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John Gregory Dunne Mostro Vivere e sopravvivere a Hollywood Traduzione di Luca Fusari

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John Gregory Dunne

MostroVivere e sopravvivere a Hollywood

Traduzione di Luca Fusari

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Copyright © 1997 by John Gregory Dunne.

All rights reserved including the rights of reproduction in whole or in part

in any form.

www.saggiatore.it

© il Saggiatore s.p.a., 2011

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Mostro

Per Scott Rudin e Jon Avnet.

E in memoria di John Christian Foreman

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Sommario

Foreman 11

Rudin 117

Rudin & Avnet 141

Avnet 173

Avnet ii 213

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mostro: persona o creatura di aspetto repellente; individuo

animale o vegetale deforme, lontano dalle proporzioni e dalla

forma naturale della sua specie o razza; individuo di animo

perverso e crudele, che si compiace a compiere il male […].

(de mauro, Dizionario della lingua italiana)

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Nella primavera del 1988 io e mia moglie Joan Didion ricevem-mo la proposta di scrivere una sceneggiatura basata sul libro Golden Girl di Alanna Nash, biografa della reporter e con-duttrice televisiva Jessica Savitch. Nell’estate del 1996 uscì Up Close & Personal, un film basato sulla nostra sceneggiatura ma non più ispirato alla vita di Jessica Savitch. Questa storia par-la del film, del perché impiegammo otto anni per realizzarlo, di Hollywood, della vita del sottoscritto e infine della mortali-tà con le sue amarezze.

Dovete chiamare Grace

Avevo conosciuto John Foreman al mio secondo anno di Princeton, durante una festa organizzata da mio fratello a New York. John veniva da Pocatello, nell’Idaho, e reduce del-la Seconda guerra mondiale aveva insegnato letteratura inglese allo Stephens College del Missouri, per poi abbandonare l’ac-cademia e inseguire una carriera da addetto stampa nel mondo

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dello spettacolo. Quella sera, alla festa, accompagnava una sua cliente, un’attrice alle prime armi che pubblicizzava un western con Gary Cooper. Il film si intitolava Mezzogiorno di fuoco, l’at-trice era Grace Kelly.

Rividi John quasi vent’anni dopo, quando incaricò me e mia moglie di riscrivere una sceneggiatura per Joanne Woodward. Nel corso dei decenni John aveva subito due metamorfosi: nel-la prima era stato agente cinematografico di enorme succes-so, cofondatore della Creative Management Association (cma), agenzia di punta fra gli anni Sessanta e i Settanta; nella seconda produttore di successo altrettanto enorme: fra i suoi film spic-cano Butch Cassidy, Sfida senza paura e L’uomo dai sette cape-stri. Con il suo vecchio cliente Paul Newman aveva fondato la Newman-Foreman. Era rimasto in ottimi rapporti con la signo-ra Kelly, nel frattempo divenuta principessa di Monaco, e per anni perseguitò me e mia moglie ogni volta che ci trovavamo a Parigi. «Dovete chiamare Grace» diceva, e ci dava numero te-lefonico e indirizzo degli alloggi di Sua Altezza in avenue Foch. Noi non chiamavamo, e lui se la prendeva con la nostra pigri-zia. Una volta cercò persino di organizzare un appuntamento per far giocare insieme le bambine: nostra figlia Quintana e la principessa Stephanie.

La sceneggiatura per Joanne Woodward fu un fiasco. Era tratta da un soggetto originale di Joyce Carol Oates intitolato The Verbal Structure of a Woman’s Life; raccontava una storia d’amore interrazziale tra colletti blu ambientata tra Detroit e Cleveland. Oates abbandonò il progetto dopo l’ultima riscrit-tura imposta dal suo contratto, e altrettanto fece Woodward dopo un paio di stesure mie e di Joan. Da buon ottimista, John

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ci fece riscrivere il film per una serie di attrici, fra cui Vanessa Redgrave, Faye Dunaway, Natalie Wood, Julie Andrews e Shirley MacLaine; nessuna era formalmente impegnata nel film, ma tutte ne volevano un copione personale, modificato in base ai loro consigli. Ne stendemmo così tanti che finii per lamen-tarmi con John: a quel ritmo era come lavorare per due cente-simi a pagina. Detroit e Cleveland cedettero il passo a Hartford e New Haven, poi a San Francisco e Sacramento e, infine, per un gioco di prestigio che ancora fatico a comprendere, la sto-ria d’amore interrazziale fra colletti blu, reintitolata January, February e addolcita di molto rispetto al soggetto originale di Joyce Carol Oates, fu ricollocata all’Ojai Music Festival. Dove, grazie al cielo, morì.

