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JUS- ONLINE 3/2019
ISSN 1827-7942
RIVISTA DI SCIENZE GIURIDICHE
a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano
VP VITA E PENSIERO
TOMMASO GAZZOLO
Ricercatore in Filosofia del Diritto, Università degli Studi di Sassari
Minority Report e il crimine senza crimine*
English title: Minority Report: a crime without crime
DOI: 10.26350/18277942_000004
SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. I futuri multipli; 3. L’infallibilità della previsione; 4. Conoscenza necessaria e necessità del crimine; 5. Futuri contingenti; 6. Dal futuro al passato; 7. Il tempo del crimine.
1. Introduzione.
Che cosa sarebbe un crimine – un’azione, cioè, considerata in quanto
delittuosa – senza crimine, senza cioè che l’azione stessa sia stata
compiuta? Minority Report1 consente di articolare questa domanda, nei
problemi che essa mette in gioco, ed in ciò che permette di pensarla. Dick
fa del tempo, della riflessione sul carattere intrinsecamente temporale del
crimine, il punto che consente questo passaggio: dal crimine che è tale in
quanto accaduto, al crimine che è tale in quanto accadrà. Per questo, nel
racconto, si tratterà di pensare anzitutto ciò che va sotto il nome di
precrimine, di un crimine prima del crimine.
Si potrebbe obiettare, è vero, che in realtà non saremmo di fronte ad un
“crimine”, propriamente parlando: si tratterebbe, piuttosto, di impedire
che lo si commetta, di intervenire prima che un crimine possa essere
compiuto – secondo una profilassi, una logica della prevenzione, della
sorveglianza capillare sui cittadini. Il racconto stesso lo suggerisce, per
certi versi: il precrimine è ciò che consente la «pre-detenzione profilattica
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. 1 P.K. Dick, The Minority Report, in Fantastic Universe, 4 (1956), pp. 4-36; trad. it. Rapporto di minoranza, in Rapporto di minoranza e altri racconti, trad. it. di P. Prezzavento, Roma 2002. Per una introduzione ai temi filosofici presenti nella narrativa di Philip K. Dick, cfr. F. Rispoli, Universi che cadono a pezzi. La fantascienza di Philip K. Dick, Milano 2001; D.E. Wittkower (a cura di), Philip K. Dick and Philosophy. Do Androids Have Kindred Spirits?, Chicago 2011; S.J. Umland (a cura di), Philip K. Dick. Contemporary Critical Interpretations, Westport-London 1995.
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dei criminali»2. Ma, se le cose ci appaiono in questo modo, è solo perché
stiamo già assumendo che l’idea di un crimine ante factum, di un crimine
prima del crimine, sia una contraddizione in termini, e che potremmo,
pertanto, parlare soltanto di un crimine che è stato prevenuto, che non c’è
stato e che, quindi, come tale, non è un “crimine”3.
Il punto, però, è che proprio tale assunzione è quanto dev’essere
abbandonato, perché il testo di Dick possa essere seguito in quel che tenta
di pensare. Il testo ha in fin dei conti poco interesse, finché lo si legge
secondo il registro della denuncia di una certa società del controllo,
poliziesca, della sorveglianza – che è poi la nostra, e non certo un’altra4 –,
2 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 47. 3 Come sottolinea, tra gli altri, T. Elsaesser, Philip K. Dick, Hollywood e le causalità retroattive: il caso di Minority Report, in Imago. Studi di cinema e media, 10, 2 (2014), p. 91: «la stessa efficacia del programma Precrimine rappresenti in verità un eccesso di perfezione. Anticipare un reato evitando che il crimine venga commesso ha infatti come conseguenza (involontaria ma inevitabile) il fatto che la società crei (e incarceri) criminali che sono innocenti, agendo perciò essa stessa in modo immorale se non direttamente criminale. Il loop, basato sulla prevenzione e sulla deterrenza, rappresenta qui uno stallo morale, con la parte viziosa che cancella quella virtuosa». 4 Del resto, la forma di conoscenza, e quindi la concezione di verità ed i meccanismi della sua enunciazione che il pre-crimine implica, ci apparirà estranea al funzionamento della nostra pratica giudiziaria soltanto se la assumiamo come storicamente determinata a partire dall’indagine, fondata sulla testimonianza di ciò che è stato. Ma – Foucault vi ha dedicato analisi essenziali – l’indagine, come pratica dell’accertamento della verità nel diritto, non solo non si è affermata che da determinate condizioni politiche e sociali, ma, soprattutto, a partire dal XIX secolo è stata affiancata da pratiche – come ciò che Foucault chiama l’examen, l’esame – che determinano nuove “forme” di verità, nuovi modi mediante i quali si forma un sapere sul crimine. Per quanto qui interessa, dobbiamo sottolineare due aspetti. Il primo è che solo nel momento in cui l’indagine si afferma quale metodo di accertamento della responsabilità, si passa da un modo di enunciazione della verità di tipo profetico – e che dunque si ha nella forma del futuro (il crimine che verrà compiuto) – ad uno di tipo retrospettivo, che appartiene all’ordine della testimonianza, del sapere ciò che è stato. La scoperta giudiziaria della verità, dunque, soltanto a partire da un certo periodo storico – e certamente nell’ambito del pensiero greco – si è definita a partire dal riferimento al passato, dal primato del passato (e ciò dovrebbe, pertanto, ricordare come non vi sia nulla di naturale in tale concezione). Il secondo aspetto, invece, è legato al fatto che la nascita di discipline quali la criminologia, e le stesse trasformazioni della penalità alla fine del XIX secolo, determinano un nuovo spostamento: nel momento, infatti, in cui la pericolosità sociale ha fatto il suo ingresso nel diritto penale (almeno con riferimento alle misure di sicurezza), nel momento, cioè, in cui l’individuo viene in considerazione per la probabilità che possa commettere nuovi reati, il sapere che si lega ad essa non ha più nulla a che vedere con il problema di accertare se qualcosa sia accaduto o meno nel passato, ma con quello di esaminare le potenzialità dell’individuo, il suo modo d’essere, il pericolo che egli possa commettere
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e ciò per quanto queste possano essere state le stesse “intenzioni”
dell’autore. L’idea che il crimine venga eliminato prevenendolo, è
certamente presente, ma è anche in fondo smentita dallo stesso testo: la
pre-visione del crimine, infatti, non comporta che esso non esista più, ma
che esso continui ad esistere senza tuttavia essere mai presente, senza
realizzarsi.
Ciò che il pre-crimine implica, infatti, è che «la perpetrazione del crimine
stesso» divenga «un qualcosa di assolutamente metafisico» (So the
commission of the crime itself is absolute metaphysics)5. Il che significa:
non si tratta tanto dell’assenza di un crimine, quanto del fatto che la sua
presenza non coincide con il factum, con il suo verificarsi nella realtà.
Il crimine in un certo modo accade, si realizza, l’azione si compie: ma non
in un tempo che sia mai stato o sarà mai presente. Non ci sarà infatti mai
un momento del tempo in cui si potrà dire che io sia colpevole: non ora, in
quanto non ho commesso alcun crimine; non in un futuro destinato a
divenire presente, in quanto – grazie al fatto di essere arrestato – non lo
commetterò più. Se c’è crimine, se c’è «colpevole», questa esistenza non
sta sul piano di ciò che, prima o poi, sarà presente in un qualche momento
del tempo.
Ed è proprio questo “crimine senza crimine” che costituisce il concetto
che viene progressivamente delineato nel testo di Dick, secondo una serie
di operazioni che dovremo, ora, analizzare.
2. I futuri multipli.
Il tema del pre-crimine viene articolato, nel racconto, attraverso il ricorso
ad una temporalità che è definita dalla logica dei futuri multipli.
Sappiamo che Anderton scopre, leggendo il “rapporto di maggioranza”,
che ciò che i pre-cog hanno previsto è che egli ucciderà Leopold Kaplan.
Poiché non sa neppure chi sia la futura vittima, e sa di non poter avere
alcuna “intenzione” di ucciderlo, egli sospetta immediatamente che la
relazione sia falsa, che sia stata manomessa dal suo nuovo assistente per
prendere il suo posto. Mentre si sta preparando a fuggire per sottrarsi
crimini in futuro. Sul punto, il riferimento è soprattutto a M. Foucault, La verità e le forme giuridiche (1973), trad. it. in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, a cura di A. Dal Lago, Milano 2017, pp. 83-165. 5 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 29.
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all’inevitabile arresto, Anderton viene sequestrato dagli agenti di Kaplan e
portato davanti a quest’ultimo.
Kaplan – capo di una organizzazione di veterani molto influente – gli
rivela di essere a conoscenza del rapporto, e che per questo – secondo
quello che è il funzionamento normale della Precrimine – lo farà subito
consegnare alla polizia, affinché lo prenda in custodia. Durante il
trasporto, Anderton viene aiutato a fuggire e a nascondersi da un certo
Fleming, il quale dice di far parte di una specie di polizia che ha il compito
di sorvegliare la polizia, e che lo informa che il rapporto è stato falsificato
e che si tratta, come egli aveva sempre sospettato, di una manovra per
incastrarlo. E’ a questo punto che Anderton riesce ad accedere a quello
elaborato dal pre-cog che egli sa essere il rapporto di “minoranza”, quello
di Jerry, e legge per la prima volta ciò che questi ha visto.
