gran fatica ad identificare le diverse aree di questo processo e troppi, fra coloro i quali a vario titolo dicono di farne parte, sono unicamente presi dall’aspetto riguardante la protezione ravvicinata, insomma per intenderci, le scorte armate. Allora cominciamo subito con il chiarire un aspetto. Nessuna delle società che in Italia si occupano o dicono di occuparsi di security, ma perdonatemi se insisto sul concetto di mitigazione del rischio, è titolata ad operare in aree di crisi con personale armato e con team di protezione propri, ovvero alle dirette dipendenze di una società di diritto italiano. Per poter operare in quei paesi, i pochi che lo fanno (noi compresi) si affidano a partner locali, che agiscono in ottemperanza alle leggi dei paesi nei quali svolgono il servizio, oppure decidendo di aprire una società direttamente in loco.Tradotto: nessuno di quelli che racconta di mirabolanti avventure vissute imbracciando il suo immancabile M4 in un servizio di protezione a favore di un cliente, nel disastrato paese X, in servizio per conto della azienda di security di Milano piuttosto che di Roma, vi racconta la verità. Esiste, è vero, una piccola quantità di operatori della sicurezza italiani che lavora a contratto con società internazionali di security. Si tratta di un gruppo ridotto in termini numerici, con alcuni dei quali vanto una solida

Di CARLO BiFFANi

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amicizia. Essi sono i primi ad essere preoccupati quando accadono episodi come quelli di cui discutiamo quest’oggi. Personalmente ho frequentato, in questi anni, le ambasciate ed i consolati di molti fra i paesi con i cui nomi alcuni “pseudo” colleghi si riempiono la bocca, ed ho potuto toccare con mano la diffidenza che l’apparato statale, il nostro, mostra nei confronti della categoria, sia per pregiudizi atavici, sia perché vi sono stati alcuni episodi che hanno fatto sì che di noi si parlasse in toni denigratori negli ultimi sei o sette anni. Dal 2004 il passaparola imperante fra gli apparati di rappresentanza del nostro paese è sempre stato “non facciamo lavorare i nostri connazionali” ed è abbastanza deduttivo comprenderne il motivo. Ad uscire dal guado, o meglio, a tentare di uscire faticosamente dal guado ci abbiamo messo anni, ed ecco, puntuale come la sventura, un altro episodio dai contorni indefiniti e dai discutibili protagonisti, che nel tempo di un “Amen” racconta di nuovo la storia di qualche italiano che va a cercare di fare un lavoro per il quale non si sa bene che tipo di preparazione abbia, che anche questa volta non aveva dato comunicazione delle proprie intenzioni alle autorità diplomatiche nazionali, che si perde, no anzi che è attirato in un tranello, che varca senza accorgersene il confine libico, che non vuole essere ripreso dalle telecamere, salvo farsi poi intervistare dai TG di ogni genere e tipo e che racconta d’essere un professionista della security, salvo poi scoprire dalle dichiarazioni dei parenti più prossimi che a casa faceva l’idraulico od il pizzaiolo o nella migliore delle ipotesi il buttafuori od il metronotte. Secondo voi, sarà un caso se dal 2005 le nostre rappresentanze diplomatiche s’avvalgono dei servizi di una nota società inglese, alla quale chiedono apertamente di non utilizzare personale italiano, se non nelle situazioni e nei numeri strettamente necessari, personale del quale non si fidano e rispetto al quale non vogliono trovarsi nella situazione di doverne gestire l’incompetenza? Vorrei soprattutto chiarire, prima di procedere oltre, che il mio non è un processo alle intenzioni di tre persone che avevano in animo di riuscire a trasformare il sogno di una vita in una concreta realtà. Dico però che siamo gli unici ad avventurarci, a volte, così in malarnese. Vorrei anche specificare che, da questo punto di vista, ovvero per quello che riguarda meriti e demeriti di chi svolge una professione, mi sento molto più anglosassone che latino. Se hai i numeri e la preparazione per fare, allora sei autorizzato a provarci. Se non li hai è meglio che tu rimanga a casa tua. Il problema è che ci vorrebbe molta più obiettività nel valutare le proprie capacità professionali di quanta non ne abbiano avuta alcuni dei protagonisti di questo e di altri episodi analoghi accaduti nel recente passato. Ed allora proviamo a vedere come dovrebbe funzionare, od almeno come sarebbe lecito aspettarsi che funzioni.Primo: se per una qualsiasi ragione decidi di andare in un paese a rischio, DEVI comunicarlo alle nostre autorità competenti, non fosse altro per evitare che se le cose si dovessero metter male, qualcuno possa aspettarti al

rientro chiedendoti in maniera piuttosto decisa, dettagliate spiegazioni. Inoltre se qualcuno sa dove sei, ci sono forse maggiori possibilità che in caso di bisogno, quel qualcuno possa provare a darti una mano.Secondo: Se ti muovi in un’area come l’attuale Nord Africa devi avere la certezza di chi sia il tuo contatto, di dove e per quale motivo voglia incontrati e non puoi non considerare che se, ad esempio, t’avvicinassi troppo ad una zona di confine, come nel caso di quello libico, potrebbero solo derivarne problemi seri. Da che mondo è mondo, le zone di confine in prossimità di paesi nei quali ci sono rivolte, sono il punto d’incontro e di frizione fra personaggi e traffici tutt’altro che raccomandabili. Sfollati e/o rifugiati, mercenari, trafficanti di esseri umani e di armi, trovano in queste aree il loro habitat naturale. E se sei sfortunato e sprovveduto, puoi finire per trovarti in guai veri. E parlo di quel genere di guai dai quali non s’impara ad uscirne con un paio di corsi sulla sopravvivenza in aree ostili o di quelli nei quali ti insegnano tutto, ma proprio tutto sull’uso di un fucile semiautomatico. Aggiungerei inoltre che perdersi, in genere, non è contemplato per chi voglia fare il nostro lavoro, soprattutto in un’epoca nella quale esistono supporti di tecnologia prodigiosi che sono in grado di dirti con una approssimazione vicina alla decina di centimetri in quale luogo del mondo tu ti stia trovando in quel preciso momento.Terzo: ho letto da qualche parte che i tre avrebbero affermato che si stavano recando in Tunisia perché il loro contatto, gli avrebbe potuto garantire un contratto per servizi

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HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINTHOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT HOT POINT

YEMEN

ETIOPIA

LIBIA

TUN

ISIA

NIGERIA CHADSUDAN

ALGERIA EGITTO

SOMAL

IA

GIBUTI

KENYA

GOLFO DI ADEN

OCEANOINDIANO

MAR ARABICMAR ROSSO

TANZANIA

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di protezione nei confronti di famiglie appartenenti alla nobiltà ed alla nomenclatura tunisina, piuttosto che libica. Sarei curioso di conoscere personalmente quei mussulmani che in un momento d’alta conflittualità come quello attuale, smanino dalla voglia di affidare la loro sicurezza o quella dei loro familiari a dei cristiani bianchi, considerati fra i primi target in una guerra come quella di cui stiamo parlando.Quarto: In un conflitto nel quale la variabile impazzita ed incontrollabile sembra essere costituita principalmente dalla presenza di mercenari, riterrei che ci si possa dire tutti d’accordo sul fatto che sarebbe importante non essere confusi con questa simpatica compagine. Ai signori in questione, va già molto bene sotto quest’aspetto, l’essere sopravvissuti all’intera storia. Quinto: è procedura operativa standard stabilire prima di iniziare la missione, una serie di contatti telefonici o radio ad orari prestabiliti. Semplificando, fisseremo con chi del nostro staff rimarrà in Italia, dei contatti telefonici da effettuarsi sempre e comunque in determinati orari, nei quali comunicheremo la nostra posizione ed eventuali novità. Se uno solo dei contatti saltasse, questo significherebbe inequivocabilmente l’insorgere di un problema. E se un problema si presentasse, sarebbe molto, ma molto meglio, per chi avrebbe il compito di provare a cavarci dall’impaccio, sapere qual’era la nostra ultima posizione, su che mezzo ed in quale direzione ci stavamo muovendo e quali fossero le comunicazioni e le informazioni che avevamo dato, in termini di situazione generale, riferita alla zona di operazione nella quale ci trovavamo. Quanto appena descritto non è un capitolo segreto del manuale di chissà quale operatore dell’intelligence di un paese impegnato nella lotta al terrorismo globalizzato, ma una procedura operativa comunemente praticata da tutti coloro i quali si muovono in territori a rischio. Non averla attuata, denoterebbe grande approssimazione e scarsa professionalità. Vorrei solo aggiungere, visto che sono certo del fatto che a questa mia disamina seguiranno chiarimenti, giustificazioni e forse accuse da parte di tutti coloro che si sentiranno chiamati in causa, che stiamo analizzando fatti che riguardano persone che sono sparite dal mondo civile per trenta giorni, senza che nessuno ne denunciasse la scomparsa.Sesto: da un anno circa, nel mio ambiente, si sentiva vociferare di qualcuno che stava svolgendo una serie d’incontri il cui fine era quello di selezionare un gruppo che avrebbe avuto l’incarico di addestrare le Forze Armate libiche. Non faccio delazione, ma desidero piuttosto lanciare una riflessione in merito al fatto che trovo ridicolo, e con me i molti che fanno coscienziosamente questo lavoro, il fatto di veder irrompere periodicamente nel nostro settore i soliti fenomeni che raccontano di avere chissà quale ingaggio, o di essere prossimi all’apertura di società in Iraq od in Afghanistan con le quali svolgeranno lavori di livello assoluto nel campo della security. Il nostro mondo non potrà mai aspirare ad altro che non sia un trafiletto in cronaca nera, quando qualcuno che dice di appartenervi si macchia

di una qualche colpa, se prima non farà piazza pulita di tutti gli esaltati, gli “scappati-di-casa”, i “vorrei ma non posso”, o di quelli che hanno fatto il militare a Cuneo e che oggi organizzano corsi per la gestione di situazioni ad altissimo rischio. Ho visto cose in questo senso, che voi umani, non potreste immaginare. Ci sono soggetti che hanno fatto il militare in reparti di livello ordinario, congedati neppure come caporali che oggi si fanno chiamare colonnelli, ed ancora ci sono persone che hanno faticosamente messo in piedi una qualifica di paracadutista civile, che s’atteggiano ad ex comandanti della Folgore. Riceviamo CV dai contenuti esilaranti e non passa giorno che io non assista alla nascita d’una qualche agenzia che, ovviamente, vanta esperienze che a noi sono costate 17 anni di duro lavoro.Ho sempre pensato che la nostra categoria andasse creata e tutelata unicamente attraverso la diffusione di cultura, l’organizzazione d’incontri e convegni, la frequentazione con il mondo dell’impresa e la diffusione di un idea di security non arroccata su posizioni da caserma, ma piuttosto in grado d’essere ascoltata ed accettata da chi fa business in giro per il mondo. Sono straconvinto del fatto che sino a quando si continueranno a diffondere di noi unicamente immagini di soggetti impegnati in chissà quale attività di protezione armata in un paese sabbioso, saremo facile preda di chi, animato da pregiudizi, non vede l’ora di metterci in ridicolo. Dobbiamo ammettere che per quanto sta a quest’ultimo punto, in Italia, ci riusciamo benissimo da soli. Mi considero alla stregua di un pompiere. Provo a spegnere incendi ed a prevenire disastri, piuttosto che a palesare doti da super eroe. Adoro il “low profile” e guardo con un pochino di diffidenza a chi arriva, preceduto dalla sua fama di guerriero puro e duro. Gli amici che ho nelle forze speciali, spesso non li prendereste proprio per operatori delle forze speciali. Lo stesso dicasi per i fantastici professionisti con i quali ho il piacere e l’onore di lavorare, o che conosco come leali e stimati competitors. Gente normale che fa un lavoro particolare, dove non ci può essere posto per gli incapaci. Recentemente, nel mio ultimo viaggio in Iraq, il mio team leader era un signore di 45 anni che aveva sulla schiena 15 anni di vita da sottufficiale nei Royal Marines, numerosi turni in Irlanda e 7 anni passati fra Baghdad e Bassora. Ed è solo uno dei tanti, tantissimi professionisti che rideranno di noi leggendo delle mirabolanti imprese di alcuni “colleghi” italiani e che quando li incontrerò fra breve, mi chiederanno, sorridendo, di spiegargli che accidenti di storia sia mai questa.Ai mirabolanti fenomeni che abitano, più o meno abusivamente, questo mondo, chiederei di non tenere conto delle mie opinioni. Mi basterebbe che provassero piuttosto ad inviare il loro CV ad una delle più quotate società inglesi di security. Se fossero in grado di passare il primo filtro, rappresentato dall’attendibilità dei loro curricula e se sapessero come sostenere una conversazione in inglese, sarei molto curioso di vedere che fine farebbero le loro convinzioni in merito al fatto d’essere certi di fare o saper fare il nostro lavoro.

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di Giovanni di GreGorio – direttore Studi StrateGici del ceSa - Geopolitica

Venezuela,roccaforte dell’antiamericanismo radicale.

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Il Presidente Chavez sembra vincere ogni battaglia. Ultima, non da meno, la battaglia contro il cancro che lo aveva colpito qualche mese fa. Egli è riuscito a sconfiggerlo con le sedute di chemioterapia effettuate negli ospedali cubani. Cuba, infatti, è partner economico e tra i più stretti alleati del Venezuela, e come baluardo del comunismo in terra latina, esorta il popolo venezuelano e le vicine Nazioni all’antiamericanismo. Con manovre di politica interna dettata all’autarchia, forte di un potere petrolifero-economico, da far invidia ai Paesi arabi, ha adottato i sistemi giurisdizionali e legislativi propri di una dittatura. Tra le più famose vi è la legge LOE - “Ley Orgánica de Educación”, ovvero Legge per l’Educazione e la Pubblica Istruzione. In realtà, gli oppositori l’hanno definita “Ley Mordaza”, ossia legge Bavaglio. In pratica una normativa volta a limitare la libertà di stampa tramite una sospensione della licenza a “quei media che promuovono, fanno apologia od incitano alla guerra, al delitto, alla discriminazione o siano in qualsiasi modo contrari alla sicurezza nazionale”.

Insomma una serie di limitazioni che non si rifanno a regole ma che si prestano facilmente come strumento di censura arbitraria. Il risultato elettorale del 2008 ha sancito l’elezione di Ledezma come sindaco di Caracas, ma il governo di Chavez ha sempre ostacolato l’operato dell’esecutivo cittadino, prima negando l’accesso al Municipio, poi varando una serie di norme “ad hoc” che delegittimano l’autonomia della giunta municipale e della prefettura locale. La politica di Caracas non ha più il fascino dei tempi in cui ricordavamo i migranti italiani in Venezuela, assume ormai uno stampo d’involuzione. Autoritario, antimperialista e con disprezzo per le civiltà “Occidentali”, tanto da esporsi e proporsi come mediatore (nonostante la chemioterapia) per la risoluzione del conflitto libico, il presidente del Venezuela Hugo Chavez, ha rinnovato il suo sostegno a Muammar Gheddafi,

garantendo di riconoscere il suo regime come il solo legittimo, mentre gli insorti controllano il quartier generale del

leader libico a Tripoli. “Non

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riconosciamo che un solo governo, quello di Gheddafi. Rinnoviamo la nostra solidarietà con il popolo fratello libico, attaccato e bombardato”, ha dichiarato Chavez a margine di un Consiglio dei Ministri, trasmesso dai mass media dello stato. “Assistiamo senza dubbio alla pazzia imperialista. Lo cacciano e s’impossessano delle sue riserve monetarie internazionali e del petrolio”. Dal lancio del movimento della rivolta a febbraio, Chavez rappresenta un sostegno incrollabile al regime libico, condannando senza sosta l’intervento della Nato e le sanzioni economiche contro il colonnello Gheddafi ed il suo entourage. Il legame tra i due Capi di Stato non è solo dettato dalla sincrona ideologia, ma anche da un comune trascorso storico. Infatti, dal punto di vista delle biografie personali, i due sono entrambi Colonnelli, entrambi golpisti, anche se il libico è riuscito, ed il venezuelano ha invece fallito, andando poi comunque al potere per via elettorale. Entrambi Ufficiali delle trasmissioni e dunque preparati sul cruciale tema della comunicazione. Un llanero (pianificatore) ed un beduino, appartenenti a due segmenti di popolazione numericamente marginali, ma rappresentate come quintessenza più autentica, rispettivamente della venezuelanità e della libicità. Ovvero, quasi delle divinità. In linea con l’ideologia anacronistica anti-americana e come “Signore del petrolio”, oltre che legarsi con Gheddafi, in politica estera, sceglie di allearsi con l’Iran di Ahmadinejad, con cui condivide aspetti tipici legati al regime, in quanto ambedue sono divenuti presidenti dopo un voto pluralista, prevalendo su candidati concorrenti. Un filo comune lega, anche se in modo diverso, i tre Capi di Stato. Tutti e tre sono saliti al potere come espressione di un mandato popolare più o meno genuino. Ma né Libia, né Venezuela, né Iran sono oggi uno Stato di diritto vero e proprio. Naturalmente, nello studio geopolitico internazionale bisogna considerare l’aspetto del potere economico di una Nazione. Fra i tre, nonostante le connivenze ideologiche che abbiamo già espresso, esiste una sostanziale differenza. Infatti, dal punto di vista “petrolifero”, l’Iran, è il quarto produttore mondiale ed il terzo esportatore; il Venezuela l’ottavo produttore mondiale e sesto esportatore; la Libia il diciassettesimo produttore mondiale ed undicesimo esportatore. Analizzando quanto questo influisca sull’economia interna di un Paese, vediamo che grazie al greggio, la Libia ha il reddito pro capite più alto dell’Africa ed il Venezuela ha avuto per molti anni il reddito pro capite più alto del Sud America. Più povero è l’Iran, che deve dividere questa ricchezza tra una popolazione molto più numerosa, avendo comunque un reddito pro capite quattro volte superiore a quello del Pakistan e dieci volte superiore rispetto a quello dell’Afghanistan, tanto per confrontarlo con due suoi vicini senza petrolio. In Libia, Venezuela ed Iran, dunque, chi controlla il petrolio può stabilire un potere forte sulla società, permettendosi di ridurre al minimo una repressione che pure c’è, giocando invece sul consenso. Ma per mantenere questo consenso è necessario che i prezzi del greggio siano alti. Chavez, consapevole della propria potenza economica, come giocatore dello

scacchiere geopolitico, riesce a dettare le sue condizioni solamente facendo innalzare il prezzo del petrolio con le sue dichiarazioni anti-americane. Ma in realtà, deve tener presente il “passato storico” del suo paese. Deve rammentare che i suoi predecessori, sono venuti meno proprio per l’incapacità di risolvere le lotte interne e che i petroldollari, da soli, non sono sufficienti per convincere gli oppositori ad allinearsi alla sua politica, permettendogli di mantenere il consenso. Inoltre, Chavez, non ha mai intuito la necessità di far fronte ad investimenti per la raffinazione del suo stesso greggio. Ciò comporta l’inevitabile dipendenza dal “nemico” americano, per svariati milioni di dollari, anche per gli approvvigionamenti dei beni di prima necessità. Nella politica “involvista” di Hugo Chavez esiste l’idea di creare assi d’alleanza megalomani, proprio con le realtà internazionali a lui ideologicamente vicine, ma che inesorabilmente si sono dimostrati fallimentari ed inefficienti. Un aspetto quasi esilarante della politica di Chavez è l’ardito sperimentalismo ideologico-istituzionale che, con il suo bolivarismo e socialismo del XXI secolo, ritiene d’aver inventato un nuovo modello politico in grado di rinnovare l’intero scenario mondiale, ponendo rimedio ai limiti delle ideologie tradizionali. In effetti un’innovazione è avvenuta in politica monetaria, per la quale il Venezuela è un esempio di sovranità nazionale. Infatti, Chavez, ha adeguato il valore della moneta nazionale alle proprie necessità ed alle differenti situazioni: una moneta forte per le importazioni di prodotti di prima necessità ed una moneta debole per le esportazioni. Ponendo così le basi per un adeguamento più concreto anziché una svalutazione.Il bolívar, la moneta venezuelana, fino all’inizio del 2010 era cambiato con il dollaro ad un tasso fisso di 2,15 bolivares; da cinque anni il tasso di cambio bolívar/dollaro non veniva modificato. All’inizio di gennaio, il governo venezuelano ha introdotto un cambiamento radicale, dopo mesi di dibattito sulla convenienza di un bolívar forte od un bolívar debole (e quindi svalutato). Le autorità venezuelane sono arrivate, di fatto, alla conclusione che era meglio adottare entrambe le soluzioni. In questo modo anche i beni importati dal “nemico” USA apparirebbero estremamente convenienti,

Presidente del Venezuela Hugo Chavez

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perché in pratica costerebbero la metà rispetto a qualche anno fa. Dunque la moneta forte ha grossi vantaggi quando s’importa o quando ci si reca all’estero. Ovviamente ci sono anche gli svantaggi. Un’impresa europea che dovesse esportare i propri prodotti fuori dell’Europa avrebbe seri problemi con una moneta cosi forte: i suoi prodotti costerebbero il doppio ed andrebbe probabilmente incontro ad una crisi. Di conseguenza uno statunitense non sarebbe più tanto propenso ad acquistare beni e merci provenienti dall’Europa. Con un euro troppo forte l’impresa europea esportatrice andrebbe incontro a dei problemi.Analizzando l’altro lato, quello della moneta debole, al momento dell’importazione di prodotti, ne risulterebbe il primo svantaggio. Di fronte ad una svalutazione del 100% (come nel caso dell’esempio), un prodotto che prima costava un euro (quindi inizialmente un dollaro), dopo l’indebolimento (la svalutazione del 100%) costerebbe due dollari. Per tutti coloro che invece esportano all’estero l’indebolimento della moneta rappresenta un vantaggio.Il Venezuela, da sempre, ed oggi grazie alla spavalderia diplomatica di Chavez, è un paese che si trova in una situazione particolare, la cui economia è strettamente connessa alle materie prime, in particolare al petrolio, di cui possiede la più grande riserva accertata del mondo: 314.000 milioni di barili estraibili (un terzo di tutte le riserve petrolifere esistenti al mondo), oltre ad un altro milione di milioni di barili, che ad oggi, con la tecnologia esistente, non è possibile estrarre (o non conveniente), derivando un costo d’estrazione enormemente superiore a qualsiasi prezzo di mercato del petrolio. In sostanza, il Venezuela, è un paese esportatore di materie prime; allo stesso tempo è un grande importatore di qualsiasi altro prodotto, in particolare di prodotti alimentari e di tutti quei beni di prima necessità, legati alla salute ed alla medicina. L’operato del governo venezuelano, in questi anni, è stato finalizzato ad incrementare la produzione locale, soprattutto in campo alimentare. Pur riuscendo ad incrementare la produzione interna, l’obiettivo dell’autosufficienza è ancora ben lontano, pertanto continua ad essere un paese importatore.Fino al 2008 ha vissuto di grandi entrate economiche derivanti dall’esportazione del petrolio (oltre 3 milioni di

barili al giorno), che come è noto aveva raggiunto prezzi altissimi, fino a 100/150 dollari al barile. Con quelle entrate non aveva problema ad importare il resto dei prodotti.Nell’ultimo trimestre del 2008, in seguito alla crisi economica mondiale, il prezzo del petrolio iniziò a scendere, fino a toccare, nel 2009, i 30 dollari. Se l’Opec, di cui il Venezuela è uno dei principali paesi membri, non avesse deciso un drastico taglio alla produzione, il prezzo avrebbe continuato a scendere. Oggi, grazie a quella decisione, il prezzo si è stabilizzato attorno ai 70/80 dollari, che rappresenta pur sempre la metà del prezzo che aveva raggiunto a metà 2008. La caduta del prezzo del petrolio ed il forte taglio alla produzione (del 25%), necessario a stabilizzare il prezzo, hanno determinato per il Venezuela grosse riduzioni in termini d’entrate valutarie.In altri termini, nonostante le controversie politiche con buona parte del Mondo libero e la caduta d’Alleati d’oltreoceano, sembra che la “verità” dell’ideologia di Chavez sia ben radicata e condivisa da buona parte della popolazione venezuelana, che ha creduto nel suo Presidente, come unico e vero interlocutore esecutivo del volere delle masse. Egli è stato capace di battere il pugno sul tavolo geopolitico internazionale grazie al potere economico che solo il greggio può assicurare.

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MARITIME SECURITYPIRATI, TERRORISTI E BANDITI. SORVEGLIARE, PREVENIRE, PROTEGGERE E CONTRASTARE.Di Marco BaNDioLi

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Golfo di Aden - dicembre 2010Membri del Canadian Expeditionary Force Command (CEFCOM)

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PENSARE GLOBALMENTE PER COLPIRE LOCALMENTE

Il fenomeno della “globalizzazione” ha portato reali e molteplici benefici in svariati settori, da quello commerciale a quello tecnologico. Tuttavia esiste anche l’altra faccia della medaglia; infatti si sono “globalizzate” anche le attività criminali, sfruttando appieno tutte le nuove possibilità di un mondo diventato improvvisamente più fruibile. La globalizzazione ha influenzato, in una relazione biunivoca, anche le realtà locali proiettandole in un contesto più ampio, detto “glocalizzazione”, che sfrutta localmente un ampio ventaglio di forme delinquenziali, dall’azzimato funzionario colluso all’arrogante spacciatore di strada.I Servizi Informativi di Sicurezza e le Polizie, sia a livello internazionale che a livello nazionale, ben conoscono la questione che viene affrontata con diverse tipologie di “approccio al problema”, approccio che è fortemente “influenzato” più dalla volontà politica che dalla necessità operativa. Già da molti anni, per contrastare alcune realtà criminali globalizzate e glocalizzate, in vari Paesi sono state impiegate, oltre alle regolari forze di polizia, anche forze militari o paramilitari. In esito alla necessità di pervenire ad una auspicabile, e per ora teorica, “Sicurezza globale” anche una grande organizzazione come la NATO sta rimodulando parte dei propri obiettivi. In ambito NATO, infatti, sta ora prendendo forma, dopo i dovuti mesi di studio, gestazione e “sperimentazione teorica”, un nuovo concetto dottrinale che viene al momento definito come “le nuove Minacce Ibride” (new Hybrid Threats, HTs), ovvero quelle minacce “messe in atto da avversari che possiedono la capacità di impiegare simultaneamente sia mezzi convenzionali che mezzi non convenzionali adattandoli al fine di conseguire i loro obiettivi”.In linea di massima si potrebbe dire che non c’è niente di nuovo se non la solita strategia della “guerra asimmetrica”. In realtà il concetto coinvolge sulla scena della criminalità internazionale “nuovi attori”. Le minacce sono ibride perché gli attori, pur essendo molto diversi tra di loro, sono in grado di unire le loro forze e le loro capacità operative per conseguire i loro rispettivi obiettivi, non necessariamente comuni. Tra questi attori si trovano, a pieno titolo, terroristi, pirati e comuni banditi. Casi emblematici di questa commistione sono quei rapimenti e sequestri di turisti, che avvengono in noti e sconsigliati Paesi, in cui non si capisce “chi è che fa che cosa” nel senso che chi rapisce non è chi detiene le vittime e non è nemmeno chi chiede il riscatto! Inoltre, i malcapitati turisti vengono venduti/barattati tra le diverse tipologie criminali in cambio di denaro, droga, armi, munizioni, esplosivi, cibo, apparecchiature, pietre preziose, veicoli, combustibili… a seconda delle necessità del momento di chi acquista e di chi vende. Ogni momento storico presenta delle specifiche peculiarità influenzate da molteplici fattori, da quelli politici a quelli economici e sociali. A seconda di come ora la “comunità internazionale” intenderà strategicamente affrontare la problematica, ci potrebbero essere delle significative ripercussioni

sull’impiego operativo e tattico degli “addetti ai lavori”… sia a terra che in mare. Si dovrà pensare globalmente e colpire localmente… o, per come si è detto prima, glocalmente. Operativamente parlando, si dovrà pensare strategicamente per colpire tatticalmente.

LE “ZONE GRIGIE” E L’IMPORTANZADELLE DEFINIZIONI

Le avventurose e cavalleresche imprese sui mari di bucanieri, pirati e corsari sono retaggio di un passato storico-marittimo ormai lontano. La realtà attuale è molto molto diversa. Con il termine “marittimo” si può ragionevolmente indicare qualsiasi cosa che abbia attinenza, o comunque un legame, con il mare. Chiunque voglia inserirsi professionalmente in questioni o attività che riguardino il “mondo marittimo” si trova necessariamente a dover conoscere un ragguardevole numero di convenzioni, norme, consuetudini, codici, leggi, risoluzioni, iniziative, trattati, accordi, normative, direttive, circolari e regolamenti applicativi che sono stati emanati negli ultimi 30 anni per fornire una base giuridica e legale agli argomenti più disparati. Nonostante tutta questa

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Golfo di Aden - Operatori della Task Force CTF 142

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enorme produzione legislativa, esistono ancora numerosi e particolari aspetti del mondo marittimo che non sono stati sufficientemente approfonditi o che non sono stati pienamente focalizzati. Esistono delle “indeterminazioni concettuali” a causa delle quali la cosiddetta “Sicurezza dei mari e degli oceani”, nonché la protezione e la difesa delle navi, dei porti e delle grandi rotte commerciali, non può ancora essere pienamente garantita. Ma come è possibile tutto questo?! Il problema risiede nell’“Attuazione indiretta” del Diritto Internazionale in generale e del Diritto Internazionale Marittimo nello specifico. Infatti avviene che, a livello globale, si enunciano e si sottoscrivono roboanti trattati basati su inalienabili questioni di principio mentre l’applicazione pratica dei medesimi principi viene sostanzialmente rimessa e devoluta ai singoli apparati nazionali (leggasi locali) che hanno, ovviamente, diverse sensibilità alle questioni internazionali, diversi approcci politici ai problemi nonchè diversi interessi economici. In questa dicotomia si vanno a creare delle zone di indeterminazione legislativa, delle “zone grigie”, dove i trattati internazionali non hanno più quei contorni così netti, come sembrava inizialmente, ed i grandi principi evocati, tutto sommato, possono essere interpretati in modo decisamente più accomodante o evasivo. Inoltre, anche a livello locale, esistono rigorose aree di competenza non sovrapponibili che creano un disarmonico quadro di “responsabilità frammentate” (basti pensare alle varie figure istituzionali e non, presenti all’interno di un porto) e che ingenerano ulteriori incertezze operative nel caso in cui le circostanze impongano un intervento immediato. Ovviamente, tali situazioni giovano enormemente ai delinquenti, ai malavitosi, ai criminali ..senza contare poi ai terroristi o ai pirati! Bisogna ora partire da un presupposto basilare che talvolta viene poco considerato. In tutte le burocrazie del mondo, istituzionalmente parlando, “un qualcosa” esiste solamente se questo “qualcosa” viene chiaramente definito… diversamente questo “qualcosa” ufficialmente non esiste! La questione è terribilmente sostanziale: se il Terrorismo non viene definito, il Terrorismo non esiste... e se e quando viene definitov esiste solamente nei rigorosi termini della definizione data, e potrà diventare perseguibile unicamente entro quei termini forniti dalla definizione stessa!! Teniamo presente che il mondo non è più quello di una volta in cui noi siamo i buoni e gli altri sono i cattivi. Se definiamo male i delinquenti va a finire che i delinquenti siamo noi e, automaticamente, diventano buoni i delinquenti! E nessuno avrà qualcosa da eccepire, soprattutto in una società che adora definirsi “politicamente corretta”. Il risultato che ne consegue è che se il Diritto Internazionale va a definire male “qualcosa” questo “qualcosa” può diventare difficilmente perseguibile in generale, ed ancora più difficilmente perseguibile quando le realtà locali travisano le definizioni già di per se stesse imprecise. A questo punto il problema comincia a delinearsi. Per avere un ordine di idee, basti pensare che per giungere ad una definizione di Terrorismo più o meno accettata da

tutti e che potesse essere quasi omnicomprensiva di tutte le motivazioni, le tipologie e le varianti con cui il terrorismo si crea e si manifesta, gli “addetti ai lavori” hanno lavorato, negli ultimi anni, su non meno di 150 definizioni!

