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SR Scienze e Ricerche N. 39, 15 OTTOBRE 2016 ISSN 2283-5873 39.

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SRScienze e RicercheN. 39, 15 OTTOBRE 2016

ISSN 2283-5873

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GLI ANNALI 2015

1 numero in formato elettronico: 7,00 euro

( UN NUMERO A SCELTA IN OMAGGIO AGLI ABBONATI )

SRScienze e RicercheRIVISTA BIMENSILE · ISSN 2283-5873

Abbonamento annuale a Scienze e Ricerche in formato elettronico (24 numeri + fascicoli e numeri monografici): 42,00 euro * * 29,00 euro per gli autori e i componenti del comitato scientifico e del collegio dei referees

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39. Sommario

ALDO ZANCALa Costituzione americana: un caso di lotta di classe pag. 5

EMILIANO VENTURAIl giorno in cui morì la musica. Il primo evento traumatico per gli USA pag. 12

ANNA TOSCANO“Come la cresta di un pavone”. Non-European Roots of Mathematics pag. 19

ANGELO ARIEMMALa narrazione della realtà pag. 26

VINCENZO CROSIOL’infranto: la frangibilità, la cura e il non-abbandono pag. 27

IDA CASTIGLIONI, ALBERTO GIASANTI, CRISTINA MESSAUniversities as Local Development Agencies in the Ambit of theInternationalization of Higher Education pag. 31

FEDERICO O. OPPEDISANOLe retoriche del design visivo per la comunicazione sociale pag. 35

ALESSANDRA PALISIAttesa e angoscia: Kafka, Beckett, Buzzati. La produzione letterariaa metà degli anni Cinquanta del Novecento pag. 43

IOLANDA MARTINO, DANIELA MOSCHELLA, ANDREA D’AGOSTINO,ANTONIO AUGIMERI, ANTONIO CERASAAspetti epidemiologici dell’Anedonia: uno studio di campione pag. 46

ROBERTO FIESCHI1° settembre 1939 pag. 50

MARCO MIGLIONICOL’educazione alla Teatralità e lo studio del “personaggio” pag. 54

GRAZIELLA TONFONIEconomia letteraria sincronica e filologia dinamica pag. 63

FRANCESCO CAPPUZZELLO, DIANA CARBONE, MANUELA CAVALLARO,ANNA MARIA MUOIOLa Risonanza Gigante di Pairing nei nuclei atomici: un nuovoballo di gruppo pag. 72

VINCENZO VILLANIUn’introduzione alla Scienza dei Materiali pag. 75

FRANCESCA D’ANNA, ANDREA DE ROSA, ILARIA PANELLA, GIACINTO FALCO,MARCO RICCARDO, ROBERTO SEQUINO, EMANUELE SASSO, NICOLA ZAMBRANOI delicati equilibri cellulari tra sopravvivenza e morte: l’apoptosi ela sua scoperta nel modello di Caenorhabditis elegans pag. 78

n. 39 (15 ottobre 2016)

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ISSN 2283-5873 Scienze e RicercheRivista bimensile (esce il 1° e il 15 di ogni mese)n. 39, 15 ottobre 2016

Coordinamento• Scienze matematiche, fisiche, chimiche e della terra:

Vincenzo Brandolini, Claudio Cassardo, Alberto Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi-Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli, Carmela Saturnino, Roberto Scan-done, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi, Pietro Ursino

• Scienze biologiche e della salute: Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano

• Scienze dell’ingegneria e dell’architettura: Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guaz-zaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia, Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano Vergura

• Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche, letterarie e della forma-zione: Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso, Ser-gio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ien-na, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone, Antonella Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Randazzo, Luca Refrigeri, Franco Riva, Mariagrazia Russo, Domenico Russo, Domenico Tafuri, Alessandro Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti

• Scienze giuridiche, economiche e sociali: Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Riccardo Gallo, Ago-stina Latino, Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria Viviano

Scienze e Ricerche in formato elettronico (pdf HD a colori):• abbonamento annuale (24 numeri + supplementi): 42,00 euro (29,00 euro

per gli autori, i componenti del comitato scientifico e del collegio dei referees)

Scienze e Ricerche in formato cartaceo (HD, copertina a colori, interno in b/n):

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Ricerche, Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma IBAN: IT 97 W 07601 03200 001024651307

La rivista ospita due tipologie di contributi:• interventi, analisi, recensioni, comunicazioni e articoli di divulgazione

scientifica (solitamente in italiano).• ricerche e articoli scientifici (in italiano, in inglese o in altre lingue).

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Non è previsto l’invio di estratti o copie omaggio agli autori.

Scienze e Ricerche è anche una pubblicazione peer reviewed. Le ricer-che e gli articoli scientifici sono sottoposti a una procedura di revi-sione paritaria che prevede il giudizio in forma anonima di almeno due “blind referees”. I referees non conoscono l’identità dell’autore e l’autore non conosce l’identità dei colleghi chiamati a giudicare il suo contributo. Gli articoli vengono resi anonimi, protetti e linkati in un’apposita sezione del sito. Ciascuno dei referees chiamati a valutar-li potrà accedervi esclusivamente mediante password, fornendo alla direzione il suo parere e suggerendo eventuali modifiche, migliora-menti o integrazioni. Il raccordo con gli autori è garantito dalla se-greteria di redazione.

Il parere dei referees non è vincolante per la direzione editoriale, cui spetta da ultimo - in raccordo con il coordinamento e il comitato scientifico - ogni decisione in caso di divergenza di opinioni tra i vari referees.

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Scienze e RicercheSede legale: Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 RomaRegistrazione presso il Tribunale di Roma n. 19/2015 del 2/2/2015Gestione editoriale: Agra Editrice Srl, RomaTipografia: Andersen SpaDirettore responsabile: Giancarlo Dosi

[email protected]

N. 39, 15 OTTOBRE 2016

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ti sociali. La Costituzione venne formulata in quella data maniera per favorire determinate classi sociali in danno di altre, mediante la formulazione di un assetto po-litico-istituzionale di tipo spicca-tamente conservatore, che creava un argine verso i fermenti demo-cratici che si erano sviluppati nel corso della guerra rivoluzionaria1. Anzi, dire che l’assetto istituzio-nale disegnato dalla Costituzione fosse conservatore significa non tener conto che essa cancellò ele-menti ed esperienze di democra-zia avanzata che stavano facen-dosi strada, in una prospettiva di superamento di una visione ridut-tivamente liberale.

La prospettiva analitica di Be-ard è quella che lui stesso defini-sce teoria del determinismo eco-

nomico in politica, secondo cui i fatti e le scelte politiche sono influenzati, direttamente o indirettamente, dallo svol-gimento degli eventi economico-sociali, ovvero dalla lotta di classe che vede lo scontro tra gli interessi dei vari gruppi sociali. È chiaro che si tratta di una posizione assai vicina al marxismo2, ma Beard ha sempre rifiutato quest’accosta-mento, preferendo riferirsi a quanto asserisce Madison nel X

1 L’obiettivo di Beard non era in alcun modo di mettere in discussione il governo federale. Lo scopo immediato di Beard era piuttosto quello di dimostrare l’origine di parte del governo americano, e soprattutto il suo utilizzo di parte negli anni del governo del partito federalista hamiltoniano.2 Lucio Levi, nel saggio premesso all’edizione del Federalist citata nella nota successiva, considera l’impostazione di Beard inficiata da “marxismo volgare”, in quanto stabilirebbe un rapporto meccanico tra economia e po-litica. Però Levi di fatto condivide l’analisi di Beard.

La Costituzione americana: un caso di lotta di classe. Rileggendo il libro di Charles A. Beard, Interpretazione economica della Costituzione degli Stati Uniti d’AmericaALDO ZANCADipartimento di Studi europei e dell’integrazione internazionale, Università degli Studi di Palermo

Il libro di Beard, quan-do nel 1913 uscì, fece grande scalpore. Esso conteneva una ricon-siderazione della Co-

stituzione federale e della stessa Convenzione di Philadelphia che la produsse, indicandone la funzione controrivoluzionaria e interpretandola come un fre-no piuttosto che uno stimolo al processo democratico che si era aperto con la guerra contro gli Inglesi. Si trattava di una vera e propria sconsacrazione della convenzione di Philadelphia e di un attacco all’immagine della classe dirigente rivoluzionaria e dei simboli stessi della nazione americana. Era la prima volta che non solo ne veniva messo in di-scussione il mito fondativo, ma pure veniva rifiutata l’agiografia che riguardava i componen-ti della convenzione di Philadelphia, fino ad allora conside-rati leader politici di eminente virtù e saggezza, fra i quali, è bene precisare, non si annoveravano ormai quasi del tutto i leader rivoluzionari del 1776. La Costituzione veniva per-cepita come l’esito e il coronamento della rivoluzione inizia-ta con la Dichiarazione di indipendenza e proseguita con la guerra contro gli inglesi. Non a caso i 55 estensori della carta costituzionale venivano appellati anch’essi Padri Fondatori (Founding Fathers) e non Costituenti (Framers), come sa-rebbe stato più corretto.

Secondo Beard, la Costituzione non era stata il frutto ma-turo degli ideali repubblicani dei popoli dei tredici Stati ex coloniali, ma l’opera di un gruppo di persone portatrici di propri interessi privati ed esponenti di ben individuati stra-

Charles A. Beard

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costante al governo e, soprattutto, ai diritti di proprietà. «Tut-ti erano […] concordi nel diffidare della democrazia, con-siderata un potenziale veicolo di sovversione se non, addi-rittura, incitamento al saccheggio dei beni dei proprietari»4. Ne venne fuori un documento prodotto «da un gruppo di cinquantacinque mortali, siglato in effetti da appena trenta-nove persone, un buon numero delle quali era proprietario di schiavi, e adottato da tredici Stati soltanto, attraverso il voto di meno di duemila persone»5.

Il pensiero dei Padri Fondatori e dei Costituenti è pro-fondamente influenzato da Montesquieu e da Locke, da quest’ultimo in particolare6. Siccome intento di Locke è di «ben comprendere che cosa sia il potere politico e ricostru-irne la genesi», si comprende che «Il grande e fondamen-tale intento per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà»7. I diritti preesistono al potere politico e quindi, nel momento in cui gli uomini decidono di istituire lo Stato, non solo esiste ed è radicata la diseguaglianza dei posses-si e delle posizioni sociali, ma è proprio questa situazione che suggerisce di creare un potere comune che la sancisca. Il problema che il potere politico deve risolvere è, appunto, di fare accettare questo stato di cose a chi rimane emargina-to dal progressivo incremento della diseguaglianza. Il potere civile non crea nuovi diritti, né può limitare quelli esistenti antecedentemente. Viene così giustificata la legittimità delle diseguaglianze dei possessi e dell’appropriazione individua-le illimitata.