Di esso sappiamo per ora solo questo: la sequenza temporale che Jerry ha
visto è relativa a ciò che è accaduto dopo che Anderton ha saputo che
avrebbe ucciso Kaplan. Il solo fatto di sapere che avrebbe commesso
l’omicidio, avrebbe infatti indotto Anderton a rinunciare: egli «avrebbe
cambiato idea e non l’avrebbe compiuto. La previsione dell’omicidio lo
avrebbe cancellato: la profilassi si sarebbe verificata semplicemente
informando il futuro omicida»6.
Anderton si convince, pertanto, che il rapporto di Jerry, invalidato
dagli altri due, sia quello corretto, in quanto, venendo dopo gli altri, ha
potuto tener conto delle conseguenze che la conoscenza, da parte di
Anderton, del rapporto di maggioranza avrebbe determinato. Il “rapporto
di minoranza” sarebbe, in questo senso, quel futuro che sarà a partire
dall’assunzione come dato del rapporto di maggioranza.
Non occorre, qui, ripercorrere nei dettagli l’intreccio – la
discussione con la moglie Lisa, lo scontro con Fleming, che si rivela essere
un agente di Kaplan. Giungiamo al momento in cui Anderton capisce che
Kaplan, che è in possesso del rapporto di minoranza, intende sfruttarlo
per screditare il sistema pre-crimine: egli potrà dimostrare, infatti, che,
poiché l’analisi predittiva dei pre-cog non tiene conto di ciò che la sua
stessa esistenza determina, essa giunge sempre a conclusioni sbagliate. Il
solo fatto di sapere che commetterò un crimine per ciò stesso mi
determinerebbe a non commetterlo. Come dirà Kaplan:
6 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 53.
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[…] Non può esistere alcuna valida conoscenza del futuro. Non appena si
ottiene un’informazione precognitiva, questa si cancella da sé (as soon as
precognitive information is obtained, it cancels itself out). L’affermazione
che quest’uomo commetterà un omicidio è paradossale (paradoxical). Il
solo fatto di possedere in anticipo questo dato la rende spuria. In ogni
caso, e senza eccezione, il rapporto dei tre precog della Polizia ha
invalidato i loro stessi dati di partenza. Anche se non ci fosse stato alcun
arresto, non sarebbe stato comunque commesso alcun crimine (If no
arrests had been made, there would still have been no crimes
committed)7.
Un futuro che sia conosciuto in anticipo si revoca da sé, si cancella da sé
come futuro. Questa è la tesi di Kaplan, e la tesi che anche Anderton
pensa di poter ricavare dopo aver letto quello che crede essere il rapporto
di “minoranza” di Jerry.
Ciò che tuttavia la lettura degli altri due rapporti mostra, è che tutte e tre
le sequenze temporali sono differenti. Il primo rapporto, Donna, è quello
che Jerry ha assunto come dato. Donna pre-vede un futuro che non è
quello che si è verificato. In esso Kaplan rivela a Anderton il complotto ai
suoi danni, ed egli lo uccide. Jerry, come sappiamo, utilizza il materiale di
Donna, invalidandolo. Ma Mike, il terzo pre-cog, viene a sua volta dopo
Jerry. Egli vede come Anderton, una volta che sia venuto in possesso del
rapporto di Jerry – come accade nella storia – capisca che non uccidere
Kaplan significherebbe mettere fine alla polizia, al sistema pre-crimine, e
scelga pertanto di sparargli:
“Mike” è stato l’ultimo dei tre, certo. Avendo saputo dell’esistenza del
primo rapporto, avevo deciso di non uccidere Kaplan. Ciò ha prodotto il
secondo rapporto. Ma di fronte a quel rapporto, ho cambiato idea un’altra
volta. Il rapporto due, la situazione due, era quella che Kaplan voleva
creare. Era vantaggioso per la Polizia ricreare la posizione uno. E, arrivato
a quel punto, io avrei pensato alla Polizia. Avrei capito ciò che Kaplan stava
facendo. Il terzo rapporto invalidava il secondo proprio come il secondo
invalidava il primo. Questo ci ha riportati alla situazione di partenza8.
7 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., pp. 69-70. 8 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 73.
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Non c’è dunque mai stato un rapporto di maggioranza. I tre
rapporti, diversamente, sono consecutivi: il futuro del primo è assunto
come dato dal secondo rapporto, che lo invalida, e a sua volta il futuro del
secondo è invalidato dal terzo. Ma se Anderton, infine, ucciderà Kaplan,
proprio come avevano previsto i pre-cog, ciò non vale a confermare
l’esattezza della loro previsione? In fondo, il racconto di Dick – ma
torneremo su questo punto – non sembra mai smentire in alcun punto ciò
che il lettore tende sempre a sospettare: che le previsioni dei pre-cog
siano realmente infallibili, che esse non siano affatto smentite9.
3. L’infallibilità della previsione.
Nel pre-crimine, la pre-visione che consente di conoscere
anticipatamente il delitto prima che sia commesso, si esprime
normalmente – a differenza di quanto accade nel caso di Anderton –
attraverso la formazione di un rapporto di maggioranza. E’ quanto
Anderton ribadisce: «l’unanimità tra tutti e tre i pre-cog è un fenomeno
auspicabile ma che si verifica di rado»10. Se seguiamo ancora il suo
discorso, la necessità di tre previsioni dipenderebbe dall’esigenza di
verificare, di controllare l’esattezza del risultato della prima. La seconda
previsione può infatti coincidere con la prima, validandola. Ma, laddove si
crei un contrasto tra le due, la terza previsione interviene risolvendo il
contrasto: «si può presumere con buona approssimazione che la
concordanza di due computer su tre indichi quale dei due risultati
alternativi sia più accurato»11.
Si tratterebbe dunque di una logica che ha a che vedere con il
calcolo, con la probabilità, con ciò che dovrebbe, in ultima istanza,
unicamente verificare la correttezza di una previsione? E’ evidente che
non si tratti di questo, se lo stesso Anderton, come ricordato, fa notare
9 Certamente, nel caso di Anderton – che è pero un caso “eccezionale”, l’unico caso in cui il soggetto che commetterà il crimine viene a conoscenza della previsione – i rapporti dei pre-cog funzionano secondo un «loop di causalità che si autoannulla», nel senso che «i rapporti di minoranza successivi sono la conseguenza di un feedback positivo, in cui è il prodotto del sistema stesso (i rapporti di minoranza) ad essere costantemente ridato in pasto al sistema come input, creando perciò una destabilizzazione permanente sia dell’identità dell’eroe che delle relazioni di potere del sistema stesso» (T. Elsaesser, Philip K. Dick, Hollywood e le causalità retroattive: il caso di Minority Report, cit., p. 94). 10 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 48. 11 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 48.
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come sia necessario che esistano sempre diversi percorsi temporali, che
non vi sia un unico sentiero, perché altrimenti non esisterebbe neppure la
possibilità di arrestare il futuro colpevole, di «alterare il futuro». Affinché
il sistema funzioni – affinché cioè sia possibile anticipare il crimine che i
precog hanno pre-visto – occorre, cioè, che l’informazione fornita circa
ciò che accadrà possa essere smentita dall’intervento tempestivo della
polizia.
Ma le profezie dei pre-cog sono corrette? Il delitto che prevedono, si
compirebbe davvero se la polizia non intervenisse per tempo? Kaplan ha
davvero ragione, quanto sostiene che la polizia in realtà non conosce
affatto il futuro o, quantomeno, non può avere la certezza di conoscerlo?
Il fatto stesso di possedere l’informazione precognitiva “x ucciderà y”, e di
agire preventivamente impedendo che ciò si verifichi, non rende
impossibile sapere se x avrebbe davvero ucciso y, laddove la polizia non
fosse intervenuta?
Certamente, se non disponesse di questa informazione, la polizia non
potrebbe intervenire – ma ciò non assicura che sia vera. L’obiezione di
Kaplan, in fondo, è ancor più radicale: come sarebbe possibile
commettere un crimine laddove sia certo che esso verrà commesso – con
la conseguenza che mi sarà reso impossibile commetterlo? Per cosa vengo
arrestato, se per il fatto stesso dell’arresto viene smentito quel futuro in
cui commetto il crimine e che è stato la ragione del mio arresto?
Come rispondere a queste domande? Bisogna cominciare a
distinguere, per prima cosa, tra l’informazione finale che è elaborata dal
computer – la “scheda” che annuncia il delitto che si compirà – e i tre
rapporti dei pre-cog, le loro visioni.