L’EVOLUZIONE DELLA SICUREZZA MARITTIMA

Le grandi Organizzazioni Internazionali come l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite - United Nations, UN), l’IMO (International Maritime Organization), l’MSC (Maritime Safety Committee), l’IMS (International Maritime Security), l’IMB (International Maritime Bureau) e l’EU (European Union, l’Unione Europea), o, per meglio dire, la “Comunità internazionale,” aveva inizialmente affrontato le innumerevoli problematiche legate al mare principalmente pensando al salvataggio delle vite umane in mare, in

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Fase di addestramento di alcuni operatori delle forze armate cinesi

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un contesto di “Safety”, ovvero della sicurezza intesa come salvaguardia della salute e della vita nonchè come prevenzione e sicurezza antinfortunistica in mare. Negli anni a seguire, presentandosi in mare sempre maggiori pericoli di natura ben diversa, ovvero provenienti dalla minaccia umana, alla Safety si è aggiunta a pieno titolo la “Security”, ovvero quell’insieme di attività e procedure di protezione e difesa contro attività ostili che si possono presentare in ambiente marittimo. Pur essendo Safety e Security due cose completamente diverse, un certo numero di varianti ed emendamenti a normative di Safety riguardano invece proprio la Security. Un esempio classico è il “Codice Internazionale di Sicurezza Marittima per le Navi e le Infrastrutture Portuali” (International Ship and Port Facilities Security Code, ISPS Code), entrato in vigore nel luglio 2004, che si configura come un emendamento

alla Convenzione di Londra del 1974 sulla “Sicurezza della Vita umana in Mare” (International Convention for the Safety of Life At Sea, SOLAS Convention). La Maritime Security, operativamente parlando, si divide in Sicurezza del Porto e delle sue Infrastrutture (Port Facilities Security, PFS) e in Sicurezza delle Navi (Ships Security, SS). L’evoluzione del concetto della sicurezza marittima intesa come Security ha introdotto la necessità di avvalersi di strumenti di natura preventiva, come viene ben esplicitato dal Regolamento comunitario UE n°725/2004 che definisce la “Maritime Security” come “una combinazione delle misure preventive dirette a proteggere il trasporto marittimo e gli impianti portuali contro le minacce di azioni illecite internazionali”. La natura preventiva della Maritime Security è stata poi necessariamente integrata, vista l’efferatezza di alcuni crimini avvenuti in mare, dalla possibilità di servirsi di

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strumenti idonei per produrre deterrenza e per attuare un efficace contrasto/annientamento della minaccia, rafforzando così una sinergia tra le Istituzioni statuali ed i privati. Ma quali sono queste “azioni illecite” internazionali in grado di minacciare la pacifica utilizzazione dei mari e degli oceani?! Sono tutte azioni sostanzialmente attuabili da terroristi, pirati o anche da banditi e comuni delinquenti. Tali azioni, in termini molto generali, si possono dividere sia in azioni generiche che in azioni specifiche, ovvero: omicidio, ferimento, rapina, rapina a mano armata, contrabbando, distruzione o danneggiamento, depredazione, saccheggio, sabotaggio, sfruttamento illecito di risorse marine, inquinamento, minamento di acque ristrette, dirottamento di navi, effettuazione di trasporti/traffici illeciti (armi, sostanze nocive, esseri umani), attacchi di pirati e/o attentati terroristici a navi mercantili o a navi da crociera, cattura e sequestro di navi e/o di persone, utilizzo di natanti quali vettori d’arma, utilizzo come “bombe galleggianti” di navi gasiere o adibite al trasporto di sostanze pericolose. Ma qui si torna al problema delle definizioni che, da sempre, risulta essere un esercizio politico di difficile gestione, soprattutto se si vuole pervenire a codificazioni che siano universalmente riconosciute, accettate e condivise. Oltre alla questione delle definizioni si aggiunge poi il problema del contesto dell’applicabilità delle norme e delle leggi. Iniziano così i cavilli legali, le domande ed i dubbi che andranno a creare notevolissime conflittualità tra le norme, le convenzioni

e leggi da poter applicare o meno in quella particolare circostanza da esaminare. Infine, è opportuno sottolineare che in mare può essere difficile individuare le prove fisiche di un reato: basti pensare che una nave può illegalmente assumere una nuova identità in brevissimo tempo mentre il suo carico può essere stato rivenduto già più volte. In questa dimensione tipicamente marittima, in un ottimistico clima di cooperazione internazionale e di fattive sinergie multilaterali e multidisciplinari, chi va poi a valutare, ad applicare, a decidere e a sanzionare? I citati atti di violenza possono avvenire in differenti aree geografiche (sia marine che terrestri), possono coinvolgere Nazioni diverse (il proprietario della nave, lo spedizioniere, il noleggiatore, l’armatore, il comandante, l’equipaggio, il proprietario del carico…) e possono compromette diversi interessi economici, commerciali e politici. In considerazione del fatto che le Nazioni possono avere tra di loro grandi disparità legislative in materia, si scopre così che non esiste a tutt’oggi, forse volutamente, una struttura competente a giudicare “al di sopra delle parti”, legittimata ad adottare anche misure repressive e punitive, ovvero quello che si potrebbe verosimilmente chiamare “Il Tribunale Internazionale del Mare e degli Oceani”.Per completezza di informazione, in campo militare, analogamente alla “Ship Security” si parla di “Force Protection” per la protezione e la difesa delle navi militari, meglio definite come Unità Navali, e, parallelamente alla “Port Facilities Security”, si parla di “Harbour Protection”

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per la protezione la difesa dei porti militari, meglio definiti come Basi Navali. Da non confondere, infine, la “Maritime Security” con la “Difesa Marittima”, che è un concetto tipicamente militare da inquadrare in un diverso contesto di “Difesa del territorio marittimo, delle acque territoriali nonché della protezione del naviglio mercantile e delle vie di comunicazione marittima” nell’ambito della più ampia “Sicurezza Nazionale” e della tutela degli “Interessi Nazionali”.

LA CONOSCENZA DELLA SITUAZIONE IN MARE

Dai tempi degli Ammiragli Julian Corbett e Alfred Mahan, storici “antagonisti” di Strategia Marittima, sono stati scritti centinaia e centinaia di libri sul Potere Marittimo, sulla Strategia Navale Marittima e sul cosiddetto Dominio del Mare. Da tutti i possibili aspetti che possono emergere da questioni prettamente navali, la conoscenza della situazione in mare è da considerarsi un fattore basilare e imprescindibile per qualsiasi attività e forma di controllo che si voglia esercitare. In parole povere, bisogna sapere chi c’è in mare, che cosa sta facendo, dove sta andando e perché. In termini pratici questo può avvenire grazie all’attività di “Sorveglianza”, sia in forma palese che occulta. Naturalmente, nel mondo moderno, si parla di una sorveglianza finalizzata alla compilazione della cosiddetta “Situazione di superficie”, alla quale contribuiscono le apparecchiature presenti su diverse tipologie di mezzi, dalle unità navali, ai velivoli, ai satelliti, ai sommergibili sino alle postazioni radar terrestri, fisse o mobili che siano.

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Fase di briefing pre operazione di alcuni operatori del 11th Marine Expeditionary Unit

Golfo di Aden Sniper del 26th Marine Expeditionary Unit, armato di MK 11 a bordo di un CH 46 SEA NIGHT

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Inoltre più organizzazioni, sia civili che militari, attraverso le rispettive Centrali Operative concorrono a creare un ampio diorama, una veduta d’insieme, della situazione del traffico in mare che possa essere, per quanto possibile, condivisa e valorizzata per le rispettive finalità. Si parla di una vasta rete di cooperazione interistituzionale e internazionale che prende il nome di “Sorveglianza Marittima Integrata“ (Maritime Situational Awareness). Avere le idee chiare sulla situazione generale in mare determina, conseguentemente, le capacità alle singole organizzazioni di poter eventualmente intervenire in modo adeguato negli specifici contesti di competenza, dal soccorso per la salvaguardia della vita in mare all’intervento armato contro i pirati.

SORVEGLIARE, PREVENIRE, PROTEGGERE, CONTRASTARE

Dopo tutte le energie profuse per avere una sorveglianza che fornisca una adeguata situazione di chi c’è in mare, che cosa fare però al verificarsi di un evento malavitoso? Finchè non succede nulla... tutti sono contenti e il famoso “controllo” funziona! E qui emerge un grosso equivoco istituzionale, operativo o giornalistico che dir si voglia. In realtà disporre di una buona sorveglianza significa avere semplicemente la “conoscenza” di tutto quanto è presente in mare e di come si muove, il che non significa assolutamente averne il “controllo”, esattamente come intendono gli anglosassoni con la parola “Maritime Situational Awareness”, la conoscenza della situazione marittima, che non viene confusa con il “Sea Control”, ovvero il controllo del mare. É esattamente come quando al telegiornale si sente dire che il vulcano “è sotto controllo” semplicemente perché ci sono degli studiosi che lo stanno a guardare, o meglio, “lo monitorizzano”. Ma quando avviene l’eruzione, guarda caso, il vulcano non è più sotto controllo, oppure, in realtà sotto controllo non lo è mai stato! Avere il controllo di qualcosa o su qualcosa, operativamente parlando, significa avere le capacità di poter intervenire per modificare, o non far modificare, il corso degli eventi. Una volta appurato che si sta profilando un’azione potenzialmente ostile o si sta delineando una minaccia, occorre reagire. La minaccia, qualunque essa sia ma connotandola ora genericamente come “marittima”, si può manifestare sia in mare aperto che all’interno di un porto, con nave in transito in rada o in acque ristrette oppure ormeggiata in banchina, alla fonda o alla boa. Conseguentemente variano i mezzi, l’armamento, le tattiche e le procedure operative impiegate dalle forze ostili per sferrare l’attacco. La Comunità Internazionale ha comunque mediamente inteso affrontare la questione del contrasto alla minaccia marittima basandosi principalmente sulla “Prevenzione” e sullo “Scambio di informazioni” da svilupparsi nell’ambito di una più generale cooperazione internazionale in cui intervengano a dire la loro, in una visione multidisciplinare, la diplomazia, la politica, l’economia e la finanza. Ora, al di là della solita ridda di

relazioni socio-economiche, analisi delle vulnerabilità, valutazioni dei rischi, indagini conoscitive, elaborazioni di dati statistici e studio delle potenzialità future, in ragione del significativo aumento e talvolta dell’efferatezza degli episodi di criminale violenza sui mari, l’orientamento della detta Comunità Internazionale, da un iniziale atteggiamento timido e remissivo, è necessariamente dovuto passare ad un assetto più incisivo e difensivamente aggressivo, riadeguandosi così alle crescenti attività e nuove forme di attacco da parte di pirati e terroristi. Un esempio: mentre prima per Prevenzione dagli attacchi dei pirati si intendevano principalmente misure cinematiche evasive, variazioni di velocità e altri diversivi da parte della “nave preda” per evitare l’abbordaggio e la cattura, adesso per Prevenzione si intende anche, oltre a altre misure cautelative, il poter imbarcare sulla nave nuclei di uomini armati e addestrati per fornire la dovuta protezione e poter respingere un attacco. Una protezione quindi che può trasformarsi in Contrasto. Partendo da un problema affrontato a livello globale dalla Comunità Internazionale si arriva ad uno scenario locale (la nave o il porto) dove si delinea una soluzione operativa di prevenzione, protezione e/o contrasto a cui si giunge unicamente con attività a livello tattico. ARMATORI, ASSICURATORI E CONTRACTORS

Una nave viene catturata e dirottata. Conviene negoziare e pagare per riavere la nave, l’equipaggio e (forse) il carico, o perdere nave e carico e farsi risarcire dalla Compagnia Assicuratrice oppure sarebbe convenuto mettere preventivamente a bordo dei nuclei di personale armato e/o prevedere scorte armate con idoneo “naviglio sottile” da attivarsi al momento del transito in acque ristrette o passaggi obbligati (choke points)? È cosa nota che una considerevole porzione dell’economia mondiale dipende dal trasporto marittimo e in tale ambito si articolano e si dipanano particolari meccanismi che fanno muovere, a vario titolo, una ingente quantità di denaro. Sebbene gli episodi di sequestro e/o saccheggio di navi in determinate e ben conosciute zone di mare stia aumentando, non ci sono aumenti proporzionali di denunce da parte degli armatori. La mancanza di denunce non significa affatto che siano diminuiti gli atti criminosi, come alcune statistiche vogliono falsamente fare intendere, ma più semplicemente è una mancanza di fiducia in quelle leggi e in quegli apparati che dovrebbero perseguire la criminalità. Quindi spesso la denuncia non viene fatta poichè ritenuta inutile. Per alcuni armatori, addirittura, è considerata dannosa in quanto la denuncia potrebbe:• creare un ritardo nei traffici;• essere fonte di pubblicità negativa per la Compagnia

armatrice;• non portare a nulla di concreto in quanto difficilmente

si potrebbe giungere ad identificare responsabili e, qualora individuati, difficilmente si giungerebbe a una pena certa o ad un tangibile riscontro da parte delle

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Istituzioni/Organizzazioni Internazionali (proprio alla luce della legislazione marittima blanda, imprecisa e talvolta difficilmente applicabile di cui si è già parlato);

• incrementare il numero totale delle denunce, la qual cosa potrebbe, prima o poi, far crescere i premi assicurativi da parte delle grandi Compagnie Assicuratrici del settore.

In futuro le cose potrebbero cambiare ma, per il momento, una volta che l’Armatore possiede in perfetta regola tutti i documenti previsti per farsi risarcire l’eventuale perdita di una nave, con il relativo carico, sicuramente preferisce introitare il risarcimento assicurativo. Una eventuale negoziazione non garantisce un risultato in ragione del fatto che, spesso, non si sa con chi negoziare e inoltre, per attuare tale attività in un Paese straniero, si può incappare in notevoli cavilli e limiti normativi nell’ambito dei quali solo un esperto “negoziatore” potrebbe districarsi senza incorrere in ulteriori problemi legali o diplomatici. L’incremento degli episodi criminosi nei confronti dei trasporti marittimi ha comunque rifocalizzato l’attenzione della Comunità internazionale sulla questione di dover proteggere il commercio via mare dalle insidie di gruppi armati di varia

natura, non ultimi i pirati. Come già accennato, Paesi con antiche tradizioni marinare si sono già organizzati in tal senso. Per prevenire e contrastare azioni terroristiche in mare vengono impiegate Unità Navali (ovvero militari) in operazioni di sorveglianza, pattugliamento, interdizione e contrasto (con a bordo eventuali Nuclei militari denominati “Squadre antiterrorismo/Force Protection”, AT/FP, da impiegarsi anche in porto). A difesa delle Basi Navali, di installazioni portuali ritenute sensibili e di piattaforme marine vengono impiegate “Squadre antiterrorismo/Harbour Protection” (AT/HP) o di difesa portuale (Port Security Units, PSUs). Anche per quanto riguarda la protezione e la difesa del naviglio mercantile di bandiera, a garanzia delle Compagnie armatrici nazionali, alcuni Governi hanno adottato inizialmente soluzioni più o meno similari, prevedendo scorte in mare da parte di naviglio militare nazionale, con la possibilità di avere a bordo dei mercantili nuclei armati di militari. Tali nuclei militari, inizialmente appartenenti alle forze armate della nazione della nave di bandiera, sono stati poi progressivamente sostituiti da analoghi nuclei di Contractors offerti sul

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mercato dalle numerosissime Società Militari Private (Private Military Firms, PMFs) che forniscono il servizio a livello mondiale. L’argomento è molto vasto, per alcuni versi delicato ed abbastanza articolato, ma è opportuno accennare il fatto l’impiego di “servizi privati” si è consolidato ed ampliato nell’arco di una decina di anni in esito ai tagli di bilancio alla forze armate (chiamate a “fare di più con meno”, doing more with less) che furono effettuati da alcuni governi e quindi dal conseguente avvento del concetto di “Outsourcing” militare, ovvero di avere la possibilità di appaltare/subappaltare un certo numero di servizi a supporto di forze armate convenzionali impiegate nei teatri operativi. Da un iniziale supporto eminentemente logistico si è passati, nel tempo, ad un vastissima tipologìa di attività specificatamente militari e di sicurezza che possono ora arrivare a comprendere sia l’addestramento che vere e proprie azioni di combattimento. Peraltro non c’è sempre una marcata differenza tra i servizi forniti da una PMC (Private Military Company) e quelli forniti da una PSC (Private Security Company). Naturalmente tutto il meccanismo funziona subordinatamente al fatto che

venga chiarita, a priori, la configurazione del rapporto tra la compagnia privata e la Nazione “ospitante” nonchè i dettagli operativi ed i limiti tecnici e giuridici a cui i contractors, che impiegano esclusivamente armi da guerra, debbano attenersi per agire in un paese straniero, dovendo operare sia in modo autonomo che in una eventuale situazione di cogestione tattica. Per avere un’idea indicativa della richiesta basti pensare che, ad esempio, nel solo 2004 (con una tendenza di domanda in ascesa) le oltre 80 compagnie private subappaltate dal Governo degli Stati Uniti hanno fornito, tra Afghanistan e Iraq, più di 20.000 contractors, provenienti principalmente dall’America e dall’ Europa. Per quanto riguarda l’aspetto marittimo, si stanno espandendo quelle che potrebbero essere chiamate compagnie private di sicurezza marittima o marina, che forniscono due tipologìe di intervento: Squadre armate imbarcate sul naviglio mercantile (Armed marine Security Teams, ASTs) e Natanti armati per la scorta del naviglio mercantile (Dedicated Escort Vessels, DEVs).Nel contesto marittimo dove, come si è visto, è piuttosto difficile dimostrare l’atto criminoso a posteriori (e la controparte ne è ben cosciente), l’impiego dei contractors, talvolta meno vincolati da norme comportamentali operative particolarmente penalizzanti, è sicuramente un bel deterrente.

LE PROSPETTIVE NAZIONALI

Nell’ambito del Decreto legge 12 luglio 2011, n.107 che riguarda il rifinanziamento delle missioni delle forze armate e di polizia all’estero, vengono introdotte nuove misure di contrasto alla pirateria. Per quanto riguarda l’antipirateria, si tratta comunque di un Decreto generico che rimanda necessariamente ad un ulteriore decreto interministeriale che dovrà sicuramente chiarire molti aspetti. Al momento, usando le espressioni del decreto:“viene data la possibilità all’Armatorìa privata di stipulare convenzioni con il Ministero della Difesa per la protezione di navi battenti bandiera italiana mediante l’impiego a bordo di “Nuclei Militari di Protezione – NMP”, con l’armamento previsto per il servizio, forniti dalla Marina Militare che può anche avvalersi di altre Forze Armate. A tale personale verrà attribuita la funzione di Ufficiale o Agente di polizia giudiziaria, a seconda del grado. Nei casi in cui non sono previsti i precedenti servizi, i servizi di vigilanza privata possono essere svolti da “particolari guardie giurate armate” a protezione delle merci e dei valori sulle navi mercantili e sulle navi da pesca battenti bandiera italiana. Un nuovo decreto stabilirà le condizioni e i requisiti per il possesso, l’utilizzo, l’acquisizione e il trasporto di armi e munizioni da parte delle guardie giurate”. Al riguardo circolano, provenienti da diverse direzioni, diversificati commenti. Permane l’attesa che, nel prossimo futuro, un certo numero di questioni vengano prese in considerazione.

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Le armi ritorvate a bordo delle imbarcazioni dei pirati Somali anche se vecchie e arruginite sono sempre funzionanti

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Di Gianluca Hermann e Gabriele Da casto - foto tnm

Technical and Performance SPecificaTionPrima ParTe

Uno dei nostri collaboratori, Gianluca, poco prima della prova.

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ESCLUSIVA

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Gianluca dopo il primo colpa senza alcun trauma, accanto il FEG AK47 (cal.7,62x39)

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L’appuntamento è di quelli a cui non si può mancare, un Fire Test al famoso super giubbotto antiproiettile della CIT.srl, il tam tam mediatico ha reso questo antiproiettile un oggetto “misterioso”… Partiamo per Empoli per effettuare la prova fuoco, come da accordi da eseguire nell’azienda, ci accolgono al nostro arrivo il Sig.Cioffi e sua moglie titolari ed inventori del brevetto. La nascita di un’idea e il conseguente sviluppo è sempre impresa ardua, ma le capacità di questo uomo di Empoli hanno fatto si che in Italia si sia inventato e sviluppato un antiproiettile in grado di salvare vite umane e di segnare una linea di demarcazione nella sicurezza mai raggiunta prima d’ora andando di gran lunga oltre le specifiche che regolamentano oggi la balistica. Le aspettative sono molte, le opinioni sono contrastanti e Noi siamo andati per verificare. I Test effettuati dalla CIT.srl sono continui e aggiornati, il loro prodotto è a prova di qualsiasi test comparativo con altri prodotti similari che si trovano in commercio. Dopo una iniziale titubanza, il sorriso sornione del Sig.Cioffi mi invita a mettermi il giubbotto per provare sulla Mia Pelle… Mi infilo l’antiproiettile, la titubanza è mista un po’ a paura, farsi sparare da 80 centimetri da un AK-47 (FEG, modello SA 85M) con cartucce calibro 7,62x39 mm, Full Metal Jacket, 123 grani di marca “Barnaul”, mi rende molto nervoso, non riesco a nasconderlo.“Gianluca, la piastra balistica che porti nel giubbotto per la prova, ti dico, ha già subito un test con 30 colpi…” Non so se ridere o piangere… Farsi sparare addosso rimane sempre un grande tabù. Indossato il giubbetto contenente il pannello C.I.T. s.r.l., mi sono posizionato in posizione ortostatica, spalle al muro, nell’area di massima illuminazione. Anteriormente e sul mio lato sinistro, a circa cinque metri, è stata posizionata, su un cavalletto, una telecamera marca “Sony”, tipo 40 x Digital Zoom

Handycam per documentare la prova.

La fredda canna dell’AK-47 mi guarda, comincia una sensazione mai provata: Armare, quando pronti Fuoco… Fuoco… L’effetto è unico, dopo vari secondi per comprendere bene e dare una valutazione oggettiva, mi riprendo dall’iniziale onda d’urto.

Effettivamente il colpo viene scaricato nella forza cinetica in una vampata che si sente all’arrivo dopo lo sparo. Si percepisce bene la dispersione dei volumi nell’impatto, la cosa terrificante ma innovativa è che non vieni spostato da nessuna forza d’urto dovuta all’arrivo del proiettile, si assorbe sulla piastra tutta la devastante forza cinetica, ciò indica che non si subisce un danno

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Gabriele sta per ricevere 5 colpi di Beretta 98 (cal.9x21) dopo aver gia’ subito 3 colpi di AK

Il Sig.Cioffi estrae dal plate carrier il CIT Panel di sua invenzione. Prima di utilizzarlo noi aveva gia’ incamerato 20 colpi di calibri diversi.

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alle parti molli e/o al torace.Durante gli spari ho mantenuto sempre la posizione ortostatica di partenza, senza indietreggiare e dare alcun segno di dolore di contraccolpo ricevuto e di particolari emozioni. Ho sempre mantenuto, inoltre, una fisiologica reattività agli stimoli visivi ed uditivi.Alle domande postatemi dal Sig.Cioffi e da Gabriele in merito al mio stato psico-fisico ho risposto rassicurando “Me” ed i presenti, negando alcuna sensazione di traumatismo ricevuto e riferendo di avere avvertito, durante ogni sparo, una sensazione di “movimento” del pannello e di maggiore aderenza dello stesso alla parete toraco/addominale. Dal punto di vista prettamente medico-legale, dunque, alla luce dei dati obbiettivi durante e dopo la prova di sparo, mi è possibile concludere che i dieci colpi esplosi contro il bersaglio, ovvero il Sig. Gianluca Hermann provvisto di pannello C.I.T. s.r.l. adoperato in qualità di giubbetto di protezione, colpi peraltro tra loro ravvicinati, in quanto a punto di impatto con il pannello, non hanno determinato alcuna lesività corporale, nonché alcun disturbo di origine psicopatologica immediata e ritardata, scrivo così anche se dovrei dire “Sono Vivo e Vegeto…”Continuiamo il test cambiando arma e calibro. Adoperiamo una pistola semiautomatica marca Beretta modello 98 FS, calibro 9x21mm con cartucce calibro 9x21 mm Full Metal Jacket 123 grani di marca Fiocchi, e una Smith and Wesson modello 19/R, canna 6 Pollici,calibro 357 Magnum con cartucce calibro 357 Magnum Full Metal Jacket Truncated Cone I42 grani, di marca Fiocchi. La reazione ai colpi è la medesima, anche cambiando i calibri e le armi, la sensazione che si prova all’arrivo della forza cinetica è la medesima.Mi tolgo il giubbotto sorridendo e lo passo a Gabriele; ora tocca a Te… Le sensazioni descritte da Gianluca sono conformi alle mie, si percepisce una vampata che ti

La Beretta 98 (cal.9x21) utilizzata per il nostro test accanto al CIT Panel

le armi usate per il test Beretta 98 (cal.9x21) e AK47-FEG (cal.7,62x39) accanto il CIT Panel che mostra tutti i colpi incamerati resistendo perfettamente ed i nostri fedelissimi Oakley.

La sorpresa! Ecco cosa residua all’interno del CIT Panel di tutti i colpi sparati 7,62x39 / 9x21 / 357 Mag. Nulla piu’ che polvere di piombo e qualche frammento piu’ grande, ma dello spessore della stagnola da cucina!

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arriva fin su il volto, non si sentono traumi dovuti a colpo d’arma da fuoco. Interessante sono le future applicazioni possibili di questo prodotto innovativo:

1•Difesa Civile2•Difesa Militare3•Protezione Infrastrutture Critiche

Per DIFESA CIVILE si intende:•Auto/scorte•Protezione Civile•Croce Rossa•Forze Paramilitari•Ospedali (protezioni per isolare

aree nel settore radiologico, radioterapeutico e altro).

•Contenitori materiali/scorie radioattive/ esplosivi, sostanze altamente contagianti ecc…

Per DIFESA MILITARE si intende:•Blindatura shelter operativi•Depositi munizioni•Ambulanze militari

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I proiettili e le armi corte utilizzati per il nostro test.

I proietttili utilizzati per il test 9x21 e 7.62x39.

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•Ospedali da campo con relative sale operatorie

•Barriere per protezione passaggi•Elicotteri /aerei per tutte e tre le

forze armate (seggiolini pilota, pavimento, cabina di pilotaggio

•Veicoli di ogni tipo e applicazione•Sale comando e controllo o di

qualsiasi altra attivita’ operativa•Protezione per postazioni di guardia

/presidio•Protezioni per satelliti nello spazio•Protezioni telescopiche per

postazioni radar e missili.•Protezioni per rifugi nucleari

(Bunker).•Navi e sommergibili.

Il prodotto si presenta con caratteristiche anti taglio, anti punteruolo, anti trauma, anti shock, anti pallottola ed anti rimbalzo. Perfettamente ergonomico, leggero nella struttura e non soggetto a sbalzi termici.Il prodotto innovativo del Sig.Cioffi che vogliamo ricordare è un prodotto tutto ITALIANO ha passato tutti i test di valutazione riportati dallo-STANDARDS AND TESTING PROGRAM-USA.

Lo Vogliamo vedere il prima possibile in commercio, perché la Vita degli operatori è un costo troppo

alto da sostenere per la MADRE PATRIA, e la sicurezza oramai è cosa primaria per Tutti noi…

I protagonisti del nostro test ed il CIT Panel utilizzato,come si presenta nella parte rivolta verso il corpo del soggetto,dopo aver incamerato in totale 50 colpi di calibri diversi.

IL VIDEO IN ESCLUSIVA DEL TEST

EFFETTUATO DA TNM

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A partire da questo numero Tactical News Magazine inizia la pubblicazione di una serie di servizi all’interno di uno spazio intitolato Speciale Afghanistan aperto anche a reporter e analisti stranieri che conoscono bene la realtà afghana. I primi numeri avranno sempre un approfondimento storico sulle vicende di questa nazione che rappresenta un caso a se stante nel pur complesso e drammatico panorama geopolitico mondiale. In questo numero nel servizio “Afghanistan, viaggio alle origini del chaos” Antonello Tiracchia ha sintetizzato il lungo percorso storico che ha condotto l’Afghanistan alla situazione attuale. Nel prossimo numero questo approfondimento continuerà con un servizio intitolato “Arrivano i Russi” e poi, a seguire, “L’orrore della Pace” e “Enduring Freedom”. Realizzare questa sintesi storica è stato un lavoro complesso perché TUTTE le fonti di informazione sono generalmente straniere; per i media italiani, fatte alcune eccellenti ma rare eccezioni, l’Afghanistan è generalmente un problema causato “dall’invasione americana” oppure “da una guerra per interesse” come se gli interventi armati debbano essere condotti per “disinteresse o contro i propri interessi”. Questo atteggiamento superficiale e populista porta ad affrontare il problema della nostra dispendiosa, complessa e rischiosa presenza militare da un punto di vista qualunquista, viziato dall’ignoranza e da pregiudizi ideologici. Antonello Tiracchia cercherà di raccontarci il “puzzle” afghano anche con brevi “emozioni di viaggio” maturate nel corso delle sue esperienze vissute insieme al fotoreporter Giuseppe Lami; in tre differenti missioni hanno trascorso in Afghanistan due mesi degli ultimi 365 giorni raccogliendo oltre 50 ore di girato e di interviste, scattando migliaia di fotografie e vivendo, embedded, con diversi reparti italiani, con i quali hanno diviso rischi,disagi e storie di vita quotidiana. Storie che possono sembrare minimaliste o per qualcuno anche fastidiose, ma se la libertà di espressione è uno dei punti cardini della democrazia è anche vero, come diceva l’ormai dimenticato George Orwell che: “La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire.”