Se «gli uomini […] si associano, al fine di disporre della forza congiunta della società nel suo complesso, assicurare così e proteggere le loro proprietà»8, è chiaro che la mag-gioranza che esprime il potere legislativo non è la maggio-ranza dell’intero popolo, ma di coloro che hanno interesse a difendere la loro proprietà. I proprietari si potranno trovare in disaccordo e anche in conflitto fra di loro su tante que-stioni in quanto proprietari, ma saranno sempre solidali nel riconoscersi nella comune difesa della proprietà e quindi nel mantenere accuratamente nelle proprie mani il potere poli-tico. L’operazione ideologica della teoria politica lockeana, consiste nel fornire una giustificazione a uno Stato di classe, imperniato sulla diseguaglianza sociale ed economica, dove vigono diritti diseguali, partendo però dal postulato univer-sale dell’eguaglianza dei diritti naturali degli individui. «La Costituzione era in sostanza – commenta Beard – un docu-

4 L. Villari, America verità e leggenda, «la Repubblica», 6 ottobre 2005.5 R.A. Dahl, Quanto è democratica la Costituzione americana?, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 3-4. 6 Addirittura fu coniato il motto «Locke et praterea nihil», per dire che Locke ha dominato il pensiero politico americano come nessun altro.7 J. Locke, Secondo trattato sul governo. Saggio concernente la vera ori-gine, l’estensione e il fine del governo civile, Editori Riuniti, Roma 2006, pp. 5 e 90-91. Mi permetto di rinviare al mio Proprietà e diritti nella teoria lockeana, in S. Costantino, A. Zanca, Azione sociale e potere, FrancoAn-geli, Milano 2012, pp. 193-200. Le idee di Locke animarono il programma del repubblicanesimo democratico agrario di Jefferson e Madison, che au-spicavano la costituzione di un vasto corpo di proprietari terrieri, cosa resa possibile dalla enorme disponibilità delle terre dell’Ovest. 8 Ivi, p. 99.

saggio del Federalist:

la differenza di qualità intrinseche di ciascun uomo, che rappresenta la

fonte dei diritti di proprietà, configura un ostacolo parimenti insupera-

bile ad una eventuale uniformità d’interessi. Prima cura di ogni gover-

no dovrà, infatti, essere la salvaguardia di queste qualità individuali. E

dalla protezione delle facoltà di guadagno distribuite in minore o mag-

giore misura in ciascun individuo, nasce, naturalmente, il possesso di

beni di tipo e misura differenti; e dall’influsso esercitato da questi beni

sulle opinioni e sui sentimenti dei rispettivi proprietari, deriva una di-

visione della società in interessi ed in partiti differenti. […]

Le fonti più comuni e durature di faziosità sono, tuttavia, fornite dalla

varia o ineguale distribuzione delle ricchezze. Coloro che possiedono

e coloro che non hanno proprietà hanno sempre costituito i contra-

stanti interessi nella società. Similmente, i creditori da una parte e i

debitori dall’altra. Gli interessi dei proprietari agrari, quelli degli indu-

striali, dei commercianti, dei possessori di capitali liquidi insieme ad

altri minori crescono, di necessità, nelle nazioni civili e si ripartiscono

in diverse classi sollecitate ad agire da vari sentimenti e valutazioni.

Compito primo della legislazione moderna è, appunto, la regolamen-

tazione di questi interessi svariati e delle loro reciproche interferenze,

il che implica un certo spirito di parte, fin nell’esplicazione delle co-

muni attività di ordinaria amministrazione3.

Dunque, secondo Madison, il compito più importante del governo consiste nel controllo e nella mediazione degli in-teressi economici in conflitto, il quale genera le fazioni. La causa delle fazioni risiede nella «varia o ineguale distribu-zione delle ricchezze». Chi fa le leggi e chi governa indirizza le proprie decisioni secondo la propria convenienza. Tenuto conto che la distribuzione della ricchezza è inevitabilmente ineguale, si profilerà il grande pericolo che alcuni interessi si fondano in una schiacciante maggioranza (che Madison prevede che sarà formata dai contadini senza terra), la quale, affermando i propri diritti, conculcherà quelli della minoran-za. Il governo deve garantire che ciò non si verifichi, facendo sì che certi interessi non formino una maggioranza.

Perseguendo con determinazione quest’obiettivo, i Costi-tuenti si spinsero ben al di là del mandato ricevuto, che era quello di «rimediare ai difetti del governo federale» e di for-mulare proposte in merito «alle disposizioni indispensabili per rendere il governo adeguato alle esigenze dell’Unione» e non certamente quello di trasformarsi in una Assemblea costituente, rasentando così un vero e proprio colpo di Sta-to. Si sarebbe trattato, in sostanza, di rendere meno laschi i legami così come stabiliti dai 13 Articoli di Confederazione. Quest’ultima era, infatti, del tutto priva di potere esecutivo e giudiziario e i suoi deliberati, per diventare operativi, dove-vano essere accolti dai governi degli Stati.

La pressante preoccupazione della maggioranza dei Costi-tuenti fu di erigere barriere costituzionali ad ogni rischio di affermazione del potere popolare, perché il popolo veniva considerato come una massa indisciplinata e una minaccia

3 A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, Il Federalista, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 191-192.

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della finanza. Il secondo gruppo era formato dagli industriali e dai commercianti, ai quali interessava che venissero stabi-lite norme unitarie in tutti gli Stati e che fossero tutelati verso l’estero da regole protezionistiche. Il terzo gruppo era com-posto dagli speculatori fondiari, che annoverava i personaggi più influenti e prestigiosi, a cominciare dallo stesso Giorgio Washington. Numericamente questi gruppi rappresentavano una minoranza del paese, fuori della quale c’era la grande massa di piccoli agricoltori, artigiani, debitori e, natural-mente, proletari nullatenenti. Mentre i componenti dei primi

gruppi avevano voglia, mezzi e opportunità di organizzarsi (i più si ad-densavano nei centri ur-bani), i componenti dei secondi avevano scarsa consapevolezza e iden-tità.

È chiaro che i rappresentanti che furono inviati a Philadelphia dalle convenzioni statali di fatto furono scelti dai portatori dei maggiori interessi:

Dall’esame della posizione

economica dei membri della

Convenzione – afferma Be-

ard – si possono trarre alcune

conclusioni:

In maggioranza, i membri era-

no avvocati di professione12.

Essi provenivano per lo più

dai centri urbani della costa e

delle vicinanze, cioè da quelle

regioni in cui era più che altro

concentrata la proprietà mobi-

liare.

Nessun membro rappresentava, dal punto di vista dell’interesse eco-

nomico, la classe dei piccoli coltivatori o quella degli artigiani.

In schiacciante maggioranza i membri, almeno per cinque sesti, erano

immediatamente, direttamente e personalmente interessati al risultato

dei loro lavori a Filadelfia, ed erano persone che avrebbero tratto più o

meno vantaggio dall’adozione della Costituzione […]

essi conoscevano attraverso la loro personale esperienza economica

i risultati precisi che doveva conseguire il nuovo governo che essi

stavano edificando13.

Il punto forse più importante che si dovette affrontare fu

12 Ciò comportava un indubbio vantaggio sul piano della capacità di in-fluenza.13 C.A. Beard Interpretazione economica della Costituzione degli Stati Uniti d’America, cit., pp. 127-128.

mento economico basato sul concetto che i fondamentali diritti privati alla proprietà sono anteriori al governo, e mo-ralmente al di là della portata delle maggioranze popolari»9.

Si passa quindi dalla proclamazione dell’eguaglianza e dei diritti alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità con-tenuta nella Dichiarazione di indipendenza del 177610 alla Costituzione del 1787, che si qualifica come strumento di accentramento del potere politico e di dominio di una par-te minoritaria della società sul resto. In essa è leggibile una ben precisa concezione del potere politico. Essa si diffonde sulle istituzioni e tace del tutto sui diritti, che però sono quelli taci-tamente presenti e che vengono sintomatica-mente garantiti ponendo dei limiti al governo11. La Costituzione pre-suppone che i cittadini possiedano da sé le op-portunità e le risorse per esercitare i propri diritti. Viene così delineato un modello di società in cui lo Stato non pone, non crea e non proteg-ge alcun diritto e in cui ognuno può contare solo sulle sue forze.

Importanti gruppi di interessi economici erano stati danneggiati dal sistema di governo così come era previsto dagli Articoli di Confe-derazione, in particolare quelli che avevano a che fare con i titoli pubblici, l’industria, il commer-cio e il prestito a inte-resse, cioè i settori capitalistici che si contrapponevano alla proprietà fondiaria. Fu Hamilton ad individuare con estrema precisione i gruppi sociali che avrebbero avuto interesse a sostenere il nuovo sistema federale di governo, da cui sareb-bero stati promossi e consolidati.

Il primo gruppo era costituito dai creditori, dai finanzieri, dai banchieri e dai prestatori di denaro, in sostanza le forze

9 C.A. Beard Interpretazione economica della Costituzione degli Stati Uniti d’America, Feltrinelli, Milano 1959, p. 258.10 C’è da osservare che in essa non è menzionato il diritto alla proprietà e che essa parla dell’eguaglianza non degli individui o delle persone ma degli uomini, evidentemente maschi e bianchi.11 Non è un caso che i primi dieci emendamenti, il Bill of Rights, siano espressi prevalentemente in forma negativa. Con essi, comunque, si apre un processo di democratizzazione della Costituzione che la trasformerà profondamente. Il presente intervento, però, non si spinge oltre la sua ra-tifica.

La dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America

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dalla eventuale tirannide dei suoi governanti, ma anche a garantire

una parte della medesima contro gli eventuali abusi dell’altra parte,

dovranno, infatti esistere interessi diversi nelle varie classi e catego-

rie di cittadini. Qualora la maggioranza dovesse ritrovarsi unita in un

comune interesse, la posizione della minoranza sarebbe precaria. […]

per eliminare una simile eventualità [bisogna] ammettere nella società

civile tali e tante categorie e classi di cittadini, da rendere improbabi-

le, se non addirittura impossibile, la costituzione di una maggioranza

tendenziosa. […]

Qui avviene, infatti, che mentre tutta l’autorità proviene dalla società

e ad essa risponde, tale società è divisa in tante parti, e si compone di

tanti diversi interessi e tante diverse categorie di cittadini, che i diritti

degli individui, ovvero della minoranza, non correranno seri rischi di

venire ingiustamente sopraffatti da una maggioranza17.