Per farlo, dobbiamo provare a ipotizzare il modo in cui i diversi rapporti si
articolano tra loro per tutti i casi ordinari, in cui il sistema funziona
normalmente. E che funzioni, che le visioni dei pre-cog siano, nel futuro
che delineano, infallibili, è ciò che risulta dal racconto stesso: anche di
fronte al caso che dovrebbe ritenersi eccezionale, in realtà i pre-cog
dimostrano di aver previsto correttamente il futuro.
Cominciamo a chiederci, allora, che cosa renda possibile l’elaborazione
della scheda definitiva, che la Precrimine riceve dai computer, in cui viene
indicato il nome dell’autore, il delitto che verrà commesso e la vittima12, in
12 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 32.
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cui, cioè, il “rapporto di maggioranza” dei pre-cog giunge alla previsione
che un crimine verrà commesso. Ipotizziamo che l’informazione, la
scheda finale, sia del tipo “X ucciderà Y”. Sappiamo che questa previsione
non accadrà: la polizia, sulla base di essa, arresterà infatti X. Era allora
falsa? Ma cosa significa?
Siamo di fronte al problema della verità o falsità delle proposizioni
concernenti eventi futuri – a quello dell’applicabilità o meno del principio
di bivalenza a tali enunciati. Che cosa implica, dobbiamo chiederci, che
una proposizione del tipo “domani ci sarà un omicidio” sia vera o falsa fin
dal momento della sua formulazione? Certamente, per sapere se essa sia
vera o falsa dovrò attendere domani. Ma ciò implicherebbe comunque
negare il carattere contingente del futuro. Proviamo a fare due ipotesi. Se
l’omicidio si verificherà, allora posso dire era vero fin da ieri che si
sarebbe verificato. Ma se ciò era già vero prima che esso fosse commesso,
allora devo concludere che era necessario che si verificasse, che era
impossibile che non accadesse. Viceversa, se l’omicidio non avviene, posso
dire che era già falso ieri sostenere che esso sarebbe stato commesso: il
che equivale a dimostrare che era impossibile che avesse luogo. In altri
termini, se le proposizioni riguardanti eventi futuri fossero già vere o false
nel momento in cui vengono formulate, ne conseguirebbe il venir meno di
ogni contingenza. E’ l’aporia già individuata da Aristotele:
[…] se qualcosa è bianco ora, era vero dire prima che sarà bianco, cosicché
sempre era vero dire in precedenza, di qualsiasi cosa di quelle che sono
venute ad essere, che sarebbe stata; e se sempre era vero dire in
precedenza che qualcosa è ora o sarà, ciò non è in grado di non essere ora o
nel futuro. E ciò che non è in grado di non venire ad essere, è impossibile
che non venga ad essere; e ciò che è impossibile che non venga ad essere, è
di necessità che venga ad essere; e quindi tutto ciò che sarà nel futuro è
necessario che venga ad essere13.
Per evitarla, dovremmo allora limitare la validità del principio di
bivalenza agli eventi passati o presenti? Non possiamo qui discutere la
ripresa e la riformulazione del problema che è avvenuta almeno a partire
dai lavori di Łukasiewicz – nonché soffermarci sullo stato del dibattito
13 Aristotele, De Interpretatione, 18b 10-15, trad. it. A cura di A. Zadro, Napoli 1999, p. 144.
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contemporaneo sul tema, soprattutto in ambito analitico. Ciò che,
tuttavia, possiamo osservare è come una delle soluzioni proposte sia
quella di considerare tali proposizioni sottratte al principio di bivalenza:
non si tratterebbe, cioè, di proposizioni vere o false, ma indeterminate14.
Esse non sarebbero, in altri termini, vere o false al momento della loro
enunciazione. Se ciò che enunciano sia vero o falso, non è deciso in questo
momento. Potremmo dire, piuttosto, che è dotato di un certo grado di
probabilità – come Anderton sembra suggerire spiegando il
funzionamento dei computer alla base del sistema Pre-crimine.
Eppure non è questa la strategia che segue Dick: non si tratta, infatti, di
affermare la probabilità, di prevedere il futuro delitto con un certo grado
di probabilità. Il pre-crimine è a rigore infallibile – questa ipotesi, a
leggere attentamente il testo, non è mai messa in dubbio, non è mai
smentita, come si è già ricordato.
Per capire come Dick risolva l’aporia – che è quella che denuncia Kaplan
– dobbiamo invece tener sempre distinti due livelli: quello della visione,
di ciò che vedono i pre-cog, e quello dell’informazione, di ciò che in base
alla visione risulta dal rapporto.
Ciò che vedono i pre-cog, va sempre ricordato, non è mai da loro
compreso: essi sono immersi nel «caos senza senso dell’idiozia»15, non
capiscono nulla delle immagini che scorgono, avvolti nell’ombra della loro
demenza. Se essi forniscono informazioni, certamente non le
comprendono. Ma cosa significa, questo, se non che tra ciò che accade e
ciò che si predica di esso, tra l’evento e la sua previsione si introduce
sempre una distanza, uno iato, uno scarto? E’ questo che occorre spiegare,
facendo un passo avanti.
Dobbiamo tener presente che quello che si scopre, nel racconto, è che i
futuri che vedono i pre-cog non sono, come Anderton ha sempre creduto,
14 J. Łukasiewicz, On Determinism, in Id., Selected Works, a cura di L. Borrowski, Amsterdam-London 1970, p. 126: «I maintain that there are propositions which are neither true nor false but indeterminate. All sentences about future facts which are not yet decided belong to this category. Such sentences are neither true at the present moment, for they have no real correlate, nor are they false, for their denials too have no real correlate. If we make use of philosophical terminology which is not particularly clear, we could say that ontologically there corresponds to these sentences neither being nor non-being but possibility. Indeterminate sentences, which ontologically have possibility as their correlate, take the third truth-value». 15 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 52.
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alternativi. Non vi è affatto la necessità che vi sia sempre più di un
sentiero temporale, affinché la polizia possa intervenire per tempo. Il
sentiero è sempre uno solo, ma si modifica nel suo stesso farsi16. Se i
rapporti sono consecutivi, come Anderton si accorge, è perché ciascun
pre-cog utilizza il rapporto del pre-cog precedente come «dato di
partenza»17.
Spieghiamo il punto. L’informazione finale, la proposizione predittiva “x
ucciderà y” rimanda alle tre visioni che i pre-cog hanno avuto. Il primo
pre-cog, certamente, vede l’omicidio: vede, cioè, in un futuro, che per lui è
il presente, che x uccide y. L’informazione che trasmette, pertanto, nel
tempo presente, è “x ucciderà y”.
Il secondo pre-cog vede il futuro che ora l’informazione del primo pre-cog
ha modificato: vede, cioè, che il primo ha fornito la previsione – infallibile
– della futura uccisione, e che in forza di questa informazione la polizia
arresterà il colpevole. Il risultato, per lui, è dunque che x non ucciderà y.
Dal punto di vista della predicazione, dell’ “informazione” che il computer
potrebbe ricavare, al momento avremo perciò le due schede alternative:
P1 (“x ucciderà y”) e P2 (“x non ucciderà y”).
Sappiamo dalla scheda finale che la terza previsione avrà come risultato
quello di far sì che l’informazione sarà del tipo “x ucciderà y”. Dobbiamo
allora chiederci come ciò sia possibile. Infatti, il futuro che si verificherà è
un altro: x, alla fine, non ucciderà y, poiché sarà arrestato prima di poter
commettere il fatto. Cosa vede il terzo pre-cog, allora?
Anche la previsione del pre-cog dev’essere consecutiva rispetto alle prime
due: egli vede, cioè, a partire da esse. Vede, dunque, il futuro – che è
16 Come osserva D. Velo Dalbrenta, Criminalità come destino? Philip K. Dick e lo straniante mondo di Minority Report, in Teoria e Critica della Regolazione Sociale, 1, 18 (2019), p. 167, secondo la teoria dei futuri multipli ciascuna delle previsioni dei pre-cog «ha seguito una linea di sviluppo diversa, derivante dall’annullamento della linea precedente. Difatti, sembra suggerire Dick, il modificarsi delle circostanze, nel tempo, modifica la coscienza, e, forse, lo stesso senso dell’identità di Anderton». Dobbiamo, credo, distinguere, allora: il futuro che il singolo pre-cog vede, non è mai “errato”, in quanto è l’unico futuro possibile, in quel momento. Esso, però, si modificherà. 17 Questo assunto, lo ricaviamo da come il racconto spiega si siano definiti i tre rapporti nell’unico caso che conosciamo, che è quello che vede come protagonista Anderton. Se l’eccezione, qui, è costituita dal fatto che Anderton, per la sua particolare posizione, viene a conoscenza del rapporto che lo riguarda, essa non dovrebbe intaccare il fatto che il secondo pre-cog, come viene spiegato, abbia utilizzato il rapporto del primo «come dato di partenza» (p. 73). Il primo sentiero temporale viene dunque «superato» (p. 63), nel senso di modificato attraverso il suo essere ripreso.