Mirko Gargiulo

SPECIALE A CURA DI ANTONELLO TIRACCHIAFOTOGRAFIE DI GIUSEPPE LAMI

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aFGHaNisTaN ViaGGiO alle ORiGiNi Del cHaOs

Qualche tempo fa mi trovavo in Pakistan nello Swat a Saidu Sharif, appena liberata dai talebani dall’esercito pakistano con una cruenta e radicale azione militare. Una sera a cena ho conosciuto un giovane analista inglese e gli ho domandato come definiva la situazione afghana e lui sorridendo ha risposto: We are inside in a very big “casino” three century long! Certamente non sbagliava.2010, Saidu Sharif Swat, provincia di Pakhtunkhwa, Pakistano(Antonello Tiracchia)

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UN OGGI SENZA TEMPOCiò che sta accadendo in Afghanistan è il risultato di innumerevoli episodi, strettamente collegati uno all’altro, che dagli inizi del 1700 si sono succeduti senza soluzione di continuità: la situazione afghana di adesso sembra uguale per certi versi a quella di un prima che pare immutato da secoli. Se è vero che la storia è come una grande filiera che sgorga continuamente il prodotto del suo passato ciò vale particolarmente per l’Asia centrale ed in particolar modo per l’Afghanistan che, dopo decenni di assenza dal palcoscenico delle notizie, riempie le pagine dei media e, purtroppo, anche i cimiteri militari di numerose nazioni occidentali. Il tentativo di colmare il vuoto politico succeduto al ritiro sovietico ha creato instabilità politica e una volontà di guerra che dai diseredati villaggi delle valli afghane si è trasferita in un modo sempre più cruento sino agli Stati Uniti, il simbolo cardine dell’Occidente, per l’Islam il Grande Satana. L’11 settembre 2001 ha segnato un nuovo ciclo della storia moderna i cui disegni sono ancora indefiniti e sempre più inquietanti, come i media ci mostrano. Sulla scena mondiale gli attori della guerra fredda sono stati surrogati da nuovi interpreti, radicalizzando posizioni che hanno spinto studiosi e politologi come Samuel P. Huntington a parlare di un nuovo scontro di civiltà secondo schemi che sembravano superati e che invece si ripropongono con una fertilità inusuale nel mondo moderno, così come lo abbiamo concepito per tutto il secolo scorso. Se si vuole capire perché i nostri militari presidiano sperduti avamposti persi nel nulla della regione occidentale afghana, spesso pagando il loro impegno con la vita o restando gravemente feriti, è indispensabile conoscere il percorso storico dell’Afghanistan che ha condotto il mondo occidentale a questo punto. L’INIZIODopo due secoli di invasioni e scorrerie mongole, che tra il 1200 e il 1500 avevano facilitato l’estensione dell’impero di Genghiz Khan dall’Oceano Pacifico sino alla Polonia con una violenza diventata proverbiale, agli inizi del 1700 lo Zar Pietro

il Grande cercò per primo di riconsegnare alla cristianità il suo vasto regno profanato dall’Orda d’Oro. La sua dichiarata convinzione che il destino della Grande Russia fosse quello di conquistare il mondo lo condusse a rivolgere le sue attenzioni ad Oriente verso le grandi distese dell’Asia settentrionale, per poi scendere attraverso i deserti afghani verso l’India di cui si favoleggiavano ricchezze leggendarie ma, di fatto, terra di conquista delle potenze europee ed in particolare dell’Inghilterra. Lo Zar intendeva soggiogare i vari canati, i territori sottoposti alla giurisdizione di un Khan, lungo il percorso che da Khiva conduceva sino all’India

passando per Herat, Kandahar e Quetta, costituendo così quelle indispensabili basi strategiche che gli avrebbero permesso, ricalcando le orme di Alessandro Magno, di attivare la filiera logistica e giungere con le truppe sino al Mare Arabico e all’Oceano Indiano. Nel 1717 Pietro il Grande affidò ad Aleksander Bekovič, un principe musulmano convertito al cristianesimo, il comando di un corpo di spedizione composto da oltre quattromila soldati e cinquecento tra cavalli e cammelli: lo scopo era quello di soggiogare con un’alleanza il canato di Khiva, la porta dell’Asia centrale, che secondo lo Zar costituiva il primo caposaldo indispensabile per discendere attraverso la larga valle del fiume Amu Darya (chiamato Oxus dai greci) verso l’Afghanistan, quindi passare per Herat e poi giungere in India attraverso il passo di Khyber, e qualora non fosse stato possibile, conquistarlo. La spedizione portava con sé viveri e munizioni per un anno di autonomia e avanzando lasciava sul percorso piccoli capisaldi, alla maniera delle legioni romane, che avrebbero permesso di tenere aperta una via di comunicazione sino al Mar Caspio, da dove erano giunti a bordo di oltre cento battelli salpati da Astrakan. Alla fine di agosto, dopo aver marciato nel deserto del Karakum per due mesi, il corpo di spedizione giunse fiaccato dal clima, dai disagi e dai continui attacchi di bande di predoni, a poca distanza dalla città di Khiva. Il Khan del canato li accolse benevolmente, accettò compiaciuto i doni ed ascoltò le proposte di Bekovič a cui offrì la possibilità di ristorare e far riposare il suo numeroso esercito, convincendolo però, non essendoci a suo dire a Khiva spazio e risorse sufficienti, ad acquartierare i suoi uomini divisi in piccoli gruppi presso diversi villaggi, distanti uno dall’altro. Sembrava una guerra vinta da principio ma, il Khan, tradì la parola data e riuscì a sopraffare con relativa facilità l’esercito russo che aveva scaltramente diviso. I sopravvissuti ai combattimenti furono fatti a letteralmente a pezzi davanti ad una folla esaltata e per lungo tempo la testa impagliata di Aleksander Bekovič venne mandata in giro presso altri canati come dimostrazione della potenza e della forza di Khiva e del suo Khan, mentre il corpo, anch’esso impagliato per durare più a lungo, imputridiva impalato davanti alle porte della città insieme a quelli di altri sventurati. Alcuni russi furono volutamente risparmiati affinché tornassero indietro per raccontare come erano andate le cose; il Khan non aveva

« ...io vengo dal Barbaro Nord. Indosso le stesse vesti e mi sfamo dello stesso cibo dei pastori di vacche e dei mandriani di cavalli. Facciamo gli stessi sacrifici e ci dividiamo le ricchezze. Guardo al mio impero come a un nuovo figlio appena nato e mi curo dei miei soldati come se fossero i miei fratelli... »(Genghiz Khan)

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idea di cosa e dove fosse la Russia, di quanto fosse grande e potente: se si salvò da una sicura rappresaglia fu perché la Russia, impantanata nel suo delirio espansionistico, era impegnata militarmente in Persia ed impossibilitata ad aprire un altro fronte. Trent’anni dopo, nel 1747, un coraggioso e carismatico guerriero pashtun di nome Ahmad Shah Durrani, approfittando del vuoto di potere lasciato nell’impero ottomano nei vasti territori dell’Asia centrale, si mise al comando di un contingente di circa ottocento cavalieri della sua stessa etnia e dopo aver conquistato Kandahar si proclamò sovrano con il titolo Durr-i Durran (Perla delle Perle). Il suo primo atto da regnante fu marciare con i suoi uomini alla conquista di Kabul creando di fatto lo stato islamico più esteso della seconda metà del XVIII secolo ed abbozzando i confini e soprattutto i caratteri fondanti dell’attuale Afghanistan: per la prima volta Ahmad Shah Durrani riuscì a coagulare interessi e aspettative di numerose tribù di varie etnie, piccoli principati e province frammentate. Tutti i governanti dell’ Afghanistan (con l’eccezione, nel 1929, di un periodo di nove mesi e fino al colpo di stato marxista del 1978) erano sunniti e provenivano dalla confederazione tribale pashtun dei Durrani. A partire dal 1818 furono tutti membri del clan Mohammadai di quella tribù. Dopo un secolo dalla sventurata spedizione di Aleksander Bekovič, nel 1819 lo Zar Alessandro I, continuando la politica di espansione ad oriente dei suoi predecessori, affidò ad un coraggioso, colto ed abile ufficiale di 24 anni membro delle Guardie Scelte, un incarico tanto segreto quanto rischioso ed audace. Travestito da mercante turkmeno il capitano Nikolaj Muarav’ēv sarebbe partito da

Tblisi alla volta di Khiva, per lo stesso percorso compiuto dalla disastrosa spedizione militare russa del 1717 e con lo stesso scopo: tessere alleanze e raccogliere informazioni per creare un percorso logistico attraverso l’Afghanistan e strappare l’India agli inglesi, allargando i confini dell’Impero Russo; questa volta però i russi avrebbero usato l’astuzia e la diplomazia invece dei cannoni. La missione del coraggioso capitano Muarav’ēv era contrapposta ad un’analoga missione segreta portata avanti pochi anni prima dal capitano inglese Charles Christie del 5th Bombay Native Infantry, non meno abile, colto e coraggioso: mentre Muarav’ēv cercava informazioni per creare un percorso strategico in Afghanistan per poter invadere l’India, il capitano Christie su incarico della Compagnia delle Indie Orientali acquisiva informazioni per capire come l’Inghilterra potesse prendere il controllo dell’Afghanistan in modo da impedire una possibile invasione dell’India da parte russa, interponendolo come stato cuscinetto tra i territori dell’Asia settentrionale già inseriti nella sfera degli interessi politici ed economici della Russia. Entrambi, per scopi diametralmente opposti, cambiando più volte identità e travestimento viaggiarono per mesi a piedi, spesso da soli o aggregandosi a carovane di mercanti, attraverso deserti sconosciuti e in territori mai prima raggiunti da un occidentale, correndo il rischio di essere derubati, violentati, uccisi o rapiti per essere poi venduti come schiavi. In gran segreto, con strumenti abilmente nascosti, abituati a memorizzare con precisione nomi, dati e riferimenti facevano rilevamenti topografici, studiavano percorsi e fortificazioni, identificavano pozzi e luoghi dove requisire derrate alimentari per sostenere un esercito in marcia.Il capitano Charles Christie, spacciandosi per un mercante di cavalli tartaro, sbarcò sull’attuale costa pakistana dopo essere partito da Bombay a bordo di un natante indigeno e raggiunse Herat dopo quattro mesi. Era il secondo europeo che a memoria d’uomo ne avesse varcato la porta.

INIZIA IL GRANDE GIOCOCosì iniziò quella guerra segreta tra la Russia e l’Inghilterra che tra alterne vicende sarebbe durata sino al 1921 quando, dopo la terza guerra anglo-afghana, gli inglesi rinunciarono a controllare la politica estera dell’Afghanistan. Fu Rudiard Kipling, nel 1901, a raccontare per primo, naturalmente da un punto di vista inglese, le gesta e l’epopea di questi uomini straordinari, ufficiali di carriera, diplomatici, funzionari della Compagnia delle Indie, mercanti di cavalli, mercenari o scaltri avventurieri attraverso le cui gesta si fronteggiarono in segreto la Russia e l’Inghilterra senza peraltro mai scontrarsi militarmente sul campo. Durante questa partita secolare giocata su una gigantesca scacchiera naturale i russi e gli inglesi hanno occupato con alterne vicende parte dei territori dell’Afghanistan ma sempre parzialmente e per brevi periodi, eliminando anche con la violenza personaggi scomodi oppure spodestando e insediando dei veri satrapi, corrompendo e stringendo alleanze effimere spesso disattese da tradimenti e omicidi, costituendo e poi abbandonando capisaldi. Eppure gli inglesi non hanno lasciato in Afghanistan quelle profonde tracce culturali tipiche del colonialismo inglese che hanno invece segnato

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l’India o il Kenya. Questo perché gli afghani, accomunati soltanto da un’interpretazione restrittiva dell’islamismo, divisi in numerosi gruppi etnici a loro volta divisi in numerosissimi clan e famiglie spesso in lotta tra loro, erano piuttosto refrattari ad assorbire usanze e costumi degli infedeli. Sarà proprio in Afghanistan che l’Inghilterra, sottovalutando la complessa mentalità degli afghani legata a statici comportamenti medioevali, subirà la sua più grande sconfitta militare, seconda solo a quella di Singapore del 1942, creando il mito del coraggio e delle attitudini guerriere degli Afghani.

IL GIOCO SI COMPLICANel 1831 “Il Grande Gioco” vide l’entrata in campo di un nuovo giocatore, figura mitica dell’epopea imperiale inglese.Alexander Burnes, tenente di origine scozzese che a 16 anni partì dalla Scozia per l’India e si arruolò nella Compagnia delle Indie Orientali come interprete, parlando infatti correttamente l’urdu, il persiano e l’arabo. A soli 26 anni ricevette dalla Compagnia delle Indie l’incarico di accertarsi che il corso del fiume Indo non potesse essere usato dai russi per un eventuale trasferimento di un esercito, ma dagli inglesi per aprire nuove vie commerciali alla Compagnia. Per poter effettuare questa complessa e rischiosa missione, cercando di non insospettire le rapaci tribù afghane, nascose il suo reale obiettivo con il compito di consegnare un regalo personale del re Guglielmo IV a Ranjit Singh, signore del Punjab; si trattava di una carrozza di gala dorata e di cinque cavalli da tiro di grande bellezza. Grazie a questo stratagemma Burnes riuscì a navigare il fiume e a dimostrare la possibilità di utilizzarlo come via strategica e commerciale a vantaggio dell’Inghilterra stringendo un’alleanza con lo stesso Ranjit Singh. Burnes continuò la sua rischiosa e difficile missione attraversando anche l’Hindu Kush e poi discendendo il fiume Amu Darya che scorre da sud a nord verso il lago di Aral passando per Bukhara, confermando così la possibilità che i russi avrebbero potuto utilizzare questo fiume e il suo fertile alveo per transitare con un esercito di occupazione. Dopo innumerevoli peripezie e due anni di missione, degni di una serie di film d’avventura, nel 1833 Alexander Burnes fece ritorno nell’India britannica. L’impresa gli valse l’appellativo e il titolo di baronetto “Burnes di Bukhara” oltre al grado di capitano, l’iscrizione nell’Athenaeum e la medaglia d’oro della Royal Geographical Society. Nel 1834 rientrò in Inghilterra e durante il lungo viaggio in nave scrisse un resoconto delle sue esplorazioni, che divenne uno dei libri più popolari dell’epoca. Aveva solo 29 anni.Alexander Burnes ripartì nel 1837 per un’altra rischiosa e complessa missione: raggiungere Kabul ed aggregare il re dell’Afghanistan, Dost Mohammed, nella sfera degli interessi inglesi. Moahammed, uomo di grande intelligenza politica e valente guerriero, rimase affascinato dalle qualità di questo giovane ufficiale e lo accolse nell’impenetrabile cittadella fortificata chiamata Bala Hisar stabilendo con lui un rapporto confidenziale. Alexander Burnes nelle relazioni che inviava ai suoi superiori descriveva Dost Mohammed come l’uomo giusto per governare il turbolento regno afghano e l’alleato ideale per gli interessi inglesi

nell’area. Ma quest’ultimo aveva una specifica richiesta da fare agli inglesi: voleva riprendersi Peshawar che al momento faceva parte del regno di Ranjit Singh, il signore del Punjab, diventato alleato degli inglesi in seguito alla precedente missione di Burnes. Per questo motivo il governatore generale dell’India, Lord Auckland, non diede la giusta importanza ai report di Burnes e preferì seguire il parere di Sir William Macnaghten, un alto funzionario della Compagnia delle Indie favorevole alla reintegrazione sul trono dell’Afghanistan di Shah Shujah, spodestato proprio da Dost Mohammed. Burnes aveva avuto occasione di conoscere Shah Shujah anni prima e non ne aveva tratto una buona impressione descrivendolo come un uomo debole, tendente alla malinconia e alla pinguedine, privo del necessario carisma per governare i turbolenti afghani e soprattutto per competere con un vero re, guerriero e carismatico, come Dost Mohammed. Il giovane Burnes aveva visto giusto. Solo poco tempo dopo Shah Shujah, che era in esilio dorato a Ludhiana, nell’India britannica, aiutato anche da fondi segreti della Compagnia delle Indie elargiti per intercessione dello stesso Sir William Macnaghten, aveva organizzato una forza di invasione di ventiduemila uomini per spodestare Dost Mohammed e riprendersi il regno dell’Afghanistan. Nella battaglia presso Kandahar, l’esercito di Dost Mohammed vinse, costringendo Shah Shujah ad abbandonare vigliaccamente il campo di battaglia.

UN NUOVO SCOMODO GIOCATOREIn questo gioco di astuzie ed intrighi, mentre Burnes era considerato un ospite di riguardo presso la Bala Hisar, entrò in campo il capitano russo Jan Victevič, altro personaggio di grande rilievo de “Il Grande Gioco”. Di origine polacca a 17 anni aveva preso parte al movimento di resistenza contro i russi. Catturato, ebbe salva la vita per la giovane età ma fu inviato per punizione a Orenburg, in Siberia (la storia che si ripete!) come soldato semplice. Per superare il tedio in un distaccamento ai confini del mondo cominciò a studiare le lingue asiatiche mostrando inoltre rare capacità di comando e di analisi. I suoi superiori lo presero a ben volere, lo promossero tenente e gli affidarono l’incarico di raccogliere informazione nei territori musulmani dell’Asia settentrionale. Durante queste missioni la stima dei suoi superiori aumentò a tal punto che fu promosso capitano ed inserito nello staff dello stato maggiore russo di Orenburg. Quando l’intelligence russa capì che Dost Mohammed non era nelle grazie della Compagnia delle Indie gli venne affidato l’incarico di raggiungere Kabul e trovare il modo di stringere un’alleanza con il re, piuttosto infastidito dal rifiuto della Compagnia di sostenerlo per riprendersi Peshawar.Jan Victevič e Alexander Burnes nonostante fossero formalmente nemici si incontrarono a Kabul per una sola volta, e cenarono insieme il giorno di natale del 1837, compiacendosi di riconoscere l’uno nell’altro reciproca stima.

LA PRIMA GUERRA ANGLO-AFGHANAQuando Lord Auckland venne a saper dell’intromissione di Victevič ne chiese l’allontanamento da Kabul con una perentoria e poco diplomatica lettera personale inviata a

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Dost Mohammed che per tutta risposta strinse maggiori contatti con l’emissario russo vagliandone le proposte. Fu l’avvenimento che scatenò la prima guerra anglo-afghana, in realtà già preparata da tempo da Lord Auckland e da Sir William Macnaghten. Lord Auckland ordinò a Burnes di rientrare ed emanò il cosiddetto Manifesto di Simlai, in pratica una dichiarazione di guerra contro Kabul. Dost Mohammed di contro si proclamò Emiro (Amir-al-momenin) cioè combattente della fede dell’Afghanistan e si preparò ad affrontare gli inglesi. Pochi mesi dopo, agli inizi del 1839, un corpo di spedizione inglese chiamato l’Armata dell’Indo, risaliva il passo Bolan, più scomodo di quello del Khyber, ma questo si trovava nel territorio del Punjab, posto sotto il controllo di Ranjit Singh che, conoscendo il carattere vendicativo di Dost Mohammed, si era opposto al passaggio degli inglesi. L’Armata dell’Indo era un esercito poderoso e ciò dimostrava che l’invasione era stata preparata a lungo. Era infatti composto da 15.000 soldati britannici e indiani appartenenti ai migliori reparti di fanteria, cavalleria e artiglieria presenti in India e con un seguito di ben 30.000 civili composto da stallieri, lavandai, cuochi, servitori, maniscalchi, armaioli, sarti, calzolai e altrettanti cammelli per il trasporto di munizioni, provviste, cucine da campo, strumenti da lavoro, salmerie, tende e quanto altro potesse essere necessario ad una simile armata. Per comprenderne l’esagerazione basta sapere che un generale di brigata aveva un seguito di sessanta cammelli per la sua attrezzatura da campo e alcuni ufficiali avevano caricato su ben due cammelli la loro scorta di sigari! Inserito in questo poderoso dispositivo militare c’era anche l’esercito di Shah Shujah perché Sir Alexander Burnes, promosso nel frattempo tenente colonnello e dotato di poteri speciali, pretese che questi per avere un minimo di credibilità dovesse almeno apparentemente dimostrare che entrava a Kabul con le sue forze e non sostenuto dai cannoni inglesi.L’esercito entrò in Afghanistan ed il 25 Aprile 1839 prese Kandahar senza sparare un colpo, dato che i capi Pashtun erano fuggiti, ma la città accolse con freddezza il pretendente al trono ed i suoi sostenitori. Non fu così semplice invece occupare la fortezza di Ghazni, posta in posizione strategica e considerata inespugnabile. Con un abile e coraggioso colpo di mano, il 23 luglio gli inglesi riuscirono ad aprire un varco nelle mura della roccaforte e poi, facendosi strada combattendo corpo a corpo per un’intera notte, all’alba del 24 luglio sfondarono definitivamente la resistenza ed occuparono la città dopo avere perso 200 uomini. Il 30 luglio l’Armata dell’Indo occupava Kabul senza combattere dato che Dost Mohammed dopo la caduta della fortezza di Ghazni era fuggito verso i monti dello Hindu Kush. L’imbelle Shah Shujah divenne così re dell’Afghanistan, di fatto una marionetta governata dalla Compagnia delle Indie e di cui Sir William Macnaghten tirava i fili. A Kabul, conquistata e tenuta tranquilla grazie alle elargizioni di denaro che Macnaghten usava per accattivarsi la benevolenza dei numerosi capi tribù, sembrava che tutto procedesse per il meglio, tanto che molti inglesi e indiani furono raggiunti dalla loro famiglie. Nell’estate del 1841 a Kabul erano presenti poco più di 4 mila soldati e 12 mila civili, che si

godevano il clima continentale della città tra partite di cricket, corse di cavalli, feste e alcool. Questo stile di vita più adatto ad una colonia turistica che ad un corpo di invasione, unito all’incapacità militare del comandante militare, il generale William Elphinstone prossimo alla pensione, malato di gotta, demotivato ed in perenne lite con il governatore Macnaghten, avevano allentato la tensione delle truppe. La maggiore circolazione di denaro, in mano agli inglesi ed a pochi afgani, aveva fatto alzare i prezzi delle merci presso il bazar, il più grande dell’Asia centrale, impoverendo sempre più le classi deboli dell’intera regione. Ma oltre all’aumento dei prezzi, alla circolazione delle bevande alcoliche e all’ostentazione del potere c’era l’interesse, ricambiato, che gli inglesi avevano per le donne afghane, alcune delle quali avevano abbandonato i mariti per convivere come concubine e farsi mantenere presso i ricchi scapoli inglesi. Lo stesso Alexander Burnes, anche lui in conflitto con il governatore che in pratica aveva ridimensionato il suo ruolo di ufficiale politico, aveva relazioni con diverse donne afghane che ospitava dove viveva, con altri ufficiali, in un palazzo situato in una stretta via della città vecchia e distaccato dagli acquartieramenti.Oltre al malumore generato da questo stato di cose montava il disprezzo della popolazione contro il nuovo re. Era ormai chiaro a tutti che la figura di Shah Shuja, che viveva arroccato nella Bala Hisar godendo di uno stile di vita influenzato dalle usanze inglesi , valeva più come marionetta nelle mani del governatore inglese che come re. Il malcontento cresceva continuamente ma Macnaghten, interessato solo alla sua carriera, inviava in India rapporti pieni di ottimismo. Per conservare un minimo di credibilità del re marionetta e senza che l’imbelle generale Elphinstone si opponesse, le truppe erano state allontanate, ignorando le rimostranze degli altri ufficiali, dalla Bala Hisar ben fortificata e adatta a resistere ad un eventuale assedio ed erano state acquartierate in un campo aperto attorniato da colline ed alture, praticamente in un’area indifendibile e lontana dalla città.

IL MASSACRO DI GANDAMAKGli eventi precipitarono il 1 di novembre del 1841 quando un gruppo di facinorosi, rimpiangendo i tempi del deposto Dost Mohammed, assalì il palazzo in cui viveva Burnes che fu trucidato insieme ad altri ufficiali e al reparto delle guardie. L’unico corpo a ricevere segreta sepoltura fu quello di Burnes mentre gli altri furono dati in pasto ai cani. I rivoltosi riuscirono inoltre ad impossessarsi di gran parte del denaro del governatore contenuto nei forzieri situati in una costruzione attigua al palazzo. Elphinstone, pur avvertito di ciò che stava succedendo non prese alcuna decisione per correre in aiuto del distaccamento, distante meno di quattro chilometri, innescando con la sua inettitudine una catena di eventi che si sarebbe trasformata in tragedia. la rivolta si allargò a macchia d’olio e migliaia di afghani assaltarono il campo inglese sostenuti dal figlio prediletto di Dost Mohammed, arrivato in città dal Turkestan con seimila guerrieri a cavallo per ridare il trono a suo padre e che rapidamente aveva organizzato un esercito di oltre trentamila afghani animati dalla certezza della vittoria.

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Mohammed Akbar Khan, questo era il suo nome, era un uomo tanto coraggioso quanto scaltro ed incarnava alla perfezione l’aura di mito che ancora circonda i guerrieri afghani. Privo di scrupoli, intelligente, doppiogiochista, coraggioso e feroce oltre ogni immaginazione era un vero capo carismatico, il peggior nemico con cui i rilassati soldati inglesi di Kabul potessero immaginare di scontrarsi. Ci furono numerosi combattimenti spesso chiusi con la fuga degli inglesi che lasciavano sul campo feriti e prigionieri, la cui sorte era quella di essere smembrati e mostrati come

trofei nei villaggi afghani dai nemici, che in questo modo accendevano gli animi dei riottosi e portavano al parossismo quelli dei guerrieri. I combattimenti si susseguivano ad incontri diplomatici per trattare una resa onorevole per gli inglesi, ma tutti gli accordi furono disattesi da Akbar che, durante un incontro con Macnaghten, lo prese prigioniero e dopo averlo decapitato e mutilato degli arti espose nel bazar i

suoi resti infilati ad un palo, con un cartello di scherno conficcato nel corpo. Durante una di queste battaglie gli inglesi fecero un’altra terribile scoperta. Il vecchio ed imbelle generale Elphinstone aveva finalmente preso una decisione: diede l’ordine ad un giovane generale di brigata di schierare la cavalleria attorniata da due quadrati di fanteria, se volevano uscire vivi da quella situazione dovevano rompere l’assedio al campo affrontando apertamente la cavalleria nemica. Era la tattica che Wellington aveva usato con successo a Waterloo. Ma gli afghani non caddero nel tranello. Si tennero a distanza ed iniziarono a sparare con i loro jezail su quelle due evidenti masse compatte di colore rosso, il colore delle giubbe inglesi, evidenti come un bersaglio in un poligono ed oltretutto situate ad una quota più bassa. Gli inglesi risposero al fuoco con i loro fucili Brown Bess che avevano una gittata minore degli artigianali jezail. Il jezail era un pesante moschetto artigianale di calibro rilevante, simile al Kentucky Rifle, a volte dotato di due lunghi sostegni ripiegabili sotto la volata che come un cavalletto permettevano di scaricare il peso dell’arma e facilitare la mira contro bersagli lontani stando in ginocchio; la sua gittata era di circa 200-250 metri contro i 100-120 metri dei fucili inglesi. Quando partì la carica della cavalleria afghana gli inglesi si voltarono per fuggire ma, richiamati dallo squillo di tromba dell’alt e grazie all’energico sangue

freddo del loro comandante, si ricompattarono e affrontarono gli afghani all’arma bianca. La disperazione diede loro forza: riuscirono a rintuzzare l’assalto e, protetti dall’artiglieria, a rientrare con ingenti perdite al campo mentre gli afghani facevano il loro barbaro scempio dei caduti, dei feriti e dei prigionieri. Mohammed Akbar Khan propose diverse trattative per trovare una via di uscita ad una situazione che per gli inglesi si faceva sempre più pesante ma gli accordi convenuti furono sempre disattesi. Alla fine Akbar decise che avrebbe lasciato partire gli inglesi, tenendo però come ostaggi alcune donne e bambini oltre che diversi ufficiali, garantendo che lui stesso avrebbe scortato il convoglio per impedire che fosse attaccato durante la lunga marcia invernale di rientro verso Jalalabad a circa centotrenta chilometri di distanza, dov’era situato un forte inglese. Dopo vari tentennamenti ed incertezze tutto il contingente inglese di Kabul il 6 gennaio 1842 riprese mestamente la via del ritorno ammantato dall’onta della sconfitta e dalla tristezza degli orrori vissuti. Nel frattempo Akbar chiese un incontro con il vile Shah Shuja che, atterrito dagli avvenimenti, accettò di parlare con una sua delegazione, ma solo nel piazzale della fortezza, dove era asserragliato e si sentiva sicuro. Si dice che Akbar fosse riuscito a infiltrare numerosi tiratori sui tetti delle costruzioni attigue al luogo dove si sarebbe svolto l’incontro e non appena l’imbelle re si mostrò all’aperto venne letteralmente crivellato da una poderosa scarica di jezail. Ma non finì qui. Il lungo convoglio di inglesi ed indiani con al seguito mogli, figli, balie, stallieri, servitori e cuochi era composto da sedicimila persone, di cui dodicimila civili e già mentre la sua retroguardia sfilava sotto le mura di Kabul gli afghani iniziarono a sparare contro di loro uccidendo e ferendo diversi inglesi tra urla di compiacimento e di scherno. Durante l’esodo Akbar non mantenne nessuna delle promesse fatte. Cavalcando alla testa dei suoi uomini precedeva il convoglio, aizzando le tribù dei villaggi che stavano per essere attraversati. Gli afghani si posizionavano sulle alture che sovrastavano il percorso e li colpivano con i loro fucili: solo nello stretto ed impervio passo di Khoord-Cabool vennero uccise oltre tremila persone. I loro cadaveri congelati, spogli di tutto, coprivano con le loro orride posture il percorso per chilometri. Gli ultimi dei numerosi gruppi in cui si era snocciolato il convoglio, i più deboli ed i feriti venivano trascurati dai guerrieri afghani, ma non per questo risparmiati: le donne dei villaggi li aggredivano e li castravano urlando di piacere mentre li guardavano morire dissanguati. Gli afghani si appostavano lungo le alture che circondavano il percorso ed attaccavano con i loro jazail in più punti, distanti tra loro, costringendo i componenti del convoglio ad ammassarsi per difendersi e diventando così un bersaglio ancora più facile. A volte le donne pashtun di alcuni villaggi di origine afride uccidevano in un modo atroce i soldati britannici ed i sikh che prendevano prigionieri: dopo averli presi a bastonate e legati, infilavano loro un pezzo di legno tra il palato e la lingua affinché tenessero la bocca aperta e non potessero deglutire. A questo punto le donne a turno si accovacciavano su di loro e urinavano nella bocca del prigioniero, fino a farlo morire affogato. Nel suo libro “Afghanistan. Ultima frontiera” Gian Micalessin, che insieme