Come si può vedere, l’ideale della sovranità popolare vie-ne affermato, ma viene declinato in una versione che in qual-che modo la “dissolve” entro la costituzione in un complesso equilibrio, al contempo giuridico e politico, che di fatto im-pedisce alla volontà del popolo di esprimersi e di farsi valere così da porsi in condizione di rovesciare lo status quo. Un solido argine contro questa eventualità era costituito dal di-ritto di voto, riservato ad una minoranza della popolazione maschile in quanto limitato con criteri censitari, diversi fra i vari Stati, ai quali la Costituzione lasciava il potere di re-golamentarlo. Madison pensava che «un’ovvia e inelimina-bile divisione di ciascun popolo è tra i proprietari del Suolo e degli altri abitanti». Di conseguenza, se il suffragio fosse esteso ai non proprietari, la maggioranza potrebbe minaccia-re il diritto di proprietà. Però Madison scorgeva con onestà la contraddizione insita in questo assetto, il quale «viola il prin-cipio vitale del libero Governo, secondo cui coloro che devo-no essere soggetti alle leggi devono aver voce in capitolo per farle. E la violazione sarebbe anche più straordinariamente ingiusta se coloro che fanno le leggi fossero la minoranza». Tale era però la situazione all’atto della formazione e del-la ratifica della Costituzione. Solamente un lungo cammino fatto di trasformazioni economiche, sociali e culturali e di emendamenti, condurrà al suo superamento.

Bisogna francamente riconoscere che gli autori del Fede-ralista (in questo caso non si sa se Hamilton o Madison) si esprimono chiaramente. Viene spiegato che il meccanismo di governo è stato studiato in maniera tale che la maggioran-za del popolo, segmentata in interessi diversi e contrapposti, non possa presentarsi sulla scena politica sufficientemente coesa per conquistare il potere. Così la minoranza dei ceti privilegiati potrà curare tranquillamente i propri affari. Un tale scenario è ammissibile solo se non ci sono i partiti poli-tici, apparsi i quali, infatti, la Costituzione, via via emendata, si trasformerà in senso democratico18.

Stando così le cose, non c’è da meravigliarsi che i lavo-

17 Ivi, p. 460.18 Si pensi solamente all’elezione diretta dei senatori (XVII emenda-mento, 1913) o all’affermazione dell’elezione diretta anche del Presidente mediante il vincolo posto dai partiti ai grandi elettori.

di escogitare un equilibrio per porre freni al potere legisla-tivo e per impedire che uscisse da certi limiti accogliendo istanze provenienti dai ceti popolari. Per evitare ciò era ne-cessario che il conflitto economico esistente nella società venisse riflesso nella struttura del governo, in modo tale che si impedisse che si formasse una maggioranza che potesse prevaricare la minoranza (dei proprietari): «[la] società è di-visa in tante parti, e si compone di tanti diversi interessi e tante diverse categorie di cittadini, che i diritti degli indivi-dui, ovvero della minoranza, non correranno seri rischi di venire ingiustamente sopraffatti da una maggioranza»14. Da questo criterio venne concepita una determinata struttura del potere che facesse solido ostacolo al coagularsi degli interes-si democratici:

Dacché la Camera dei Rappresentanti dovrà essere eletta direttamente

dal popolo, il Senato dagli organi legislativi statali, ed il Presidente

designato da un certo numero di elettori appositamente delegati dal

popolo, non sarà facile che possa sorgere un qualche comune interesse

che leghi tra loro queste varie branche in una comune predilezione per

una determinata categoria di elettori15.

L’Esecutivo e il Legislativo vengono resi reciprocamente indipendenti e il Legislativo viene diviso in due: la Came-ra dei Rappresentanti e il Senato. L’elezione del Presidente viene fatta da un corpo scelto di grandi elettori: «la designa-zione [del Presidente viene] fatta da uomini qualificati a ben analizzare le qualità più necessarie all’alto posto, uomini che [agiscono] in circostanze atte a favorire una deliberazione ed a permettere una ponderata fusione di tutte le ragioni e di tutti gli elementi che potrebbero costituire la base della loro scelta»16. L’elezione di secondo grado sgombera così il campo dalla preoccupazione che un Presidente eletto diretta-mente dal popolo catalizzi su di sé gli umori dei ceti meno abbienti.

Per quanto riguarda il Senato, in quanto organo di control-lo sulla Camera e in quanto condivide col Presidente alcune funzioni, esso «deve avere grandi proprietà personali, deve avere lo spirito aristocratico; deve amare la proprietà con orgoglio», così sosteneva Hamilton, il quale personalmente pensava che la carica di senatore dovesse essere a vita, come i Lords inglesi.

I principali poteri conferiti dalla Costituzione al governo sono: imposizione fiscale, guerra, controllo del commercio e gestione delle terre dell’Ovest. Tali poteri garantiscono che i crediti pubblici vengano interamente pagati, che sia assi-curata la pace, che il commercio estero sia vantaggioso, che l’industria sia protetta e che proceda l’occupazione dei terri-tori occidentali. La proprietà rimane fuori da ogni rischio e il commercio degli schiavi può continuare indefinitamente.

Il regime repubblicano non serve soltanto a salvaguardare la società

14 A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, Il Federalista, cit., p. 460.15 Ivi, p. 510.16 Ivi, p. 561.

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Poiché i leaders del movimento per la ratifica erano in così grande

numero grossi possessori di titoli, e dato che i titoli costituivano una

parte così cospicua della proprietà mobiliare, questo interesse econo-

mico deve aver costituito un elemento dinamico notevolissimo, se non

preponderante, per giungere all’adozione del nuovo sistema. […]

L’opposizione alla Costituzione venne in modo quasi uniforme dalle

regioni agricole, e dalle zone in cui i debitori erano andati progettando

emissioni di carta moneta ed altri piani che favorivano la svalutazio-

ne20.

John Marshall, il famoso presidente della Corte Suprema, nel suo Life of Washington, svolge una lucida analisi facendo notare come si fosse prodotta una profonda contrapposizione di interessi di classe:

Alla fine si formarono in ogni Stato due grandi partiti […]. Gli uni

lottavano con zelo indefesso per l’osservanza precisa degli impegni

pubblici e privati. […] Essi erano dunque invariabilmente favorevoli

ad una amministrazione normale della giustizia, e ad una vigorosa im-

posizione di tasse che avrebbe messo lo Stato in condizione di mante-

ner fede ai suoi impegni. […]

L’altro partito si distingueva per il suo minor rigore. Considerando

con estrema comprensione la situazione dei debitori, i loro sforzi era-

no tesi incessantemente ad un miglioramento a loro vantaggio. Esi-

gere l’osservanza completa dei contratti era a loro parere una severa

misura che il popolo non avrebbe sopportato. Essi erano tutti favore-

voli ad un rilassamento nell’amministrazione della giustizia, a creare

facilitazioni per il pagamento dei debiti, o a sospenderne l’esazione,

ed a diminuire le imposte. Questi stessi convincimenti li inducevano

a resistere ad ogni tentativo di trasferire dalle loro mani a quelle del

Congresso quei poteri che da altri erano ritenuti essenziali alla preser-

vazione dell’Unione21.

Così Beard sintetizza le conclusioni della sua indagine sto-rica:

Il movimento per la Costituzione degli Stati Uniti fu generato e con-

dotto principalmente da quattro gruppi economici che incarnavano

gl’interessi della proprietà mobiliare, gruppi che erano rimasti dan-

neggiati al tempo in cui vigevano gli Articoli di Confederazione: fi-

nanza, titoli pubblici, industria, commercio e navigazione. […]

Una vasta massa di nullatenenti fu esclusa fin dal principio, in seguito

alle qualifiche elettorali vigenti, dalla partecipazione (per mezzo di

rappresentanti) al lavoro di formazione della Costituzione. […]

Nella ratifica della Costituzione, circa i tre quarti degli adulti di sesso

maschile non espressero sulla questione il loro voto, essendosi astenu-

ti dalle votazioni nelle quali vennero eletti i delegati alle convenzioni

statali, o per la loro indifferenza, o perché erano privati dei diritti po-

litici dai requisiti di censo.

La Costituzione fu ratificata attraverso il voto di forse non più di un

sesto degli adulti di sesso maschile.

I leaders che appoggiavano la Costituzione nelle convenzioni per la

ratifica rappresentavano gli stessi gruppi economici rappresentati dai

20 Ivi, p. 231.21 Citato ivi, p. 236.

ri della Convenzione (che tuttavia furono tutto un gioco di faticosi compromessi) filassero abbastanza lisci e si con-cludessero in un breve lasso di tempo, dal 20 maggio al 17 settembre 1787, pur con qualche defezione e qualche diffi-coltà. I problemi e i rischi si presentarono nel processo di ratifica, quando le assemblee appositamente elette in ogni Stato avrebbero dovuto approvare il testo della Costituzio-ne. I vivaci dibattiti suscitati mostrarono che i contrasti non riguardavano tanto l’ingegneria costituzionale in sé quanto gli interessi economici e sociali che essa avrebbe potuto as-secondare o danneggiare. Lo scontro non fu, come poteva apparire, tra Stati grandi e Stati piccoli, quanto tra i gruppi d’interessi rappresentati a Philadelphia e quelli che ne rima-sero esclusi. La linea di frattura non seguiva i confini degli Stati, ma li attraversava.

Nella ratifica risultò evidente che la linea di divisione tra fautori ed

oppositori della Costituzione correva tra i più rilevanti interessi della

proprietà mobiliare da una parte e gl’interessi dei piccoli agricoltori e

dei debitori dall’altra.

La Costituzione non fu creata da “tutto il popolo”, […] e nemmeno fu

creata degli Stati, […] ma fu opera di un gruppo compatto, gl’interessi

del quale non conoscevano confini di Stato19.

Si verificò un vero e proprio scontro di classe: da una parte c’erano i federalisti, sostenitori ad oltranza della Costituzio-ne, dall’altra gli antifederalisti, espressione di quei ceti so-ciali più deboli che traevano vantaggi dall’autonomia degli Stati e dal decentramento del potere e che quindi preferivano nettamente la confederazione alla federazione. Gli opposi-tori della Costituzione federale erano considerati dei politici dominati da una visione ristretta, portavoce delle parti più povere ed ignoranti della società e dei contadini indebitati. In realtà erano agguerriti sul piano degli argomenti e rap-presentavano la parte forse maggioritaria della popolazione. Il nucleo profondo delle loro posizioni politiche consisteva nella convinzione che la Costituzione erigeva un potere forte ed accentrato che avrebbe inevitabilmente cancellato le au-tonomie.

Pochi giorni dopo la chiusura della Convenzione di Phi-ladelphia lo stesso Hamilton ammetteva che «le forze che operano contro la sua adozione sono potenti e ci si dovrebbe sorprendere del contrario». E concludeva: «è probabile che le polemiche sulla delimitazione dei poteri fra i vari livelli di governo e l’influenza dei grandi Stati produrrà la disso-luzione dell’Unione. Questo in fondo sembra il risultato più probabile».

Poiché il movimento per la ratifica della Costituzione trovava il suo

centro particolarmente nelle regioni in cui erano più forti commercio,

industria, titoli e beni mobili in generale, non si può non concludere

che i proprietari di valori immobiliari vedevano nel nuovo governo

una forza e una protezione che sarebbero loro risultate vantaggiose.