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quello che si verificherà – in cui x non uccide y perché è stato arrestato
dalla polizia che ha ricevuto l’informazione P1, e non quella P2. Il terzo
pre-cog, in altri termini, vede il futuro in cui la polizia non ha ricevuto il
rapporto del secondo pre-cog (ossia l’informazione: x non ucciderà y). Un
futuro in cui egli stesso ha convalidato – cosa che infatti farà – il primo
rapporto, che è la condizione indispensabile affinché esso si verifichi.
Perché la polizia possa arrestare x, occorre infatti che il rapporto finale la
informi che x ucciderà y18. Nel futuro che il terzo pre-cog vede, egli stesso
ha necessariamente convalidato la proposizione P1: “x ucciderà y”. In
questo terzo futuro, dunque, si verifica l’evento che ha visto il secondo
pre-cog, ma ad essere stata convalidata è la proposizione che ha fornito il
primo rapporto.
4. Conoscenza necessaria e necessità del crimine.
Quanto all’evento, la maggioranza dei pre-cog, due su tre, vede che esso
non si verificherà. Ed è esattamente così, infatti, che andranno le cose.
Quanto, invece, alla proposizione sull’evento, alla proposizione che ne
dice la necessità, anche qui la maggioranza dei pre-cog, sempre due su
tre, vede un futuro nel quale, tra le due, quella vera è la proposizione p “x
ucciderà y”.
Ci sarebbe in altri termini uno scarto, una discrasia, una mancata
corrispondenza tra l’evento e la proposizione che dice la necessità
dell’evento.
18 E’ su questo punto, dobbiamo qui precisare, che la nostra analisi procede necessariamente senza tener conto del modo in cui il testo di Dick è stato ri-attivato nel film di Spielberg, Minority Report, 2002. Su quest’ultimo, e sulle relazioni con lo stesso racconto di Dick, si rimanda a D. Velo Dalbrenta, Crimini predicibili? L’eclissi del diritto penale moderno in Minority Report di Steven Spielberg, in L’Ircocervo (2017), pp. 40-69; J. Früchtl, For here there is no place that does not see you:”'Minority Report” and Art as de/legitimisation, in Necsus, 5, 2 (2016), pp. 73-88; J.P. Vest, Future Crime: Minority Report, in Id., Future Imperfect. Philip K. Dick at the Movies, Lincoln – London 2009, pp. 115-142; M. Huemer, Free Will and Determinism in the World of Minority Report, in S. Schneider (a cura di), Science Fiction and Philosophy. From Time Travel to Superintelligence, West Sussex 2009, pp. 104-115; D.A. Kowalski, Minority Report, Molinism, and the Viability of Precrime, in D.A. Kowalski (a cura di), Steven Spielberg and Philosophy. We’re Gonna Need a Bigger Book, Kentucky 2008, pp. 227-247;M.G. Cooper, The Contradictions of Minority Report, in Film Criticism, 28, 2 (2004), pp. 24-41; A. Soncini, La fine dello sguardo: Minority Report di Steven Spielberg, in Cineforum (2002), pp. 8-11.
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Si tratta, del resto, di due necessità differenti. La scolastica medievale
aveva già distinto due diversi sensi della modalità. Nell’opuscolo De
propositionibus modalibus, attribuito dalla tradizione a Tommaso, viene
indicato come la modale possa, anzitutto, essere de dicto, se il dictum
funge da soggetto e il modo è ciò che è predicato di quanto viene detto:
Socratem currere est possibile, che Socrate corra è cioè detto possibile.
Diversamente, la modale è de re, se il modo interponitur al detto, se cioè
la modalità si riferisce a come il predicato inerisce al soggetto: Socratem
possibile est currere, dove viene detto che è propria di Socrate la
possibilità di correre19.
La modalità de dicto, cioè, si riferisce all’intera asserzione, è una modalità
“proposizionale”, mentre il senso de re è relativo all’evento o al soggetto
della proposizione. La prima necessità – come è stato osservato - è di tipo
semantico, è riferita alla proposizione (ha carattere pertanto
metalinguistico). La seconda, invece, è ontologica, è relativa all’evento20.
L’una si riferisce alla necessità di ciò che è detto, l’altra alla necessità della
cosa che è detta. Distinguere tra questi due livelli è ciò che consente di
capire in che senso sia necessaria la previsione dei pre-cog del tipo “x
ucciderà y”. Essa può infatti significare:
19 De propositionibus modalibus, a cura di H.-F. Dondaine, in Sancti Thomae de Aquino, Opera Omnia XLIII, Roma 1976, p. 421: «Propositionum utem modalium quedam est de dicto, quedam de re. Modalis de dicto est in qua totum dictum subicitur et modus predicatur, ut cum dicitur ‘Socratem currere est possibile’. Modalis autem de re est quando modus interponitur dicto, ut cum dicitur ‘Socratem possibile est currere’». Non è possibile, in tale sede, affrontare la questione neppure nelle sue linee generali – specie se si tiene conto degli sviluppi e del dibattito nella filosofia analitica contemporanea. Per ciò che qui interessa, si rimanda a G. Corà, “De re” e “de dicto”. Riferimento modale e possibilità in Aristotele, in Verifiche, 17 (1988), pp. 3-60; M. Astroh, Petrus Abelardus on Modalities de re and de dicto, in T. Bucheim (a cura di), Potentialität und Possibilität. Modalaussagen in der Geschichte der Metaphysik, Stuttgart 2001, pp. 79-95; W. Kneale, William of Auvergne on De re and De dicto Necessity, in Modern Schoolman, 69 (1992), pp. 111-121; C. Normore, Ockham and the Foundations of Modality in the Fourteenth Century, in M. Cresswell - E. Mares - A. Rini (a cura di), Logical Modalities from Aristotle to Carnap: The Story of Necessity, Cambridge 2016, pp. 133–153. Si veda infine anche M. Mugnai, Possibile/necessario, Bologna 2013; S. Knuuttila, Modalities in Medieval Philosophy, London-New York 1993. 20 Per tale corrispondenza tra de dicto-semantico e de re-ontologico, cfr. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Macerata 2011, pp. 387-388.
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(1) De dicto - è necessariamente vero che x ucciderà y, che significa anche,
nella nostra rilettura: “x ucciderà y” è necessariamente vera, ove la
necessità è predicata della proposizione che afferma l’evento. Si tratta,
diremmo, di una necessità semantica, necessità dell’enunciato. E’ il
dictum, cioè che viene detto, ad essere affermato come necessario;
(2) De re - x ucciderà necessariamente y: dove la necessità si riferisce
invece all’evento stesso. All’evento è cioè attribuita la proprietà di
verificarsi necessariamente. Qui la necessità è cioè dell’evento o dello stato
di cose sul quale verte la proposizione.
La conoscenza dei pre-cog è infallibile, ma essa non implica in
alcun modo la necessità de re che l’evento si verifichi. L’argomentazione
era già presente in Tommaso: il fatto che Dio conosca i futuri contingenti,
non significa che essi accadano per una loro propria necessità. Dio, infatti,
conosce i futuri come presenti, dal momento che la sua conoscenza è
«presente a tutte le cose». In tal senso, ogni cosa è conosciuta da Dio
come ciò che si vede di presenza: per questo tutto ciò che Dio conosce è
necessario, «come è necessario che Socrate sieda quando si vede che
siede»21.
La proposizione “chi si vede sedere è necessario che sieda” – la quale si
ricava dalla condizionale “Se è veduto sedere, siede” – , allora, potrà
essere intesa in due sensi: (a) in senso composito, ossia come enunciato,
essa è vera, in quanto afferma che sedere è una conseguenza necessaria
dell’essere veduto sedere (necessità della conseguenza); (b) in senso
diviso, ossia come «dato oggettivo»¸ essa è invece falsa, in quanto
affermerebbe la necessità del conseguente, ossia la necessità dell’oggetto
o dello stato di cose conseguente. La distinzione richiama quella, che
abbiamo visto, tra modalità de dicto e de re. Così ancora Tommaso
precisa:
[…] quando si dice che Tutto ciò che Dio conosce è necessario, questa
proposizione ha un duplice significato, in quanto può riguardare o
l’enunciato o la cosa. Se riguarda l’enunciato, in tal caso la proposizione è
composta ed è vera e il [suo] senso è il seguente: l’enunciato [nel quale si
21 Tommaso, Summa contra Gentiles, I, LXVII; trad. it. Somma contro i gentili, a cura di T.S. Centi, Torino 1975, p. 199.
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dice che] Ogni cosa che Dio conosce esiste è necessario, poiché è
impossibile che Dio conosca che qualcosa esiste e che esso non esista. Se
riguarda la cosa, allora [la proposizione] è divisa e falsa e il [suo] senso è il
seguente: ciò che è conosciuto da Dio è necessario che esista. Infatti, le
cose conosciute da Dio non per questo accadono necessariamente22.