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al suo collega ed amico Fausto Biloslavo è uno dei pochi giornalisti italiani ad avere una profonda e reale conoscenza delle realtà afghane, riporta una poesia di Rudiard Kipling che in pochi versi descrive l’orrore di quella che fu una vera

e propria mattanza. Dopo diversi giorni una vedetta del forte di Jalalabad scorse in lontananza un cavallo con in sella un corpo riverso. Era un membro del convoglio, il dottor William Brydon, medico inglese di Shah Shuja, a cui si deve la cronistoria di questo truce massacro. Fu l’unico dei 16 mila disperati a raggiungere l’avamposto di Jalalabad che per giorni

accese fuochi ed inviò inutilmente pattuglie nella speranza che arrivassero altri superstiti. Nei mesi successivi solo pochi membri dei reparti indiani riuscirono a rientrare in India dopo innumerevoli peripezie, forse risparmiati perché musulmani. Anche loro contribuirono alla cronistoria della terribile sorte del convoglio. Si salvarono solo quelle poche donne ed i bambini che insieme ad alcuni ufficiali politici erano stati tenuti in ostaggio da Akbar a Kabul e che riuscirono a liberarsi da soli dopo molti mesi e dopo avventurose vicende mentre venivano trasferiti a Bukhara per essere venduti come schiavi. La notizia di questa strage concluse la carriera politica di lord Auckland e sconvolse letteralmente Londra dove da pochi mesi si era installato un governo Tory (conservatore). Il nuovo governatore dell’India Lord Ellenborough era in viaggio quando accadde il disastro ed il suo incarico, quando lasciò Londra, era proprio quello di porre fine alla missione afghana: le relazioni piene di ottimismo di Macnaghten avvalorate dalla posizione di Lord Auckland avevano convinto la capitale inglese che fosse inutile tenere in vita un così dispendioso apparato militare di occupazione, essendo ormai l’Afghanistan sotto il sicuro controllo di Shuah Shah. Al suo arrivo Lord Ellenborough si trovò pertanto in una complessa situazione: doveva decidere se ignorare l’onta che si era abbattuta sulla credibilità militare dell’Inghilterra oppure organizzare una rappresaglia. Dopo vari tentennamenti, prese una decisione ambigua: Lord Auckland aveva già dato incarico al generale di divisione George Pollock di raggiungere Jalalabad e al generale sir William Nott di recarsi a Kandhar, per facilitare e proteggere il rientro dei contingenti inglesi ancora presenti in quelle città e di fatto sotto assedio. Lord Ellenborough ordinò ai due generali di rientrare ma lasciando a loro la decisone di passare per Kabul, molto più a nord, a centinaia di chilometri di distanza e totalmente fuori dall’itinerario per rientrare in India, scaricando così la responsabilità della scelta sui due ufficiali che, comprendendo la misera furbizia politica di quell’ordine, non aspettavano altro. I due eserciti si diressero con decisione verso Kabul, questa volta utilizzando senza riserve la non indifferente capacità militare dell’esercito di sua maestà che, non va dimenticato, all’epoca era forse il più organizzato e meglio addestrato al mondo. Lungo il percorso che dal passo Khyber portava

verso Jalalabd erano ancora visibili le tracce della strage di pochi mesi prima. Capitò che qualcuno tra i soldati riconobbe i resti di un amico, facendo salire ulteriormente una mal repressa voglia di vendetta. Questo orrido spettacolo che si proponeva per decine di chilometri tolse ai soldati inglesi ed indiani ogni freno inibitore e nonostante gli ordini ricevuti di non infierire sulla popolazione fecero terra bruciata di ogni villaggio che incontrarono sul loro cammino, compiendo vere e proprie azioni di rappresaglia al punto che molti ufficiali, impossibilitati a frenare questa ondata di vendetta e loro stessi inorriditi da ciò che non riuscivano a controllare, riferirono di avere al comando un branco di assassini. Gli eserciti di Pollock e Nott presero Kabul con facilità. Akbar era fuggito insieme a molti altri capi tribù a lui fedeli. Gli inglesi issarono l’Union Jack sulla Bala Hisa e si acquartierarono in attesa di sapere che fine avessero fatto gli ostaggi. Quando arrivò la notizia che erano tutti sani e salvi decisero di pareggiare i conti con la città di Kabul facendo saltare l’immenso bazar coperto, dove era stato esposto il corpo martoriato di Macnaghten. Fu un lavoro che impegnò per ben due giorni i guastatori inglesi che utilizzarono ingenti quantità di esplosivo. Nonostante fossero stati diramati ordini tassativi di non distruggere altre costruzioni e non compiere ritorsioni verso i civili, il prolungarsi di questa opera di distruzione diede via ad azioni di saccheggio e di violenze che coinvolsero in modo traversale non solo i soldati inglesi ma gli stessi afghani delle varie tribù. Fu questa, per gli Inglesi, la fine ingloriosa della prima tragica guerra afghana.

LE RIFORMECi sarebbero state altre due guerre anglo-afghane, la seconda (1878-1880) nata per un dissidio con il re Shir Alì che, filo-russo, si rifiutò di accettare l’invio di una missione britannica a Kabul e che come la prima fu sanguinosa e assai pesante per gli inglesi. La terza ed ultima guerra anglo-afghana ci fu nel 1919, subito dopo la Prima Guerra Mondiale, durante la quale i sentimenti avversi agli inglesi avevano portato l’Afghanistan per quanto neutrale, ad avvicinarsi alle posizioni tedesche e sancì dopo due secoli la fine de “Il Grande Gioco” proiettando l’Afghanistan verso la realtà odierna. Amānullāh Khān (1919-1929), che può essere considerato il fondatore dello stato afghano moderno, cambiò il suo status da Emiro a quello di Re ispirandosi alle monarchie costituzionali occidentali. Mise per primo in atto tutta una serie di riforme che posero fine all’isolamento culturale del suo regno, avendo come modello ciò che veniva fatto in Turchia da Mustafa Kemal Atatürk. Costruì le prime strutture istituzionali ed inviò molti giovani a studiare all’estero, facendo nascere così una nuova classe politica meno condizionata dalla religione ed aperta alle innovazioni. Lui stesso, nel 1927, compì un lungo viaggio visitando la Turchia e molte nazioni Europee. Le sue riforme furono sostanziali come l’abolizione per le donne dell’obbligo di portare il velo e l’apertura di scuole anche alle donne secondo concetti di istruzione laici. Nel 1919 approfittando della debolezza economica e militare dell’Inghilterra, uscita vittoriosa dalla Grande Guerra ma con l’economia a pezzi ed in preda, come del resto tutta

Quando sei feritoe abbandonatosu un pianoro afghanoe le donne sbucanoper fare a pezziquel che resta di te,rotola sino al tuo fucilefatti saltare le cervellae vai dal tuo Diocome un soldato.

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l’Europa, a grandi problemi sociali, dichiarò guerra all’India. Dopo alcune battaglie iniziali la guerra entrò in una fase di stallo e si concluse nel 1921 con il trattato di Rawalpindi in cui gli inglesi rinunciarono definitivamente al controllo sulla politica estera afghana e posero fine ai loro interessi nel paese. La data della sottoscrizione di questo accordo, 19 agosto, coincide con la Festa dell’Indipendenza afghana.Pochi mesi prima Amanullah aveva sottoscritto un trattato di amicizia con la Russia che fu una delle prime azioni di politica estera promosse da Vladimir Ilyich Lenin, a dimostrazione che anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre la Russia non aveva smesso di pensare di poter raggiungere l’Oceano Indiano e il mare arabico attraverso il passaggio obbligato dell’Afghanistan. Questo trattato sarebbe stato riesumato nel 1979 per giustificare l’invasione dell’URSS che di fatto apre la fase moderna della tragica storia afghana. L’anno successivo al trattato, il 30 dicembre del 1922, nacque l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che per crudele ironia della storia si sciolse ufficialmente il 26 dicembre 1991 in seguito alla crisi economica e politica innescata proprio dalla catastrofica invasione militare sovietica dell’Afghanistan terminata nel 1989.Tutta la storia afghana che dal 1717 arriva sino a questo trattato è naturalmente assai più vasta e complessa di quanto descritto in questo sintetico commento che ha la funzione di evidenziare la dicotomia che ancora influenza la vita dell’Afghanistan. Dicotomia generata dal desiderio e dalla necessità di riforme che si contrappongono ad un’interpretazione restrittiva e radicale dell’islamismo. Il popolo è ancora praticamente analfabeta, diviso in caste medioevali e governato da fasce di potere che gestiscono questi territori al di fuori di qualsiasi codice morale e giuridico come è inteso dai fondamenti base della Carta dei Diritti dell’Uomo ed in genere dalle democrazie di ispirazione occidentale. A questa interpretazione restrittiva di una shari’a integralista si contrappone una visione più laica delle attività sociali e di governo, portata avanti dalle classi più colte e sensibili ai mutamenti sociali ed alla evoluzione dei costumi che nel 1929, dopo la fine di Amanullah, procederà con alterne vicende sino all’insediamento di Mohammed Zahir Shah, salito al potere nel 1933 all’età di 19 anni, in seguito all’assassinio di suo padre. Durante il regno di Mohammed Zahir Shah il paese godette di un periodo di grande stabilità al punto che divenne per anni un’ambita destinazione per i turisti occidentali affascinati dalla storia e dalle bellezze di un

paesaggio forse unico al mondo. Zahir Shah aprì le frontiere a consulenti e docenti stranieri, fondò la prima moderna università e rafforzò le relazioni culturali e commerciali con l’Europa, cercò di modernizzare l’agricoltura e la zootecnia. Nel 1964 promulgò una nuova costituzione trasformando l’Afghanistan in una moderna democrazia con l’elezione del Parlamento a suffragio universale, emancipando il ruolo delle donne e allargando la soglia di accesso all’istruzione scolastica a vaste fasce della popolazione. Nel 1973, mentre si trovava in Italia per dei controlli medici, suo cugino e cognato, Mohammed Daoud Khan, all’epoca Primo Ministro, fece un colpo di stato militare trasformando l’Afghanistan in una repubblica e siglando un trattato con l’Unione Sovietica con l’intento dichiarato di costituire un esercito moderno e ricollegare all’Afghanistan i territori pashtun inglobati dal Pakistan, lo stato nato nel 1947 dalla separazione dall’India dei territori musulmani ed i cui confini, tuttora controversi, furono disegnati con l’aiuto degli inglesi. Zahir Shah dovette così abdicare e gli fu vietato di tornare in Afghanistan. Con lui ebbe termine la Dinastia Barakazai discendente da quel Ahmad Shah Durrani che nel 1747 per primo diede una parvenza di unità all’Afghanistan. Mohammed Zahir Shah ha vissuto in esilio in Italia sino al 2002, nel quartiere dell’Olgiata a Roma, sino a quando l’intervento militare di Enduring Freedom portò alla nascita dell’attuale Repubblica Islamica dell’Afghanistan di Hamid Karzai. E’ morto in Afghanistan nel 2007.Ma questa è già la storia di oggi.

KIM: UN LIBRO STRADINARIO SCRITTO DA UN UOMO STRAORDINARIO

Nel suo libro “Kim”, che a mio avviso è ben oltre che un romanzo per ragazzi e tuttora attuale e coinvolgente, Rudyard Kipling svelava per la prima volta al grande pubblico questa lunga, complessa e rischiosa attività di intelligence che da allora venne tramandata con il nome di “The Big Game”, la cui posta era per gli inglesi la difesa dell’India allargando i confini dell’Impero e, per i russi, la sua conquista. “Il Grande Gioco” fu condotto da uomini coraggiosi quanto sconosciuti che spesso pagarono con una morte atroce la loro audacia oppure scomparendo nel nulla, dispersi nell’immenso territorio afghano. Nel libro di Kipling il giovane Kimball O’Hara, detto Kim, è il figlio di un sergente di un reggimento irlandese e di una inglese residenti in India che rimane orfano nella prima infanzia e vive di sotterfugi e di piccoli furti come uno scugnizzo a Lahore, dove incontra un santone sceso dalle montagne del Tibet per trovare un misterioso fiume purificatore e di cui diventa il discepolo. Nel suo girovagare con il santone viene in contatto con un commerciante di cavalli che lavora per i servizi segreti inglesi e che lo inserisce nel mondo dello spionaggio. Si imbatte poi nel reggimento del padre da cui viene adottato e costretto ad andare a scuola per poi mettere a disposizione dell’intelligence inglese le sue capacità e la sua esperienza maturate attraverso molte affascinanti avventure, diventando così il simbolo letterario de “Il Grande Gioco”.

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iNcOMiNciaRe«… dopo le bombe deve sempre arrivare un soldatino con il suo bravo fucile in mano, ma attenzione, serve per prendere un territorio, non per dare la pace. Quella mi spiace, non è il mio lavoro.»Marco Bertolini (Paracadutista. Generale di Divisione)

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a sinistra - Arrivo a Farah, si nota la grande cerniera all’EH101 che permette il ribaltamento della coda

per lo stivaggio negli hangar delle navi. L’EH 101 è una macchina molto potente e maneggevole, forse la migliore in assoluto per operare sul mare, ma è sofisticata e nel teatro afghano subisce le pesanti

condizioni climatiche ed operative aggravate dall’invasiva presenza di una polvere sottile che si

insinua tra i meccanismi ed all’interno dell’avionica

in alto - In volo su un H 101 della Marina Militare da Herat alla FOB di Farah.

sotto - Il mitragliere di coda dell’EH101 una volta in quota di sicurezza rimuove la sua mitragliatrice

MG42/59 prima di chiudere la rampa.

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i cavalli dalle sue tre turbine e, raggiunta la quota di navigazione, il mitragliere di coda con complicate e laboriose manovre smonta la MG 42/59 e chiude la rampa, poi quando incominciamo l’avvicinamento alla polverosa pista in terra battuta di Farah con altrettante complicate manovre la riapre e rimonta la mitragliatrice. I due mitraglieri laterali rimangono invece ai loro posti con le armi cariche.Per un attimo rimpiangiamo la rude praticità dei CH47 e dei Blackhawk americani con cui abbiamo volato ed i cui gunners appena possono subito dopo il decollo sparano una raffica da tutte le armi per assicurarsi che, quando necessario e qui spesso lo è, siano pronte all’uso. A bordo del nostro velivolo c’è l’uomo di riferimento del generale David Petraeus al RC-W, è il Lt. Colonel Philipp Cuccia dell’US Army che una volta sbarcati ci invita amicando ad aspettare sotto la torre di controllo insieme ad un gruppetto di soldati americani e italiani di varie specialità che si capisce sono li in attesa di un qualche evento. Si sentono colpi di armi automatiche pesanti che provengono dai vicini monti a ridosso della pista, a est, dove c’è un poligono in cui gli americani si addestrano continuamente utilizzando come bersagli i numerosi relitti abbandonati dai sovietici. Ad un tratto il suono degli spari viene coperto dal rombo di un C130-J grigio scuro che immerso in un polverone frena azionando il reverse delle eliche. Il gruppo di cui ormai siamo parte integrante si anima. “Is the rock, is the boss!” esclama sorridendo una graziosa ragazza di colore con la divisa dell’US Army mentre estrae la sua macchina fotografica; infatti è proprio “The Rock”, come ben si legge sulla coda, è l’aereo tattico del generale David Petraeus che preceduto dalla sua squadra di sicurezza scende a lunghi passi dalla

AEROPORTO MILITARE DI HERAT- AFGHANISTAN 25 dicembre 2010.

Nonostante un cielo terso e luminoso fa molto freddo. Sono le 8 di mattina del giorno di Natale, siamo stati letteralmente scaricati presso l’hangar della Marina Militare da un caporale maggiore degli alpini che lavora presso il PIO e le cui doti principali non sono certo la simpatia e la disponibilità verso i giornalisti. Sono con il mio amico e compagno di missione, il fotoreporter Giuseppe Lami, dobbiamo trasferirci in elicottero a Farah e da li a Bala Baluk per partecipare ad un’azione militare di search insieme alla 2° Compagnia del Reggimento Lagunari. Siamo soli come due birilli in un biliardo mentre aspettiamo che qualcuno ci dica cosa fare. Pian piano intorno a noi si inizia a formare un gruppo di soldati di varie specialità con grandi zaini e contenitori dall’aria molto pesante, saranno i nostri compagni di viaggio. Finalmente arriva un ufficiale della Marina Militare con due membri dell’equipaggio dell’EH101 su cui dovremmo imbarcarci. Rapidi convenevoli e via, decollo. l’EH 101 fa una salita rapida tirando fuori tutti

The Rock (letteralmente: la fortezza) è il C130J con cui si muove insieme al suo staff il Generale David Petraeus. L’aereo è dotato di sofisticatissimi sistemi di comunicazione e trasporta naturalmente anche la sua scorta, composta da elementi selezionati.

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rampa del velivolo seguito dal suo staff ed accolto tra gli altri dal colonnello Giovanni Parmiggiani, comandante del Reggimento Lagunari “Serenissima” che ha il suo quartier generale proprio a Farah.Assomiglia ad Humphrey Bogart il generale David Petraeus ed anche se non avesse le sue four stars sulla mimetica si capisce perché è il comandante; emana un mix di grande simpatia ed autorevolezza mentre con spontanea semplicità distribuisce una medaglia ricordo grande come un fermacarte, con inciso il suo nome, a soldati americani ed italiani che si sono distinti per meriti; con tutti ha il tempo e la voglia di scambiare battute. A noi rilascia con grande disponibilità un’intervista in cui ci confida che ama l’Italia e stima i nostri soldati che combattono con gli americani shohna-ba-shohna che è l’interpretazione in Dari della frase shoulder-to-shoulder (spalla-a-spalla) e che qui è diventato il modo per descrivere la collaborazione sul campo con i soldati afghani. Ci tiene inoltre a precisare che lui ha iniziato la sua carriera militare proprio in Italia e che suo figlio è attualmente ufficiale ad Aviano.Il generale ha sempre al suo fianco un sottoufficiale, il Maj. Marvin L. Hill che nel suo staff è il Senior Enlisted Advisor (SEA) di fatto un suo assistente diretto che ha l’incarico di tenere i contatti con i soldati di cui è il portavoce ufficiale verso il Comando. Un ruolo che nelle Forze Armate USA è considerato di alto prestigio ed è sempre coperto da uomini che si

sopra - Il generale Petraeus viene ricevuto dal Lt. Colonel Philipp Cuccia dell’US Army che è giunto a Farah a bordo del nostro elicottero della Marina.

sotto - Il colonnello dei Lagunari Giovanni Parmiggiani, che ha il suo quartiere generale proprio a Farah, saluta il generale Petraeus; probabilmente il soldato con il più alto potere decisionale a livello mondiale.

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dirimpettaio di quello del sergente Wallace e diretto all’epoca dal maggiore degli Alpini Igor Piani:

“Bakwa è una delle aree dove maggiormente si concentrano gli sforzi degli italiani nell’implementare la sicurezza, di concerto con i militari afghani. Sicurezza che i cittadini percepiscono di giorno in giorno e che va di pari passo con la fiducia nel lavoro delle forze di coalizione. E questo grazie anche all’impegno degli italiani e del personale di RC West che incrementano giorno per giorno lo sviluppo di attività di cooperazione.”

Questo che segue è il commento in merito ai due comunicati tratto dal blog panorama.it del 12 gennaio 2011 a firma di Gianandrea Gaiani: “(nel comunicato italiano)… scompaiono quindi le “attività cinetiche”, cioè i combattimenti, e scompare anche il nemico, gli insurgents, concetti evidentemente da smorzare agli occhi del pubblico italiano notoriamente all’oscuro del fatto che in Afghanistan è in corso una guerra. In compenso nella versione italiana compaiono frasi puramente

sono particolarmente distinti per le loro attitudini di combattenti e di leader. È una figura che non esiste nel nostro Esercito e che potrebbe essere paragonato al decano, il sottoufficiale più anziano, seppure con molte differenze. Dopo l’intervista il generale si dirige insieme al suo staff verso lo stesso elicottero della Marina Militare da cui siamo appena sbarcati che decolla scortato da due A129 Mangusta; va a Bakwa, ai confini con la provincia dell’Helmand ad incontrare l’allora Capo di Stato Maggiore italiano, il generale Vincenzo Camporini. L’avvenimento venne ricordato dal seguente comunicato diramato dall’Uffico Stampa USA a Herat, scritto dal sergente dell’US Air Force Kevin Wallace, che all’epoca lavorava presso l’ufficio PI di Herat: “Bakwa è una delle aree più instabili nel Regional Comand- West, e i militari stanziati in questa zona spesso ingaggiano combattimenti con gli insorgenti. Tuttavia, come nel resto del RC.W, anche a Bakwa molte iniziative di sviluppo e di cooperazione civile-militare continuano a migliorare la situazione”.Ma l’avvenimento venne ricordato anche da questo altro comunicato stampa diramato dal Public Information Officer italiano di Herat, praticamente

ll generale David Petraeus mentre saluta un soldato italiano a cui sta per consegnare una medaglia per meriti. Al suo fianco c’è il Maj. Marvin L. Hill, il suo Senior Enlisted Advisor, un sottufficiale con l’incarico di rappresentare le esigenze della truppa all’interno dello Stato Maggiore, una figura chiave e di altissimo prestigio nell’organigramma militare USA.

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propagandistiche che tendono e evidenziare il consenso della popolazione afghana, peraltro non suffragato da dichiarazioni, informazioni o dati che lo confermino.”

Questo è il poco edificante retaggio della consegna del silenzio imposta dal Ministero della Difesa agli addetti stampa militari in missione durante l’ultimo governo Prodi e che l’attuale governo Berlusconi non è riuscito o non ha voluto modificare. Perché la verità che galleggia in mezzo a questi due contradditori comunicati stampa è che gli Italiani già dal 2008 hanno iniziato ad operare militarmente sempre più lontano da Herat e si stanno spingendo a sud sino ai distretti di Bakwa e del Gulistan dove nel 2010 erano già morti 6 militari italiani, ma l’Italia sembra non debba saperlo. Gianandrea Gaiani conclude così il suo commento: “…numeri alla mano, si tratta dell’area più pericolosa nella quale le truppe italiane abbiano mai operato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, una regione situata ad appena 70 chilometri dal distretto di Sangin (provincia di Helmand) dove il tasso di perdite tra le truppe alleate è 12 volte più alto della media. Dove, per intenderci, sono morti un centinaio di soldati

britannici in quattro anni e 30 marines statunitensi dal luglio scorso”. In questa contraddizione c’è la conferma di come la casta politica italiana gestisce la comunicazione dai teatri dove operano ed a volte restano feriti e muoiono i nostri soldati. Per l’opinione pubblica muoiono per caso, come se attraversassero la strada sulle strisce pedonali e con le mani piene di pacchi regalo, investiti da un pirata della strada. Non muoiono mai in combattimento, parola attentamente cassata nelle comunicazioni ufficiali come guerra, scontri a fuoco, reazione, eliminazione di insorgenti ostili, numero degli insorgenti colpiti a morte, feriti e così a seguire. I nostri soldati per una certa comunicazione, che mira essenzialmente a salvaguardare il consenso elettorale, hanno le giberne virtualmente piene di cioccolatini e le soldatesse sono addestrate a prendere bambini in braccio.

L’INTERVISTAAL GENERALEDAVID PETRAEUSè VISIBILE SU qUESTO SITO

Il gen Petraeus si imbarca sull’EH101 della Marina Militare per raggiungere Bakwa dove

incontrerà il Capo di Stato Maggiore Italiano, il gen. Vincenzo Camporini. Da questo incontro nascerà il controverso comunicato stampa di cui si parla

nell’articolo.

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QUesTaRaDiO

È UN’aRMa

FOTO DI ALESSANDRO TENAGLIA

Herat, luglio 2011Questa radio è un’arma e come tale ha effetti devastanti, paragonabili a numerose raffiche

da cambio canna di una MG42/59. Queste le caratteristiche tecniche: dimensioni palmari, alimentata a celle solari o da una dinamo a manovella, ha una torcia incorporata e se

collegata ad un cellulare è in grado di caricarlo. Può essere sintonizzata su varie stazioni radio, del resto negli ultimi anni in Afghanistan ne sono sorte decine, ed è distribuita dal

28° Reggimento Comunicazioni Operative “Pavia” che a Herat gestisce la radio SADA E AZADI WEST. Invece che pallottole cal. 7.62 NATO radio SADA E AZADI tramite quest’arma

che viene distribuita gratuitamente, spara informazioni e musica, affronta argomenti considerati tabù dagli insorgenti ma molto apprezzati dalla gente «comune» e dalle donne

afghane, quella stessa gente che ha capito che la missione dei soldati di ISAF serve per porre fine alla «guerra» che almeno una dozzina di bande armate ha posto in atto per

il controllo del territorio afghano a discapito proprio della gente «comune». Il 28° Rgt. “Pavia” è in pratica un reparto specializzato in psy-ops ed oltre alla radio qui al RC-West

gestisce un sito web e numerose altre attività di comunicazione come per esempio la redazione e la stampa di volantini e pubblicazioni di vario tipo. Insieme ai combat

camera della Folgore hanno tenuto un corso video per i militari afghani che hanno realizzato dei corti , in realtà più che pregevoli, per mostrare agli afghani un’altra

faccia della medaglia. Oltre a personale dell’Esercito italiano ci lavorano giovani afghani di entrambi i sessi e ufficiali italiani della Riserva Selezionata.

E’ la dimostrazione che l’informazione è un’arma, molto, molto potente ed il suo risultato si chiama libertà, che è la base

primaria di quella cosa di cui tutti parlano e pochi conoscono che si chiama democrazia.

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Pattuglia lungo la Ring Road

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Mitragliere di un ‘‘Black Hawk’’ Statunitense, in volo

sulla valle del Gulistan

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Momenti ‘‘caldi’’ durante una pattuglia lungo la Ring Road

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Controlli in un compound alla ricerca di sospetti insurgents

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Rivelamento dati biometrici (scansione retina) di un sospetto

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Colonna di veicoli dell’Esercito Afghano sulla Ring Road

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Ring Road a nord di Delaram: minex della XXI Compagnia Giaguari dell’8° Rgt. Guastatori

Paracadutisti di Legnago durante attività di cleaning (ndr. ripresa durante una reale attività,

i miltari non sono in posa..)

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UN BaMBiNO cHiaMaTOaMDUllaHProvincia di Farah, Afghanistan-Natale del 201027 dicembre 2010, oggi lasciamo Farah per raggiungere la FOB di Bala Baluk, distante una settantina di chilometri e presidiata dalla 2a Compagnia del Reggimento Lagunari, con i quali nei mesi passati avevo già condiviso un’esercitazione nella laguna veneta. Questa di oggi non è un’operazione di scorta ad un convoglio per il trasporto di materiali o di carburante, è una compagnia di Lagunari in assetto tattico che va a rinforzare un’altra compagnia per un’operazione militare. Nei due giorni precedenti, il 25 e 26 dicembre, i meccanici della FOB di Farah avevano lavorato senza sosta per mettere i Lince ed i Dardo in condizioni ottimali per affrontare la missione, mentre i Lagunari coinvolti nell’operazione facevano continue riunioni a tutti i livelli e preparavano l’equipaggiamento e le armi.Sarà politicamente scorretto ricordarlo, ma quella della Serenissima Repubblica di Venezia è una storia continua di conflitti con il mondo islamico, che ebbe il suo trionfo epocale nella definitiva battaglia di Lepanto, che pose fine all’espansione musulmana in Europa. I soldati del 1° Reggimento Lagunari “Serenissima” si considerano, ed a ragione, i discendenti dei Fanti da Mar dell’antica Repubblica e sono molto orgogliosi della loro storia e del significato dei simboli del loro MAO, con l’effige del leone di San Marco in bella evidenza. Per evitare ogni dubbio sulla loro storia e sulla loro specialità anfibia hanno trasportato da Venezia all’Afghanistan le ancore dei loro mezzi da sbarco, anche quelle storiche: ci hanno ornato gli angoli dei vialetti tra le tende del Comando e due di queste ancore, di notevoli dimensioni, vigilano l’entrata della tenda del comandante il Reggimento, il colonnello Giovanni Parmiggiani. Questi strani arnesi hanno suscitato grande curiosità tra i soldati afghani,

“…portiamo cibo, coperte, speranze e qualche sogno in più.”Dalla canzone de I Nomadi “Senza Nome” dedicata al maresciallo del CIMIC Giovanni Pezzulo assassinato in Afghanistan nel 2007

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Territori a est di Farah, Lagunari duranteun’attività di key leader engagement.

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Il gruppo tattico di rinforzo alla 2° Compagnia Lagunari in partenza da Farah per la FOB Tobruk a BalaBaluk.

sotto - I Lagunari con cui condivideremo il lungo e rischioso trasferimento nel deserto ci danno il benvenuto.

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che non avevano mai visto un’ancora e pensavano fossero armi sconosciute. Ma questi soldati da Venezia hanno anche portato quaderni, matite, abbigliamento ed altre cose, raccolte dai loro famigliari e dall’Associazione Lagunari, perché fossero distribuite dai loro putei nei villaggi durante le pattuglie.Lo scopo di questo massiccio trasferimento di uomini e mezzi è quello di rafforzare l’avamposto di Bala Baluk per sostenere e proteggere, insieme alla 2° Compagnia, un’unità dell’ANA (Afghanistan National Army) in un’azione militare di clear, ossia di ripulitura di un villaggio dalla presenza di insorgenti. Contrariamente a quanto la stampa nazionale riporta in termini generici, i talebani sono solo una delle numerose fazioni che contendono il controllo del territorio al Governo centrale, gli altri, quelli che ISAF definisce genericamente come “insorgenti” sono bande di estorsori, taglieggiatori, predoni di strada, trafficanti di armi e di droga, spesso in lotta tra loro e dotati di grandi risorse economiche godendo di protezione e aiuti a vari livelli, anche in vari stati

confinanti con l’Afghanistan: insomma, un vero ginepraio.