19 C.A. Beard Interpretazione economica della Costituzione degli Stati Uniti d’America, cit., p. 256.

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cui gli Stati del Sud si sarebbero compattamente opposti, ma anche la discriminazione di altri interessi e minoranze.

Hannah Arendt sostiene che la questione sociale non fu all’ordine del giorno della rivoluzione americana. Nel 1776 le tredici colonie avevano raggiunto un alto grado di svilup-po economico e sociale nonché una propria autonoma identi-tà. Ciò avveniva in una dimensione pienamente moderna, in quanto non sussisteva un passato di ancien régime da scrol-larsi di dosso: si trattava di cambiare la forma di governo e non l’ordinamento della società: «la condizione di povertà era assente dalla scena americana […]. [Più precisamente] ciò che mancava sulla scena americana erano la miseria e il bisogno, piuttosto che la povertà»25, poiché, come ricono-sceva apertamente John Adams, la distinzione tra ricchi e poveri veniva considerata un fatto eterno e come tale non eliminabile. Ma «l’assenza della questione sociale dalla scena americana era dopotutto abbastanza illusoria dal mo-mento che una miseria abietta e degradante esisteva ovunque nella forma della schiavitù e del lavoro dei negri»26. Come abbiamo accennato, però per i Costituenti la questione della schiavitù non era un problema che dovesse essere affrontato

no degli Stati attualmente esistenti ritenga opportuno ammettere, non sarà vietata dal Congresso prima dell’anno 1808; ma per ogni persona “impor-tata” si potrà far gravare una tassa o un dazio (duty), non superiore a dieci dollari)? Semplice: considerando che i negri non sono persone umane. Si noti che il termine duty si usa per le cose.25 H. Arendt, Sulla rivoluzione, Comunità, Milano 1996, p. 70.26 Ivi, p. 73.

membri della Convenzione di Filadelfia, ed in un gran numero di casi

essi erano, anche direttamente, personalmente interessati all’esito dei

loro lavori22.

Certamente questo non è l’unico approccio intorno al pro-cesso di formazione della Costituzione, né lo pensava Beard. Il suo libro servì a superare quell’aura sacrale che, con or-pelli quasi religiosi, circondava la Costituzione, e contribuì ad affermare un punto di vista “laico”, più recentemente di sinistra, sulle origini della federazione degli Stati america-ni23. L’opera di Beard contribuì notevolmente ad avviare una revisione storiografica e a far superare l’atmosfera mitolo-gica che circondava le origini degli Stati Uniti d’America e che lasciava sullo sfondo i pesanti compromessi, talora non onorevoli, che resero possibile l’approvazione della Costitu-zione, primo fra tutti il mantenimento della schiavitù24, senza

22 Ivi, pp. 255-256.23 Cfr. G. Mazzei, Rivoluzione, minoranze e identità in trent’anni di sto-riografia americana: una rassegna, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 2, 2000; G. Grappi, La questione antifederalista e il dibattito sulla ratifica della Costituzione degli Stati Uniti, 1787-1788, amsdottora-to.unibo.it/192/; L.M. Bassani, Gli Antifederalisti. I nemici della centra-lizzazione in America (1787-1788), Ibl Libri, Torino 2011. Qualcosa di simile avvenne con Il cacciatore di Michael Cimino (1978), che inaugurò il filone di film sulla guerra del Vietnam, rompendo la retorica che fino ad allora aveva circondato l’intervento americano.24 Con quale coerenza i Costituenti poterono conciliare la solenne affer-mazione della Dichiarazione di indipendenza («tutti gli uomini sono stati creati eguali e indipendenti») con l’art. 1, sez. IX, comma 1 della Costitu-zione («L’immigrazione o l’“importazione” di quelle persone, che ciascu-

La firma della dichiarazione d’indipendenza nel 1776

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ambolo della Costituzione, che recita «Noi popolo degli Stati Uniti, al fine di perfezionare la nostra Unione, garantire la giustizia, assicurare la tranquillità all’interno, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale, sal-vaguardare per noi e per i nostri posteri il bene della libertà, poniamo in essere questa Costituzione quale ordinamento per gli Stati Uniti d’America». La nazione americana è data come cosa fatta, il popolo è già una realtà unitaria ed omoge-nea al di là dei confini e delle differenze statali. Abbiamo vi-sto che non era così, che invece esistevano fratture e conflitti di natura sociale ed economica e c’era l’onta della schiavitù. Beard ha acceso i riflettori su tutto questo e ha aperto una strada per la successiva storiografia.

nell’elaborazione della Costituzione, esso era assente a tutti gli effetti pratici. Agli effetti pratici gli schiavi servivano a “fare numero”, cioè andavano ad aggiungersi per tre quinti agli abitanti per stabilire il numero dei rappresentanti al Con-gresso (art. 1, sez. I, comma 3 della Costituzione).

È come se la rivoluzione americana si fosse realizzata in una specie

di torre d’avorio in cui non penetrò mai il pauroso spettacolo delle

sofferenze umane, le voci ossessionanti della povertà più nera27.

Se la guerra contro gli inglesi fu unitaria e “nazionale”, ciò non vuol dire che la società non fosse ampiamente stratificata e segmentata per gruppi di interessi. Ciò poneva dei problemi che rimanevano ad un basso livello di intensità conflittuale fin tanto che l’autonomia dei singoli Stati fu in grado di me-diare con periodici provvedimenti in favore dei ceti meno abbienti. Ed era specialmente questa la tendenza che si inten-deva bloccare: una richiesta di eguaglianza che sollecitava un atteggiamento attivo dello Stato nella vita sociale, così da prefigurare ante litteram lo Stato sociale, assolutamente con-trario allo spirito dei Costituenti e di cui, infatti non si ritrova la minima traccia nel dettato della Costituzione.

La rivoluzione americana non ebbe le caratteristiche di una guerra civile ma quelle di una guerra di liberazione contro il dominio coloniale inglese. Gli americani, cioè gli ex coloni, costituivano una società borghese “allo stato puro”, che non dovette lottare contro classi conservatrici e reazionarie e con-tro apparati statali che ne sostenevano il potere. La proprietà era integralmente nelle mani del suo possessore, senza gra-vami parassitari a favore di terzi.

Però la lotta politica rivoluzionaria fece esprimere aspira-zioni economiche e sociali in conflitto tra di loro, di modo che molti tratti della società coloniale furono alterati dalla stessa lotta rivoluzionaria. Così, durante il periodo confede-rale, gli Stati furono scossi da aspre contese tra conservato-ri e radicali, tra agricoltori dell’entroterra e industriali delle città marittime, tra creditori e debitori. All’atto della ratifica della Costituzione federale divampava il contrasto tra piccoli e medi coltivatori, da una parte, e commercianti e detentori di capitali mobiliari, dall’altra, tra i farmers radicali, schierati su posizioni antifederaliste e contro l’accentramento, e i ca-pitalisti delle imprese commerciali e della proprietà fondiaria e mobiliare, che sostenevano la Carta di Philadelphia.

Merito di Beard è stato di avere introdotto, nella riflessione sulle origini degli Stati Uniti d’America, una prospettiva che era assente ed anzi rifiutata in favore di quella prevalente, che presentava la Costituzione come prodotto esclusivamen-te politico e come coronamento della guerra rivoluzionaria anticoloniale. La Costituzione veniva considerata come l’at-to fondamentale di svolta che superava a pie’ pari le incertez-ze e la frammentazione del periodo confederale.

Icasticamente, si passava dal preambolo dei 13 Articoli, che dimessamente recitava «Articoli di Confederazione e Unione perpetua tra gli Stati di» (seguiva l’elenco), al pre-

27 Ivi, p. 101.

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L’individualità dei tre è evidenziata dalla ‘maschera’ che ognuno ‘indossa’; Buddy Holly ha i suoi occhiali grandi, Ritchie Valens il ricciolino che gli cade dalla fronte e Big Bopper ha le sopracciglia alzate con quel sorriso a bocca spalancata che lo rende immediatamente simpatico.

Il più anziano è Big Bopper che al momento della morte ha ventinove anni, il più giovane è Ritchie Valens che non ha ancora compiuto diciotto anni, Buddy Holly ha venti tre anni, si è appena sposato e la giovane moglie è incinta. I tre si ritrovano a partecipare allo stesso tour.

Il Winter Dance Party è il tour invernale che inizia il 23 gennaio 1959, gli artisti che partecipano e che si esibiscono nelle varie tappe sono, The Big Bopper, Buddy Holly, Ritchie Valens & The Crickets, Dion and the Belmonts e Frankie Sardo. Il tour prevede 24 tappe, quasi tutte nel Midwest de-gli Stati Uniti con punte negli stati di Minnesota, Wisconsin, Iowa, Illinois, Kentucky e Ohio.

I concerti si tengono nell’arco di tre settimane - dal 23 gen-naio al 15 febbraio - in ventiquattro città. I problemi logistici che si presentano agli organizzatori sono notevoli e non di poco conto, a causa delle distanze fra una località e l’altra. Subito dopo la partenza della tournée il pullman usato per il trasporto di musicisti e attrezzature risulta non essere adatto per affrontare viaggi in condizioni rese difficili dalla neve o, in generale, dal maltempo. Il batterista del gruppo di Hol-ly, Carl Bunch, dovette ricorrere alle cure dei medici per un principio di congelamento agli arti inferiori.

Queste le città e le date precedenti; Milwaukee il 23 genna-io, Kenosha 24 gennaio, Mankato 25, Eu Claire il 26, Mon-tevideo il 27, Saint Paul il 28, Davenport il 29, Fort Doge il 30, Duluth il 31, Green Bay il 1 febbraio e il 2 febbraio a Clear Lake. Il 3 febbraio la tappa da raggiungere per l’esibi-zione è Moorhaed. Come si vede ogni giorno si cambia città, gli spostamenti sono la parte fondamentale della tournée e avrebbero dovuto essere organizzati in maniera più accorta e confortevole, invece è proprio il tallone d’Achille dell’orga-

Il giorno in cui morì la musica. Il primo evento traumatico per gli USA EMILIANO VENTURADottorando presso la Pontificia Università Lateranense

Prima dell’11 settembre 2001 e prima ancora del 22 no-vembre 1963 (la data in cui venne ucciso J.F.K.), gli USA avevano vissuto un altro evento ugualmente traumatico. Il 3 febbraio 1959 è meglio noto negli Stati Uniti d’America come il “giorno in cui morì la musica”.

Tre giovani promesse del Rock muoiono insieme, nello stesso luogo e nello stesso giorno, Buddy Holly, Ritchie Va-lens e Big Bopper, si abbattono al suolo con un piccolo aereo durante una turnèe.