Possiamo pertanto affermare, in prima battuta, che ciò che i pre-
cog vedono è necessario che si verifichi, ma ciò non significa che si
verifichi necessariamente. O, in altri termini, dalla verità di (a) “è
necessariamente vero che x ucciderà y”, non segue che (b) “se x uccide y,
allora era necessario che lo facesse”.
La strategia di Dick – che è ciò che rende pensabile, che consente di
pensare il concetto di pre-crimine senza che l’obiezione di Kaplan possa
fare davvero presa – è quella tuttavia di non limitarsi alla discrasia, lo
scarto, tra questi due registri, tra il semantico e l’ontologico, tra la
necessità della proposizione e la necessità dell’evento che essa ha ad
oggetto. Egli si spinge più avanti, e in un’altra direzione. Infatti:
(a) da una parte, abbiamo la necessità de dicto, la verità della proposizione
che dice che “x commetterà un delitto”. E’ questa necessità che giustifica
l’arresto di «individui che non hanno infranto alcuna legge» (We’re taking
in individuals who have broken no law) e che garantisce la verità del
commento di Witwer: «ma che sicuramente la violeranno» (But they
surely will) 23;
(b) dall’altra, il non verificarsi dell’evento: «Per fortuna non lo faranno»
(Happily they don’t), come aggiunge ancora Anderton nel corso del
dialogo sopra ricordato con Witwer. L’evento non accadrà mai, non sarà
22 Tommaso, De Veritate, 2, 12; trad. it. Sulla verità, a cura di F. Fiorentino, Milano 2005, p. 285. Cfr. anche Tommaso, Logica dell’enunciazione. Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, XIV, 196, a cura di G. Bertuzzi e S. Parenti, Bologna 1997, p. 220: «Ora, per il fatto che un uomo vede che Socrate è seduto non si toglie la contingenza di ciò, perché essa riguarda l’ordine della causa all’effetto; tuttavia l’occhio dell’uomo vede in modo certissimo e infallibile che Socrate sta seduto, fintanto che sta seduto, perché ogni cosa, in quanto è in se stessa, è determinata. Così dunque resta chiaro che Dio conosce tutte le cose che accadono nel tempo in modo certissimo e infallibile, e tuttavia quelle cose che accadono nel tempo non sono o divengono per necessità, ma in modo contingente». 23 P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 29.
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mai commesso quel crimine di cui sappiamo che è vero che sarà
necessariamente commesso.
Dick giunge fino al punto di pensare come la necessità che il crimine
accada sia esattamente ciò che fa sì che esso non accadrà mai. Il pre-
crimine sarebbe dunque quel crimine che necessariamente sarà
compiuto, ma che proprio per questo non verrà mai compiuto.
5. Futuri contingenti.
“Se stiamo parlando di Philip,
essenzialmente direi che è vero – solo
che non è accaduto” (Kleo Mini,
febbraio 198624).
Questa scissione tra semantico e ontologico viene portata da Dick fino al
suo punto estremo – ed è solo da qui che il tema paranoico si inserisce,
propriamente, nel racconto. Per ora, però, chiediamoci: perché, alla fine,
non dovremmo dare ragione a Lisa, non dovremmo difendere la
Precrimine? Anderton stesso, nel finale, non sembra aver perso la
convinzione che il sistema non vada in alcun modo screditato, come
vorrebbe Kaplan. Se fosse possibile realizzarlo, per quale ragione non
dovremmo? Sappiamo che i pre-cog sono realmente infallibili. Che cosa
non va, allora?
Il punto da cui ricominciare è il seguente: cosa consente di credere che,
dalla verità necessaria della proposizione “x ucciderà y”, segua che, se non
si procederà all’arresto, x necessariamente ucciderà y?
E’ questo l’assunto, infatti, su cui si fonda il sistema della Pre-crimine, la
sua giustificazione, la sua accettabilità. E’ vero, infatti, che i pre-cog a
rigore non “sbagliano”. Ma non potremmo accettarne comunque le
previsioni, se non avessimo la certezza che, non intervenendo, il crimine
che essi vedono verrebbe necessariamente commesso.
Come si è detto, è proprio la separazione tra necessità de dicto e necessità
de re che consente di dar conto dell’ “infallibilità” dei pre-cog e, insieme,
24 L. Sutin, Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick, trad. it. di A. Marti, Roma 2001, p. 112.
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del carattere ingiustificato dell’assunto alla base del funzionamento del
sistema pre-crimine.
La possibilità di fondare la necessità della proposizione sul futuro, non
dice nulla circa la diversa necessità, de re, che l’evento si compirà. Se gli
arresti “preventivi” possono apparire, allora, come arbitrari, illegittimi,
non è perché – come solitamente si sottolinea – la conoscenza del futuro
falsificherebbe lo stesso futuro che conosce, secondo la logica della
profezia che si autoannulla (self-defeating prophecy). Piuttosto, è perché
se anche potessimo prevedere con certezza che un crimine si verificherà,
se cioè potessimo giungere a stabilire la necessità della proposizione sul
futuro p “domani x ucciderà y”, ciò non implicherebbe in alcun modo che
domani, necessariamente, x ucciderà y.
Ma, se seguiamo il modo in cui Dick separa le due necessità – de dicto e
de re – fino al loro punto estremo, vediamo che egli ripensa questa
distinzione portandola ad un nuovo livello.
Nella logica del racconto, infatti, il fatto che il crimine non accadrà
necessariamente, non significa semplicemente che sarebbe sempre
possibile che non accada – non è affatto questo ciò che è in gioco, ossia la
semplice esistenza di “futuri contingenti”, tali per cui le previsioni dei pre-
cog non definirebbero sempre e niente altro che mere possibilità.
Se l’evento non necessariamente accadrà, lo ricordiamo, è perché il futuro
si modifica in quanto futuro, ossia: il futuro può sempre cessare di essere
il futuro che sarà. Questo è il senso dello “spostamento”, nel racconto,
dalla concezione dei futuri alternativi (f1 o f2 o f3) a quella dei futuri
consecutivi (f1→f2→f3). I pre-cog, a rigore, non “sbagliano”, non vedono
un futuro solo possibile: ciascuno di loro vede l’unico futuro che esisterà.
Ma questo stesso futuro non cessa di trasformarsi, ogni volta che un
nuovo pre-cog lo vede. Questa è la ragione, diremo, per cui alla necessità
de dicto dell’evento non può mai corrispondere la sua necessità de re.
Dobbiamo spiegare, allora, cosa vi è, qui, in questione. Come si spiega la
contingenza, infatti, dell’evento? Come, in altri termini, la discrasia tra
necessità de dicto e necessità de re si definisce in Dick?
Abbiamo già accennato ad una delle soluzioni “classiche” rispetto al
problema dei futuri contingenti. Poniamo la previsione p “x ucciderà y nel
tempo futuro f”. Se, in f, x avrà ucciso y, ciò significa, forse, che la
previsione era vera – ed era vera già al tempo in cui è stata formulata. Ma
questo vorrebbe dire che x non avrebbe potuto non uccidere y. Una delle
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strategie per fare salva la contingenza del futuro, allora, è quella di
introdurre l’idea che, per quel momento del tempo t in cui la previsione è
stata enunciata, rispetto alla proposizione p esistano due futuri
alternativamente possibili – quello in cui x ucciderà y (f1), e quello in cui
non lo farà (f2). In tal senso, nel contesto in cui la proposizione è
enunciata, nulla consente di dire quale dei due futuri si realizzerà, con la
conseguenza che l’evento resta meramente “possibile”. Al di là delle
diverse conseguenze che da tale posizione dipendono – e che
costituiscono oggi oggetto del dibattito soprattutto in ambito analitico25 –
, quel che interessa, per noi, evidenziare, è che tutte presuppongono una
certa concezione del tempo, che è quella che, talora, si tende a ravvisare
anche nel racconto di Dick, del tipo:
f1
t
f2
Dick, come abbiamo cercato di mostrare, non segue però tale
strategia. Il futuro che i pre-cog vedono non è un futuro possibile, nel
senso di un futuro tra altri. Ciascuno di loro vede lo stesso futuro, che è
l’unico futuro che si realizzerà. E lo vede senza errore: nella visione del
primo pre-cog, il futuro che è visto è l’unico futuro in quel momento, è il
futuro che necessariamente si realizzerà. Ma questo futuro si modifica,
attraverso le successive e consecutive pre-visioni dei pre-cog.
Dobbiamo però ancora chiederci: perché accade tutto ciò? Che cos’è che,
propriamente, cambia, se la visione dei pre-cog è, a rigore, infallibile?
Quello che cambia, in realtà, è il passato. Il futuro che il primo pre-cog
vede, infatti, è il futuro di un determinato passato p1 (es: x ha litigato con
y). Ora, il secondo pre-cog non vede un altro futuro, nel senso di un
futuro alternativo rispetto al primo. Vede lo stesso futuro, il quale però,
25 Cfr., tra le posizioni più significative, A. Malpass – J. Waver, A Future for the Thin Red Line, in Synthese, 188 (2012), pp. 117-142; J. McFarlane, Future Contigents and Relative Truth, in The Philosophical Quarterly, 53 (2003), pp. 321-336; R.H. Thomason, Combinations of Tense and Modality, in D. Gabbay – F. Guenthner (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, Dordrecht 1984, pp. 135-165; A.N. Prior, Past, Present and Future, Oxford 1967. Cfr. anche, per una introduzione sul punto, S.M. Schieppati, Determinismo, indeterminismo e il problema del futuro vero, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1-2 (2018), pp. 171-184.