La colonna è costituita da numerosi Lince che trainano un piccolo rimorchio ed è scortata da due carri leggeri VCC80 Dardo che grazie alla loro blindatura e soprattutto al cannone Oerlikon KBA da 25/80, asservito da un sofisticato sistema di tiro, possono fare la differenza in caso di un’imboscata durante il trasferimento, ma che saranno anche un ulteriore deterrente per la missione che ci aspetta. Appena la colonna inizia a muovere da Farah arrivano dei warning dall’intelligence che segnalano la presenza di IED lungo la Strada 517 e così la colonna si sposta su un percorso alternativo lungo il deserto, una strada virtuale, identificata solo dai GPS, chiamata convenzionalmente Federica. Immaginate decine di mezzi blindati e carri leggeri con al seguito due camion con carburante, munizioni, vettovaglie e attrezzature varie che si spostano lungo il deserto in una zona ostile e adatta ad imboscate. Un trasferimento di oltre sei ore di fuoristrada pesante, nel caldo e poi nel freddo, con i soldati in ralla sempre concentrati sul loro angolo di tiro e sempre esposti alle intemperie, sballottati di continuo, perennemente avvolti in una polvere leggera e soffice come talco che penetra dovunque. Durante la Prima Guerra del Golfo gli americani avevano in dotazione nel loro kit da combattimento, forse confezionato da qualche buontempone, delle confezioni di preservativi che vennero riciclati per proteggere la volata delle canne dei fucili e delle mitragliatrici dalla polvere. I nostri ne sono privi ed allora sigillano la canna delle MG e delle Browning con piccoli cappuccetti di stoffa tenuti con lo scotch e ad ogni sosta un po’ più lunga spazzolano con un pennello asciutto le parti mobili dell’arma, mentre i fucili AR 70/90 della Beretta, spesso sottovalutati rispetto ad armi più blasonate, hanno dimostrato di resistere senza problemi alle condizioni ambientali afghane. Il Lince, o San Lince come lo chiamano in molti per quante vite ha salvato, ha degli spazi ristretti ed è pieno di spigoli e bulloni a vista che sorreggono la gabbia di sicurezza, insomma non è il massimo della comodità. Mi trovo legato come un salame con la cintura a cinque punti ai piccoli seggiolini corazzati, appesantito dal giubbetto antiproiettile e dall’elmetto e cerco di non mostrare il disagio e la fatica ai giovani Lagunari che mi ospitano e che mi raccontano delle loro esperienze. Il ragazzo in ralla prima di iniziare il movimento mi indica la disposizione delle cassette di munizioni della sua Browning 12.7 situate alla mia sinistra e, sicuramente al di fuori di qualsiasi direttiva, mi spiega rapidamente cosa devo fare se dovessero servirgli. Sono stato promosso a tutti gli

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effetti membro effettivo dell’equipaggio del mezzo con cui condivido tutto, dall’acqua ai rischi. Durante il trasferimento, attraverso la radio criptata, veniamo a sapere che lungo la Strada 517 da noi evitata e chiamata e non certo per caso la strada della morte, il Genio ha trovato e disinnescato tre IED destinati alla nostra colonna, probabilmente scoperti dai Predator o dagli AMX, mentre su un quarto è saltato un pick up dell’ANA, uccidendone gli occupanti; gli afghani sono meno scientifici di noi negli spostamenti e nonostante la continua attività di formazione dei nostri mentors e le riunioni interforze, fanno poi di testa loro, con conseguenze catastrofiche e spesso mortali.

Questa strada virtuale, che è tracciata solo sui navigatori satellitari dei mezzi, non ha tenuto conto di una variabile imprevista: nelle vicinanze di molti piccolissimi villaggi dei contadini sono stati aperti numerosi, piccoli ma lunghissimi canali per irrigare i campi, un ostacolo da nulla per i nostri mezzi, ma una barriera invalicabile per la filosofia che sostiene la coalizione ISAF ed i nostri lagunari. Attraversarli

significherebbe distruggerli ed allora la colonna inizia la ricerca di nuovi percorsi, anche su indicazioni del Predator che invisibile e silenzioso con i suoi occhi elettronici controlla dall’alto tutto quello che succede intorno al convoglio. Man mano che scendono le tenebre, a causa di questi continui cambiamenti di percorso che ci fanno viaggiare a zig zag, la tensione aumenta; si procede a fari spenti e tutte le manovre si svolgono con i visori notturni, mentre l’abbigliamento che era troppo caldo per il giorno diventa insufficiente per il freddo notturno del deserto con la temperatura che inizia ad avvicinarsi allo zero. Finalmente dopo circa sei ore di viaggio rientriamo sulla 517, a pochi chilometri dall’innesto con la Ring Road, dove presso un check point c’è una staffetta dell’esercito afghano che ci aspetta. Arriviamo alla FOB Tobruk di Bala Baluk che è notte fonda, non si vede proprio nulla ma si capisce subito che chiamare questa base FOB sa quasi di ironico. In realtà è un piccolo avamposto per una compagnia di fanteria leggera, esposto ai tiri curvi degli insorgenti che ciclicamente tirano qualche razzo o sparano qualche colpo di AK47 e forse di Dragunov,

sotto - La Fob Tobruk di Bala Baluk è tutta qui!

a destra - Ultimi chiarimenti prima di partire per una key leader engagement. La temperatura è ancora sotto lo zero.

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per fortuna senza una mira adeguata. La notte la temperatura scende notevolmente sotto lo zero ed io e Giuseppe passiamo la notte in tenda avvolti da un freddo gelido perché manipolando il sistema di riscaldamento lo abbiamo mandato in tilt.Sveglia all’alba ma niente lavatina a viso e mani, i rubinetti sono gelati, bisogna attendere che il sole compia il suo lavoro. Bala Baluk è un insieme di piccole tende organizzate per accogliere poco più di cento soldati già in condizioni di disagio che, all’improvviso, ha visto raddoppiare la presenza di mezzi e uomini. È molto vicino al villaggio, uno spiazzo di poche centinaia di metri la divide, a nord, dalla scuola, mentre ad est è a ridosso del piccolo campo americano che a sua volta lo è a quello degli afghani e il cui perimetro coincide con la Ring Road. Alcune mesi prima gli insorgenti si erano impossessati di un pick-up dell’ANA dopo averne ucciso i soldati e qualche giorno dopo, questo stesso pick-up, imbottito di esplosivo e con due suicidi a bordo, ha sfondato il varco di ingresso della base afghana e si è diretto a tutta velocità contro la loro caserma, in muratura,

ma è esploso senza arrecare seri danni in mezzo al piazzale, crivellato di colpi dai soldati afghani. La carcassa sta ancora li, come monito. A sud, c’è il varco di ingresso alla zona italiana, molto ben protetta e forse superabile solo da un grosso camion da cantiere o da una pala meccanica; proprio per questa eventualità i posti di guardia sono muniti anche di panzerfaust, è sempre meglio prevedere che piangere. Il campo di tiro a sud è limitato da una costruzione che qui chiamano russian hotel, una ex caserma sovietica abbandonata e tuttora interamente trappolata con una logica così sofisticata che anche i nostri genieri, che sono veramente dei fuoriclasse, hanno desistito da bonificarla, ma prima o poi qualcuno dovrà pur fare qualche cosa perché è come una gigantesca bomba innescata da venti anni a ridosso della strada, del villaggio ed ora delle basi. Sempre a sud c’è un motel dove sostano i camionisti e altri viaggiatori che si avventurano per la Ring Road, dove possono dormire con i mezzi al sicuro e comprare carburante, cibo e rifornirsi d’acqua, il suo evidente successo commerciale è una dimostrazione palese dei successi

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sotto - Non è codificato da nessun ordine, ma è un’usanza diffusa tra tutti i nostri soldati: rinunciare parzialmente alla razione di “merendine” per distribuirle ai bambini dei villaggi in cui si va ad operare. È difficile solo immaginare il livello di miseria globale dei piccoli villaggi sperduti. Lo stato di ignoranza e di miseria è la vera arma con cui gli insorgenti sottomettono la popolazione.

a destra - Il tenente colonnello medico Andrea Polo mentre cura il piccolo Amdullah.

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sul piano militare e dello sviluppo della missione ISAF.I rifornimenti arrivano alla base a bordo di camion civili da nord o risalendo da sud la direttrice del passo di Chaman, ai confini con il Pakistan, attraversando la provincia di Helmand e sempre con grandi pericoli, scortati dall’esercito o dalla polizia afghana che organizzano lunghi convogli per impedire le frequenti estorsioni che per gli insorgenti sono la più grande fonte di reddito e per il controllo delle quali, quando non ammazzano i camionisti, non esitano ad ammazzarsi tra di loro, nel più puro stile mafioso. A Bala Baluk, era il periodo di Natale, non c’era il pane, il caffè, il latte, la marmellata, i dolci, la birra ed il vino. Le razioni, per quanto cucinate benissimo dal capo cuoco della FOB, un simpatico e risoluto lagunare con l’aspetto di un amico di Conan il Barbaro e chiamato da tutti Bulldozer per la sua energia e determinazione, erano veramente scarne. Il convoglio civile con le derrate alimentari era bloccato da giorni da qualche parte del calderone afghano.

L’unico posto dove potevamo sostare senza rompere le scatole ai preparativi per l’operazione militare era la tenda adibita a mensa o la piccola tenda del pronto soccorso che dispone di un collegamento internet, ospiti del tenente colonnello Andrea Polo, il medico della base, una personaggio veramente interessante, con cui stringiamo amicizia.Un pomeriggio mentre utilizziamo il collegamento internet chiamano dal posto di guardia avanzato: è arrivato un ospite inaspettato.Da lontano vediamo il comandante della forza di reazione rapida che protegge il campo, che perquisisce due uomini barbuti con un bambino in braccio e poi li saluta amichevolmente: si conoscono.L’uomo più giovane si chiama Amir, due mesi prima aveva compiuto un atto di coraggio per amore di suo figlio Hamdullah, creando allo stesso tempo scompiglio tra le fila degli insorgenti della zona, piene di occhi ed orecchi, presentandosi davanti ai varchi protetti della base.Amir cercava di spiegare al corpo di guardia che suo figlio stava male, non camminava, aveva la febbre,

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non mangiava mentre il piedino destro del bambino deformato era totalmente devastato da una piaga purulenta. Stava chiedendo aiuto, Amir, una cosa rara per gli afghani, era teso lui stesso non in buona salute e con un vistoso tremolio del corpo, sapeva che rivolgersi agli infedeli può provocare vendette e ritorsioni, ma l’amore per il figlio, in questo luogo del mondo dove la vita può non valere nulla, è stata più forte della paura e del dogma. Il comandante della base il Tenente Colonnello Puce capisce la valenza politica di quella visita, che rappresenta un atto di affrancamento dal pregiudizio che il territorio, sotto il ricatto della vendetta degli insorgenti, ha nei confronti dei soldati ISAF.Andrea Polo e i suoi ragazzi rimangono colpiti da questo bimbo di circa 5 anni e dall’angoscia del padre, lui stesso malato e denutrito, che per portarlo lì ha sicuramente superato dubbi e timori e cinque chilometri di deserto a piedi e con il bimbo in braccio. Hamdullah ha un sasso incistato nel piede ormai totalmente deformato, non si lamenta neppure più, l’infezione si è sparsa per il corpo, è un fagottino

senza forma che respira sempre più piano, se non si interviene subito in qualche modo ha ormai le ore contate. Quello che per un medico militare come Andrea Polo, con l’esperienza del veterano di decine di missioni nei luoghi più disgraziati del mondo, dove ha visto cose che non si vorrebbe neppure pensare, sarebbe un intervento di normale amministrazione. Ma per quel fatto misterioso che scatta negli Uomini nei momenti più strani, si trasforma in un atto di amore che rapidamente dilaga per tutta la 2a Compagnia del Reggimento Lagunari Serenissima, di presidio all’apparente immenso nulla che circonda la FOB di Bala Baluk. I Lagunari che dormono in tenda sotto cieli gelidi, che trascorrono le feste di Natale in armi, senza latte, dolci e caffè, che si beccano ogni tanto qualche RPG e molti dei loro Lince hanno il “ricordo” delle 7,62×39 sulla scocca, sparati per ucciderli, che vivono lontano da tutto e da tutti, adottano coralmente Amdullah. ll bambino viene curato e nutrito, così il padre, che incomincia a rispettare sempre con maggiore precisione gli appuntamenti per le cure successive. Il tenente colonnello Andrea Polo scopre

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Un’altana della FOB di Bala Baluk, i blindo vetro per proteggersi dal vento gelido sono stati recuperati dai lagunari da alcuni Lince dove, come si può ben vedere, avevano assolto ben altra funzione protettiva.

sotto - L’ormai novantenne Browning 12.7 è ancora un’arma potentissima e molto precisa, soprattutto con l’uso del nuovo munizionamento; questa mitragliatrice pesante è ancora talmente valida che non è ancora prevista la sua sostituzione!

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che c’è un problema più grave, una probabile massa tumorale spinge sul midollo spinale di Hamdullah che richiede così cure ed indagini cliniche superiori alle potenzialità del campo e dell’Afghanistan. Scatta un piano per trasferire Hamdullah in Italia ma in Afghanistan non esiste l’anagrafe, comporre documenti di espatrio è complicatissimo coinvolgendo la burocrazia del Governo centrale di Kabul. Servono inoltre i fondi necessari per il viaggio del piccolo e del suo accompagnatore che dovranno stare in Italia per almeno sei mesi. Il motto dei Lagunari canta Come scoglio infrango come onda travolgo e di fatto non si bloccano di fronte a nulla e da quel lembo di terra nel deserto afghano, che non è segnato neppure sulla mappe di Google, cercano di superare tutti i cavilli e gli ostacoli burocratici, si tassano, contattano altri Lagunari e la loro Associazione in Italia che a lo volta si mettono all’opera. Domando ad un ragazzo campano che in questa storia ha avuto un ruolo, perché tutto questo impegno. Lui mi guarda incuriosito e poi mi risponde: “mica siamo Lagunari per caso!”. Hamdullah sta ora meglio, dovrebbe partire per l’Italia, Andrea Polo l’ufficiale medico di Bala Baluk che nella sua vita ne ha viste di tutti i colori gli ha dedicato una poesia, è convinto che ce la farà. La storia di Hamdullah è tutta qui. Certo non cambierà le sorti dell’Afganistan ma ha segnato tutti coloro che vi hanno avuto un ruolo, anche marginale, come il mio o quello di Giuseppe. Spargendosi nei villaggi del distretto questa storia ha però creato un piccolo problema: ogni giorno davanti ai varchi di Bala Baluk arriva qualcuno che vuole farsi visitare dal medico infedele suscitando odio e rabbia tra gli insorgenti, perché se con le armi si vince la guerra, con la fiducia si conquista la pace.Quando sono rientrato in Italia qualcuno mi ha domandato perché ho speso le mie feste di Natale e Capodanno in Afghanistan; a volte evado la risposta.Per molti è impossibile capire come una simile esperienza sia come una grazia, senza prezzo.

UN’APPENDICE AMARAMesi dopo incontro in Italia un Lagunare abruzzese, che avevo intervistato per il TG3 Abruzzo e gli chiesi di Amdullah. Nelle settimane successive alla storia che ho appena raccontato le visite di Amir con suo figlio Hamdullah si sono fatte sempre più rare, poi nulla. il tam tam messo su dai servizi di intelligence dei Lagunari lanciano un messaggio: Amir era stato pesantemente minacciato, il suo gesto coraggioso e libero aveva creato notevoli problemi ai locali “mascalzoni della guerra” che avevano visto il loro potere, basato sulla vessazione, la violenza ed il conseguente terrore, minato da un inaspettato avvicinamento della popolazione agli infedeli che, proprio in seguito a questo episodio solo apparentemente marginale, venivano accolti dai capo

villaggio con disponibilità sempre maggiore. Altri afghani avevano incominciato a frequentare sempre più frequentemente il pronto soccorso del tenente colonnello Andrea Polo come se fosse un ambulatorio della ASL. Una mattina all’alba un assetto di lagunari si reca a bordo dei propri Lince verso il villaggio di Amir, che li riceve terrorizzato; i lagunari scoprono alcuni IED intorno alla sua casa ed alcuni rimangono li per proteggere lui e la sua famiglia. Ma è una situazione non gestibile e si cerca di parlare con il capo villaggio per uscire fuori da questa situazione. Dopo alcuni giorni di guardia i Lince rientrano. Di Amir e del bambino Amdullah non se ne è saputo più nulla, come granelli di polvere mossi dal vento.

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Herat, luglio 2011Siamo ritornati in Afghanistan, vogliamo andare a vedere cosa succede a Bakwa e in Gulistan dove solo pochi civili hanno messo piede, abbiamo avuto il via libera formale dai vertici di SMD a Roma ma l’ultima parola spetta al comandante del RC-W, il Generale di Brigata Carmine Masiello che la sera stessa del nostro arrivo ci invita a cena con il suo staff nel più esclusivo

“ristorante” di tutta la provincia di Herat: il covo del “suo” 185° Reggimento Paracadutisti RAO Folgore che tra gli altri incarichi ha anche il compito di scorta e protezione dello stesso Generale e del suo Stato Maggiore. Sono tutti ragazzi molto simpatici quelli della scorta, sempre con la mimetica a puntino e il basco amaranto che sembra fissato alla testa con la colla, ma evidentemente tosti. Il loro comandante, il Luogotenente Marco Messina, è romano, una faccia da chi sa essere prima di tutto duro con se stesso, educato nei modi e con bel portamento marziale, per farsi ubbidire lancia sguardi come frecce e fa brevi cenni. Ha iniziato la sua carriera insieme a quella del “suo” comandante, quando il generale Masiello era ancora un tenentino. Insomma tutti bravi

figli di mammà questi ragazzi, però se sei un pizzico furbo capisci subito che non sono tipi con cui litigare. Il covo è in realtà un gruppo di container dove dormono i paracadutisti e con una lunga tavolata a ridosso di un muro di protezione ed un forno artigianale per cuocere la pizza. Ci alziamo da tavola con un dubbio e con una certezza. Il dubbio, poi per fortuna dissolto, è che non sembra riusciremo ad andare a Bakwa e neppure a Bala Mourghab, troppo pericoloso per la nostra incolumità ci dice il generale. La certezza è che se quelli del 185° combattono come fanno la pizza per un eventuale nemico non c’è scampo. Come avranno fatto a far lievitare così la pasta, cuocerla a dovere con tutti gli ingredienti giusti credo rimarrà un segreto militare insoluto!

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a sinistra - L’entrata del Quartier Generale multinazionale dell’ RC-W (Regional Comand West) di Herat a Camp Arena, comandato dal generale della Folgore Carmine Masiello; come tutta la

base è costituito da container abitativi, nonostante l’aspetto di provvisorietà all’interno di questi spazi operano i responsabili delle operazioni militari, della logistica, dell’amministrazione e

dell’intelligence che coordinano su un terreno vasto come l’Italia del Nord i movimenti tattici di circa 8 mila uomini.

sotto – Il generale Carmine Masiello, comandante del RC-W insieme al nostro Antonello Tiracchia. Il parà alle loro spalle è il comandante della scorta del generale, il luogotenente Marco Messina.

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L’AZIENDA

Blackhawk nasce nel 1993 dall’idea dall’ex istruttore dei Navy SEAL Mike Noell. Il Gruppo ha costruito la sua reputazione mondiale varcando i limiti del design e dell’innovazione tecnologica, per poi applicarli ad una serie di nuovi prodotti ed equipaggiamenti specifici per il Military ed il Law Enforcement. L’obiettivo che l’azienda si era prefissato, che tutt’oggi insegue, è quello di contribuire a migliorare l’efficienza e la fiducia dell’operatore, parametri fondamentali nel completamento di ogni missione. Infatti, molto importanti e decisivi, sono i feedback riportati dalla stretta collaborazione con l’utente finale. BLACKHAWK è leader nella produzione di tactical gear, protezioni balistiche, prodotti per forze di Polizia, fondine, sistemi d’idratazione, guanti di protezione, abbigliamento e calzature, coltelli, strumenti d’illuminazione, strumenti d’effrazione, calciature per armi destinate alla riduzione del rinculo da sparo. BLACKHAWK ha sede a Norfolk, in Virginia, con impianti produttivi in Nord Carolina, Montana ed Idaho ed è certificata UNI EN ISO 9001-2000.

STRUTTURA ESTERNA

La struttura della fondina è composta da un guscio termoformato, avente uno spessore costante di

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Blackhawk! SERPa TEcNologY holSTER SYSTEM

Di FABiO ROSSi - FOtO Di Michele FARiNetti

SEMPliciTàE ModulaRiTà all’ENNESiMa PoTENza

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circa 3 mm. Essa viene realizzata utilizzando una particolare miscela di fibre di carbonio, di cui l’azienda detiene l’esclusiva e la proprietà. Questo polimero le conferisce eccezionali caratteristiche di leggerezza, resistenza all’usura, allo stress da deformazione, inalterabilità agli sbalzi termici caldo/freddo ed un’alta resistenza al contatto con sostanze chimiche e solventi. L’interno del guscio è rifinito con una lucidatura delle superfici per agevolare lo scorrimento dell’arma, sia verso l’interno che verso l’esterno. Tutta la minuteria utilizzata è in acciaio, con disegno “a stella” e finitura nichelata nera. La fondina è disponibile nei classici colori black, olive drap, foliage green, coyote tan e su richiesta del committente, anche in colorazione white.

COMPATIBILITA’ E FINITURA

La SERPA viene stampata per contenere al suo interno la maggior parte delle armi corte reperibili sul mercato mondiale, sia pistole che revolver, com’è possibile constatare nelle precise tabelle riportate nel voluminoso catalogo o nelle pagine del sito internet www.blackhawk.com. E’ distribuita in tre configurazioni, la Concealment, con livello di protezione 2 ed un design essenziale, che lascia in parte scoperto il carrello dell’arma; la Duty, con livello di protezione 2 ed il carrello completamente coperto sino all’altezza della tacca di mira dell’arma; la Duty, con livello di protezione 3 che riunisce ed esalta tutte le caratteristiche di sicurezza. E’ disponibile una versione, avente un particolare design maggiorato, che permette di poter alloggiare armi equipaggiate d’illuminatore tattico “Xiphos NT

Light”, commercializzato dalla stessa azienda. Non ultima la versione progettata per ospitare i dispositivi “less than letal” Taser X26, anche abbinati alla videocamera di registrazione, fornita come optional. Il particolare disegno di quest’ultimo modello inserisce automaticamente la sicura del Taser quando esso è riposto in fondina. La finitura esterna può essere scelta tra “Matte finish”, “Carbon Fiber applique finish” e “Basketweave finish”.

LIVELLI DI SICUREZZA

La fondina è commercializzata, nella sua versione base, con un sistema di ritenzione di livello 2, che viene determinato dal sistema, coperto da brevetto, denominato SERPA® Auto Lock Technology™. Questo dispositivo consiste in un dente di blocco, posizionato nella parte interna del guscio, in prossimità della guardia del grilletto, che blocca quest’ultimo quando l’arma viene riposta all’interno. Il rilascio, in caso d’estrazione, avviene esercitando una leggera pressione, con il dito indice, sul pulsante di svincolo collocato sulla porzione esterna della fondina. E’ possibile usufruire anche di una protezione di livello 3, attraverso l’applicazione di un’ulteriore dispositivo denominato Pivot Guard™, che avvolge e blocca la parte superiore del carrello dell’arma; anche in questo caso, dopo aver impugnato l’arma, agendo su di un pulsante utilizzando il dito pollice, se ne determina lo sblocco. Tutte le fondine sono dotate, inoltre, di un sistema di ritenzione passiva che consiste in un meccanismo a molla caricata, posto all’interno della fondina e che determina una tensione nella parte

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inferiore della canna dell’arma. La tensione può essere modificata agendo sulla vite posizionata sotto al pulsante di svincolo del Auto Lock System.

PLATFORMS

Blackhawk ha progettato la SERPA unitamente ad una serie di moduli e supporti denominati “platforms”, ai quali può essere combinata, al fine di renderla accessibile ad una molteplicità di configurazioni ed ottimizzarla, quindi, in funzione dell’equipaggiamento e delle situazioni, sia che l’Operatore appartenga al settore Military e/o Law Enforcement. Questo è reso possibile dalla presenza di tre alloggiamenti per viti di fissaggio collocati nella porzione posteriore del guscio. Il sistema contribuisce anche a delineare un’evidente economicità del prodotto, in quanto, in caso di sostituzione del modello d’arma, è possibile rimpiazzare il solo guscio, mantenendo tutti i moduli già in dotazione. Da non trascurare, inoltre, la possibilità per l’Operatore, di conservare inalterate le tecniche d’estrazione acquisite con l’addestramento. La configurazione Concealment, utilizzata principalmente per il porto “undercover”, viene fornita di una piattaforma per cintura con spessori di regolazione e con un paddle per assicurarla all’interno del pantalone; in entrambe le strutture sono presenti vari fori che permettono di inclinarla secondo le esigenze. La Duty, essendo idonea al porto palese in uniforme, può usufruire di tre tipologie di piattaforme per il fissaggio al cinturone di servizio: una “High Ride”

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per il porto alto, una “Mid Ride” per una maggiore facilità d’estrazione ed una “Jacket Slot” per agevolare l’operatore che indossa una protezione balistica. Il modulo “Mod-U-Lok” permette di poter essere unito a tutte le tipologie di fondine ed è progettato per un fissaggio/sgancio rapido dal cinturone tramite un dispositivo a pressione, senza dover sfilare gli altri componenti tattici. Lo stesso, tramite un distanziatore può essere regolato per l’uso con diverse altezze di cintura fino a 2¼ pollici. La piattaforma S.T.R.I.K.E., costruita con lo stesso tecnopolimero della fondina, permette un sicuro e rapido fissaggio a tutti i tactical gear muniti di pals sistema M.O.L.L.E. - MOdular Lightweight Load-carrying Equipment. L’ultimo accessorio, degno di nota, è la “Tactical Holster Platform” che viene assicurata alla coscia ed al cinturone tramite delle fasce in elastico ad alto spessore e resistenza aventi, nella parte aderente al corpo, due strisce gommate “grippanti”. Il prodotto consente di poter agganciare sia il guscio della fondina che altri accessori, come, ad esempio, i porta caricatori. Questi ultimi due sistemi sono disponibili con le stesse colorazioni della SERPA.

SERPA® QUICK DISCONNECT SYSTEM

Quest’innovativo e geniale dispositivo, fornito al cliente in una confezione nel numero di tre pezzi, due in configurazione “femmina” ed una “maschio”, è stato progettato per consentire la rapida disconnessione della fondina SERPA e poterla rapidamente ricollegare

MATTE FINISH BASKETWZVE FINISHCARBON FIBER APPLIQUE FINISH

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PADDLE PLATFORM

JACKET SLOT DUTY BELT LOOP MOD-U-LOK PLATFORM QUICK DISCONNECT SYSTEM

BELT LOOP PLATFORM

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Si ringrazia:

MAD MAX CO. - Via degli Olmetti 44/A B5 00060 Formello (Roma) importatore e distributore dei prodotti Blackhawk.www.madmaxco.com

SPECIAL EQUIPMENT - Area Artigiana via Borzoli Genova per l’utilizzo del corpetto modulare tattico ICV – Integrated Combat Vest. www.specialequipment.eu

TACTICAL EQUIPMENT - Via Nizza 167/169r Savona per l’utilizzo dell’abbigliamento Arc’teryx in mimetismo Multicam di cui è importatore esclusivo. www.tacticalequipment.it

ad un altro supporto, con qualsiasi angolazione si desideri. Al guscio della fondina viene fissato il modulo “maschio” mentre quello “femmina” viene unito ai vari sostegni. E’ possibile realizzare il movimento utilizzando una sola mano, agendo sui due pulsanti di svincolo presenti sul modulo “femmina” ed eseguendo una contemporanea rotazione in senso antiorario della fondina. Anche questo dispositivo è disponibile nei colori della SERPA.

REPORT DELLE PROVE

Le prove condotte per la stesura dell’articolo ed i report pervenuti da parte degli Operatori, impiegati nei vari teatri operativi, che utilizzano questa fondina ormai da diverso tempo, non possono che promuoverla a pieni voti. Ci troviamo di fronte ad un prodotto di ottima qualità costruttiva, raggiunta attraverso l’impiego di materiali innovativi e soluzioni definite geniali, come il Quick Disconnect System. Questo permette di effettuare, ad esempio, il passaggio, con economia di movimenti e rapidità, dalla sistemazione cosciale a quella abbinata al combat vest, per facilitare, ad esempio, la salita e la discesa da automezzi o nelle fasi antecedenti l’ingresso in ambienti ristretti. Il design ergonomico ed il sistema di sicurezza Auto Lock Technology, che per la sua particolare collocazione, obbliga l’utilizzatore a posizionare il dito indice disteso in posizione perpendicolare, aiutano e facilitano la corretta tecnica d’estrazione dell’arma. Abbiamo constatato di persona che, anche con il guscio munito del sistema di sicurezza livello 3, con un minimo di training e dimestichezza, si possono ottenere tempi d’estrazione veramente rapidi, totalmente esenti da

impuntamenti o malfunzionamenti dei vari dispositivi. L’abbinamento del guscio alle varie piattaforme si ottiene con celerità, attraverso l’utilizzo di un comune cacciavite Phillips (generalmente indicato come “a stella” o “a croce”). Una volta effettuato l’abbinamento, è risultato estremamente solido e preciso ed anche sottoponendo l’intero complesso fondina/arma ad energiche trazioni o strappi repentini, non sono stati appurati disassemblamenti o cedimenti strutturali. Vorrei riservare una particolare menzione al modulo cosciale che, a confronto di altri utilizzati in passato, offre, una volta indossato e regolato, un confort ed una gestibilità di tutto rispetto. Questo risultato viene ottenuto grazie alla sua flessibilità, che deriva dal perfetto binomio materiale/design e dalle due fasce, gommate e dotate di attacchi girevoli a sgancio rapido, che ne garantiscono il perfetto fissaggio alla coscia ed al cinturone.