John era benvoluto da tutti, una presenza gradita ai miglio-ri funerali privati hollywoodiani, che animava sfoderando pun-tuale i pettegolezzi più recenti e scurrili sul caro estinto. Ci sentivamo spesso e fu lui, nel 1973, a concretizzare e sviluppa-re insieme a noi l’idea di una versione rock di È nata una stel-la, prima che a scippargli il ruolo di produttore, senza troppi complimenti e con un risarcimento simbolico, non arrivasse-ro Barbra Streisand e il suo compagno Jon Peters. Non di rado capitava che gli proponessimo titoli che giudicavamo interes-santi, per esempio un western ferroviario intitolato Hundredth Meridian o North Slope,un thriller ambientato fra i pozzi di pe-trolio, e che John prendesse accordi di produzione con gli stu-di, organizzasse incontri con attori e registi oppure mandasse gli scout in cerca di locations benché avessimo fra le mani poco più che un titolo e l’impegno a consegnare la sceneggiatura non appena uno di noi avesse terminato il libro che stava scrivendo.

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North Slope, per esempio, non andò mai oltre un accordo di produzione e una manciata di fotografie di pozzi ritagliate dal resoconto annuale di una società petrolifera oggi defunta, del-la quale possedevamo alcune azioni. Soldi non ne giravano, ma sapevamo di poterci contare se ne avessimo chiesti, sapevamo che esistevano accordi precisi, rimborsi garantiti, una produzio-ne a cui addebitare le spese, e contratti «pay or play» relativi al-la prima stesura, alle correzioni e alla revisione.

Lo sciopero degli sceneggiatori del 1988

Hollywood sopravvive soprattutto grazie a relazioni come quel-la che ci legava a John Foreman. Intervistate un qualsiasi pro-duttore rampante, e vi dirà che il segreto del suo successo sta nella capacità di intrattenere «buone relazioni» con gli artisti. «Non è un semplice rapporto di lavoro» recita il mantra dei manager «siamo amici». In una comunità così autarchica e ri-piegata su se stessa, uno sciopero, in particolare uno sciopero dei lavoratori «di prima fascia» (ovvero gli «artisti»: attori, re-gisti e autori, laddove i tecnici sono lavoratori «di seconda fa-scia») è un vero e proprio strappo al tessuto sociale, che mette in scena invidie e verità scomode su cui sarebbe meglio tacere. A dirla tutta, gli autori sono gli unici lavoratori di prima fascia che scioperano regolarmente; dal 1969, anno della mia iscrizio-ne al Writers Guild of America (wga), il sindacato unico degli autori, io stesso su quattro scioperi ho attraversato i picchetti tre volte, perdendomi l’ultimo soltanto perché avevo trasloca-to da Los Angeles.

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Sin dai primordi dell’industria cinematografica, lo sceneg-giatore è considerato nella migliore delle ipotesi una necessi-tà anomala, nella peggiore una maledizione da sopportare. Nel 1922 Cecil B. DeMille offrì una ricompensa di mille dollari a chiunque fosse in grado di partorire «un’idea capace di mette-re a soqquadro il mondo. Aspetto proposte da ferrovieri o mi-lionari» sosteneva DeMille sul Los Angeles Times «mendicanti che muoiono di fame e regine dei salotti». E pure dal «garzo-ne di un fruttivendolo, che nascosto chissà dove sente ribollire nel proprio animo un’idea potente». Non c’era bisogno che il ferroviere, il milionario, il mendicante, la regina dei salotti o il garzone trasformassero l’idea in un copione. «Abbiamo i nostri autori di fiducia» scriveva DeMille «capaci di affinare i detta-gli tecnici della trama meglio di chiunque altro». Come se l’ani-mo dello sceneggiatore fosse incapace di partorire idee capaci di mettere a soqquadro il mondo, e potesse occuparsi soltan-to di ciò che DeMille giudicava un dettaglio tecnico di secon-do piano: la trama.