Il 4 febbraio del 1959 un ragazzino americano di tredici o quattordici anni, Donald Maclean, legge il giornale e appren-de la notizia della morte dei tre cantanti, qualcosa lo tocca nel profondo, il tragico irrompe e si fa mistero, pretenderà il suo contributo di significato e di giustificazione. Il giovane non lo sa ancora ma ha già cominciato a scrivere una canzone che dodici anni dopo sarà un successo.

“Bruciata è la materia del ricordo ma non il ricordo”

Mario Luzi

I . THE WINTER DANCE PARTY

(LA TOURNÈE)

Un giorno traumatico può diventare even-to artistico, sull’11 settembre si è scritto molto e si sono prodotti tanti film. Il 22 11 63 è il titolo di un fortunato romanzo di Stephen King (e anche di una serie tv);

prima di questi due eventi c’è stato un altro “giorno trauma-tico” vissuto negli USA, solo che in pochi ormai lo ricordano o ne sanno rintracciare gli esiti artistici.

Buddy Holly, Big Bopper e Ritchie Valens non erano un

gruppo musicale ma tre artisti diversi, solo Holly ha un grup-po o band, The Crickets, ognuno ha la sua personalità e le sue caratteristiche.

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musica country and western in piccoli locali del sud-ovest degli Stati Uniti d’Ameri-ca. Sempre più attratto dalla musica rock, Holly registra vari brani sia come solista sia come leader di un gruppo, The Crickets, per i quali firma il grande successo That’ll Be the Day nel 1957.

Il titolo di questa canzo-ne era curiosamente ispirato a una frase che l’attore John Wayne ripeteva nel film Sen-tieri selvaggi, uscito l’anno prima.

Nello stesso anno il suo sin-golo Peggy Sue scala le clas-sifiche, rendendolo popolaris-simo e pari ad Elvis Presley nello scatenare l’entusiasmo del pubblico.

Holly e i Crickets ebbero un regolare programma radiofo-nico (1955-1958) e suonarono

in tutto il mondo. Il tono accattivante e il fascino fanciullesco della sua voce e delle sue canzoni valsero il successo a Bud-dy Holly. Holly scrive ed esegue pezzi memorabili, sia in versione solista sia con il complesso dei Crickets.

Nello stesso periodo partecipa, come solista e con i Cri-ckets, ai principali varietà televisivi statunitensi. Il 27 maggio del 1957, That’ll Be The Day viene rilasciata come singolo, ed ottiene un grandissimo successo di pubblico, scalando le classifiche di Billboard US il 23 settembre, e raggiungendo la posizione numero 1 nell’ UK Singles Chart per tre setti-mane, a novembre.

I Crickets eseguirono dal vivo That’ll Be The Day e Peg-gy Sue all’Ed Sullivan Show, il primo dicembre. Il successo della formazione fu tale che, sempre nel 1957, The Crickets fu l’unico gruppo di musicisti bianchi ad esibirsi in un tour di musicisti neri di rock and roll.

Nel gennaio del 1958, Holly e i Crickets, si esibiscono in un tour in Australia, a marzo, è la volta dell’Inghilterra. Ad aprile dello stesso anno pubblicano il loro terzo e ultimo al-bum, That’ll Be The Day. Nel giugno 1958 Holly incontrò Maria Elena Santiago, ragazza della quale si innamorò a tal punto da chiederle di sposarlo. Le nozze si tengono due mesi dopo, il 15 agosto del 1958, a Lubbock. Scrive il brano True Love Ways ispirandosi alla relazione con la moglie, Maria Elena. Per il loro cinquantesimo anniversario, Maria Elena rilasciò un’intervista al Lubbock Avalanche-Journal, nella quale dichiara che il primo incontro fu magia pura e che il loro rapporto aveva qualcosa di speciale: ”Entrò nella mia vita quando io ne avevo bisogno, ed io entrai nella sua allo stesso modo”.

Buddy è la stella del gruppo, all’epoca la sua notorietà è

nizzazione.La Surf Ballroom di Clear

Lake, nell’Iowa, non doveva essere una data del tour ma gli organizzatori, per occupa-re una serata rimasta scoperta, chiamano Carroll Anderson, manager del locale proponen-do lo spettacolo. Anderson accetta, viene fissata la data del 2 febbraio. I locali in cui i ragazzi si esibiscono sono, ovviamente, al coperto, non si pensi a grandi ambienti di riunioni collettive, stadi, pala-sport o cose simili; al contrario sono tutti locali piccoli o me-dio piccoli, più simili a delle discoteche o balere di provin-cia. Questi sono i luoghi in cui vivono e dove si esibiscono queste giovani stelle del rock.

II . I PROTAGONISTI

(DA STELLE A PULSAR)

Gli artisti di punta, le stelle principali di questa tour-née sono senza dubbio Buddy Holly e i Crickets, seguono Frankie Sardo, The Big Bopper, Ritchie Valens, e Dion and the Belmonts. Sono tutti artisti emergenti e molto prometten-ti, alcuni hanno delle hit nelle prime posizioni in classifica. La stella più luminosa del gruppo e sicuramente Buddy Hol-ly; oltre a lui ci interessa vedere un po’ da vicino soprattutto la carriera di The Big Bopper e di Ritchie Valens.

The Big Bopper è il nome d’arte di Jiles Perry Richardson Jr; spesso viene indicato anche come J.P. The Big Bopper Richardson (classe 1930), lui nasce e inizia la carriera come disc jockey. Durante gli studi lavora in una radio KTRM, nel ’55 presta servizio nell’esercito e al congedo torna di nuovo a lavorare alla radio dove crea il personaggio e il programma che lo rendono famoso.

Ricordato per la sua esuberante personalità che ne fece una star del rock and roll, ha avuto tra i suoi maggiori successi la canzone Chantilly Lace, questa verrà inserita nella colonna sonora del film di George Lucas del 1973 American Graffiti.

Il figlio di Big Bopper, Jay Richardson è la sua copia, stes-sa corporatura e stesso viso espressivo, si è fatto portavoce della memoria del padre e quando indossa la stessa marsina da scena leopardata sembra di vedere proprio The Big Bop-per; anche la voce e il modo di cantare è adattato e cucito sulla misura del padre. Purtroppo Jay Richardson è morto nel 2013 e in un certo modo è come se The Big Bopper fosse morto una seconda volta.

Buddy Holly (classe 1936) inizia a cantare durante gli anni del liceo, verso la metà degli anni cinquanta canta e suona

Buddy Holly

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distrussero l’infanzia di molti suoi amici, morti o irrimedia-bilmente feriti.

Roger Peterson (classe 1937) nato e cresciuto in Alta (Iowa) è un pilota d’aereo e se vogliamo possiamo conside-rarlo come ’intruso’ o irrego-lare in questa storia di musica. Ha preso il certificato che lo abilita come pilota privato nel 1954 e come pilota commer-ciale nell’aprile del 1958.

Nel settembre del 1958 spo-sa Deanne Lenz conosciuta negli anni della scuola supe-riore (High School). La cop-pia risiede a Clear Lake a poca distanza da Mason City dove lavorano entrambi. Roger ha raggiunto un totale di 711 ore di volo, di cui 128 volando su voli charter locali.

La sera del 2 febbraio del ’59 il manager del Surf Ballrom di Clear Lake lo contatta per un volo charter da Mason a Fargo (North Dakota). Al Ballro-om si tiene il Winter Dance Party, uno dei cantanti Buddy Holly, vuole procedere in volo mentre gli altri continueranno in pullman.

Peterson si accorda con il manager per il volo, la spesa è di 36 dollari a passeggero, quando il cantante arriva in aeropor-to con lui ci sono altri due passeggeri Ritchie Valens e Big Bopper. Il Beechcraft Bonanza B35, l’aereo rosso che deve pilotare ha solo quattro posti compreso il pilota.

Carl Bunch, Waylon Jennings e Tommy Allsup sono The Crickets, la band che accompagna Buddy Holly nel Winter Dance Tour del 1959, nello specifico dobbiamo vedere il ruolo di uno dei component del gruppo.

Tommy Allsup (classe 1931) è musicista e chitarrista. Nato nel sobborgo di Owasso, ha iniziato la carriera musicale nel 1949 suonando la chitarra elettrica nel gruppo musicale de-gli Oklahoma Swingbillies. Nel 1958, mentre incideva nelle sale di registrazione di Norman Petty a Clovis, nel Nuovo Messico, gli fu chiesto di lavorare con Buddy Holly. Allsup accetta e suona assieme a Waylon Jennings, al basso elettri-co, e Carl Bunch, batteria. Durante il tour invernale Winter Dance Party del 1959, Allsup accompagna Holly. Il cantante Ritchie Valens è colui che, in virtù di un sorteggio effettua-to con una monetina, si siede al posto di Allsup in uno dei limitati posti dell’aeroplano. Secondo il racconto fatto da Allsup, la scommessa avvenne alla Surf Ballroom di Clear Lake - dove si era tenuto l’ultimo concerto di Holly - e non sul campo di decollo, come descritto in un film. Tommy è

seconda solo a Elvis.Il più giovane dei tre è

Ritchie Valens, nome d’arte di Richard Steven Valenzuela (classe 1941), cantante e chi-tarrista di origini messicane. La sua famiglia era povera; il padre Steve si guadagnava da vivere commerciando legna-me, la madre Connie lavorava in una fabbrica di munizioni in una località non distante da San Fernando, luogo in cui il piccolo Richard, insieme ai suoi genitori e al fratellastro Robert Morales trascorse i pri-mi anni di vita.

Al termine del suo primo tour, Ritchie Valens torna in studio per registrare Donna, una canzone che scrisse al li-ceo per la sua ragazza, Donna Ludwig.

Sul lato B del singolo inci-se La Bamba, una tradizionale canzone huapango del Messico orientale (l’huapango è una canzone formata da versi apparentemente senza senso, il cui significato è noto solo all’autore).

Il produttore (Bob Keane) non voleva registrare il singolo perché credeva che un pezzo del genere, cantato interamente in spagnolo e con qualche riff di chitarra, non avrebbe fatto presa sul pubblico americano. Donna raggiunse il 2º posto in classifica e La Bamba si fermò al 22°, ma la seconda sarà ricordata come la più famosa canzone di Ritchie.

Nel gennaio del 1959, Ritchie viene scelto per esibirsi al Winter Dance party con altri artisti emergenti. La sua è una famiglia messicana che ama la musica e che sa trasmettere questo amore. Già da bambino Richard suona infatti diversi strumenti. Ma l’oggetto senza il quale non è in grado di vive-re è la chitarra. In particolar modo la mariachi, una chitarra da flamenco. Con questo strumento si fa apprezzare negli scantinati, nei garage, nelle palestre delle high school e nelle ball-room di Pacoima, la sua città. Chi lo scrittura gli cam-bia il nome. Ritchie, con la T, e non Richie, perché di quelli senza T ce ne sono mille con una chitarra appesa al collo, nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma questo Ritchie è diverso. Ha energia, fuoco e talento. La canzone della tra-dizione Mariachi che questo ragazzino si mette a suonare a velocità pazzesca è La Bamba; questo il titolo della ballata trasformata in una cascata di suoni. Ritchie ne ha imparato le parole a orecchio perché lo spagnolo lo parla poco e male. La Bamba è la prima canzone rock’n’roll cantata completamen-te in spagnolo. E sarà la più famosa di sempre.