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adesso, è il futuro di un diverso passato rispetto a p1: è, infatti, il futuro di
quel passato in cui x ha litigato con y, il primo pre-cog ha visto tutto ciò
ed ha, poi, informato la polizia del fatto che x ucciderà, per questo, y. Se
allora l’evento resta contingente, se x non ucciderà necessariamente y, è
perché, a potersi sempre modificare, è il passato26.
A rigore, del resto, i pre-cog non vedono mai un “futuro”, almeno dal loro
punto di vista. Se l’evento si svolge sotto i loro occhi, essi vedono sempre
un presente sulla base di un certo passato, vedono qualcosa che accade
ora, per loro. Pertanto, si dovrebbe dire, propriamente, che se ciò che
vede il primo pre-cog è un evento diverso da quello che vede il secondo, è
perché è il passato del presente a modificarsi, tra una visione e l’altra.
Il primo pre-cog vede l’omicidio: o meglio lo ha visto, esso è per lui
passato. Il secondo pre-cog non vede dopo il primo pre-cog, ma vede a
partire da esso: vede, cioè, che il pre-cog ha visto l’omicidio e che, sulla
base di quel che ha visto, ha informato la polizia del fatto che esso
accadrà.
Dal punto di vista dei pre-cog, possiamo allora ricostruire come segue la
vicenda. L’omicidio è accaduto in un tempo, che chiamiamo t, che si
colloca sempre nel passato rispetto alla visione del primo pre-cog. E’ sulla
base di esso che egli informerà, in un tempo t1, che per lui è futuro –
poiché è successivo a ciò che vede – la polizia. Il secondo pre-cog vede a
partire da qui. Per lui t1 è passato: la polizia è stata informata del crimine
che sarà compiuto. Ma t1 presuppone t; presuppone, per poter essere
stato, che anche t – che ne è la condizione - sia stato. Eppure, come
sappiamo, il pre-cog vede, nel suo presente t2, che l’omicidio non è stato
26 E’ in questo senso che possiamo seguire, qui, quanto osserva M. Salazar, Letteratura e diritto in Philip K. Dick. Note sparse su Rapporto di minoranza, in M. Salazar – M. Salazar, Scritti sfaccendati su diritto e letteratura, Milano 2011, pp. 143 e ss. Se si ammettono, tuttavia, futuri multipli in quanto alternativi o paralleli, allora si conclude, necessariamente, che la visione dei pre-cog è «necessariamente parziale, essendo limitata ad uno tra i possibili aspetti del futuro delineabili in quel particolare momento» (p. 144). Ora, ciò, a nostro avviso, è quanto il racconto non ammette: il sistema del pre-crimine non è “criticabile” in quanto la pre-visione dei pre-cog sarebbe sempre e soltanto parziale o darebbe luogo ad una mera probabilità che il delitto si compirebbe se la polizia non intervenisse. Al contrario, la critica del sistema presuppone proprio che si assuma l’infallibilità della pre-visione, ossia la conoscenza certa e necessaria del futuro. Ma, al contempo, che tale certezza non renda necessario l’evento che prevede.
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commesso: la polizia, infatti, è intervenuta prima che esso sia stato
commesso, in un tempo t3 che, ora, viene ad esistere, revocando t.
Per il secondo pre-cog, pertanto, t è al contempo ciò che è stato (perché,
senza di esso, non potrebbe esservi stato t1) e che, in forza di t3, ha
cessato di essere stato.
t3 t t1 t2
La linea continua indica il percorso temporale che vede il secondo pre-
cog: t1 (l’informazione passata alla polizia) è il passato a partire da cui, in
t2, in ciò che vede ora il pre-cog, ad essere stato è t3, anziché t.
Ma t, come indica la linea tratteggiata, ha dovuto essere stato, in un
passato che non è più quello che vede il secondo pre-cog, se anche per il
secondo pre-cog t1 è stato (esso è la condizione affinché, infatti,
l’informazione sia stata passata alla polizia – a meno di non voler
ipotizzare che il primo pre-cog abbia “errato” in ciò che ha visto, il che è
quanto il racconto esclude).
Se il racconto di Dick non fa vedere tutto questo apertamente, è
perché in esso l’elemento di fiction consente di spostare sulla narrazione
relativa al futuro questo meccanismo. Dal momento in cui, infatti, ciò che
i pre-cog hanno visto è qualcosa che dovrà accadere, è cioè un tempo che
per il tempo del racconto è il futuro, questo consente di essere letto
seguendo una logica che ci è più familiare: quella “classica”, diremo dei
futuri contingenti. Ma, se vogliamo seguire fino in fondo il testo di Dick,
esso – consapevolmente o no – in realtà apre ad una logica del tutto
diversa, e più difficile: quella della revocabilità del passato.
6. Dal futuro al passato.
Stiamo giungendo, finalmente, ad uno dei punti di svolta cui occorre
pervenire, se si intende leggere il pre-crimine come qualcosa che ci
riguarda, che ha a che vedere con il modo in cui noi giudichiamo il
crimine. In quanto accadimento, in quanto “fatto”, il crimine resta, infatti,
sempre contingente. Ma questa contingenza è definita, da Dick, non tanto
dall’esistenza di futuri possibili rispetto ad un determinato presente e ad
un passato che resterebbe, come tale, irrevocabile. Diversamente, essa è
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resa disponibile da una concezione della temporalità tale per cui, nel suo
farsi, il futuro modifica se stesso. Ma, in ultima istanza, Dick sembra dire
che ciò che realmente cambia, ciò che può sempre cessare di essere ciò
che era, è il passato.
Dobbiamo intenderci su questo punto. Non si tratta di limitarsi a dire che
il passato avrebbe potuto essere diverso da ciò che è stato (questa è
ancora la logica dei futuri contingenti tradizionale). Si tratta, piuttosto, di
capire come il passato possa sempre cessare, dopo che è stato, di essere
ciò che è stato.
Questo è ciò che vi è più difficile da pensare: se, infatti, la contingenza del
futuro ci appare sempre qualcosa da “salvare” rispetto a quanto
conseguirebbe dall’accettazione di un “determinismo” radicale, essa è
stata assicurata a partire dall’assunzione dell’irrevocabilità del passato,
dell’impossibilità che ciò che è stato possa cessare di essere stato.
E’ proprio, tuttavia, questo assunto che la logica del testo di Dick tende a
far venire meno, ed è su questo piano che esso si rende leggibile nella sua
radicalità. E’ a partire da qui che il racconto consente di porre ad un
nuovo livello le domande che esso presenta. In questo senso, non si
tratterà di leggere Minority Report come se in esso fosse in questione il
problema di come “prevedere” i crimini, di un mondo in cui i crimini
vengono puniti prima che siano commessi. Al contrario, nel testo si
articola il tema di ciò che separa la conoscenza del crimine dal suo essere
o meno accaduto, della separazione tra il crimine come oggetto di un
enunciato che lo dice e il crimine come evento.
La domanda, pertanto, non è più: “quali conseguenze, dal fatto di poter
prevedere con certezza che un crimine sarà commesso?”, bensì “quali
conseguenze, se potessimo giungere a conoscere con assoluta certezza che
un crimine è stato sicuramente commesso?”
Non si tratterà più di chiedersi, per noi, che cosa segua dalla possibilità di
prevedere il futuro, ma, diversamente, che cosa implicherebbe una
conoscenza vera del passato. Che cosa significherebbe, che cosa verrebbe
in gioco se potessimo un giorno giungere a conoscere necessariamente il
passato? Se, in altri termini, i nostri metodi di indagine, se la verità a cui il
processo giunge, potesse essere una verità necessaria, con riferimento al
crimine che accerta? E’ l’ipotesi di un giudice infallibile, per la quale ciò
che egli conosce, lo conosce necessariamente. Ma cosa vorrebbe dire? Di
che cosa si predicherebbe la necessità?
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Essa sarebbe, lo abbiamo già ricordato, la necessità della proposizione
che accerta il fatto. La necessità, cioè, caratterizzerebbe la conoscenza che
il giudice avrebbe: saremmo cioè di fronte ad un giudice per cui vale che,
necessariamente, se qualcosa è da lui conosciuto, è vero. Diversamente,
essa non potrebbe mai significare: se qualcosa è conosciuto dal giudice,
allora è necessariamente accaduto, non avrebbe potuto non accadere. Il
delitto si sarebbe sempre potuto anche non compiere.