Il tiro allo sceneggiatore è lo sport più diffuso a Hollywood; chiunque nell’ambiente è convinto di saper scrivere, se solo avesse un po’ di tempo. Il fatto che gli sceneggiatori trovino il tempo per scrivere ne dimostra la parentela con gli anel-li inferiori della catena alimentare. L’ambiente li bolla come scontenti cronici strapagati e sopravvalutati, la versione hol-lywoodiana dei mercenari assiani1 il cui valore si misura in dollari, dal momento che le loro parole appartengono a chi li assolda o licenzia. «Imbecilli marca Underwood» li chiamava

1 Soldati di ventura provenienti dall’Assia, al soldo dell’esercito inglese durante la guerra d’Indipendenza americana (1775-1783). [N.d.T.]

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Jack, il più malefico dei fratelli Warner, e il concetto perdu-ra soprattutto fra gli scribacchini che parassitano il mondo dello spettacolo, con la sola differenza che oggi il laptop ha sostituito la macchina da scrivere Underwood. «Ormai dan-no per scontato di essere cittadini di terza classe, la spina nel fianco dell’industria cinematografica» disse durante lo scio-pero del 1988 Frank Pierson, sceneggiatore premio Oscar (per Quel pomeriggio di un giorno da cani), rappresentante e in seguito presidente della wga. «Il nostro auspicio è che prima o poi nessuno ricordi più la vecchia battuta dell’attri-cetta polacca che pensa di poter far carriera scopandosi lo sceneggiatore.»

Il problema è che lo sceneggiatore non è uno scrittore ve-ro e proprio, poiché una sceneggiatura non nasce per essere letta ma la si può giudicare soltanto quando la si vede rappre-sentata, e nemmeno un cineasta, perché non sta a lui ma al re-gista controllare lo stile, l’atmosfera, la struttura e il punto di vista richiesti dal prodotto finito: ciò avviene in sala di mon-taggio, dove il regista è sovrano. Per di più, la presenza dello sceneggiatore sul set può diventare una vera e propria minac-cia per l’ispirazione del regista. Il copione è sempre sacro, il suo autore quasi mai. Secondo una regola non scritta, più au-tori lavorano a un copione, migliore sarà il risultato. Dei tre-dici sceneggiatori che misero mano alla nostra versione di È nata una stella, otto chiesero di comparire nei crediti; l’ar-bitrato della wga assegnò a me e Joan i primi posti e per se-condo, anziché Barbra Streisand e Jon Peters, apparve Frank Pierson, che in ordine cronologico era stato l’ultimo a ritoc-care il copione.

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Forse nessuno sa spiegare «l’odio che Hollywood nutre da sempre nei confronti degli autori» in maniera più pungente di Robert Towne, autore di Shampoo e Chinatown (che gli valse un Oscar), nonché uno dei migliori sceneggiatori degli ultimi trent’anni. «Fintanto che lo sceneggiatore fa il proprio mestie-re, nessun altro ha un mestiere da fare» scrisse Towne in un saggio per il periodico Scenario. «In altre parole, è lui il coglio-ne che risparmia agli altri di andare a lavorare.» Il fatto che li si giudichi in questa maniera, e che loro stessi ne siano consa-pevoli, è il motivo principale che spinge gli autori a scioperare regolarmente, quali che siano i contenziosi creativi, economi-ci o assistenziali aperti fra dipendenti e dirigenti. Benché uno sciopero degli autori possa dimostrarsi a lungo termine po-co redditizio, è un’opzione che scatena un discreto numero di ritorsioni, una «rivolta dei coglioni» soddisfacente benché autodistruttiva.