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Gli artiGli

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italiane

La progressiva coLonizzazione cinesedeLLe metropoLi e deLLe città itaLianeAnche in Italia, così come in gran parte dei paesi occidentali, civiltà come quelle asiatiche e quella cinese in particolar modo, ritenute “diverse” ed a volte inferiori, stanno tornando ad assumere quel ruolo che per secoli hanno avuto nella storia dell’umanità, palesando oggi un evidente ed incontenibile rinascita economica, politica e culturale.In una fase di oggettiva recessione economica globale come quella che stiamo vivendo ed in presenza delle oggettive condizioni di disagio in cui versa il capitalismo internazionale, la Cina sembra essere l’unico Paese al mondo a non risentire degli effetti negativi, ambendo, per tale motivo, ad assurgere al ruolo di grande potenza economica mondiale in un futuro ormai prossimo.Il passaggio dal socialismo al “socialismo di mercato” ed il definitivo superamento della teoria maoista rispetto al problema dell’autosufficienza e del rischio di ingerenze interne da parte degli investitori di tutto il mondo, ha comportato per il “paese del dragone” fondamentali variazioni alle proprie strategie economiche, con l’apertura al commercio internazionale, ai rapporti con gli altri paesi

e l’incentivazione delle relazioni economico-finanziarie internazionali. Nonostante la liberalizzazione economica tuttora in corso, gli analisti ritengono che la crescita del paese asiatico non ripercorrerà le medesime linee di sviluppo dei Paesi a capitalismo avanzato, definendolo come “il gigante dai piedi d’argilla”; ma la Cina di oggi è un’area in cui gli investitori internazionali possono operare ed investire senza troppi vincoli burocratici. Il paese del dragone si è quindi trasformato in una delle principali nazioni dove le grandi imprese internazionali hanno delocalizzato la propria produzione, soprattutto in virtù della presenza di una vasta sacca di potenziale manodopera a basso costo, che per le multinazionali occidentali rappresenta un’eccezionale opportunità di abbattimento delle spese di produzione. Nel più popoloso stato dell’intero pianeta, a fronte di circa novanta milioni di “schiavi”, in gran numero contadini che si sono trasferiti dalle campagne cinesi nelle fiorenti cittadine industrializzate, milioni di persone, in cerca di migliori condizioni di vita, lasciano i propri familiari nelle terre d’origine per migrare in lontani paesi occidentali, come Italia, Francia, Germania. L’inarrestabile avanzata dei migranti continua a preoccupare fortemente il mondo

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Di TenenTe Colonnello GdF Mario leone PiCCinni

la Malavita cinese esce dai quartieri Ghettodelle chinatown italiane per strinGere alleanze

con le orGanizzazioni criMinali e le aGGuerrite Mafie autoctone. il ruolo delle potenti triadi.

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occidentale, non solo per i grandi numeri che caratterizzano le trasmigrazioni dall’area asiatica, ma anche per le condizioni di lavoro imposte al lavoratore cinese del comparto industriale una volta giunto in Occidente.Quest’ultimo è difatti il fattore inquadrabile come la principale causa che stimola il travaso di parte di questi disperati nelle file della potente criminalità cinese operante nell’area occidentale, alla quale risulta semplice “arruolare” soggetti sfruttati ed alla costante disperata ricerca di una migliore e dignitosa qualità della vita.Nel nostro Paese la comunità cinese è composta prevalentemente da cittadini provenienti dalla città di Wenzhou, ubicata nella regione meridionale del Zhejiang; numericamente limitate sono invece le comunità di cittadini provenienti da Hong Kong, da Macao e da Taiwan.Dapprima limitate solo ad alcune regioni del Nord, le migrazioni in Italia sono iniziate negli anni ‘20 del secolo scorso. Inizialmente, i migranti provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese una volta giunti in territorio italiano insediavano piccoli laboratori che producevano pelletteria di scarsa qualità ed a basso costo, per poi espandersi fino alle regioni centrali come Toscana ed Emilia Romagna, dove capannoni in disuso, scantinati, magazzini, locali in pessime condizioni, divennero abitazioni e luogo di lavoro forzato per molti cinesi entrati in Italia clandestinamente, divenuti ostaggi della mafia cinese ed obbligati a lavorare per pagare il viaggio. Attualmente le comunità numericamente più importanti di immigrati cinopopolari nel territorio italiano sono quelle insediatesi nella città di Prato, in Toscana (dove i cinesi toccano una cifra pari al 20% della popolazione locale) ed in Campania, nel comune di San Giuseppe Vesuviano (NA) . Arrivati in Italia, a causa di un grado di istruzione molto basso e della incapacità di comprendere la lingua italiana, gli immigranti cinesi sono costretti ad affrontare enormi difficoltà di inserimento nel tessuto sociale delle città di accoglienza. Tutto questo causa un isolamento circoscritto all’interno del gruppo etnico di appartenenza e la tendenza a rivolgersi esclusivamente alle associazioni di cinesi presenti sul territorio, per tentare di risolvere eventuali problemi. I fatti dimostrano come ovunque si insedi una comunità cinese, consequenzialmente ed inevitabilmente, si stanzi una agguerrita componente criminale che ha la finalità di sfruttare la maggioranza degli immigrati connazionali che svolge un lavoro con onestà. Le indagini ed i servizi finalizzati dalle Forze di Polizia italiane hanno messo in evidenza come bambini, donne, uomini ed anziani sono tutt’oggi costretti a lavorare osservando orari di lavoro assurdi, anche di 18 ore consecutive, in luoghi malsani e sovraffollati, con decine di operai ammassati in stanzoni ricavati nei luoghi di lavoro. Si tratta, in buona sostanza, di una comunità caratterizzata da forti comportamenti omertosi, eccessivamente chiusa ed impermeabile alla cultura locale del Paese ospitante e che per tale motivo crea preoccupazione ed allarmismo e suscita curiosità ed interesse. La civiltà cinese, anche fuori dai confini nazionali, rimane infatti fondata su valori

fondamentali del confucianesimo (autoritarismo, gerarchia, ordine, dedizione al lavoro ecc.); un’etnia caratterizzata quindi da profili come l’autoreferenzialità, uno spiccato ermetismo e la tendenza a ricostituire un ambiente simile a quello del paese di provenienza. In tale contesto, è enormemente cresciuto il ruolo delle associazioni fondate in Italia dagli immigrati stessi, una sorta di rete solidaristica autonoma che si preoccupa delle necessità e dell’organizzazione della vita del lavoratore cinese in Paese straniero, limitandone inevitabilmente l’integrazione. Chi è ai vertici di tali associazioni è considerato dalla comunità persona autorevole e punto di riferimento per le autorità politiche sia nel Paese ospitante che in madrepatria e mira a riformulare anche all’estero un ceto sociale peculiare della società cinopopolare, quello dei notabili che hanno da sempre raffigurato una sorta di cuscinetto fra l’autorità dello Stato e la società. Il grande proliferare di tali associazioni presso le comunità cinesi in Italia ed il fatto che esse godano dell’appoggio delle autorità consolari, se da una parte sono fattori che testimoniano una forte propensione all’autogoverno ed all’autoreferenzialità delle comunità stesse, dall’altra sono prova del fallimento della società italiana in merito alla politica adottata per favorire quello che dovrebbe essere una corretta integrazione degli immigrati. La lingua rappresenta, senza dubbio, il grande elemento di limitazione all’integrazione; quella cinese oltre ad avere suoni molto lontani da quelli della lingua italiana, è un linguaggio non alfabetico e con una struttura grammaticale e sintattica molto particolare. La barriera linguistica che separa gli occidentali ed i cinesi costituisce quindi uno sbarramento quasi invalicabile anche per quegli adulti che risiedono in Italia da parecchi anni e può essere superato solo dai bambini o dalla seconda generazione di immigrati. Alle problematiche dovute alla quasi impossibile comprensione della lingua orientale, che annovera quasi sessanta dialetti diversi, va aggiunta l’assoluta mancanza di “pentiti” o di persone disposte a collaborare con le Autorità e le Forze di Polizia del paese ospitante; situazioni oggettive che marcano ancora più fortemente, lo stato di esclusione sociale in cui versa la ormai vastissima comunità cinese stanziatasi in Italia. L’assenza di denunce da parte di cittadini cinesi vittime della criminalità del “paese del dragone”, è principalmente dovuta al fatto che le vittime hanno paura di ritorsioni e rappresaglie o non conoscono bene le strutture e la legislazione del nostro Paese. Molto spesso, però, le stesse vittime sono clandestini e sanno bene che denunciando i crimini subiti rischierebbero di essere arrestati e comunque rimpatriati in Cina. La cultura cinese colloca la famiglia come elemento centrale, una struttura che rappresenta, anche nei numerosi gruppi presenti Italia, una realtà dominante che vincola centinaia di persone in un complesso sistema di relazioni gerarchiche e di interessi comuni e nella quale ciascun individuo gode del rispetto e della considerazione che gli deriva dal ruolo ricoperto e dove i membri più anziani esercitano una indiscussa autorità. Anche in caso di bisogno, il denaro

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viene trovato fra i membri stessi della famiglia o facendo ricorso a forme di prestito fra famiglie imparentate o originarie degli stessi luoghi nel Paese di provenienza. Da qui nasce il sistema della solidarietà fra connazionali ed i meccanismi tradizionali dei cosiddetti prestiti, quasi sempre elargiti a tassi usurai superiori a quelli consentiti dalla legge italiana, che inevitabilmente devono essere indicati come i motivi principali che rendono possibile e poi influenzano l’intero meccanismo dell’emigrazione. Si tratta di considerazioni necessarie anche al fine di non incorrere nell’errore di scambiare la deferenza verso un anziano capofamiglia per la sudditanza ad un “boss”, o la solidarietà

etnica e familiare per omertà fra complici. Nell’ottica del forte ermetismo che caratterizza le comunità cinopopolari, particolare rilievo assume il mistero sulla sorte dei cadaveri di persone cinesi: nell’ambito delle comunità asiatiche in Italia, mai un cinese risulta deceduto, tranne in quei casi in cui non sia stato vittima di un incidente stradale e le Autorità locali ne siano venute necessariamente a conoscenza. Le tesi più accreditate sono che i documenti e le generalità della persona deceduta, vengono riutilizzate per fornire una fresca identità o copertura ad un nuovo clandestino o soggetto bisognoso di cambiare i propri connotati anagrafici. L’utilizzo di passaporti e documenti di

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persone decedute, quindi, è funzionale a rendere legittime le posizioni di individui cinesi viventi che, grazie a tale stratagemma, possono riemergere nella legalità. Altro elemento caratterizzante dell’etnia cinese è la constatata possibilità di impiego di importanti somme di denaro contante, spesso utilizzate per acquisire aziende ed immobili anche a cifre disallineate rispetto ai vigenti prezzi di mercato, che in caso di controlli appaiono sistematicamente regolari sotto ogni aspetto. In Italia la comunità cinese ha sviluppato i propri business principalmente nei settori delle calzature, della maglieria, dei giocattoli, della bigiotteria e delle lavorazioni tessili per conto terzi, comparti commerciali tendenzialmente lasciati dalla popolazione locale in ragione della volubilità e delle pericolose fluttuazioni del mercato caratterizzanti lo specifico business. Con impressionanante frequenza sorgono grandi negozi e magazzini all’ingrosso, molti dei quali amministrati da immigrati cinesi precedentemente impegnati nel settore della ristorazione, spesso abbandonato a causa delle difficoltà di osservare la vigente normativa di settore. Ma nonostante la concorrenza e le oggettive difficoltà economiche del particolare periodo storico, i cinesi continuano ad investire massicciamente nel commercio. Secondo una ricerca della Camera di Commercio del capoluogo lombardo, a Milano ogni dieci metri si trova un negozio cinese. Tale avanzata spaventa ovviamente gli operatori commerciali italiani, cui danno voce le tante associazioni di categoria che lamentano e spesso hanno denunciato gravi e pericolose irregolarità nella gestione delle imprese riconducibili agli immigrati di etnia cinese. Gran parte dei casi riguardano la vendita di merce contraffatta o non conforme ai necessari criteri di sicurezza, la violazione delle norme sulla sicurezza sul posto di lavoro, sull’igiene e sul commercio. Si tratta, inoltre, di situazioni di concorrenza sleale nei confronti degli imprenditori italiani, con operatori cinesi in grado di contare su una fitta ragnatela di accordi all’interno delle comunità di appartenenza e su una forma di mutuo soccorso fra cittadini coalizzati e sempre più avulsi dalla realtà del Paese ospitante. I guadagni conseguiti da detti investimenti, vengono poi in gran parte rimessi in circolazione, o ingrandendo le attività commerciali già esistenti o prestando i capitali a conoscenti e familiari affinché questi possano a loro volta aprire nuove attività imprenditoriali.Le esperienze dimostrano come i cinesi siano soliti acquistare licenze ed esercizi commerciali con offerte in danaro contante, talmente elevate che sovente gli esercenti italiani cedono la propria attività, allettati dalle offerte o solo per evitare di rimanere in una zona o in quartieri oramai completamente in mano alla comunità cinese. Da un punto di vista delle attività di controllo, la possibilità per chi opera le investigazioni di poter operare efficaci verifiche sull’effettiva provenienza del denaro, è resa particolarmente complicata dal fatto che i pagamenti avvengono metodicamente in contanti. Le indagini dimostrano, inoltre, come a fronte di una spiccata imprenditorialità,

tradotta quasi sempre in imprese individuali, i redditi personali dichiarati al fisco italiano da cittadini cinesi sono comunque estremamente bassi. Sovente, difatti, le attività economiche acquisite dagli immigrati cinopopolari, fanno registrare bilanci in perdita o falliscono; successivamente vengono cedute ad altri connazionali, con modalità in grado di ingenerare forti perplessità su reali interessi e l’effettivo coivolgimento della criminalità organizzata cinese nel riciclaggio di denaro. Per quanto riguarda l’ottenimento di finanziamenti, necessari alla semplice sussistenza ovvero ad avviare nuove attività economiche e commerciali, la comunità cinese non ricorre quasi mai all’utilizzo del sistema bancario in quanto percepito come inefficace, caro e macchinoso, ma preferisce utilizzare prestiti effettuati da personaggi di rilievo della stessa comunità di connazionali; in questo caso, il danaro viene concesso al richiedente sulla base di garanzie personali del debitore e della famiglia di quest’ultimo (sia essa in Italia o in Cina). Attraverso il circuito “money transfer”, gli immigrati in Italia movimentano, da e per i propri paesi di origine, diversi miliardi di euro. A ciò va aggiunto che il paese asiatico è in testa anche per l’importo medio delle transazioni, rispetto alle altre etnie presenti nel nostro Paese. Così come avviene per la gran parte degli immigrati, anche la comunità cinese predilige questo sistema in luogo di quello bancario in virtù dell’elevata celerità con cui avvengono i trasferimenti di denaro, della semplicità di accesso al servizio e della capillare diffusione a livello internazionale che permette anche a coloro che non hanno

Omicidio nella Chinatown milanese. Omicidio legato al controllo del territorio

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accesso ai servizi finanziari tradizionali, di soddisfare le proprie necessità. Alla prospettata difficoltosa integrazione sia sociale che economica, si associa, a rendere più complessa la situazione, la violenta e repentina ascesa del fenomeno della criminalità organizzata. Elemento di maggiore preoccupazione è rappresentato dal grado di organizzazione malavitosa che si è scoperto sussistere intorno alle esteriormente pacifiche e tranquille comunità cinesi. E’ proprio in tale ambito che si annida una criminalità organizzata duttile ed in grado di associarsi e stilare accordi con le mafie locali, fortemente attratte da business considerevoli come lo sfruttamento della prostituzione e del lavoro nero, la contraffazione, il traffico illegale di stupefacenti e di clandestini. Le risultanze delle attività investigative sulla criminalità organizzata cinese, infatti, hanno evidenziato la tendenza della malavita asiatica ad assumere modelli delinquenziali organizzati e gerarchicamente strutturati, con evidenti peculiarità di mafiosità.

Business e configurazione deLLa mafia cineseL’allarme sociale sul fenomeno della criminalità cinese in Italia, non ha raggiunto livelli mediatici tali da destare preoccupazione, proprio perche è poco percettibile, svolgendosi quasi del tutto all’interno della medesima comunità asiatica. E’ indubbio, peraltro, che sia lo stesso auto isolamento delle comunità cinesi a favorire l’ascesa e la conquista di posizioni all’interno delle stesse comunità, da parte delle organizzazioni criminali, le quali arrivano ad esercitare un completo controllo sulla vita economica e sociale dei cittadini cinesi che vivono in Italia. Il peculiare mimetismo delle strategie criminali, la capacità di colpire in maniera intraetnica, la scelta tattica di commettere reati che non creano allarmismo sociale o problemi d’ordine pubblico come invece accade con riferimento alla criminalità slava, albanese o nordafricana, rendono la silenziosa criminalità cinese in Italia poco visibile ed insufficientemente esposta all’attività di contrasto. In base a ciò che emerge dalle indagini delle Forze di Polizia, in Italia la gran parte delle organizzazioni criminali cinesi sono strutturate su gruppi composti da un numero di soggetti tra le dieci e le cinquanta unità. Esse riescono quindi ad imporre la propria presenza e ad esercitare il controllo sul territorio, in virtù del quale riescono ad istituire una condizione di totale sottomissione, assoggettamento ed omertà sull’intera comunità di connazionali, persuadendo testimoni a ritrattare eventuali testimonianze per evitare vendette contro i familiari rimasti in madrepatria. Tutte le consorterie investigate in Italia hanno rivelato una struttura verticistica con una spiccata gerarchia organizzativa, modellata sulla base della tradizionale cultura mafiogena, comune a cosa nostra, ‘ndragheta, camorra, sacra corona unita. Così come avviene per la mafia siciliana, anche i membri delle Triadi passano attraverso cerimonie d’iniziazione ed hanno come regola basilari l’omertà, l’obbedienza, il segreto. L’affiliazione alla consorteria

prevede una cerimonia di iniziazione che deve svolgersi in una stanza chiamata “Loggia”, la quale incarna la mitica capitale Muk Yung Shing, o “Città dei Salici”. Il rito prevede che il maestro d’incenso dopo aver fatto uscire il sangue dal dito di ogni nuovo membro, provveda a mescolarlo con quello degli altri membri. Il nuovo membro bevendo tale miscuglio giura simbolicamente fratellanza per tutta la vita dichiarando, dinanzi ai rappresentanti delle Società, la propria totale e cieca lealtà al movimento. Il rito di affiliazione si sviluppa in un giuramento che si articola in trentasei promesse e che impegnano il nuovo membro a preservare la segretezza della Triade, a prestare ausilio agli associati in pericolo, a rispettare i valori tradizionali della consorteria, pena l’inflizione di sanzioni corporali, fino alla pena di morte per le trasgressioni più gravi.La Triade è regolata da regole ferre che tendono a proteggere gli apicali dell’organizzazione; ad esempio, mentre le imprese criminali sono gestite direttamente dai dirigenti di medio livello, i membri dell’organizzazione di alto livello spesso non vengono coinvolti direttamente nell’attività criminale al fine di evitare possibili problemi con l’eventuale insorgere di inchieste delle autorità. Il ferreo vincolo di segretezza che lega gli affiliati e la scarsa visibilità degli investimenti, impediscono di ottenere informazioni realistiche su attività e consistenza numerica dei gruppi di etnia cinese. L’organizzazione delle Triadi è di tipo piramidale ed ogni gradino della scala gerarchica viene identificato con un numero, il cui significato simbolico è da individuarsi nella numerologia taoista: al vertice vi è la Testa del Drago o Signore della Montagna, San Chu, con il numero 489; i membri ordinari vengono invece tutti identificati dal numero 49. La mafia cinese ha introdotto una tecnica di conquista del territorio che prevede l’acquisizione di tutte le attività economiche del quartiere e la progressiva espulsione, indotta o forzata, dei residenti del paese ospitante, fino alla istituzione di una vera e propria enclave, comunemente definita “Chinatown”. Fortemente tendenti all’acquisizione del controllo del territorio in cui operano, i gruppi malavitosi cinesi stringono sempre più spesso rapporti di affari con le Triadi ricorrono alla intimidazione ed alla violenza per raggiungere i propri fini. Anche se le risultanze in mano agli analisti fanno ritenere come non certa la presenza delle Triadi in Italia, appare invece certa la loro dislocazione a Parigi, a Bellevile, nel ventesimo arrondissement, una sorta di Chinatown da cui gli apicali della mafia cinese controllerebbero i cinesi di tutta Europa; sul territorio italico sono invece attivi ed operano tre distinti gruppi: “Uccello del paradiso”, “Testa di tigre” ed “Alleanza del Quing Tiam”. I recenti serivizi di polizia giudiziaria portati a termine dalla Guardia di Finanza, confermano la grande vitalità di una mafia cinese oramai radicata in Italia e ben collegata con le organizzazioni criminali autoctone più forti, dedita principalmente al traffico di clandestini e di sostanze stupefacenti, pirateria elettronica, contraffazione marchi, traffico di armi, prostituzione, usura. Il “Dragone cinese”, espressione con la quale viene comunemente denominata

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delle prestazioni offerte. In virtù di una sempre più forte globalizzazione, anche il crimine finanziario ha acquisito le peculiarità di attività transnazionale ed è noto come i benefici di detta illecita attività arrivino anche alla mafia autoctona, alla potente ‘ndrangheta calabrese ed alla ramificata camorra campana.

iL traffico di cLandestiniLe investigazioni degli ultimi anni hanno evidenziato un cresente interesse delle Triadi al fenomeno dell’immigrazione clandestina, che poi è attività propedeutica all’impiego ed allo sfruttamento della manodopera abusiva. Le organizzazioni criminali cinesi rivelano grande interesse per l’importazione di lavoratori da ridurre in schiavitù e di giovani donne da avviare alla prostituzione; i migranti che aspirano a fare fortuna all’estero, infatti, sono spesso disposti ad assoggettarsi ad un regime di vera e propria schiavitù pur di essere trasportati in Italia o in altri paesi europei.7

In Italia la malavitita cinese “affitta” a propri connazionali iregolari, per la cifra di 500 euro, passaporti contraffatti o recanti dati anagrafici di cittadini asiatici deceduti. Alcuni

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l’organizzazione criminale cinese, oltre ad aver esteso capillarmente e diversificato le proprie ramificazioni in varie attività illegali, ha stipulato solide connessioni in particolare con la “camorra” campana, spesso svolgendo l’incarico di controllare il territorio e riscuotere il pizzo per conto dei clan locali. Si suppongono anche intese dirette con “cosa nostra”, anche se alcuni analisti sono più propensi alla tesi secondo cui il solo elemento certo è lo scambio di killer cinesi tra Italia e Francia, base logistica dalla quale le Triadi gestiscono le organizzazioni che operano in Europa.Nel Vecchio Continente la criminalità organizzata cinese ha posto le proprie basi già da diversi anni, servendosi delle principali città come scali per il transito e come destinazione finale di importanti quantità di sostanze stupefacenti e per il traffico di clandestini. Ma i preminenti interessi della mafia cinese in Italia restano gli esercizi pubblici, principalmente ristoranti, pelletterie, sartorie, e da ultimo la vendita ambulante di oggetti di provenienza orientale, con orari lavorativi assurdi, 18 ore al giorno circa e senza adeguate condizioni igieniche, locali di lavoro all’interno dei quali i cinopopolari vivono praticamente segregati e, come ai tempi della prima rivoluzione industriale, in forzata simbiosi con i macchinari ed i manufatti. Il fattore maggiormente preoccupante è la constatazione che dai settori tradizionali del tessile, del giocattolo, degli audiovisivi, dei fuochi d’artificio, gli interessi della malavita cinese si stanno pericolosamente spostando anche ad altre categorie merceologiche come i farmaci e le sigarette, con evidenti danni oltre che di tipo economico-finanziario, anche prettamente correlati alla salute degli ignari consumatori.Ma i gruppi criminali cinesi sono dediti anche alle estorsioni, ai sequestri di persona in danno di soggetti appartenenti alla medesima etnia, allo sfruttamento della prostituzione ed allo spaccio di sostanze stupefacenti. Si registrano frequenti violazioni al T.U. sulla disciplina dell’immigrazione, finalizzate principalmente alla creazione di manodopera clandestina di connazionali da impiegare in attività lavorative massacranti e mal retribuite. In forte e costante crescita sono le violazioni registrate alla normativa fiscale vigente ed i reati riconducibili al gioco d’azzardo, alla prostituzione ed alla detenzione abusiva di armi. Attraverso investimenti immobiliari, la criminalità cinese rende non tracciabile la provenienza del denaro utilizzato e, una volta espulsi gli abitanti originari, ottiene la creazione di veri e propri territori cinesi su cui esercitare agevolmente il proprio incontrastato controllo. L’acquisto di attività commerciali, approfittando anche della difficile situazione finanziaria in cui si possono trovare i precedenti titolari ed investendo denaro per la loro riorganizzazione, fornisce all’organizzazione criminale illimitate fonti di finanziamento illecito senza dipendere dalle banche. Mentre le imprese in difficoltà economiche vengono acquistate e risanate con l’utilizzo di manodopera clandestina a costo zero, attraverso le agenzie di viaggio, la mafia cinese trasferisce all’estero ingenti capitali, mascherando i trasferimenti sotto forma di versamenti o di percentuali rappresentanti il controvalore

A Prato la comunità cinese è molto radicata. Omicidi per i controlli dei vari traffici sono

molto fre

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di questi documenti, sequestrati nel corso di operazioni di polizia, erano stati realizzati applicando delle fotografie di ignari cinesi regolarmente dimoranti in madrepatria. Per ciò cha attiene i flussi migratori ed i canali utilizzati dalle organizzazioni cinesi per far entrare clandestini in Europa attraverso la Serbia, pare che in passato sia stato stipulato una accordo, sulla base di una cifra pari a 300 milioni di dollari, tra il dittatore serbo Slobodan Milosevic e le Triadi. L’immigrazione clandestina, quindi, costituisce il volano di tutte le attività ed il mezzo attraverso cui si realizza uno stretto controllo delle strutture imprenditoriali di connazionali già presenti nel paese di destinazione.L’organizzazione è suddivisa in “cellule” le quali operano in modo autonomo, ciascuna con un compito preciso ed a step differenti (una cellula, ad esempio, si occupa del passaggio di una frontiera; poi i clandestini, per ciò che attiene la penetrazione in un determinato quartiere di una determinata città, saranno gestiti da un’altra cellula). Ed è proprio l’organizzazione su scala mondiale dell’immigrazione, dalla Cina all’Europa, che determina occasioni di saldatura tra i diversi gruppi criminali a cui la malavita cinese chiede cooperazione per il passaggio delle frontiere terrestri o marittime. I clandestini una volta giunti a destinazione sono tenuti a pagare all’organizzazione una somma tra i 10 ed i 20 mila euro. Per saldare il debito essi sono tenuti ad anni di lavoro nero, se non di prostituzione. Le rotte per giungere in Italia dalla Cina passano attraverso la Slovenia, l’Austria o la Francia. Altre rotte seguite dai trafficanti di manodopera clandestina interessano l’Austria, la Bulgaria, l’Ungheria ed altri paesi dell’Europa dell’Est, come emerge da alcune indagini effettuate dalle Forze di

polizia nazionali ed europee. Belgrado spesso rappresenta il terminale del ponte aereo clandestino da cui si dipartono i flussi per l’Europa occidentale. Attraverso un’altra rotta, i clandestini giungono in Russia da dove partono per i Paesi dell’Europa dell’Est ed in particolare della ex Yugoslavia, prima del definitivo passaggio a Ovest. L’enorme massa di manodopera cinese a basso costo entra quindi in Italia in condizioni di sudditanza morale, fisica ed economica e per tali motivi rappresenta un serbatoio da cui può attingere, per la commisione di azioni criminali, direttamente l’organizzazione creditrice che ha finanziato l’immigrazione.

iL ricchissimo Business deLL’ecomafiaLe investigazioni delle forze di polizia italiane dimostrano come anche lo smaltimento dei rifiuti, prolifico business da sempre saldamente in mano ai clan camorristici, alle ndrine della ‘ndrangheta ed alle potenti famiglie di “cosa nostra”, rappresenti oggi un business di interesse per la criminalità organizzata di etnia cinese. In tale ottica è chiara e necessaria l’esistenza di collegamenti con gruppi corrispondenti o collegati di stanza in paesi ove i rifiuti dopo esservi illegalmente giunti, vengono smaltiti. Dalle indagini emerge un dato significativo: se per lo smaltimento di un container di 15 tonnellate di rifiuti pericolosi o tossici sono necessari circa 60mila euro, per far smaltire la medesima quantità nel mercato illegale, ne bastano solo 5mila. I flussi ricostruiti in alcune inchieste, hanno individuato nella Cina il paese di destinazione di materiali destinati illecitamente allo smaltimento. Il coinvolgimento della criminalità organizzata, necessariamente collegata con la malavita dei paesi da cui i rifiuti provengono, è testimoniato

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imprenditoriali. Facendo leva sulla innata diffidenza dei cinesi nei confronti delle banche, la criminalità organizzata utilizza i prestiti a tassi usurai per riciclare i proventi di altre attività illecite, controllare il territorio e precostituirsi la possibilità di compiere estorsioni che possono portare all’acquisto dell’attività commerciali presa di mira, in special modo se si tratta di piccole imprese come i ristoranti.

produzione ed esportazione di prodotti contraffattiLa ricostruzione dei flussi finanziari generati dalla contraffazione ad opera dei cinesi operata dalla Guardia di Finanza nell’ambito di innumerevoli inchieste di portata internazionale, evidenzia come gran parte dei proventi ottenuti con tale illecita attività rientri poi al paese d’origine in favore di articolate organizzazioni criminali con forti propensioni cosmopolite. La contraffazione di matrice cinese, infatti, nonostante il potenziamento degli specifici controlli doganali, continua ad invadere tutta l’Unione Europea. Ogni anno giungono nei porti di italiani di Napoli, Gioia Tauro, Taranto e Genova, migliaia di container provenienti dalla Cina, mentre sono numerosissimi i sequestri di merce contraffatta inerenti capi di abbigliamento, accessori in pelle, orologi, elettrodomestici, giocattoli, gadget vari. Le investigazioni hanno evidenziato come la movimentazione di merce contraffatta necessiti di raccordi fra organizzazioni criminali italiane e straniere, in quanto crimine dai connotati prettamente transnazionali che per tale motivo richiede necessariamente la collaborazione di gruppi in diversi Stati, specie in Europa Orientale ed in Cina. I gruppi criminali cinesi si avvalgono di un reticolo di aziende di import–export appositamente costituite sotto forma di società a responsabilità limitata, in accomandita semplice e/o ditte individuali con collegamenti societari in tutto il territorio europeo. In occasione di sequestri di container, sovente risulta che le società facenti capo ai cinesi non sono supportate da adeguate strutture fisiche di riferimento; ciò in quanto per l’organizzazione fornire un riferimento è necessario esclusivamente ad ottenere l’attribuzione di codici fiscali aziendali a cui attribuire le importazioni di merce. Al fine di eludere il c.d. “contingentamento dell’importazione dei prodotti cinesi” ed evitare il sequestro della merce illegale, la malvita falsifica le bollette doganali nel tentativo di camuffare l’origine cinese delle merci, facendole risultare come provenienti da luoghi diversi. Un’altra tecnica utilizzata per eludere i controlli doganali, consiste nell’importare le merci contraffatte frazionandole in più parti, per poi procedere al loro assemblaggio una volta superati eventuali ispezioni.Soggetti italiani entrano nell’illecito traffico mettendo a disposizione della criminalità cinese rapporti bancari facenti capo a persone fisiche o giuridiche, le quali, attraverso l’attività delle proprie società e l’emissione di falsa certificazione fiscale, rendono apparentemente leciti i bonifici bancari effettuati a favore soggetti di comodo in