Forse non siamo giunti a prendere realmente sul serio tale
considerazione, sul piano del diritto. Che cos’è questo poter non essere
accaduto di un crimine, di cui pure potremmo sempre accertare, al limite,
il suo essere certamente accaduto?
Esso non mette, in fondo, in crisi la pretesa – che sempre il diritto ha – di
poter, almeno idealmente, raggiungere una conoscenza certa, definitiva,
in modo tale da separare una volta per tutte la colpevolezza
dall’innocenza?
Per il passato, noi tendiamo a interpretare il “poter non essere accaduto”
di un crimine che si è verificato come una mera possibilità logica:
diciamo, cioè, che non era logicamente impossibile che il crimine non
accadesse, che non sarebbe stato contraddittorio che non fosse
commesso. In questo modo, ci limitiamo a intendere il possibile come
non-impossibile. Certamente, dunque, ciò che necessariamente è
accaduto non per questo era necessario che accadesse.
Ma, come si è visto, la posizione di Dick porta ad un nuovo livello la
discrasia tra proposizione ed evento: il fatto che sia vero che il crimine è
stato commesso, diremo ora, non esclude il fatto che esso possa sempre
non essere stato commesso. La prima, infatti, è sempre e soltanto una
verità della proposizione che enuncia, accerta, il passato. La seconda,
diversamente, è una possibilità che il passato conserverebbe sempre in
quanto tale, sul piano ontologico, e non semantico. Indica, cioè, che il
passato può sempre essere non stato.
Dobbiamo, allora, fare i conti non tanto con il fatto – in fondo banale –
che il crimine, anche se accaduto, avrebbe pur sempre potuto non
accadere, quanto con l’idea che il passato, nel suo stesso essere accaduto,
potrebbe sempre cessare di essere tale. Si tratta di quanto tendiamo
sempre ad escludere: nessuno può scegliere di avere saccheggiato Troia,
per dirla con Aristotele. Neppure Dio potrebbe far sì che ciò che è
accaduto non sia stato, e viceversa:
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Egli può certamente distruggere tutte le cose che sono state fatte, in modo
che esse non siano più, ma non si riesce a vedere in che modo potrebbe
fare che le cose che sono accadute non siano accadute. Ossia egli può far sì
ora e in avvenire Roma non esista più, giacché può essere distrutta; ma in
nessun modo si riesce a capire come possa darsi che non sia stata fondata
anticamente27.
Dick, diversamente, suggerisce questa ipotesi: noi potremmo, da un
momento all’altro, trovarci in un mondo in cui Roma non è mai stata
fondata. E’ qui che si inserisce l’effetto propriamente paranoico della sua
scrittura, che presuppone che sia revocata ogni credenza preliminare
nella realtà della realtà, in ciò che la garantisce come tale. Se “paranoica”,
lo sottolineiamo, è la condizione della scrittura dickiana, è perché
quest’ultima non comincia, non si fa, se non a partire da questa revoca, da
questa messa in questione del reale. E, con esso, del tempo stesso, della
realtà del tempo: «Ho la straordinaria frase rivelata su cui basarmi: “fa
apparire le cose differenti così da far sembrare che il tempo è passato”. Ho
studiato con impegno questa frase, con risultati stupefacenti. Per
ricapitolare: c’è solo una differenza apparente. Dunque non c’è nessuna
vera differenza»28. Ipotesi, dunque, che il passato non esista: che il tempo
non passi. Ma ipotesi, appunto, perché la scrittura di Dick non procede
che per continui ripensamenti, ri-articolazioni della domanda su che cosa
sia reale – e, qui, che cosa sia reale del tempo. Le ipotesi, le tesi, le
soluzioni possibili si sposteranno, allora, con i suoi racconti, e con essa la
funzione del passato29.
In Minority Report il tema è sempre quello del tempo: che cosa c’è di
futuro e di passato? Che cosa li separa? Se ciò che i pre-cog vedono è, per
loro, passato, come fissare la differenza reale rispetto al futuro? Se questo
27 Pier Damiani, De divina omnipotentia, in De divina omnipotentia e altri opuscoli, a cura di P. Brezzi, trad. di B. Nardi, Firenze 1983, pp. 71-73. 28 Su di esso, si veda a A. Lucci, Umano Post Umano, Roma 2016, pp. 115-144. 29 Cfr., sul tema, S. Cooper, The potency of the past in comic science fiction: Aristophanes and Philip K. Dick, in Classical Receptions Journal, 10, 1 (2018), pp. 86–107. Per una lettura in chiave “biopolitica” del problema del tempo in Dick, cfr. Y. Lanci, Remember Tomorrow: Biopolitics of Time in the Early Works of Philip K. Dick, in A. Dunst – S. Schlensag (a cura di), The World According to Philip K. Dick, London 2015, pp. 100-113.
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è il motivo che attraversa il racconto30, noi lo potremo fare funzionare
anche come momento che mette in questione l’idea che il passato sia
“reale”, che esso sia certo, a differenza del futuro, in quanto e nella misura
in cui non può cessare di essere ciò che è stato.
7. Il tempo del crimine.
“Some men a forward motion
love / But I by backward steps
would move” (H. Vaughan)
Torniamo, finalmente, al concetto di pre-crimine, di un crimine che
sarebbe necessariamente compiuto, senza mai essere stato compiuto.
Non arriveremo a vederne le implicazioni, le questioni che sono poste,
finché non capiremo l’operazione che Dick pone in atto con esso. Il pre-
crimine non è altro, da questo punto di vista, che il nostro stesso concetto
di crimine pensato, sviluppato secondo una strategia paranoica, tipica
della scrittura dickiana31. Varrebbe la pena, allora, utilizzare quanto
possiamo isolare nella logica di questo racconto per tornare al problema
del crimine, del giudizio su di esso, della condanna.
Quale certezza avrete mai – sembra chiederci Dick – nel condannare? Ma
lo fa spingendo la domanda in una direzione nuova. Qui essa non riguarda
infatti i limiti, sempre possibili, di ogni atto di conoscenza del passato
(come a sottolineare che sarebbe sempre possibile l’ “errore”). Essa chiede
altro, e mette in gioco un diverso problema. Ed è questo problema che,
attraverso Dick ma al di là del suo testo, riguarda il nostro modo di
pensare, di affrontare la punizione dei crimini.
Se anche, infatti, fosse possibile giungere ad una conoscenza vera del
passato, davvero essa ci assicurerebbe del fatto che esso non possa
30 In tal senso, diremo che è questo tratto che costituisce l’originalità propria della lettura di Dick, e ciò senza negare le influenze possibili e le corrispondenze con altre posizioni – quella di Bergson, ad esempio, che hanno indagato P. Atkinson, I Know What You Did Next Summer, in D.E. Wittkower (a cura di), Philip K. Dick and Philosophy, cit., pp. 261-270, e J. Burton, The Philosophy of Science Fiction: Henri Bergson and the Fabulations of Philip K. Dick, London 2015. 31 Sulla paranoia in Dick, si rinvia a C. Freedman, Towards a Theory of Paranoia: The Science Fiction of Philip K. Dick, in Science Fiction Studies, 11, 1 (1984), pp. 15-24; N. Brémaud, Le délire paraphrénique de Philip K. Dick, l’homme reprogrammé, in L’en-je lacanien, 16, 1 (2011), pp. 143-171.
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cambiare? Il passato non conserva sempre la possibilità – ontologica, de
re – di revocarsi, di non essere stato ciò che è stato?
Se diciamo che il colpevole avrebbe potuto essere innocente, non
intendiamo più, allora, soltanto che potremmo sempre aver commesso un
errore, al livello della nostra conoscenza dei fatti. Intendiamo dire,
diversamente: ciò che egli ha fatto, conserva sempre, in se stesso, la
possibilità, la potenza di non essere stato 32. Anche la “realtà” del passato,
cioè, può sempre cedere.
Il problema è spostato, finalmente. Non si tratta più di “denunciare” la
sempre possibile incertezza del giudizio, la sempre possibile divergenza
tra la “verità” processuale e la realtà dei fatti. Fino a qui, infatti, non c’è
nulla di diverso rispetto a quanto i giuristi non hanno mai smesso di
sottolineare. Se, infatti, essi ormai ammettono che la giustificazione che il
processo produce è sempre e soltanto quella dell’enunciato sui fatti33,
l’ideale di una “verità” come corrispondenza alla realtà viene, in realtà,
mantenuto se, come osserva MacCormick «ogni lite giudiziaria implica la
supposizione che si possano stabilire delle verità nel tempo presente
intorno a fatti passati»34.