I cinque mesi dello sciopero del 1988 furono cinque mesi di veleno. Di norma si assegnano più sceneggiature di quante se ne scrivano, e soltanto una parte di quelle scritte raggiun-ge la fase di produzione, perciò gli studios decisero di coglie-re la palla al balzo sfruttando lo sciopero per cancellare, sotto l’ombrello legale delle «cause di forza maggiore» (eventi ina-spettati e catastrofici che giustifichino lo scioglimento di un contratto), centinaia di progetti in corso di realizzazione, sen-za l’obbligo di pagarli a sciopero terminato. Gli scioperi por-tano sempre con sé l’opportunità di fare le pulizie di casa, potare i rami secchi e abbandonare i progetti poco interes-santi. Nel nostro caso, vedemmo cancellati i contratti di North Slope, di un western ambientato nel periodo delle «guerre per

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l’acqua» californiane,2 intitolato Water, e di un adattamento dal mio romanzo Dutch Shea, Jr. Erano tutti progetti di retro-via, approntati nel caso ci servissero capitali freschi, ma sic-come il nostro recente trasloco da Los Angeles a New York si era dimostrato più dispendioso del previsto, contavamo di trasferirne almeno uno in prima linea.

Perciò dovevamo trovare un film partendo da zero. Con un ulteriore incentivo a muoverci: nell’autunno del 1987 avevo su-bito un’operazione chirurgica chiamata angioplastica, ed era tassativo che io e mia moglie fossimo coperti dal piano di assi-stenza sanitaria del Writers Guild, al quale ha diritto soltanto chi può vantare collaborazioni continuative con la televisione o con il cinema.

In sala rianimazione sopravviveva soltanto uno dei nostri progetti presciopero. Era una sceneggiatura intitolata Playland, che avevamo approntato per la Lorimar. Dopo aver rilevato dalla mgm un nostro vecchio contratto, legato alla stesura di una versione ammodernata e musicale di Mildred Pierce, la Lorimar ci aveva proposto di lavorare a una sceneggiatura con protago-nista il gangster Bugsy Siegel. La nostra prima reazione fu fred-da quanto quella della Lorimar di fronte al musical Mildred Pierce. Tuttavia, trovammo un che di stimolante nella proposta Siegel; perciò tornammo alla Lorimar e proponemmo, anziché una semplice biografia di Bugsy, un soggetto originale che par-lasse di un generico gangster ebreo che arriva a Hollywood e si innamora di Shirley Temple. Non della vera Shirley Temple,

2 Il riferimento è ai contrasti fra la città di Los Angeles e gli abitanti della Owens Valley per lo sfruttamento delle acque della vallata, scoppiati negli ultimi anni del xix secolo [N.d.T.].

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ovviamente, ma di un’attrice-bambina di successo che, com-piuti i diciassette anni, cerca di fare il gran passo verso ruoli da adulta, una donna-fanciulla con il vocabolario di uno scarica-tore di porto e la moralità di un coniglio. La Lorimar ci diede carta bianca e fu entusiasta della prima stesura di Playland, che consegnammo poco prima dell’inizio dello sciopero.

Dietro le quinte, però, la finanza hollywoodiana rimescolò le carte: la Lorimar fu acquistata dalla Warner Bros e ciò fu il col-po di grazia per Playland e altri progetti in corso. Benché fos-simo in debito di una seconda stesura, era improbabile che la Warner ce la chiedesse. I nuovi dirigenti, timorosi di scottarsi con progetti interni già autorizzati, non intendevano sobbarcar-si anche quelli rilevati da un’altra casa di produzione. «Abbiamo ereditato un sacco di orfani dalla Lorimar»: così Lucy Fisher, vi-cepresidente della Warner, mise le mani avanti in occasione del-la nostra unica riunione riguardo a Playland. Poi ricevemmo gli appunti della Warner successivi a quella riunione, firmati sol-tanto da un’entità chiamata creativo, che dichiarava: «Siamo convinti che questo progetto abbia un grande potenziale», frase che, tradotta, significa «archivia e scordatelo». Le indiscrezio-ni secondo cui anche Warren Beatty stesse lavorando a un pro-getto riguardante Bugsy Siegel non fecero che acuire il nostro isolamento, ma per fortuna Playland non scomparve del tutto; la sceneggiatura abbandonata diede il la a un’idea di romanzo che pubblicai sei anni dopo con lo stesso titolo.