Ritchie Valens inizia a viaggiare per il paese, ma lo fa in bus, perché di volare non se ne parla. Quando era bambi-no due aerei si schiantarono sopra il cielo della sua scuola e

Ritchie Valens

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vecchio bus e il musicista, altrettanto scherzosamente, augura a Holly che l’aereo ‘potesse schiantarsi’; per il resto della vita, Jennings, non ha saputo darsi pace per aver pronunciato quella battuta.

Ritchie Valens non ha mai volato in un aereo da turismo, né ama farlo ma non si sente troppo bene e chiede a un altro musicista di Holly, Tommy Allsup, di cedergli il posto. Allsup non accetta né rifiuta la richiesta, ma propone di gio-carsi il posto con il lancio di una monetina.

Ricapitolando: Buddy Hol-ly ha prenotato un volo in cui sono disponibili tre posti, uno è il suo e non è in discussione, offre gli ultimi due posti a due membri della sua band: Way-lon Jennings e Tommy Al-

lsup. Jennings lascia il suo posto Big Bopper che aveva avu-to una forte influenza, Valens a quel punto chiede a Tommy di cedergli il posto: il responso è affidato a un moneta, vince Ritchie Valens e Tommy resta a piedi. A Dion Di Mucci del gruppo Dion & The Belmonts - quarto nome in cartellone insieme a Holly, Big Bopper e Valens – era stato offerto di prendere l’aereo, ma il musicista declina l’invito perché ri-tiene il prezzo del biglietto (36 dollari) troppo oneroso.

L’equipaggio è al completo, i tre cantanti arrivano all’ae-roporto accompagnati da Carroll Anderson, lì c’è il pilota in attesa, Roger Peterson.

Appena dopo l’una di notte del 3 febbraio l’aeroplano de-colla dall’aeroporto municipale di Mason City. Cinque mi-nuti dopo, Dwyer, il proprietario del Flying Service vede le luci del velivolo che iniziavano a discendere dal cielo verso il terreno. Dalla torre di controllo si attendevano comunica-zioni dal pilota riguardo al piano di volo, ma Peterson non ha mai chiamato i tecnici dell’aeroporto.

Diversi tentativi di Dwyer di contattarlo non andarono a buon fine. Sono le 3:30 del mattino quando dall’aeroporto Hector di Fargo comunicano di non avere avuto contatti con il velivolo.

Intorno alle 9.15, ormai giorno fatto, Dwyer decolla a sua volta con un piccolo aeroplano per ripercorrere la medesima rotta che si riteneva Peterson avesse seguito.

È sufficiente un breve lasso di tempo per scorgere i resti del velivolo che aveva impattato sul terreno in un appez-zamento coltivato a granturco, dista circa otto chilometri a nord-ovest dell’aeroporto.

A Carroll Anderson, il manager della Surf Ballroom, che

quindi il fortunato del gruppo, il reduce, il sopravvissuto.

Se Roger Petersen è l’irre-golare o intruso del gruppo, Tommy Allsup è il fortunato.

Buddy è una giovane stella dell’ancora più giovane pa-norama del rock’n’roll e sta girando gli States insieme ad una dozzina di musicisti tra cui Ritchie Valens, un dicia-settenne chicano di San Fer-nando Valley e il ventottenne dj J.P. Big Bopper Richardson famoso per aver battuto il sin-golare record della più lunga trasmissione radiofonica in diretta, quasi sei giorni di on stage e con un hit all’attivo dal titolo Chantilly Lace. Buddy è il più popolare della comitiva ma nonostante il successo ri-conosciuto è costretto a ma-cinare miglia su miglia con un vecchio pullman che arrancava nel freddo e nel gelo del Nord America.

III . THE DAY THE MUSIC DIE

(AMERICA IN LACRIME)

Nel tragitto verso la cittadina di Clear Lake il riscaldamen-to del pulmann smette di funzionare per l’ennesima volta nel bel mezzo di una tempesta di neve a 19 gradi sotto lo zero. Buddy decide che era ora di finirla e che la prossima città, Fargo nel North Dakota, l’avrebbero raggiunta in aereo.

Siamo arrivati al giorno dell’esibizione a Clear Lake, è il 2 febbraio 1959; quando Buddy Holly arriva al locale si mo-stra assai contrariato con i musicisti del gruppo per il cattivo funzionamento del pullman ventilando la possibilità di affit-tare un volo charter per il trasferimento a Moorhead, da dove avrebbero poi raggiunto Fargo.

Secondo lo speciale televisivo Behind the Music: The Day the Music Died, Holly quella sera era indispettito anche per il fatto di non poter disporre di un cambio di biancheria né di poter far lavare quella che indossava poiché la locale tintoria era chiusa per riposo.

Il volo viene organizzato dal manager del locale che assol-da Roger Peterson, pilota locale ventunenne che lavorava per la Dwyer Flying Service di Mason City.

Il cantante J.P. Richardson Big Bopper aveva avuto nei giorni precedenti una fastidiosa forma influenzale e chiese a un musicista di Holly, Waylon Jennings, se poteva cedergli il posto sull’aereo, Jennings acconsente senza problemi.

Quando Holly viene a sapere che Jennings non avrebbe preso l’aereo gli augura scherzosamente di congelare sul

Big Bopper

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Dopo il decollo l’aereo volta a sinistra di 180 gradi e punta a nord, poi qualcosa accade, il pilota entra in confusione e non riesce a leggere gli strumenti di volo notturno, confonde l’altitudine e si schianta a terra, il volo dura solo pochi minu-ti, il tempo di percorrere otto miglia.

Se c’è una responsabilità, non solo morale ma anche og-gettiva, in questa tragedia in cui perdono la vita quattro gio-vanissimi ragazzi, questa è tutta degli organizzatori e dei ma-nagers del Winter Dance Party.

Come si possono mettere quindici/venti date serrate e in luoghi distanti uno dall’altro e affidarsi unicamente a un vec-chio Pullman? Per di più in pieno inverno. Una logistica ade-guata e confortevole doveva essere il primo pensiero e tenuta in massima cura, invece è stato tutto il contrario.

La cosa più grave e significativa sta nella cinica adesione all’adagio ‘the show mast go on’. La mattina del 3 febbraio viene scoperto l’incidente con le vittime coinvolte, la sera stessa gli organizzatori del Winter Dance Party hanno già sostituito Buddy Holly, Big Bopper e Ritchie Valens con Ronnie Smith, Fabian & Frankie Avalon e Gimmy Clenton.

Nella data del 3 febbraio 1959 si esibiscono regolarmente al The Armory di Moorhead; Bobby Vee & The Shadows, Dion and the Belmonts e Frankie Sardo, non si sono fermati neanche dopo la morte delle loro stelle.

IV. IMPATTO EMOTIVO

La scena dello schianto aereo è simile a tutte le scene in cui cadono aerei, le immagini riportano i frammenti del ve-livolo, ruote, indumenti vari, pezzi di motore, lamiera e, na-turalmente i corpi. Si pensi all’incidente aereo di Bascapè dove muore Enrico Mattei, è il 27 ottobre del 1962, la scena è simile anche perché l’aereo è di piccole dimensioni come quello che cade a Clear Lake.

Oppure si pensi ancora all’incidente di Superga dove cade l’aereo del Grande Torino il 4 maggio del 1949, le scene si somigliano tutte con la stessa tragica fissità del momento del-la morte.

A volte la storia, il caso o la vita sanno far bene il loro mestiere, sono capaci di tessere trame incredibili e degne del miglior scrittore, neanche un maestro del plot come E.A. Poe avrebbe saputo congegnare una simile quantità di elementi.

Prendere le tre giovani promesse del rock, scatenare una tempesta di neve, mettere fuori uso il sicuro pullman, co-stringerli ad affittare un aereo, far tirare a sorte l’ultimo posto libero e poi farli precipitare tutti insieme dando vita al ‘gior-no in cui la musica morì’. I giornali del giorno dopo titolano in prima pagina, The Day The Music Died. È la prima grande tragedia del rock, quattro giovanissime morti che lasciano una cicatrice indelebile nell’immaginario americano.

“Niente che sia successo dopo, nella storia del rock, può realmente oscurare il potere e l’influenza del lavoro di Buddy e dei suoi dischi”, così si esprime Jackson Browne, durante la sua studio session per un disco commemorativo, l’ex Beatles Ringo Starr dice: “Nell’intera storia del rock ‘n’ roll, Buddy è nella Top 10!”.

aveva condotto gli artisti all’aeroporto assistendo alla loro partenza, tocca il triste compito dell’identificazione dei ca-daveri. I corpi di Holly e Valens giacevano poco distante dall’aeroplano mentre quello di Richardson fu rinvenuto in un campo accanto a quello dell’impatto.

Secondo quanto afferma il coroner della contea è presu-mibile che tutti gli occupanti del Bonanza abbiano trovato una morte istantanea per traumi alla testa. In particolare il certificato di morte di Holly precisava che il cantante ave-va riportato fratture multiple tali da avergli causato la morte istantanea:

«Il corpo di Charles H. Holley era vestito con un giacco-ne giallo in similpelle [...] Il cranio era scisso medianamente sulla fronte con estensione alla regione vertebrale. Appros-simativamente metà del tessuto cerebrale era mancante. Era presente sanguinamento da entrambe le orecchie [...] La con-sistenza della cassa toracica era molle a causa di ampie lesio-ni da urto sofferte dalla struttura ossea».

L’inchiesta giudiziaria condotta subito dopo il fatto con-sente di accertare che il disastro aereo fu dovuto ad una com-binazione di maltempo abbinato a un errore del pilota (il gio-vane e inesperto Peterson, che stava ancora perfezionando la preparazione per il volo notturno e strumentale) dovuto probabilmente a disorientamento spaziale.

La poca dimestichezza con la strumentazione di bordo, abbinata alle cattive condizioni del tempo, potrebbe avere in-dotto il pilota a credere di essere in fase ascendente anziché discendente. Va detto che - sempre secondo l’inchiesta - il pilota non fu messo adeguatamente sull’avviso a proposito delle condizioni meteo che avrebbe incontrato durante la rot-ta.

Le ipotesi fantasiose che vedono Holly ai comandi dell’ae-reo, un colpo di pistola accidentale esploso nell’abitacolo, non hanno mai trovato alcuna conferma, né ci sono ragione-voli motivi per pensarlo (una pistola in effetti è stata trovata tra i rottami dell’aereo e sembra che appartenesse a Buddy Holly).