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dal fatto che detti materiali non possono giungere nel paese asiatico attraverso canali ufficiali, avendo il governo cinese ratificato la Convenzione di Basilea, la quale vieta l’esportazione di qualsiasi rifiuto dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo. Le indagini delle forze di polizia italiane hanno dimostrato come alcune imprese italiane si liberano illegalmente dei rifiuti tossici e pericolosi come se si trassasse di normali prodotti ed attraverso canali gestiti per la logistica dalla malavita organizzata italiana, raggiungono i porti italiani per essere imbarcati su navi cinesi controllate dalle potenti Triadi. I rifiuti pericolosi verranno poi trasportati nelle province più povere, nelle zone con minori controlli ovvero in territori controllati dalla criminalità organizzata del “paese del dragone”.

sequestri Lampo a scopo di estorsione e traffico di sostanze stupefacentiAltro business di forte interesse per la malavita cinese operante in Italia, è rappresentato dai sequestri lampo a scopo di estorsione operati in danno di connazionali facoltosi. Le metodologie applicate ricalcano il fenomeno tristemente attuale dei “sequestri lampo”, importati in Italia da criminali di etnia slava. Come anticipato, il traffico di clandestini rappresenta solo il “cavallo di Troia” attraverso il quale la malavita organizzata cinese, con la complicità dei sodalizi criminali italiani, sta conquistando anche il mercato degli stupefacenti, soppiantando la mafia turca.I gruppi criminali cinesi sono fortemente implicati in importanti traffici di stupefacenti, oppiacei soprattutto, favoriti dalla collocazione di organizzazioni di origine cinese all’estero in posizioni “strategiche” rispetto alle attività di coltivazione, intermediazione e trasporto delle illegali sostanze dalle aree di produzione a quelle di smercio in tutto il mondo. In Italia si registrano sempre più frequenti sequestri di stupefacenti a carico di bande cinesi, per lo più droghe sintetiche, in particolare ecstasy e king. Forte interesse riveste, infine, il traffico di precursori chimici necessari alla fabbricazione di stupefacenti e sostanze psicotrope dei quali la Repubblica Popolare Cinese rappresenta uno dei maggiori produttori a livello mondiale.

gioco d’azzardo ed usuraIn quanto tradizionali luoghi di coesione tra immigrati, i ristoranti cinesi in mano alle organizzazioni criminali, funzionano da punti di ritrovo per il gioco d’azzardo. La larga diffusione all’interno delle comunità cinesi in Italia della passione per il gioco, rende per la malavita un business altamente redditizio la gestione delle bische, la quale viene spesso affiancata ad altre attività delinquenziali come il recupero crediti con minacce e violenze.Il sistema delle case da gioco clandestine consente poi il riciclaggio di denaro liquido di provenienza illecita nell’abusiva concessione di prestiti ad alti tassi di interesse usurari per finanziare i clienti in perdita. L’usura è invece praticata sotto forma di prestiti concessi, in genere, a persone che hanno bisogno di denaro per aprire attività

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Cina, dissimulando in tal modo la derivazione illecita dei capitali movimentati.

contraBBando e faLsificazione di documentiL’Italia, in virtù della posizione geografica che la colloca al centro del Mediterraneo, è direttamente coinvolta nel transito di tabacchi destinati al mercato europeo. Anche per ciò che attiene il contrabbando di tabacchi lavorati esteri, fenomeno connotato da una forte dimensione transnazionale, la malavita cinese opera in apparente sintonia con le consorterie criminali autoctone. Le organizzazioni criminali cinesi presenti in Italia sono inoltre caratterizzate da una elevata abilità nella falsificazione di soggiorni, passaporti, patenti ed altri documenti cinesi, atti, documenti, carte di credito, sigilli, passaporti, autorizzazioni di soggiorno.

sfruttamento deLLa prostituzioneAnche la prostituzione cinese palesa segnali di un’importante evoluzione dovuta al coinvolgimento sempre più diretto della malavita organizzata. Il meretricio di donne cinesi si svolge all’interno di appartamenti e viene pubblicizzata attraverso l‘inserzione su testate giornalistiche locali di annunci di massaggi orientali. Recentemente il fenomeno si è esteso anche alla strada e sono state individuate case dove le donne cinesi operano fianco a fianco con prostitute provenienti dall’Est Europa.Ultimamente diverse indagini hanno permesso di individuare alcune “case di prostituzione” gestite da organizzazioni criminali cinesi, in cui si esercitavano il meretricio giovani connazionali non più esclusivamente all’interno della comunità cinese, ma anche a favore di clienti di altre nazionalità, compresa quella italiana.

La BrutaLe vioLenza deLLe gang giovaniLiI fatti di cronaca fanno registrare un forte aumento dei reati perpetrati dalle cosiddette “bande giovanili”. Tra gli adolescenti di etnia cinese, diventare il membro di una gang comporta l’interiorizzazione delle regole delle Triadi, il divenire un criminale con ampie e facili prospettive di guadagno. Il 90% degli imprenditori cinesi è costretto a pagare tangenti alle gang, anche al fine di ottenere protezione dalle bande rivali e da altri eventuali criminali. La tangente, definita “Li Shi”, viene richiesta alla cerimonia di apertura del negozio, oppure attraverso la tecnica dell’Hei Bai Lian (facce bianche e nere): alcuni membri della banda entrano nel locale minacciando di devastarlo, ma vengono allontanati dai leader della gang che poi spiegano al titolare dell’attività commerciale che deve pagare per essere protetto ed evitare altri attacchi. Altra tecnica è quella dello “Tai Jiau Tsi” (portare le portantine), in virtù del quale la vittima dell’estorsione viene trattata con rispetto, definita grande fratello e come tale, obbligato a provvedere al sostentamento dei fratelli minori. Le bande giovanili guerreggiano anche tra di esse, partendo da futili discussioni tra membri, arrivando a vere guerre per la

disputa del territorio. Fra i cinesi, i membri delle Triadi si chiamano Dark Society Elements e la società si chiama Jang Hu (fiumi e laghi) per indicare la mancanza di radici dei membri; la cultura delle Triadi, infatti, è propria degli emarginati che sentono come aliene le regole delle società dominanti. Le gang giovanili, che per le comunicazioni ricorrono ad internet attraverso forum e e servizi di messagistica, sono composte per lo più da minorenni solitamente legati da una stessa origine geografica e generalmente coordinate da un adulto, sono specializzate nella consumazione di rapine a danno di connazionali, in estorsioni, incendi dolosi e delitti contro la persona, tra cui sono in forte aumento gli omicidi. Oltre alla riscossione del “pizzo” dai propri connazionali imprenditori, le bande stanno incrementano anche attività legate al traffico ed allo spaccio di stupefacenti, in particolare sostanze chimiche, di solito acquistate in Olanda (dove è dislocata una delle più antiche comunità cinesi presenti in Europa). Recenti episodi, infine, dimostrano come sia oramai divuto semplice, per tali gang criminali, reperire armi da sparo.

Le attivita’ di contrastoI pur validi strumenti che la normativa nazionale pone a disposizione di Magistratura e degli organi di polizia per contrastare efficacemente la criminalità, non possono essere sfruttati nel caso della mafia cinese, tenuto conto che il problema è l’infiltrazione e le forze dell’ordine non dispongono di personale di origine orientale. Altro efficace strumento di contrasto è rappresentato dalla possibilità che offre la legge italiana di “aggredire” i patrimoni dei soggetti facenti parte della criminalità organizzata, procedendo alla confisca dei beni in disponibilità diretta o indiretta dei soggetti indiziati di far parte di associazioni mafiose. Il muro invalicabile delle organizzazioni cinesi necessita di metodologie di contrasto e d’indagine camaleontiche e comunque adattabili al particolare contesto; è il solo modo per penetrare e combattere frontalmente l’aspetto più pericoloso del gigante dai piedi d’argilla.

La Guardia di Finanza è molto attiva nel contrasto delle attività criminali dei malavitosi cinesi. L’abbigliamento contraffatto rappresenta un’alta percentuale degli affari della mafia cinese.

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A CURA DELLA REDAZIONE

PUNTA ALLA FORMAZIONEBERETTA DEFENCE SHOOTING ACADEMY

L’idea di creare una scuola professionale all’interno della più antica e famosa fabbrica d’armi al mondo, era da tempo nell’aria a Gardone Val Trompia. L’inizativa, davvero innovativa per BERETTA, doveva però essere affidata a qualcuno che la potesse capire e sviluppare con professionalità e competenza. A questi requisiti rispondeva senza dubbio Marco Buschini, il fondatore assieme al compianto Maestro Marte Zanette dell’A.S.O. che da ormai 10 anni è una delle più importanti scuole di formazione per la sicurezza pubblica e privata. L’accademia, ha spiegato Marco Buschini, dà un valore aggiunto ai clienti Beretta di armi da difesa, che vengono esaltate per la loro qualità e sicurezza tramite la formazione, che ne spiega caratteristiche e potenzialità per poterle sfruttare al meglio. Per questo motivo, l’accademia svolge dei corsi di formazione al tiro di difesa e operativo in tutte le regioni

Lo stand di Beretta presso l’Expo di Riccione 2011

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PUNTA ALLA FORMAZIONE

d’Italia, con un calendario prestabilito. I corsi si sviluppo nell’arco di una giornata e si svolgono in poligoni autorizzati, sono aperti a tutti i possessori di pistole da difesa BERETTA e non, e sono previsti sconti speciali per i clienti BERETTA. La formazione è affidata a Marco Buschini e al suo staff.

LO STAND

BERETTA quest’anno ha partecipato al convegno nazionale “Le giornate della Polizia Locale” a Riccione, con una grande novità: uno spettacolare stand dedicato interamente alla “BERETTA DEFENCE SHOOTING ACADEMY”. Le dimensioni dello stand erano importanti, ed era costituito da un cuore centrale dove si potevano ammirare le ultime creazioni in fatto di pistole da difesa come la ormai famosa PX4 Storm oltre alle ultime nate 98 A1, e la nuova Cougar. LE AuLE DIDATTICHE

Ai lati dello stand, vi erano due aule didattiche da 15 posti l’una, in cui gli Istruttori di tiro e tecniche operative svolgevano le loro lezioni teoriche con ausili audiovisivi. In un’aula si potevano seguire i corsi teorici di tiro operativo con particolare

attenzione alle norme di sicurezza ai consigli tattici. Nell’altra gli Istruttori impartivano lezioni di tecniche di contenimento, arresto e perquisizione, tutto sotto la direzione tecnica di Marco Buschini.

IL pOLIGONO Alle spalle dello stand, per tutta la sua lunghezza vi era un vero e proprio poligono di tiro per armi Co2, con un percorso di Polizia, dove i partecipanti alle lezioni teoriche di tiro operativo, potevano mettere in pratica quanto appreso utilizzando delle pistole a funzionamento Co2 della BERETTA Mod. Px4 STORM.

Il poligono era costituito da un lungo percorso molto impegnativo, in cui affrontare ripari, muretti, ostacoli, muovendosi in maniera tattica, sotto l’attenta direzione degli Istruttori. Quando l’operatore giungeva a quella che sembrava la fine del poligono, doveva affrontare un “mini appartamento” completamente buio, e qui, con l’ausilio di una torcia tattica, doveva ingaggiare un difficile conflitto a fuoco. Le sagome disseminate lungo tutto il percorso erano di tipo elettronico, messe a disposizione dallo sponsor ufficiale TACTICAL TECNOLOGY: costituite da una sagoma

Aula didattica allestitapresso lo stan Beretta

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in particolare materiale plastico e da led di colore rosso, che avvertono visivamente l’operatore quando vengono colpite efficacemente, il tutto viene gestito da due computer. Lungo il percorso, e nelle aule didattiche, la presenza di ampie finestre consentiva di ammirare il lavoro svolto anche dai colleghi al momento non impegnati negli addestramenti.

I NuMERI

In quattro giorni lo stand BERETTA ha ricevuto una grande quantità di visitatori, i corsi sono stati frequentati da più di 450 partecipanti, che alla fine hanno ottenuto un attestato di partecipazione. Per le attività didattiche sono stati impegnati quattro Istruttori, un tecnico addetto all’impianto informatico del poligono, 7200 pallini di piombo, 470 bombolette Co2. Per la parte commerciale sono stati presenti 5 tecnici esperti.

In BERETTA sono tutti entusiasti di questa nuova iniziativa, molto apprezzata anche dai partecipanti alla fiera e che verrà sicuramente ripresentata in occasione della URBAN POLICE di Bergamo.

Marco Buschini insegna una tecnica ad alcuni Agenti

un operatoreimpegnato nella pratica

del corso di tiro operativo.

NUoVa PiattaFoRma aDDestRatiVa PRo-taRGet RaNGe

Via Valsesia, 12 - 00141 - Rome - italyTel. +39 6 8100568 - Fax +39 6 8104712 - www.delcon-poligoni.com - Cod. NATO: A8681

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A curA dellA redAzione di TnM

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The desire to survive in instinctive… The ability to survive is learned… Let no Officer be killed or injured because of something I failed to teach them!(Gil Hansen - Primary Defensive Tactics Instructor presso la Iowa Law Enforcement Academy)

Las Vegas, Nevada.. non è solo la città più lussuriosa del mondo ma anche sede di importanti eventi, come lo Shot Show – appuntamento per gli appassionati di armi che si svolge ogni mese di gennaio – e quest’anno, dall’8 all’11 agosto, location del meeting

annuale dei Trainers dell’azienda americana ASP – Armament System and Procedures. Abbiamo già ampliamente parlato, nel numero del mese di aprile, di questa affermata azienda, che attualmente è fornitrice delle agenzie di polizia e militari di oltre 80 paesi nel mondo e che ha all’attivo la produzione di svariate categorie di prodotti dedicati al settore del Law Enforcement, come ad esempio i tactical baton estensibili, i simulacri da addestramento riproducenti armi denominati “Red Gun” e varie tipologie di manette e tactical led lights. In quest’occasione vogliamo rendervi partecipi del report del programma d’addestramento che ASP propone, e che è ormai diventato un punto di riferimento per molte Accademie di Polizia negli USA. Anche questa volta TNM era presente!! Il corso si è svolto presso le strutture ricettive del prestigioso Harrah’s Hotel, che s’affaccia sullo “Strip”, ed ha avuto la durata di quattro giorni; il primo finalizzato alla ri-certificazione dei Trainers – di cui ASP s’avvale per la formazione degli Istruttori accreditati presso le varie agenzie di polizia – ed i rimanenti tre alla selezione e certificazione dei candidati presentatisi

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per ottenere la prestigiosa attestazione. I Trainers accreditati erano 33, provenienti da USA, Italia, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Canada - tutti in forza ad importanti reparti come ad esempio lo SWAT di San Francisco, l’Accademia del New York Police Department, l’FBI Academy, l’Ontario Police College, il Training Unit dell’ ONU di Ginevra, la Metropolitan Police di Londra; non poteva mancare all’evento il fondatore e Presidente Kevin PARSONS, che ha sapientemente illustrato ai presenti tutti i prodotti attualmente in catalogo ed ha aperto un’ampia discussione sui futuri progetti, che riguardano principalmente innovative tactical lights. E’ infatti in fase di studio e valutazione uno specifico programma d’addestramento all’utilizzo di questi accessori. Quattordici i candidati che si sono presentati alla selezione, tra loro una sola donna, già istruttore di tattiche di polizia presso l’NYPD, i rimanenti provenienti da dipartimenti americani e canadesi. Questi sono stati suddivisi in coppie ed assegnati a gruppi di quattro Trainers che hanno assunto il compito di Mentors, al fine di poterli monitorare, con “il fiato sul collo”, per tutta la durata del corso ed aggiornarli costantemente sulle loro defaiance. La prima giornata di certificazione ha avuto inizio alle 08.00, ed ha visto i vari mentors alternarsi nella spiegazione delle tecniche d’utilizzo dei baton estensibili – modelli Friction Lock e Lever lock - e delle varie tipologie di manette – Trifold, Chain Hinge e Rigid. Spiegazioni tecniche che sono state intervallate ad intensi esercizi a circuito – drill – che hanno permesso di poter valutare l’efficacia del training anche sotto forte stress indotto. A termine giornata – ore 18.00 circa - lo “scontro diretto” con il Redman, che ha ulteriormente logorato i partecipanti, decretando il definitivo abbandono da parte di due candidati. La seconda e terza giornata hanno visto protagonisti i candidati, che hanno dovuto dimostrare le loro qualità d’insegnamento del programma, dell’utilizzo della corretta terminologia ma, soprattutto, convincere i presenti della loro motivazione e spirito di corpo. Anche in questa fase non sono mancati i drill ed il Redman. Il corso ha avuto termine nel pomeriggio della terza giornata con il così detto “Business Lunch”, un intensivo circuito d’addestramento, della durata ininterrotta di circa venti minuti, a cui partecipano sia i candidati che i Trainers, in perfetta sincronia con l’acronimo EFNQ ricamato sulla manica sinistra delle loro polo nere - Everybody Fight.. Nobody Quits. Successivamente si è riunita la conferenza dei Trainers dove, attraverso l’utilizzo del “pollice verso” è stata decretata l’ulteriore esclusione di tre candidati, ritenuti inidonei in quanto non in possesso delle giuste qualità professionali ed attitudinali. Suggestiva

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è stata la cerimonia di consegna degli attestati di certificazione e del “coin” – tanto caro agli americani – appositamente creato per l’evento; cerimonia che ha visto il suo epilogo con la tradizionale bevuta da “el poron” – bottiglia in vetro d’origine spagnola – di un ottimo vino rosato della California. Quest’intensivo corso d’addestramento ci ha veramente impressionati, molto ben studiato ed articolato è stato il percorso formativo, sia attraverso l’utilizzo delle pubblicazioni didattiche, appositamente stampate da ASP, che attraverso serie di esercizi pratici e circuiti intensivi. Appuntamento per il prossimo anno, probabilmente a casa nostra.. ATC Roma 2012!

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KEvIn PARSOnSFOnDATORE E PRESIDEnTE DI ASP

Perché è nata ASP?L’azienda è nata nel 1975 dalle continue richieste degli operatori di polizia che vedevano la necessità di poter essere equipaggiati con strumenti di difesa diversi dalle armi da fuoco, in pratica delle soluzioni “less than letal”. I nostri prodotti hanno avuto una notevole evoluzione, sia nell’impiego dei materiali che nel design, cambiamenti che sono il frutto delle sperimentazioni e dei feedback di coloro che li utilizzano “sul campo”. Siamo fornitori ufficiali in 81 paesi nel mondo, alcuni anche in Europa, ad esempio in Francia sono nostri clienti la Gendarmerie, la Police National e la Douane, in Spagna la Policia Nacional ed i Mossos d’Esquadra.

Perché ASP investe ingenti somme nel Training e non ne impegna nella pubblicità?

ASP ritiene che la migliore verità sull’efficacia dei suoi prodotti sia la strada e, di conseguenza, la migliore pubblicità è l’Agente soddisfatto degli strumenti con cui è equipaggiato. Nella nostra azienda non possiamo permetterci margini di errore nella produzione e nell’assemblaggio dei prodotti in quanto dobbiamo rimanere fedeli al motto che ci accompagna “Protecting those who protect”. Investiamo circa 2 milioni di dollari all’anno nel Training, che si traduce nella fornitura d’addestramento agli Enti attraverso la nostra rete di Trainers ed Instructors. Collaboratori che negli anni abbiamo formato con programmi tecnici di nostra proprietà e che sono selezionati esclusivamente per le loro qualità e competenze professionali. I nostri programmi risultano di facile e rapida memorizzazione ed anche in questo caso, derivano dalle esperienze “della strada”.

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Marco Strano è Direttore Tecnico Capo (Psicologo) della Polizia di Stato, Dirigente nazionale della CONSAP e Direttore Scientifico dell’ICAA (www.criminologia.org)

6 Aprile 2009 - Terremoto all’Aquila. La città è stata seriamente danneggiata nel centro storico, devastato da smottamenti di terreno e crolli.

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Le forze di polizia, i militari, gli operatori della sicurezza rappresentano categorie professionali che più di altre possono trovarsi a dover svolgere una missione di soccorso alla popolazione in caso di pubblica calamità, un contesto dove il problema da risolvere implica primariamente l’incolumita delle persone e dove è necessario agire rapidamente in modo efficace in uno scenario complesso e rischioso. In queste situazioni, a fianco dell’addestramento e dei mezzi necessari, sono necessarie elevate risorse psicologiche, poiché chi interviene è sottoposto a forti sollecitazioni dall’ambiente circostante e dagli eventi.

OrganizzaziOni adatte ad affrOntare l’emergenza OperativaSempre più spesso i militari e le forze di polizia, che tradizionalmente sono nati per combattere e per applicare quindi la forza contro una minaccia armata, vengono impiegati in operazioni di aiuto alla popolazione civile in caso di calamità. Il motivo di ciò è legato alla loro organizzazione, alla loro velocità di intervento, alla loro capacità di operare in ambienti ostili, alla loro autosufficienza logistica in situazioni in cui il territorio non offre forme di sussistenza, alla loro capacità di comunicazione tattica al di là dei sistemi di telefonia mobile “commerciale”, alla presenza di standards psicofisici elevati del personale. Insomma i reparti militari possiedono elevati livelli di efficienza che li rendono adatti a svolgere compiti gravosi in situazioni di crisi che normalmente metterebbero in difficoltà altre forme di organizzazione.

l’esigenza di preparaziOne psicOlOgica specificaMa un reparto di combattenti è sempre adatto a intervenire per prestare soccorso alla popolazione civile? L’addestramento psicologico al combattimento, tipico delle organizzazioni militari, può essere inadeguato in scenari di soccorso e accoglienza, tipici delle pubbliche calamità? E’ più stressante svolgere un pattugliamento in territorio ostile con la paura di essere oggetto di un attacco armato o dover accompagnare una mamma all’obitorio per il riconoscimento del proprio bambino morto in occasione di un terremoto? Le risposta a tutti questi interrogativi è abbastanza semplice. Dipende dall’addestramento che si è ricevuto e dalle risorse psicologiche di cui si dispone che, ovviamente, si formano e si sedimentano nel tempo in base alle esperienze professionali che si sono vissute. La psicologia dei soccorritori, le loro reazioni di fronte a contesti raccapriccianti e altamente stressanti, rappresentano quindi da diverso tempo oggetto di studio da parte

di Marco Strano

ASPETTI PSICOLOGICI DELL’INTERVENTO DI SOCCORSOIN CASO DI PUBBLICA CALAMITÀ

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della comunità scientifica. Obiettivo è quello di ridurre il disagio di questo personale e di migliorare la loro capacità di adattamento.

lO scenariO di interventOHo chiesto impressioni e valutazioni scientifiche a Cristian Talamonti, uno Psicologo dell’ICAA che opera da anni anche nel volontariato “professionale” nell’associazione ANPAS (Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze) e che ha partecipato per alcuni mesi all’intervento di soccorso per il terremoto dell’Aquila. Nel corso di quell’evento il mio collega Talamonti, ha partecipato in prima persona alle operazioni di aiuto della popolazione e ha avuto modo, in qualità di soccorritore, di osservare le reazioni, le debolezze, i punti di forza, i meccanismi di adattamento degli altri soccorritori, compresi quelli appartenenti a strutture militari. La sua esperienza “all’interno della macchina dei soccorsi” (insieme alla consultazione dei testi riportati in bibliografia) è risultata molto utile per scrivere questo articolo e per tentare di sviluppare una sorta di guideline per la tutela psicologica dei soccorritori. Ma partiamo con la descrizione di uno scenario tipico. Gli elementi stressogeni che sono presenti in ogni scenario di pubblica calamità, vale a dire di un evento naturale (es. un terremoto) o artificiale (un incidente) che coinvolge numerose persone, sono ricorrenti. In altri termini si ripropongono quasi sempre le stesse condizioni in maniera più o meno accentuata:• configurazione di un evento catastrofico che travalica le

potenzialità di risposta delle strutture locali e che pone le vittime in condizione di dover chiedere aiuto;

• impossibilità di soddisfare bisogni di vario genere da parte di un gruppo di persone (una comunità) che diviene dipendente dalla struttura di soccorso;

• presenza palese di un elevato numero di morti e di feriti;• sofferenza e paura nelle persone coinvolte;• coinvolgimento (morti o feriti) di bambini e persone giovani

(che provocano reazioni di maggior raccapriccio nei

soccorritori);• confusione e carenza (o ridondanza) di comunicazioni

efficaci;• intervento, in contemporanea, di personale di soccorso di

varia provenienza professionale e di diversa competenza;• fatica fisica ed esposizione prolungata a condizioni meteo

avverse.

il prOtrarsi nel tempOdell’interventO di sOccOrsOA volte l’intervento operativo di soccorso dura parecchio tempo, anche dei mesi, come nel recente caso italiano del terremoto di L’Aquila o nello scenario internazionale dello tsunami. Le situazioni di emergenza, quando protratte nel tempo, generano negli operatori delle particolari condizioni emotive ed affettive ricorrenti (tipiche) che, se non riconosciute e controllate, possono interagire negativamente con la capacità di svolgere con efficacia i propri compiti. Nella letteratura specialistica (Young B.H., Ford J.D., Ruzek J.I., Friedman M.J., Gusman F.D. (2002),

7 Aprile 2009 - Terremoto all’Aquila. Il terremoto è arrivato anche lungo la costa abruzzese. Da Pescara a Vasto (Chieti) sono state centinaia le chiamate ai centralini di Vigili del Fuoco, polizia e dei carabinieri.

10 Aprile 2009 - Terremoto all’Aquila. Il nostro collaboratore Francesco Riti per le strade della città

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“L’assistenza Psicologica nelle Emergenze”, Edizioni Erickson, Trento - che consiglio vivamente di leggere) troviamo descritte delle vere e proprie fasi, situazioni in cui i soccorritori si vengono progressivamente a trovare nel corso dell’azione. Prima fase, definita “caotica” è quella dell’impatto iniziale con lo scenario operativo. Si è circondati dalla sofferenza e dalla confusione. Questa fase è solitamente di breve durata per i professionisti del soccorso ma è comunque presente. I soccorritori possono sperimentare ansia, euforia, paura di quello a cui si va incontro, a volte senso di inadeguatezza al compito richiesto. Poi anche grazie all’addestramento, iniziano dei meccanismi protettivi dell’ansia. Ci si concentra sulle procedure, si controllano i dispositivi di protezione individuale, si prepara l’equipaggiamento, si scelgono i luoghi ove posizionare l’attrezzatura. Avviene insomma un adattamento alla situazione e specie se aiutati da uno stile di comando adatto (questi uomini non stanno per combattere ma stanno per aiutare delle persone e vanno “scaricati” e non “caricati”) entro breve tempo iniziano a svolgere con efficacia i compiti assegnati, ognuno nel suo ambito di competenza. La seconda fase descritta da Young è quella “eroica” in cui la sofferenza presente nello scenario alimenta nei soccorritori momenti di intensa azione durante i quali avviene però un grande dispendio di energia fisica e psichica. Gli operatori sperimentano iperattività e un forte coinvolgimento emotivo. Cercano di dimenticare la fatica e i loro limiti. In questa fase permane una forte tolleranza allo stress, e il soccorritore dimostra sopportazione e pazienza di fronte a qualsiasi problema compresi episodi di rabbia e ingratitudine da parte delle vittime. Poi, lentamente, complice anche la stanchezza psicofisica, le attività cominciano a rallentare e si assestano su ritmi di lavoro più standardizzati. Nella terza fase, definita della “luna di miele” il soccorritore sperimenta una intensa vicinanza emotiva con la popolazione. Questo produce in lui una forte gratificazione e la sua autostima cresce. Si può giungere a una notevole dipendenza emotiva dalla popolazione. Va tutto per il meglio anche perché solitamente in questa fase sono in distribuzione i prodotti di assistenza (cibo, vestiti ecc.) e le risorse economiche supportano ancora in pieno l’intervento umanitario. La quarta fase è quella della “disillusione”. Si avvicina la fine dell’intervento e del ritorno a casa. L’operatore inizia a farsi un primo bilancio del proprio ruolo nello scenario operativo. Ha subito per giorni/mesi un sovraccarico fisico ed emotivo legato alle sofferenze di persone che ha aiutato e può sperimentare anche un senso di inefficacia degli sforzi compiuti, a volte impotenza e inadeguatezza. Eventuali episodi di ingratitudine da parte delle vittime cominciano a essere poco sopportabili e si possono manifestare reazioni di rabbia e aggressività con predisposizione allo scontro verbale o addirittura fisico. La scarsezza dei mezzi e la riduzione del flusso di generi di sostentamento (l’impossibilità di soddisfare le richieste da parte delle vittime) può provocare demotivazione e svogliatezza. L’ultima fase è quella della “ricostruzione” nella quale avviene il passaggio di consegne al turno

successivo e si configura il ritorno alla propria realtà quotidiana. Questa fase risulta fondamentale per dissipare il carico emotivo accumulato nel corso della missione appena finita in vista di una missione futura. Se in questa fase “finale” non viene attuata una strategia di supporto psicologico può con più facilità instaurarsi la Sindrome da Burnout (Maslach 1977) che è un tipo di risposta allo stress da lavoro (tipico delle helping profession) in cui l’operatore è letteralmente “scoppiato” e non ha più nulla da dare. Il burnout si manifesta con esaurimento emotivo, nervosismo, irrequietezza ma soprattutto con apatia e indifferenza quando si viene nuovamente reimpiegati in uno scenario operativo. Le quattro fasi descritte non sono sempre distinguibili tra loro in maniera netta. Possono avere tempi di sviluppo diversi. Normalmente si susseguono ma possono avvenire situazioni di ritorno temporaneo a una fase precedente. Appare comunque evidente la capacità di ogni

11 Marzo 2011 - Una scossa di 9 gradi a 130 km nel Pacifico colpisce il Giappone creando devastanti danni alla popolazione. Pochi minuti dopo uno tsunami con onde alte più di dieci metri si è abbattuto sulle coste affacciate sul Pacifico seminando morte e distruzione nell’area di Sendai, la più vicina all’epicentro.