All’inizio dell’agosto del 1988 lo sciopero terminò, dopo che il Guild accettò certi compromessi che soltanto due mesi pri-ma aveva rifiutato. E in quel momento cruciale si rifece vivo John Foreman.

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Tempi duri

Per John erano tempi duri, destino che a Hollywood tocca spesso a chi invecchia senza aver fatto fruttare il gruzzolo mes-so da parte nei periodi di vacche grasse; le ricche buonuscite di certi alti dirigenti industriali, con tanto di pensione e assi-stenza sanitaria a fare da paracadute dorato, non fanno par-te del gioco. Dopo lo scippo di È nata una stella, John aveva prodotto due film molto belli, diretti da John Huston: L’uomo che volle farsi re e L’onore dei Prizzi. Entrambi però avevano richiesto tempi di lavorazione lunghi e, a causa della salute a rischio di uno Huston ormai anziano e afflitto da enfisema cro-nico, i budget e i compensi erano stati ridotti all’osso. John era una specie di cane da guardia, incapace di abbandonare i pro-pri film anche quando era la scelta meno conveniente. Per lui l’importante era portare a termine il lavoro, quali che fossero le umiliazioni e le incursioni dei finanziatori che lo costringe-vano a tirare la cinghia. A quel punto aveva un progetto e un socio, un avvocato di Beverly Hills con l’aria da bravo ragaz-zo vestito casual, di nome E. Gregory Hookstratten, che tutti chiamavano «Hook».3

Dietro l’atteggiamento affabile, Hook celava una reputa-zione bellicosa e irruenta come agente di sportivi professio-nisti (fra i quali i campioni di football o.J. Simpson e Marcus Allen) e soprattutto di mezzibusti televisivi locali e nazionali; i gioielli della sua lista di clienti erano Tom Brokaw e Bryant Gumbel della nbc. Hook era stato anche agente – e ancora di

3 «Uncino», «gancio». Forse non è casuale il riferimento al Capitan Uncino di Peter Pan [N.d.T.].

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salvezza – di Jessica Savitch, nei suoi ultimi anni di alti e bas-si. Grazie al suo rapporto con lei aveva ottenuto la proprietà dei diritti cinematografici di Golden Girl, la biografia scritta da Alanna Nash, all’epoca ancora in bozza. Hook era avvezzo a lavorare con le primedonne perfide e sfuggenti del mondo dello sport e dell’informazione, e dall’alto di tale esperien-za sapeva di dover prendere con le molle le primedonne del mondo del cinema, per molti versi altrettanto perfide e sfug-genti. Come guida in questo nuovo campo minato scelse John Foreman, suo ex vicino di casa a Beverly Hills, e John chia-mò noi a New York.

L’intenzione di John era quella di «associare» degli sceneg-giatori a Golden Girl, così da poter offrire agli studios il pac-chetto di cui era produttore insieme a Hook reclamizzando me e Joan come ciò che a Hollywood si chiama «un elemen-to», benché secondo la nostra opinione ponderata il valore di uno sceneggiatore come «elemento» fosse a dir poco dubbio, tutt’altro che una garanzia di successo. John menzionò attrici e registi di prima classe, i soliti sospetti di serie a che a detta sua, e in assenza di prove evidenti, morivano dalla voglia di parte-cipare al film. La liquidammo come la solita lisciata di pelo da imbonitore e John era il primo a saperlo: nessuna attrice o re-gista di prima fascia firmerebbe mai un contratto senza avere letto il copione.

Non fosse stato per lo sciopero e la cancellazione dei no-stri altri impegni, dubito che avremmo mai sfogliato le bozze di Golden Girl. Il progetto, ancora in fase embrionale, ci inte-ressava soprattutto perché era la prima offerta che ricevevamo dopo il termine dello sciopero. Se uno studio avesse dimostrato