Roger Peterson è una delle vittime di questa tragedia, ed è lui a far più simpatia (se si può fare una classifica del genere), viene sempre dimenticato nei discorsi e nelle commemora-zioni, è un semplice giovane pilota non una star della musica, è un ragazzo normalissimo. Viene ricordato in virtù del fatto che è il pilota che ha ‘causato’ l’incidente nel giorno in cui morì la musica.

Il suo errore è stato sopravvalutare le sue capacità, è molto giovane e sicuramente ama ciò che fa, si è appena sposato e la moglie lavora, forse hanno bisogno di guadagnare per cui accetta anche un volo non proprio ottimale. Inoltre l’idea di viaggiare con Buddy Holly, la stella del Rock, probabilmente lo lusinga, sarà una bella storia da raccontare alla moglie o agli amici.

Roger Peterson accetta l’incarico e quando decolla con lui ci sono non una ma tre stelle del Rock, fuori il tempo è brutto e forse nevica anche se non in maniera violenta.

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di Martin L. King, la guerra in Vietnam vive la sua fase più recrudescente.

La musica si farà impegno e denuncia di tutto questo, quella gioia e leggerezza degli anni ’50 sembra lontanissima. Solo la morte del presidente J.F. Kennedy avrebbe prodotto un chock simile, la di perdita dell’innocenza e del bello di-sinteressato, la stagione mitica dell’infanzia è finita un po’ per tutti in quel giorno di febbraio.

V. AMERICAN PIE

(CIAO CIAO MISS AMERICAN PIE)

Un puro ricordo di un giorno lontano può divenire materia poetante; il giorno in cui morì la musica, e la sua immagine, ha continuato a influenzare nel presente le esistenze di molti altri individui tra cui il ragazzino che nel febbraio del ’59 consegnava giornali porta a porta.

Don McLean è l›autore della famosa canzone American Pie che nel 1972 raggiunge la prima posizione nella Bill-board Hot 100 per quattro settimane, è considerata uno dei capolavori della musica leggera statunitense. Nel 2000 una cover di Madonna la rende ancora attuale al prezzo però di banalizzarne il senso con dei tagli al testo che ne mutilano il senso.

In Italia, McLean, ha avuto un breve periodo di notorietà

Una profonda tristezza segue l’incidente per la natura ca-suale dell’evento, inoltre la giovane età di Holly e Valens accentua il senso di perdita e malinconia.

Hank Williams è morto a ventinove anni, molto giovane anche lui, ma si è consumato nel bere e nell’uso della dro-ga, per cui amici e fan non sono rimasti stupiti più di tanto da questa morte prematura. Johnny Ace è morto nel 1954, a soli venticinque anni, nel backstage del suo show, ma si è ucciso giocando alla roulette russa, l’impatto emotivo di questi eventi è stato totalmente differente dalla morte dei tre giovani cantanti in un unico giorno. Anche la morte di James Dean segnò profondamente quella generazione e le seguenti, se insieme a Dean fossero morti anche i giovanissimi Marlon Brando e Paul Newman si sarebbe parlato del giorno in cui morì il cinema, e l’impatto emotivo sarebbe stato sicuramen-te amplificato.

La morte di questi tre interpreti del rock è stata vista come perdita dell’innocenza e della gioia della musica, è come se i giovani americani, e i giovani musicisti che verranno, fos-sero stati cacciati da un eden musicale fatto di gioia e diver-timento.

Gli anni ’50 stanno finendo e tra pochi mesi si vivrà la crisi di Cuba con la grande paura della guerra atomica, si vivrà l’omicidio di J.F. Kennedy, e poi quello del fratello Bobby,

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Il testo è una lunga sequela di immagini e momenti della storia americana, in apparenza slegati e poco chiari se non all’autore, la morte di Buddy Holly, quella di Kennedy, Ni-xon e Presley, il furgone Pick-up con la sua carica di ribel-lione anche sessuale, Helter Skelter, la canzone dei Beatles ma anche colonna sonora della follia di Charles Manson che compie la strage nella villa di Polanski.

In un certo modo American pie è scritta coma La Bam-ba di Valens, come abbiamo visto l’huapango è una canzo-ne formata da versi apparentemente poco chiari e noti solo all’autore

American pie, più che una canzone, è un rito collettivo per un’intera generazione americana, in questa ritualità si attua e si manifesta ancora la vita spensierata degli anni ’50 e la tragica caduta nel giorno in cui muore la musica.

In questa morte di tre stelle del rock, tre giovani talentuosi, c’è la manifestazione dello sperpero, della spesa improdut-tiva, del dépense di cui parla George Bataille rifacendosi al potlatch dei nativi del nord America; la festa in cui un uomo ‘spreca’ magnificamente le sue ricchezze per raggiungere la gloria, siamo nel contesto della sfida e della festa.

Ed è questo contesto, la festa, che nel significato antro-pologico trova riscontro nella distruzione e nello spreco, l’obbligo di ricevere doni e di darli, onorare prodigalità ed eccesso, Mauss (dal cui studi Bataille trova questi concetti) richiama alla memoria i banchetti in cui onorare il cibo evoca il grottesco, l’obbligo di ingoiare quantità di cibo smisurate.

American Pie è una biografia musicale di un senso (sentire) comune americano, forse solo Born In The USA di Springste-en ha avuto un effetto uguale se non maggiore.

Una canzone così in Italia probabilmente non esiste, biso-gnerebbe unire Una storia sbagliata di De Andrè, in cui rac-conta la morte di Pasolini, con La storia siamo noi o Viva l’I-talia di De Gregori, da questo improbabile pastiche si avreb-be un Italian pie. Un tentativo di estrema sintesi e puntualità l’ha comunque fatto Rino Gaetano con la sua Aida, in un testo breve è riuscito a riassumere cinquant’anni di storia ita-liana. “Il giorno in cui morì la musica” nel tempo è divenuto un sintagma polisemico, da letterale si è fatto simbolo, come una particella sub atomica si è chimicamente potenziata, poi sarebbero venuti altri giorni e altre date ben più traumatiche.

nel 1973 con il brano Vincent, ispirato alla vita e all’opera di Vincent Van Gogh, che venne utilizzato come sigla del seguitissimo giallo televisivo Lungo il fiume e sull’acqua.

Don McLean è stato profondamente scosso dalla morte di John Kennedy e Buddy Holly. Ha più o meno tredici-quattor-dici anni quando per guadagnare qualcosa fa il paperboy, il ragazzo che consegna i giornali; il 4 febbraio 1959 leggendo il giornale che deve consegnare apprende la notizia chock, è il giorno in cui è morta la musica.

Più tardi frequenta la scuola serale all’Iona College. Nei campus universitari è un celebre cantante folk. Con l’aiuto di una borsa di studio da parte del New York State Council of the Arts, comincia ad aver accesso a un pubblico più va-sto, andando di città in città lungo il fiume Hudson. Impara l’arte della performance dal vivo con l’aiuto del suo amico e mentore Pete Seeger. Sembra che stia ripercorrendo le orme di Buddy Holly.

La sua canzone, American Pie, è una riflessione sulla mor-te di Buddy Holly, Ritchie Valens e The Big Bopper nell’in-cidente aereo di Clear Lake, da qui la frase ripetuta nella canzone The Day the Music Died (Il giorno in cui la musica morì).

Il testo inizia con il ricordare quel giorno di tanti anni pri-ma.

«Ricordo ancora/ tanto tempo fa/, come la musica mi fa-cesse sorridere/ e sapevo che se avessi avuto una possibilità/avrei potuto far ballare le gente/ e forse farli felici almeno un po’./ Ma febbraio mi ha gelato/ consegnando giornali/, le cat-tive notizie bussano alla porta/ gelando anche i miei passi/.

Non ricordo se ho pianto/ quando ho letto della sua giova-ne sposa vedova/ ma qualcosa mi ha segnato a fondo/, era Il giorno in cui morì la musica/ e quindi, ciao ciao Miss Ame-rican pie».

In questa traduzione il gioco di rime e assonanze tra cried/bried, door/more, inside/died, si perde irrimediabilmente ma basta ascoltare la canzone per ritrovare intatto il doppio re-gistro sonoro della musica e delle parole. McLean disse che il testo è in qualche modo una sua autobiografia dalla metà degli anni cinquanta fino al periodo in cui scrisse la canzone, nei primi anni settanta.

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“Come la cresta di un pavone”.Non-European Roots of Mathematics. Una discussione critica: George Gheverghese Joseph e Srinivasa Ramanujan Iyengar * ANNA TOSCANOVisiting Professor - Campus numérique arménien - Lyon

nizzazione dello spazio, nella formu-lazione di strategie, nelle costruzioni lo-giche, nell’interpre-tazione della realtà, nelle produzioni di figure (arte e lin-guaggi visivi) e nel-le esperienze sonore (musicali e non).

Il sapere matema-tico è un patrimo-nio comune di tutta l’umanità, ed il suo progresso non può non essere attribu-ito in esclusiva ad alcuna tradizione culturale.

Tanto meno a quella europea.

“Come la cresta di un pavone, / come la gemma sulla testa di un

serpente / così la matematica è alla testa di tutte le conoscenze” (Ve-

danga Jyotisa [500 a. C. circa]

Con questa citazione, che riassume il senso dell’intero lavoro, il matematico George Gheverghese Joseph3 apriva il volume The Crest of the Peacock. Non-European Roots of Mathematics. Nell’introduzione all’opera, pubblicata nel

3 Nato in Kerala (India), George Gheverghese Joseph, Professore Emerito, ha insegnato statistica presso la School of Economics Studies dell’Università di Manchester. È autore di saggi fra i quali Women at Work: The British Experience (1983), Multicultural Mathematics (1993), The Crest of the Peacock. Non-European Roots of Mathematics (1991; 1999; 2010), Passage to Infinity: Medieval Indian Mathematics from Kerala and Its Impact (2009).

L’uscita nelle sale cinematografiche nel mese di giugno del 2016 del film1 tratto dalla biografia di Robert Kanigel2 dedicata al matematico indiano Srinivasa Ramanujan Iyen-gar costituisce il pretesto ideale per una riflessione critica sulle radici non europee della matematica, seguendo l’appas-sionante lavoro di ricostruzione storica elaborato dal mate-matico George Gheverghese Joseph in questi ultimi anni.

La vicenda umana e scientifica di Srinivasa Ramanujan of-fre l’occasione eccellente, attraverso la ricostruzione esem-plare del percorso di vita di una delle più grandi menti mate-matiche del XX secolo, di dispiegare quanto in sede storica e scientifica si è andato costruendo in questi ultimi anni intor-no al ‘pensare matematico’

Gli studi degli ultimi trent’anni dedicati alla storia ed alla cultura di popoli non europei ed i progressi ottenuti nella decifrazione delle lingue hanno permesso considerazioni e ripensamenti di natura antropologica e cognitiva sulla natura della matematica stessa e della mente umana in generale.