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fase di sollecitare l’equilibrio psicologico del soccorritore in maniera ben più forte rispetto a quanto avviene durante le normali attività di servizio.

suppOrtO psicOlOgicO agli OperatOriIn uno scenario di pubblica calamità ci sono eventi in grado di generare un sovraccarico emotivo come l’esposizione a scene cruente di morte e sofferenza o come il dover comunicare notizie dolorose a parenti e amici della vittima. L’operatore impegnato in attività di soccorso opera inoltre in uno scenario a volte climaticamente estremo e spesso con turni di servizio dilatati rispetto a quelli comunemente svolti. Il freddo, il caldo, la fame, la sete, la stanchezza sono elementi che sommati all’angoscia di fondo presente nello scenario di pubblica calamità possono rapidamente mettere in crisi la sua efficienza. Alcuni odori (ad esempio quello dei cadaveri o del sangue) vanno a toccare anche piani semiconsci e ancestrali della persona. Il fatto quindi di prendere degli uomini e delle donne di un reparto militare e collocarli in uno scenario di pubblica calamità, assai lontano da quello per cui sono stati inizialmente preparati (e a cui avevano pensato al momento dell’arruolamento), necessita di un’assistenza psicologica alla pari (se non maggiore) di quella che viene rivolta alle vittime della calamità. Un team militare di soccorso a mio avviso non può prescindere, a fianco di personale con funzioni tecniche, dalla presenza di uno Psicologo specialista dell’emergenza, la cui funzione è proprio quella di supportare il personale operante e di fornire preziose indicazioni sul loro impiego alla struttura di comando. Le azioni di defusing e debriefing, ad esempio, sono delle tecniche applicate da Psicologi altamente specializzati che facilitano la decompressione emozionale nei sopravvissuti ad un evento catastrofico. Tali azioni cliniche dovrebbero essere attuate, se necessarie, anche con i soccorritori professionisti nei quali si possono manifestare reazioni acute da stress simili a quelle che normalmente vengono diagnosticate nelle vittime (Young, Ford, Ruzek, Friedman, e Gusman, 2002). “…Io sono un soldato, sono forte, non ho paura di niente, sono pronto a reagire…” rappresentano forme di autosostentamento psicologico adatte a quando si combatte ma poco utili quando “rambo” deve affrontare il dolore degli altri e tentare di ridurlo. Il soldato normalmente è addestrato per affrontare la propria paura ma non quella degli altri. Nel caso specifico dei militari-soccorritori, specie se con una cultura organizzativa “antica” un grosso problema può essere quello di convincerli che non sono invincibili e che possono aver bisogno dell’intervento di uno Psicologo senza per questo essere necessariamente “matti” o deboli” o inadeguati ma semplicemente esseri umani.

addestrare a sOppOrtare lO stress e seleziOnare il persOnale adattOUna delle caratteristiche “professionali” fondamentali degli psicologi è proprio la capacità di “osservarsi” dall’esterno. Noi lo chiamiamo il terzo occhio che ci

guideline organizzativa per la gestione psicologica del personale militare impiegato in attività di soccorso

•Selezione di personale adatto all’impiego nello scenario di pubblica calamità;

•Addestramento specifico al riconoscimento anticipatorio delle proprie reazioni, alla conoscenza dei propri limiti e al controllo dei sintomi emotivi per ridurre gli effetti negativi del sovraccarico emozionale.

•Supporto tattico e supervisione di uno Psicologo esperto nella Psicologia dell’Emergenza con svolgimento di colloqui di sostegno individuali e organizzazione di focus-group in cui vengono condivise le emozioni vissute nel corso della giornata;

•Definizione di turni di servizio che consentano possibilmente degli spazi temporali (anche brevi) nel corso dei quali il personale può dedicarsi a se stesso e non solo pause appena sufficienti per dormire, mangiare, lavarsi ecc. Questo è fondamentale per dissipare lo stress accumulato e il carico emotivo legato all’esposizione prolungata a scene raccapriccianti;

•Controllo continuo e attento da parte dei supervisori (comandanti) oltre che sullo svolgimento dei compiti tecnici assegnati anche sulle condizioni psicofisiche del personale impegnato per cogliere prontamente segnali di disagio;

•Equipaggiamento adatto e in buona condizione, con particolare attenzione alle protezioni individuali e ai sistemi di comunicazione.

13 Gennaio 2010 - Terremoto Haiti.l terremoto di Haiti del 2010 è stato un terremoto catastrofico di magnitudo 7,0 Mw con epicentro localizzato a circa 25 chilometri in direzione ovest-sud-ovest della città di Port-au-Prince, capitale dello Stato caraibico di Haiti.

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consente di guardarci allo specchio mentre agiamo. Tale facoltà può essere appresa ed applicata anche da altre categorie professionali e in particolare dagli operatori del soccorso. Consente di trovarsi meno in balia degli eventi e di saper individuare anticipatamente delle nostre reazioni disfunzionali. Rendersi conto di trovarsi nel bel mezzo di una delle fasi sopra descritte consente di affrontare la situazione con maggiori risorse psichiche. Anche la capacità di recupero rapido dell’equilibrio psicofisico può essere incrementata con percorsi di training mirato (tecniche di respirazione, concentrazione e rilassamento). Esistono poi delle caratteristiche psicologiche “disfunzionali” che possono essere individuate (anticipatamente con test e colloqui diagnostici) e “compensate” nel personale operativo come ad esempio una ridotta resilienza, che è la capacità di adattamento psicologico di fronte ad eventi negativi. Anche la scarsa flessibilità è un elemento sicuramente disfunzionale. Ma ci sono anche caratteristiche personologiche, che albergano negli stadi più profondi della coscienza e che vanno attentamente valutate e se possibile corrette. Ad esempio la tendenza a pensare ad un fallimento personale quando non si riesce a risolvere un problema, oppure la difficoltà a lavorare in team, oppure la tendenza alla sottostima del pericolo. Tutto ciò dovrebbe essere attentamente valutato nella selezione del personale da impiegare in contesti operativi di soccorso.

aziOne di cOmandO e cOOrdinamentO OperativOLe reazioni comportamentali dovute a sovraccarico emotivo che possono presentarsi nei soccorritori (anche di esperienza) di fronte ad un evento tragico e raccapricciante possono essere il “fuggire”, il disinteressarsi degli altri, il gridare in modo terribile, oppure il rimanere attoniti e in silenzio, come impietriti. Questi ed altri segnali indicano che quell’operatore ha bisogno di un sostegno psicologico per ritrovare la sua efficienza. Questi segnali devono essere conosciuti da coloro che svolgono attività di supervisione (comando) al fine di far intervenire del personale psicologico di supporto. I tempi del soldato “acefalo” che deve solo eseguire gli ordini (e alla prima manifestazione di inefficienza rimosso dall’incarico) sembra essere fortunatamente definitivamente tramontato. La Psicologia Militare si è oramai diffusa in tutto il mondo oltre che come strumento clinico e di selezione del personale anche come strumento di miglioramento delle capacità individuali e gruppali nelle organizzazioni armate. Il termine “carne da cannone” (dei tempi in cui mio Nonno Giuseppe ha combattuto da Ufficiale contro gli austriaci) ha fortunatamente lasciato il posto a “efficienti risorse umane”. Un comandante moderno è infatti sempre più un manager che deve amministrare le risorse che gli sono state messe a disposizione. Le risorse umane, soprattutto in uno scenario di pubblica calamità, sono prioritarie e devono essere salvaguardate, nella missione corrente e nell’aspettativa di missioni future.

possiBili reazioni al sovraccarico emozionale nel soccorritore

reaziOni fisiche•accelerazione del battito cardiaco; •aumento pressorio; •difficoltà respiratorie;•nausea;•sudorazione;•tremore;•aumentato bisogno di sonno;•insonnia;•calo dell’appetito;•problemi gastrointestinali.

reaziOni cOgnitive•disorientamento;•difficoltà nel dare senso alle informazioni ricevute;•difficoltà nel comprendere la gravità dell’evento; •difficoltà di memoria;•confusione;•perdita di obiettività;•difficoltà di comprensione.

reaziOni emOziOnali•ansia; •stordimento; •shock; •paura per ciò che si incontrerà sulla scena dell’evento, •inibizione.

reaziOni cOmpOrtamentali•diminuzione dell’efficienza e dell’efficacia;•aumento del livello di attivazione;•difficoltà di comunicazione; •facilità allo scontro verbale o fisico;•aumento dell’uso di tabacco, alcol, farmaci.

Cristian Talamonti, uno Psicologo dell’ICAA che opera da anni anche nel volontariato “professionale” nell’associazione ANPAS

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Di Livio NobiLe - Foto Di Marta NobiLe

La PistolaSemiautomaticaUniversale

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La PistolaSemiautomaticaUniversale

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La USP è apparsa sul mercato ormai da quasi vent’anni: resta sempre molto apprezzata per la sua affidabilità e l’ elevatissima qualità dei materiali che la compongono nonostante le validissime concorrenti “meno attempate”. L’intero progetto che ne portò alla realizzazione aveva come fine quello di racchiudere in una pistola nuova le migliori caratteristiche tecniche dei vari sistemi d’arma corta esistenti per renderla la pistola potenzialmente “universale”, che potesse quindi prestarsi alle molteplici necessità dei vari corpi di polizia e militari. USP è infatti l’acronimo di Universal Selbstlade Pistole (Pistola Semiautomatica Universale) .Per questo motivo venne immessa sul mercato in diverse varianti (Standard,Compact,Expert,Tactical,Match,Elite) e venne camerata nei principali calibri usati in ambito militare e da difesa (.357SIG,9para e 9x21 per l’Italia,40S&W,45ACP). La HK decise, inoltre, di mettere a disposizione dei clienti la possibilità di avere un sistema si scatto/sicura modulare per rendere possibile, tramite la semplice sostituzione di alcune componenti, di adattare l’arma in funzione alle necessità del caso.

Vengono di seguito riportate le 10 diverse possibilità offerte:

1 • Azione mista con la leva di sicura e abbatti-cane sul lato sinistro del castello (spostando la leva verso l’alto si inserisce la sicura manuale ,premendo la leva al di sotto della posizione di fuoco si abbatte il cane in sicurezza) 2 • Identica alla variante (1) ma con la leva sul lato destro3 • Azione mista senza sicura manuale presenta solo la

leva di abbatti-cane sul lato sinistro del castello4 • Identica alla variante (3) ma con la leva sul lato

destro5 • Solo doppia azione con la leva di sicura e abbatti-

cane montata sul lato sinistro del castello6 • Identica alla variante (5) ma con la leva sul lato

destro7 • Solo doppia azione senza leva di sicura abbatti-cane 8 • (adottata nella P8 scelta dai Bundeswehr come

arma secondaria ) le posizioni di fuoco/safe sono state invertite, la leva portata verso l’alto pone l’arma in “fire” mentre verso il basso in sicura e abbatte il cane automaticamente.

9 • Azione mista con la leva di sicura (senza possibilità di abbati-cane) sul lato sinistro del castello

10 • identica alla variante (9) ma con la leva sul lato destro

In Italia la USP è distribuita solamente nella sua configurazione ad azione mista tipo (1) con possibilità di comando ambidestro a richiesta.

HK USP-9 Standard

La versione in mio possesso e che viene presentata in questo articolo è la USP Standard 9mm (ovviamente 9x21).Per me è sempre stata una pistola con un fascino particolare, probabilmente è una delle poche polimeriche che mi ha maggiormente attratto; ha, inoltre, un particolare valore affettivo dato che mi è stata ceduta da un caro amico. Sentimentalismi a parte diamo un occhiata alla pistola nel suo insieme. Dalle linee squadrate con i suoi 19,5 cm di lunghezza e 13,5 cm di altezza, la USP risulta essere massiccia e molto comoda l’impugnatura soprattutto per chi, come me, ha le mani grandi. Il ponticello, di generose dimensioni, permette l’utilizzo dell’arma anche con guanti senza il minimo problema. Il peso, a vuoto, si aggira sui 750 Grammi che

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salgono a 950 con il serbatoio polimerico (con anima d’acciaio) riempito con 15 colpi in 9x21. Sul lato destro dell’arma si notano la leva di azionamento dell’Hold open e la leva per inserire la sicura manuale, che come precedentemente detto, consente di abbattere il cane in sicurezza: ciò permette il porto dell’arma con colpo in canna, senza sicura inserita esplodendo il primo colpo in doppia azione. Lo sgancio del caricatore è possibile azionando la levetta ambidestra (di dimensioni forse un po’ troppo contenute) presente sulla guardia del grilletto. Il carrello dell’arma è composto di acciaio da cementazione che, per essere resistente alla corrosione dovuta da umidità e salino , viene sottoposto ad un processo di nitrurazione. Il fusto in Tecnopolimero ad alta

resistenza ha al suo interno un’anima d’acciaio che funge da rinforzo e da punti di contatto per lo scorrimento del carrello. La canna (rotomartellata a freddo) nella versione Standard misura 108mm , con un passo di rigatura di un giro in dieci pollici (1/10”), la HK ha scelto per quest’arma di adottare una rigatura poligonale che permette una resistenza all’usura notevole, una “vita” media della canna maggiore ed una resa balistica e velocitaria ottimale. L’arma presenta, oltre alla sicura manuale, altri tre sistemi di sicurezza: la sicura automatica al percussore , il disconnettere e la monta di sicurezza. Manca invece la sicura al caricatore (a mio avviso è un pregio) di conseguenza col colpo in canna ma senza il caricatore inserito la pistola è comunque in

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grado di esplodere il colpo. Un ultima Particolarità che deve essere assolutamente citata della USP è senza dubbio la molla di riduzione del rinculo che la casa tedesca ha inserito sull’asta guida-molla all’interno della normale molla di recupero. Questo sistema di ammortizzazione ha una duplice funzione in quanto oltre a ridurre la sensazione di rinculo e il rilevamento dell’arma (consentendo di rimanere “meglio” a bersaglio tra un colpo e l’altro) permette congiuntamente alla solidità strutturale dell’arma l’utilizzo in totale sicurezza di munizionamenti molto vivaci minimizzando gli shock al castello e alla meccanica dovuti alle forze cinetiche in gioco. . Per gli appassionati degli accessori tattici ricordo che in commercio si trovano interessanti kit che permettono di utilizzare i comunissimi accessori studiati per le slitte tipo Weaver che possono essere facilmente applicati alla slitta standard HK ricavata dalla parte anteriore del fusto (altrimenti utilizzabile solo con accessori dedicati).

al momento dello SParo…

La USP è una pistola a corto rinculo con una meccanica di tipo Browning modificata. Al momento dello

sparo la canna rincula assieme al carrello per pochi millimetri, viene quindi intercettata dall’incastro ricavato nell’asta guida-molla che le impedisce di arretrare ulteriormente. La canna a questo punto si abbassa leggermente, svincolando così il carrello che è libero di proseguire la sua corsa, espellendo il bossolo vuoto ed armando il cane fino al raggiungimento del punto di arretramento massimo. La molla di recupero che durante l’arretramento del carrello era stata compressa comincia a ridistendersi per tornare nella condizione di riposo. Così facendo il carrello sfila una cartuccia dal caricatore e va in chiusura (nel caso in cui fossero finite le cartucce nel caricatore si azionerebbe automaticamente l’Hold-Open che intercettando il carrello lo bloccherebbe in posizione di apertura).

trovare l’anno di “naScita” della noStra HK

Come capire l’anno esatto in cui la nostra fida USP è nata? L’anno è riportato sul lato sinistro del carrello (tra la matricola e il numero di catalogo per intenderci) sotto forma di due lettere, ad ogni lettera corrisponde un numero secondo l’ordine: (A=0)(B=1)(C=2)(D=3)(E=4)(F=5)(G=6)(H=7)(I=8)(K=9). Il mio esemplare riporta sul carrello

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rigatura poligonale

rampa di alimentazione lavorata con estrema cura

asta guidamolla e molla di contrasto per smorzare il rinculo

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le lettere KH quindi è del ’97… se li porta bene vero?

in conclUSione

Credo la qualità di quest’arma sia innegabile sia a livello progettuale che per quanto riguarda i materiali impiegati. Se a questo si aggiunge la precisione invidiabile di cui è capace e i rarissimi (per non dire nulli) inceppamenti, è facile capire perché, a distanza di 18 anni dal suo arrivo e dovendo competere con concorrenti di altissimo leveraggio tra cui le Glock , la USP resti comunque una pistola molto apprezzata, con un ottima reputazione sia a livello civile/sportivo che militare e di polizia.

dettaglio leve Holdopen sicura sgancio caricatore

dettaglio sicura modulare

carrello lato sinistro codice alfabetico per risalire all’anno

ScHeda tecnica

modello (calibro): USP Standard (9x21)Funzionamento: Corto rinculo (tipo Browning modificato)mire: Inserite a coda di rondine, tacca di mira regolabile in deriva con riferimenti bianchi (sistema di mire al trizio opzionale)lunghezza: 195 mmcanna (lunghezza): 108 mmrigatura (passo): Poligonale (1 giro in 10” di canna)altezza: 136mmPeso a vuoto: 750 grammicapacità del caricatore: 15 cartucce

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TesTo e foTo di Michele fARiNeTTi e fAbio Rossi

Le GIoRNATeDeLLA poLIZIALoCALeDA TReNT’ANNI L’AppuNTAMeNToDI RIFeRIMeNTo peR LA poLIZIA LoCALe

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compiti nei settori della sicurezza del cittadino che spaziano dal controllo del territorio alla raccolta di informazioni per conto di altri Enti Pubblici.TNM, come da tradizione e fedeli al nostro motto… sempre in prima linea… ha ricercato, tra i numerosi espositori, quelle realtà che potevano interessare i nostri lettori ed in particolare gli operatori del settore Law Enforcement. Iniziando il tour virtuale, dall’area espositiva esterna per passare, successivamente, a quella interna, veniamo incuriositi da una Fiat Grande Punto con serigrafia Carabinieri, posizionata nello stand dell’azienda Intellitronika Srl di Roma. Veniva proposta una soluzione tecnologica avanzata denominata Me.Du.Sa, composto essenzialmente da E.V.A. (Enhanced Vehicle Automation), un sistema elettronico installato a bordo dell’autovettura. L’Operatore sulla strada, tramite il suo utilizzo, sarà in grado di essere supportato, in tempo reale, nella comunicazione con la Centrale Operativa, nel rilevamento della posizione GPS, nell’accesso alle Banche Dati ed archivi informatici ed eventualmente nella seguente fase di sanzionamento. Successivamente, sempre con i colori istituzionali della Benemerita, la Lotus Evora S “Carabinieri”, in bella mostra presso lo stand della BM Servizi di Origgio Varese, la quale proponeva l’intera gamma di barre luminose prodotte da Federal Signal Vama, società leader mondiale nella produzione di dispositivi luminosi ed accessori per allestimenti di veicoli speciali. Subito dopo puntiamo la scritta TANFOGLIO… superfluo rammentarvi chi sono e di cosa si occupano… Veniamo accolti dai rappresentanti che immediatamente ci aprono le vetrine e ci offrono una selezione

delle pistole semiautomatiche della linea FORCE, adatte all’impiego da parte degli operatori Law Enforcement grazie alle loro caratteristiche di maneggevolezza, sicurezza, precisione ed ergonomia. L’azienda Tanfoglio ha ideato, specificamente questi prodotti per la difesa professionale; i modelli Force Pro e Force Police, entrambi costruiti con fusto in tecnopolimero, base picatinny per il montaggio rapido della torcia ad alta luminosità

Si è tenuta, dal 14 al 17 settembre, la XXX^ Edizione delle Giornate della Polizia Locale. Nella moderna location del Palazzo dei Congressi di Riccione, oltre che nella storica sede del Palazzo del Turismo, hanno partecipato al Convegno Nazionale ed alla Mostra espositiva, oltre 2500 visitatori tra Comandanti, Ufficiali e Agenti di Polizia Municipale, Dirigenti, Amministratori e Funzionari degli Enti Locali. L’appuntamento è servito per fare il punto sulle novità normative, per programmare il futuro dei corpi di Polizia Locale e per conoscere le principali novità tecnologiche a supporto dell’attività operativa. Molto ricco il programma di convegni ed incontri, che ha visto, il succedersi di relatori, esperti nel settore e qualificati rappresentanti degli Enti Locali e delle Associazioni di categoria professionale. Oltre 100 le affermate aziende espositrici che hanno trovato spazio negli oltre 6.000 mq dando cosi vita alla più completa rassegna di tecnologie e di prodotti per il settore. L’evento di caratura nazionale, è stato organizzato dal Gruppo Editoriale Maggioli, con il patrocinio dei Ministeri dell’ Interno e dei Trasporti, la Regione Emilia-Romagna, la Provincia di Rimini, il Comune di Riccione, l’UPI ed è stato promosso dall’ANCI. I temi trattati nei vari convegni vertevano su tematiche inerenti gli strumenti per la sicurezza stradale, le normative e le varie attività’ dirette all’attuazione della riforma del codice della strada e del relativo regolamento, gli aspetti operativi e giuridici dell’infortunistica stradale, equipaggiamenti e tecnologie specifiche per questa figura professionale in continua evoluzione. Infatti le Polizie Locali sono chiamate ad assolvere numerosi e delicati

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LOTUS CC CON SEGNALATORE LUMINOSO D’EMERGENZA FEDERAL SIGNAL VAMA

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LE PISTOLE TANFOGLIO FORCE

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e/o del puntatore laser, risultano essere di estrema utilità per tutti coloro che operano nel campo della sicurezza armata.Grazie alla loro disponibilità riusciamo a farci assemblare la Caracal F con i relativi accessori tattici, facente parte della serie di innovative pistole semiautomatiche interamente realizzate e prodotte negli Emirati Arabi, già recensita da TNM nel primo numero, di cui sono distributori ufficiali in Italia.Tra i prodotti destinati all’equipaggiamento “less than lethal” delle Polizie Locali visioniamo i prodotti della Defence System S.r.l. di Modena, importatore e distributore del marchio tedesco TW1000 - prodotti che si basano su spray anti aggressione a base di OC (Oleoresin Capsicum) estratto di peperoncino naturale, adottato da molti Comandi sotto il nome di RSG4 / RSG6. Erano, inoltre, presenti anche gli ausili tattici difensivi – mazzetta di segnalazione telescopica - indirizzate ai rappresentanti delle Forze dell’Ordine, prodotte

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LA CARACAL ASSEMBLATA CON I SUOI ACCESSORI

TATTICI

LA CARACAL F CON ACCESSORI TATTICISOTTO: SPRAY OC RSG DEFENCE SYSTEM

E MAZZETTE DI SEGNALAZIONE GHOST INT.

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dalla Ghost International di Bovezzo (BS). All’interno della hall del Palazzo dei Congressi si fanno notare due moto enduro, equipaggiate specificatamente per il servizio di Polizia Locale, della ditta SIRENA Spa di Rosta (TO). Nel posteriore l’asta telescopica dotata di sorgente luminosa, a da 8 LED di ultima generazione e relativa cupola in policarbonato di forma tondeggiante e, sul cupolino frontale, i dispositivi lineari, di forma rettangolare, dotati di 6 LED con elettronica integrata, con funzioni di lampeggio o luce di crociera. Al piano superiore troviamo numerose aziende che espongono abbigliamento, calzature, sistemi di rilevazione della velocità e del tasso alcolemico, ma ci soffermiamo presso E.T.s. S.n.c. di Monfalcone (GO) in quanto notiamo, indossato da un manichino, un body armour dell’azienda scozzese JACK ELLIS, modello Special Forces Protection, con livello di protezione NIJ-III o NIJ-IV, assemblati con materiale balistico Twaron, fibra aramidica della Teijin. Ci viene riferito che il modello esposto ha recentemente equipaggiato le unità operative della GNR Portoghese.Altri prodotti interessanti, anche se molto di nicchia data la fascia di prezzo, sono le proposte di DELO SYSTEMS Srl - Fizzonasco di Pieve E. (MI), che commercializza computer portatili Panasonic (come il Toughbook CF-19) con performance sempre più elevate e funzionalità sempre più complesse, capaci al tempo stesso di affrontare anche le condizioni più estreme. Una serie di prodotti dedicati a un target professionale, nei quali robustezza, protezione degli agenti atmosferici ed un ampio range delle temperature operative sono caratteristiche considerate ormai indispensabili.Altra novità degna di nota è

esposta dall’azienda MIRAFAN Srl di Roma, partner di Intellitronika Srl nel sistema Me.Du.Sa, che proponeva il relativo dispositivo portatile O.T.T.O. (Original Tecnologies for Tablet Opportunities). Entrambi sono perfettamente integrati ed interoperabili tra loro e permettono la riduzione dei tempi di risposta alle richieste di intervento dell’Operatore. Lo stand è stato visitato dal Sindaco di Roma Alemanno, al quale il

prodotto è stato dettagliatamente illustrato. La stessa azienda nel voluminoso catalogo annovera vari articoli destinati al settore military/law enforcementm tra cui, l’innovativo sistema integrato di protezione D30, materiale costituito da molecole in grado di legarsi in maniera strutturata durante i movimenti, rendendo il sistema flessibile e malleabile; sottoposte ad un impatto ad alta velocità, le molecole si incatenano, in una

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I SISTEMI LUMINOSI E SONORI - SIRENA

PRODOTTI HARDWARE PANASONICDELO SYSTEM

LA CARACAL F CON ACCESSORI TATTICISOTTO: SPRAY OC RSG DEFENCE SYSTEM

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frazione di secondo, irrigidendo temporaneamente il prodotto.Proseguendo il tour, tra le varie realtà che proponevano specifici corsi di formazione ed aggiornamento per gli operatori di Polizia locale, un ruolo di punta viene svolto da SIPL - Scuola Interregionale di Polizia Locale –di Modena che ha competenza per i Comandi delle Regioni Emilia-Romagna, Toscana e Liguria. I loro interventi formativi mirano a sviluppare le capacità e la preparazione degli operatori di Polizia locale, di ogni ordine e grado, nelle aree della sicurezza urbana, della sicurezza della strada, della tutela del consumatore e del territorio, con attenzione sia alla prima formazione degli operatori neo-assunti sia all’aggiornamento delle competenze del personale, lungo tutto l’arco della vita professionale. Oltre alle materie specialistiche di intervento della Polizia locale, una particolare cura viene posta nella formazione su materie volte all’acquisizione di indispensabili competenze trasversali, quali quelle relazionali, comunicative e gestionali, applicate allo specifico contesto della Polizia locale, non trascurando le nuove tecniche di difesa personale professionale ed utilizzo dei presidi tattici difensivi. Sempre per la tutela e la sicurezza dell’Operatore, non solo appartenente alle FF.OO., ma anche, al settore della Protezione Civile e Vigili del Fuoco, la ditta SINTEL ITALIA Spa di Pomezia (Roma) ci illustrava dettagliatamente i propri apparati della linea Explor, ed in particolare il PSA – Personal Security Assistant. Primo dispositivo appositamente progettato per essere utilizzato come equipaggiamento personale al fine di migliorare, nelle attività di pattugliamento, di

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BODY ARMOUR SPECIAL FORCES DELLA JACK

ELLIS

MADMAX E TNM. UNO DEI PRODOTTI

ANTISOMMOSSA DELLA MK TECHNOLOGY

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ordine pubblico e di pubblico soccorso - le capacità operative e la tutela degli operatori delle Forze di Polizia e di altre Organizzazioni. L’Explor è di piccole dimensioni, praticamente tascabile, è molto leggero ed ha un’autonomia di molte ore, in funzione del ciclo di utilizzo. Le sue numerose funzionalità lo rendono uno strumento di forte supporto alle attività di campo e particolarmente adatto per

condividere il contesto operativo dell’azione. Infatti è possibile connettere ad Explor qualsiasi tipologia di telecamera analogica sia di tipo palese, sia discreto, sia integrata in equipaggiamenti già in uso. Explor, attraverso il microfono CAMSAT, gestisce via Bluetooth, le funzioni di apparati radio, quali ad esempio la Radio Tetra Sepura STP 8000. Il CAMSAT integra, oltre ai comandi radio, anche una microcamera

che permette di affiancare alla comunicazione Tetra la registrazione e le trasmissione live delle immagini, come ad esempio l’agente di pattuglia o il servizio security all’interno degli stadi. Per ultimo, ma non in ordine di importanza, abbiamo lasciato il Nostro partner commerciale Mad Max Co Italia di Formello (Roma)… rappresentato presso lo stand da Massimo ZOTTI, e che vogliamo ringraziare per averci ospitato, come punto di appoggio logistico. L’azienda, com’è noto, è sul mercato da più di vent’anni, ha un notevole background ed una profonda conoscenza dei prodotti, che le hanno permesso di ottenere una serie di rappresentanze prestigiose, sia italiane che straniere, nei settori del Military e del Law Enforcement. In esposizione troviamo materiale tecnico-tattico ed abbigliamento della BLACKHAWK, baton estensibili, manette di alta qualità e spray OC Key Defender dell’ASP, stivaletti militari e di servizio della STARFORCE, protezioni balistiche in Dyneema della DSM, abbigliamento tattico della VERTX e, novità assoluta, gli articoli protettivi antisommossa della tedesca MK TECHONOLOGY, di cui ci occuperemo più approfonditamente in un prossimo numero della rivista. Citiamo anche, in sintonia con l’evento, che l’azienda ha creato un suo Training Team, che si occupa della formazione alla difesa personale professionale ed all’utilizzo dei prodotti ASP. L’intensa giornata si è conclusa con un interminabile viaggio in autostrada, cercando di riordinare le idee e volando con il pensiero verso il MILIPOL 2011.Expò di caratura mondiale che si svolgerà dal 18 al 21 ottobre presso il padiglione 1 del salone espositivo di Parigi Porte de Versailles… e dove TNM si troverà nuovamente… IN PRIMA LINEA!!!

L’EXPLOR PERSONAL SECURITY ASSISTANT DI SINTEL ITALIA

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IL SINDACO DI ROMA ALEMANNO VISIONAIL SISTEMA O.T.T.O. DI MIRAFAN

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boots for top professional armies

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