Per questo si continua a parlare dell’enunciato fattuale come di una
proposizione di natura descrittiva, nel senso che essa si riferirebbe ad
determinato fatto come una «realtà esterna al processo»35. Il riferimento
alla possibilità di verificare se la proposizione corrisponda o meno alla
realtà dovrebbe perciò essere sempre mantenuto, se non altro per
consentire la valutazione critica della sentenza da parte di chi, ad
32 E’ un tema, questo, su cui hanno insistito – se pur da diverse prospettive - sia Agamben, nello sviluppo del concetto aristotelico di non-potere (cfr. G. Agamben, Bartleby o della contingenza, in G. Deleuze – G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Macerata 1993) che Vitiello, attraverso l’elaborazione del concetto di possibilità del possibile (riferita anche al passato, cfr. V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Roma 2002). 33 Come osserva correttamente R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, trad. it. a cura di M. La Torre, Milano 1998, p. 86, la “giustificazione” dell’enunciato fattuale “x ha ucciso y” è sempre una giustificazione che non verte sulla corrispondenza dell’enunciato ai fatti, all’evento per come esso è accaduto. Un fatto è «ciò che viene espresso da una proposizione che può essere giustificata discorsivamente». 34 N. Maccormick, Ragionamento giuridico e teoria del diritto, ed. it. a cura di V. Villa, trad. it. di A. Schiavello, Torino 1994, p. 108. 35 J. Ferrer Beltrán, Prova e verità nel diritto, Bologna 2004, p. 27.
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esempio, sia in grado di provare «in base a successive scoperte, che la
ricostruzione dei fatti operata dal giudice “non era vera”»36.
Per questo si mantiene sempre, in ultima istanza, una certa concezione
dell’ “errore” giudiziario, come se un enunciato relativo ai fatti potesse
essere dimostrato “falso” in quanto non corrispondente ai fatti, per come
essi sono accaduti. Se tutto ciò può continuare a funzionare, è solo sul
presupposto che il fatto, per come accaduto, sia in ultima istanza
irrevocabile. Certamente, cioè, x può essere falsamente ritenuto di aver
commesso un crimine: ma, se lo ha commesso, è impossibile far sì che
non lo abbia commesso (factum infectum fieri nequit). La possibilità
stessa – come generalmente si ammette – che l’enunciato relativo ai fatti
possa essere “falso”, possa non corrispondere alla realtà, implica che
quest’ultima resti indifferente a ciò che nella proposizione si dice di essa.
Ma questo significa che, se potessimo mai giungere alla certezza della
verità dell’enunciato che accerta il delitto, ciò non potrebbe che
significare la certezza che il delitto sia stato commesso. La verità, la forma
di sapere che le pratiche giuridiche, il modo di giudicare gli uomini in
relazione ai crimini, si sono imposte nella modernità, non ha mai smesso
di essere pensata, in fondo, a partire dall’ideale - per quanto non
raggiungibile - corrispondenza tra la conoscenza del fatto e il suo essere
accaduto.
Dick fornisce, nel racconto, questo ideale compiuto: potrebbe sempre
darsi, non può escludersi, che sia possibile giungere ad una conoscenza
necessaria del passato, ad una conoscenza infallibile di ciò che è stato. Se
giungessimo mai ad essa, avremmo realizzato l’ideale del processo per
come pensato dalla modernità giuridica: ci sentiremmo, cioè, finalmente
garantiti nel nostro condannare, nel fatto che non vi sarebbe, qui, errore
possibile.
E’ a questo punto che Dick giunge a porre la domanda, nel momento e nel
modo in cui essa va pensata: tutto ciò ci assicurerebbe davvero, in fondo,
di condannare soltanto crimini che siano stati commessi? Di non
condannare mai, dunque, degli “innocenti”?
Se vi è risposta affermativa, la si ottiene solo assumendo che un fatto, se si
è compiuto, non può non essersi compiuto. Che ciò che è stato non può
mai, non può più non essere stato. Ma questa credenza da che cosa è
36 P. Comanducci, Assaggi di metaetica, Torino 1992, p. 238.
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assicurata? Che cosa le consente di essere mantenuta, se non ciò che essa
stessa assicura?
Essa è la condizione affinché, per il processo, vi possa essere una “verità”,
affinché cioè esso possa presentarsi come atto di conoscenza – per quanto
imperfetto – di ciò che è stato. Ma, dall’altra parte, è solo in quanto
assumiamo che questo atto di conoscenza tenda in ultima istanza a
corrispondere alla realtà che facciamo di quest’ultima qualcosa di
“irrevocabile”, perché funziona come criterio ultimo di valutazione della
correttezza di quell’atto. E’ dunque il condizionato che è condizione della
sua condizione: è, cioè, il nostro modo di pensare che la conoscenza tenda
verso l’accertamento dei “fatti”, a far sì che questi ultimi non possano che
essere pensati come irrevocabili. La credenza nell’irrevocabilità del
passato è ciò che costituisce quell’illusione di realtà che rende possibile il
processo, la produzione della sua “verità”.
La paranoia, va ricordato, in Dick è ciò che consente di articolare la
domanda: che cos’è reale? In altri termini: soltanto ad un livello
“paranoico” è possibile che la realtà si riveli per ciò che essa è, è possibile
giungere a ciò che costituisce il reale di ciò che è reale.
Che cos’è dunque reale? Il crimine, nel modo in cui lo pensiamo, in
quanto fatto accaduto? Non più di quanto lo sia il pre-crimine – è questa
la risposta implicata nel racconto. Perché la conoscenza del passato non è
meno “illusoria” della pre-visione del futuro. Anche se, a rigore, non si
dovrebbe parlare di illusorietà. Se infatti la realtà stessa è una illusione, e
se non vi è un’altra realtà cui contrapporla, allora non c’è più la possibilità
di dire che cosa il crimine sia “in realtà”. Esso è reale come, in quanto
illusione37.
Il processo diventa il luogo, allora, in cui ri-assicuriamo, ogni volta, la
credenza nell’irrevocabilità del passato, in cui anzitutto condanniamo ciò
che è stato ad essere stato. “Accertare” un fatto, ciò che è accaduto, non
significa, per il diritto, escludere che esso possa non essere accaduto,
quanto escludere che, se è accaduto, non possa cessare di essere accaduto
(e, analogamente, se non è accaduto). Il problema, cioè, non è di
condannare un innocente, non è la condanna di qualcuno per un crimine
che non ha commesso. Il problema, piuttosto, è che la condanna per un
37 Cfr., sul punto, J. Baudrillard, Simulacres et science-fiction, in Id., Simulacres et Simulation, Paris 1981, pp. 177-186.
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crimine che si è commesso è sempre, anzitutto, condanna
all’irrevocabilità di quel passato, è ciò che impedisce al crimine che è stato
commesso di poter giungere, un giorno, a non essere stato commesso38.
Questa possibilità, il testo dickiano giunge a pensarla sul piano ontologico
– e non, dunque, limitandosi a fare di essa una possibilità che
riguarderebbe il nostro modo di modificare il passato attraverso la
narrazione che facciamo di esso. L’idea che sia al livello della costruzione
narrativa della realtà che il passato viene reso “modificabile”, infatti, non
fa che fondarsi sull’assunto per cui, nel suo essere accaduto come tale,
esso sarebbe invece irrevocabile. Ma la scrittura di Dick non va in questa
direzione, poiché la questione che essa sviluppa è sempre quella della
realtà (ontologica) del passato. Ed è qui che l’incubo di un futuro che può
sempre essere diverso da ciò che necessariamente e infallibilmente sarà,
può anche rivelarsi come l’incubo di un passato a cui viene impedito di
poter non essere stato.
Potremmo distinguere, allora, tra l’aver-avuto-luogo dell’evento e il suo
essere-stato. Certamente esso ha avuto luogo, e come tale è irrevocabile.
Ma può sempre cessare di essere stato, di essere il passato che è stato. E’
questa la domanda che, allora, andrebbe finalmente sviluppata: che cosa
ne sarebbe di un diritto, in tutto ciò che riguarda il suo modo di
considerare, di pensare il passato, se quest’ultimo ci apparisse, ora, come
revocabile? Che ne sarebbe della pena, del giudizio, ma anche della
riparazione, del crimine estinto, amnistiato, “perdonato”? Non
cambieremo nulla dei nostri modi di giudicare, di condannare, di punire,
finché non giungeremo ad essere all’altezza di ciò che realmente è ancora
da pensare: che un crimine che è stato, possa sempre cessare di essere
stato.
Abstract: The paper analyses the topic of “pre-crime” included in Philip K. Dick’s novel, “Minority Report”. The purpose of the analysis is to identify the concept and implications of a “crime without a crime”, namely a crime which has been prevented from occurring thanks to the fact that it was forecasted. The idea of “pre-crime” questions the typical meaning given by the
38 Anche la stessa “estinzione” del reato, nella dottrina penalistica, è spesso definita come “impropria” proprio «perché è evidente che il reato nella sua materialità di fatto storico non si può estinguere (factum infectum fieri nequit)» (F. Ramacci, Corso di diritto penale, a cura di R. Guerrini, Torino 2013, p. 579). Così, analogamente, Antolisei osservava che «il reato, come fatto storico, una volta sorto, non può essere posto nel nulla» (F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano 1980, p. 631).
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modern society to delict, guilt and punishment opening to a reinterpretation of our juridical categories.
Keywords: Philip Dick – Minority Report – Pre-Crime – Multiple Futures – Future Contigents