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interesse, i soldi avrebbero alleggerito il fardello dei nostri due appartamenti newyorkesi, uno dei quali cercavamo di vendere nel contesto di un mercato immobiliare in declino, e avremmo avuto libero accesso all’assistenza sanitaria del wga. Nel frat-tempo, avevamo accumulato altri impegni extracinematografici urgenti. Io dovevo andare in Germania e Irlanda a svolgere ri-cerche per un libro in ritardo di consegna, mentre Joan era stata incaricata di occuparsi, da giornalista, sia della convention de-mocratica ad Atlanta sia di quella repubblicana a New Orleans. Inoltre, a fine estate ci aspettavano i festeggiamenti del venticin-quesimo di matrimonio di certi nostri amici che abitavano dalle parti di Lucca, così dicemmo a John che avremmo letto le boz-ze durante il viaggio, rifiutandoci di accettare la proposta a sca-tola chiusa e sulle ali del suo entusiasmo. Ci serviva almeno un briciolo di certezza, non aveva senso impantanarci per mesi in un progetto con poche possibilità di ottenere finanziamenti. Se il libro ci fosse piaciuto, e se John fosse riuscito a organizzare il lavoro in assenza di proposte più redditizie, ci saremmo presi l’impegno. Tuttavia, dichiarammo a John che non intendevamo partecipare alle riunioni con i potenziali acquirenti di Golden Girl: non siamo il genere di autori che a Hollywood vengono considerati «buone conoscenze», quelli con il dono di vendere un’idea e di farsi ricoprire di finanziamenti a furia di chiacchie-re e belle parole, come se mettere poi l’idea nero su bianco fos-se questione di battere due tasti e via.

Alla fine Golden Girl ci piacque, e tornati dall’Italia conce-demmo a John il permesso di usare i nostri nomi per cercare di produrlo.

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Al ribasso

Era un mercato al ribasso. Era appena terminato un periodo sovraccarico di copioni in lavorazione, pochissimi dei quali ve-nivano girati (certi sceneggiatori potevano guadagnare anche centinaia di migliaia di dollari all’anno senza che una sola delle loro opere fosse immortalata dalla cinepresa), e l’umore degli studios, ridotte le pretese degli autori dopo lo sciopero e assot-tigliato l’inventario di progetti aperti e costosi, era aggressivo e deciso a tagliare le spese. Le sceneggiature libere da vinco-li contrattuali stese durante lo sciopero facevano furore: erano prodotti finiti, le si poteva leggere e scartare dopo una sola ri-unione se sembravano carenti, oppure mandare in produzione con altrettanta solerzia. Le guerre per aggiudicarsi le sceneg-giature più contese, soprattutto thriller d’azione come L’ultimo boyscout, Il grande volo o Ultimatum, fecero schizzare i prezzi alle stelle; tanto che ben presto le aste iniziarono dalla base di un milione di dollari.

Quanto alle sceneggiature da sviluppare – adattamenti da li-bri, rappresentazioni teatrali o articoli giornalistici – nell’epoca postsciopero gli studios indossarono la visiera verde del cassie-re. Secondo le regole del wga gli autori ricevono un consisten-te anticipo sul compenso totale all’atto della firma, cioè prima ancora di iniziare a scrivere, mentre il saldo sulla prima stesu-ra viene effettuato alla consegna. Il rigore di tali scadenze è la causa principale della pigrizia degli studios, che cercano di te-nerle sotto controllo con riunioni infinite, magari affollate da una dozzina di persone, tutte impazienti di offrire un consiglio. Partecipare a una di quelle riunioni significa rendersi conto che,

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a forza di compromessi, ciò che nasce cavallo finisce per diven-tare cammello.

Né noi né John Foreman ci illudevamo di poter vende-re facilmente Golden Girl. A cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta, nell’epoca di Darling, Easy Rider e Un uomo da mar-ciapiede, la vita di Jessica Savitch sarebbe stata un soggetto de-cisamente appetitoso, capace di produrre qualche profitto, a patto di tenere il budget sotto controllo. La sua storia era una perfetta chiosa moraleggiante al discorso sul pericoloso mon-do della controcultura: una provinciale più ambiziosa che in-telligente, iperlibidinosa, sessualmente ambigua, incapace di fare i conti con la realtà, con un debole per le sostanze stu-pefacenti, segnata da una lunga relazione fatta di abusi e pre-potenze, nonché da una certa instabilità psicologica, diventa celebre grazie a un lavoro alla moda e nel 1983, a trentacin-que anni, regola i conti con il destino e muore insieme al suo ultimo amante, sepolta sotto un metro di fango nel Delaware Canal dopo un assurdo incidente automobilistico. Per morali-sta che fosse, non era il genere di racconto adatto al clima dei tardi anni Ottanta, quando i prodotti più richiesti erano i co-siddetti «high concepts», film riassumibili in una sola frase, co-me Flashdance (operaia single di provincia diventa ballerina) o Top Gun (amori e addestramento di aviatori cowboy a Mach 2), trainati da colonne sonore di successo. Uno dopo l’altro, tutti i produttori rifiutarono Golden Girl. Poi, alla fine di no-vembre del 1988, poco dopo il Giorno del Ringraziamento, John chiamò da Los Angeles e disse che qualcuno aveva dimo-strato un briciolo di interesse: la Disney.

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Il mostro

Dopo avere consolidato la reputazione costruita grazie ai film a cartoni animati e ai cortometraggi di Topolino e Paperino, la wdpc (così viene abbreviato nei contratti il nome della Walt Disney Pictures), sotto la guida dell’amministratore delegato Michael Eisner e del direttore di produzione Jeffrey Katzenberg era diventata un peso massimo di Hollywood. Forte di una serie di successi commerciali a budget ridotto, la Disney era lanciatissima e sicura di aver trovato una formula infallibi-le nell’intrattenimento per famiglie che non chiedesse troppo all’immaginazione, a patto che fossero i suoi dirigenti a control-larla in prima persona. L’utile la faceva da padrone e il pub-blico che contava era quello degli azionisti, il cui rapporto di fiducia con la Disney era straordinariamente proficuo. Di fron-te alla calcolata indifferenza della Disney, gli attori di prima categoria e i registi abituati a compensi abbondanti e totale au-tonomia tendevano a traslocare altrove.

Verso i membri della comunità creativa non ancora concupi-ti da altri studios l’atteggiamento della Disney era sempre un ri-goroso «prendere o lasciare». Una volta, a margine di una cena presso un tavolo riservato del Le Dome, ristorante del Sunset Strip fra i preferiti dai pezzi grossi di Hollywood, un produtto-re e un autore di nostra conoscenza si opposero con decisione alle modifiche richieste dai finanziatori di un film già in produ-zione. Il presidente della divisione Disney che si occupava del progetto, all’improvviso, chiese a tutti di fare silenzio.

Disse che l’intransigenza dello sceneggiatore lo costringeva a fare uscire il mostro dalla gabbia.

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Nel silenzio, il presidente di divisione allungò una mano sot-to il tavolo, finse di estrarre un piccolo predatore dalla sua tana, e poi, come stringendolo per la collottola, mostrò ai commen-sali la mano che afferrava il nulla. Domandò allo sceneggiatore se vedesse il mostro, e l’autore, allibito, annuì.

«Adesso lo rimetto in gabbia» disse il dirigente, attento a scandire ogni parola, «e non voglio che lei mi costringa a tirar-lo fuori di nuovo.» Poi finse di infilare il mostro nella gabbia sotto il tavolo. Dopodiché domandò allo sceneggiatore: «Lei sa cos’è il mostro?».

Lo sceneggiatore fece segno di no.Il dirigente rispose: «Sono i nostri soldi».In seguito, dopo una lunga serie di insuccessi al botteghino,

fu il dirigente stesso a incontrare il mostro, e venne licenziato alla maniera in cui si licenziano i presidenti: gli venne concesso di collaborare con la Disney come produttore indipendente.

Piacere di conoscerla

All’epoca la Disney si faceva in quattro per mantenere una nomea da osso duro. Sotto la guida di Katzenberg la casa di produzione non si era lasciata scalfire dallo sciopero, e il came-ratismo fra i suoi dipendenti era minimo; alcuni di loro aveva-no soprannominato l’azienda «Mouschwitz» o «Duckau», dal nome dei suoi due personaggi più famosi.4

Malgrado il nostro rifiuto ostinato di partecipare di perso-4 Ovvero Topolino e Paperino, in inglese Mickey Mouse e Donald Duck

[N.d.T.].