La matematica non è solo numero: è una manifestazione naturale di capacità universali, che si esprimono nell’orga-

* Il presente saggio riprende, approfondendoli, il mio scritto “Come la cresta di un pavone”. Una discussione critica sulle radici non europee della matematica: George Gheverghese Joseph e Srinivasa Ramanujan Iyengar, apparso online nel 2008 sul sito http://www.storiadellascienza.it/articoli.php.html (©Dr. Anna Toscano Ph.D. 2008) e le recensioni da me pubblicate sulla rivista “Nuncius” rispettivamente del volume George Gheverghese Joseph, The Crest of the Peacock. Non-European Roots of Mathematics, Princeton University Press 1991; 1999; [C’era una volta un numero. La vera storia della matematica, tr. it. a cura di Barbara Mus-sini, Milano, il Saggiatore, 2000 ] (“Nuncius”, II, 2003, pp. 913-916) e del libro di R. Kanigel, The Man Who Knew Infinity: A Life of the Genius Ramanujan, Washington Square Press, 1991 [L’uomo che vide l’infinito. La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica, tr. it. di Maddalena Mendolicchio, Milano, Rizzoli, 2003] (“Nuncius”, II, 2004, pp.788-791)1 The Man Who Knew Infinity, Directed by Matthew Brown, UK, 20152 R. Kanigel, The Man Who Knew Infinity: A Life of the Genius Ramanujan, Washington Square Press, 1991 [L’uomo che vide l’infinito. La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica, tr. t. di Maddalena Mendolicchio, Milano, Rizzoli, 2003]

Franco Toscano, «Sūrya », da «Sul Sentiero della Vita», 1997 © FRANCO TOSCANO

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relativamente recenti dedicati alle culture indiane, cinesi ed africane6 hanno confermato l’esistenza di una creatività scientifica e di una avanzata tecnologia molto tempo prima dell’insediamento coloniale europeo nel loro territorio. Tale attestazione ha implicato la necessità di comprendere quali siano state le dinamiche seguite dalla scienza e dalla tecnolo-gia precoloniale in queste ed altre civiltà; quali le condizioni materiali che determinarono tali sviluppi. Conseguentemen-te ha comportato l’obbligo di porsi la domanda sul perché la scienza moderna non si sia sviluppata nelle società di cultura non europea, tentando in questo modo di additare, alle tecno-logie indigene ancora in vita, la strada per individuare nuove forme di adattamento alle attuali necessità.

È inoltre ulteriore compito dello storico, secondo Ghe-verghese Joseph, dover affrontare la questione più ampia di quali siano stati, e siano tuttora, i motori che hanno reso ne-cessaria la creazione di un sapere scientifico e tecnologico in grado di far fronte alle necessità materiali di ogni singola società. L’individuazione infatti dei bisogni particolari di una cultura può variare a seconda del tempo e del luogo, ed un’attenta riflessione intorno a queste problematiche rende possibile comprendere come la “capacità di fare scienza e tecnologia” non possa essere ritenuta prerogativa esclusiva di “un’unica cultura”, e come sia forviante in ambito sto-riografico sostenere una simile asserzione. In questi termi-ni, scrive Gheverghese Joseph, non può essere storicamen-te corretta l’attribuzione di tutta l’evoluzione scientifica e tecnologica, di un certo rilievo, alla sola cultura europea, in quanto si falserebbero dati comprovanti l’evidenza di un co-spicuo sviluppo tecnologico e scientifico presente nelle cul-ture non europee già in epoca precoloniale, ed accertati dalla più recente ricerca storica, della quale l’autore fornisce indi-cazione nella corposa Bibliografia che pone a conclusione del volume. È necessario mutare soltanto il punto di visuale dell’indagine storica per ridimensionare secoli di oblio ed inganni che hanno cancellato il patrimonio culturale, scienti-fico e tecnologico di intere civiltà.

Partendo da queste considerazioni preliminari Gheverghe-

6 Needham J., Science and Civilization in China, Cambridge University Press, Cambridge 1954, vol. I - tr. it. Scienza e civiltà in Cina, Einaudi, Torino 1981, vol. I-; Dharampal, Indian Science and Technology in the Eighteenth century, Biblia Impex Ltd, New Delhi 1971; Van Sertima I., Blacks in Science, Transactions Books, New Brunswick 1983

19914 ed apparsa in traduzione italiana5 solo a quasi 10 anni di distanza dalla prima edizione, Gheverghese Joseph espo-neva con precisa evidenza l’assunto fondamentale dal quale aveva avuto inizio il lavoro, un’ampia panoramica sulla sto-ria delle matematiche non europee: il sapere matematico è un patrimonio comune di tutta l’umanità, ed il suo progresso non può essere attribuito in esclusiva ad alcuna tradizione culturale. Tanto meno a quella europea.

Per molto tempo le conoscenze matematiche sono state er-roneamente considerate fondamentalmente un prodotto d’o-rigine europea. Negli ultimi quattro secoli l’Europa e le sue “dipendenze culturali” -ossia tutti quei paesi, come gli Stati Uniti, l’Australia e la Nuova Zelanda la cui maggioranza delle popolazioni è d’origine e quindi di tradizione culturale europea- hanno giocato un ruolo predominante nelle vicende mondiali. Come riflesso di questa situazione politico-cultu-rale, l’impostazione di moltissime opere storiche di autori di cultura europea hanno rispecchiato tale visione eurocentrica, riservando scarsissimo spazio alle culture ad essa non assi-milabili, e prevalentemente in relazione ai contatti diretti av-venuti tra questa e le popolazioni non europee.

Un’implicazione di particolare importanza della visione eurocentrica è stata, secondo Gheverghese Joseph, il voler indicare nel concetto di sviluppo scientifico e tecnologico il parametro di valutazione privilegiato per la determinazione del luogo di origine e dei fattori di crescita culturale delle so-cietà. Il progresso dell’Europa durante gli ultimi quattro se-coli, come indicato dallo studioso, è stato indissolubilmente connesso alla rapida crescita della tecnologia e della scienza, ed in particolare, secondo alcuni storici, lo sviluppo scienti-fico è stato letto come un fenomeno esclusivamente europeo, non raggiungibile da nazioni di cultura non europea, se non a patto di seguire quel particolare cammino intrapreso dall’Eu-ropa nella sua evoluzione sociale e scientifica. Secondo Ghe-verghese Joseph, questo tipo di rappresentazione delle socie-tà non assimilabili al contesto culturale europeo ha posto allo storico degli interrogativi fondamentali, per i quali cercare risposte ripercorrendo a ritroso la loro storia culturale duran-te il periodo precoloniale. È compito dello storico chiedersi, in prima istanza, se le specifiche basi scientifiche e tecnolo-giche delle culture non europee furono innovative e autosuf-ficienti già prima dell’insediamento coloniale europeo: studi

4 Nel 1999 veniva pubblicata, per i tipi della Princeton University Press, la seconda edizione ampliata, nelle cui Note ai Capitoli sono state fatte confluire le aggiunte, le considerazioni più generali e gli approfondimenti richiesti dall’autore, che di fatto hanno trasformato questa sezione del lavoro in uno dei luoghi più importanti del volume.Nel 2010, sempre dalla Princeton University Press, è stata pubblicata la terza edizione, ulteriormente accresciuta per gli apporti giunti da recenti nuovi studi sulla storia delle matematiche non europee, fra tutti il volume curato da Victor Katz, Mathematics of Egypt, Mesopotamia, China, India, and Islam: A Sourcebook (2007) e quello di Luke Hodgkin, A History of Mathematics: From Mesopotamia to Modernity. Il volume di Joseph, è stato tradotto in italiano, giapponese, spagnolo, farsi e malayalam.5 George Gheverghese Joseph, C’era una volta un numero. La vera storia della matematica, tr. it. a cura di Barbara Mussini, Milano, il Saggiatore, 2000

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delle conclusioni ottenute, lasciando ai loro studenti, inco-raggiati così a sviluppare contemporaneamente capacità cri-tiche e creative, il compito di formulare dimostrazioni orali o commenti scritti.

Srinivasa Ramanujan Iyengar

Mentre Gheverghese Joseph lavorava al volume The Crest of the Peacock, la vita e l’opera di Ramanujan gli sembrava-no istruttive perché sollevavano molti interrogativi interes-santi per uno studioso.

«Il primo è una domanda che raramente gli storici della matematica si pongono, ed è l’unica a cui non si riesca a trovare una risposta del tutto soddisfacente: in che misura le influenze culturali hanno determinato la scelta delle materie e dei modi di Ramanujan?»8.

Ramanujan apparteneva alla casta dei brahmani Ayyangar dei Tamil Nadu dell’India meridionale, custodi della dottrina tradizionale in campo astronomico e matematico, dallo status sociale elevato, grazie alla loro tradizionale erudizione ed ai loro costumi religiosi. Nella tradizione brahmanica la ma-tematica ed i numeri avevano un’importanza speciale come strumenti di controllo sul destino e sulla natura.

Con questo retroterra culturale l’inclinazione di Rama-nujan ad attribuire le sue scoperte alla dea di famiglia, Nama-giri, appare comprensibile, e sebbene possa aver costituito motivo di imbarazzo ad alcuni studiosi, sia in India che nei paesi di estrazione culturale d’origine europea, è perfetta-mente coerente con una cultura che, almeno in parte, ricono-sce nella matematica uno strumento di intervento divino e di predizione astrologica.

«[…] A un altro livello l’esempio di Ramanujan mostra indubbiamente che in campo matematico anche chi è stato istruito e allevato secondo tradizioni e in ambienti decisa-mente estranei alla società [europea] può raggiungere risul-tati eccellenti. Un secondo interrogativo, interessante e in realtà centrale per la questione, nasce dal lavoro stesso di Ramanujan: si possono riconoscere nella sua cultura carat-teristiche che stimolano e favoriscono il lavoro creativo in matematica?

Ogni tentativo di dare una risposta a questa domanda do-

8 G. Gheverghese Joseph, C’era una volta un numero. […], op. cit., pp. 11-13

se Joseph propone nel suo lavoro un nuovo percorso della storia della matematica, dove non vi è nessuna cultura a pre-valere sulle altre, ma dove invece si dimostra, dati alla mano, non solo come, per esempio, importanti scoperte della tradi-zione matematica europea (dal teorema di Pitagora al calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz) siano state precedute da altrettante elaborazioni non europee; o come il nostro sistema di numerazione a base decimale, con “l’invenzione” del nu-mero zero, fu elaborato dalle scuole matematiche indiane ve-diche e jaina agli inizi del I millennio d. C., introdotto in area araba nel X sec., e diffuso in ambito europeo solo nel XIII; ma soprattutto come ogni semplice operazione aritmetica sia stata il risultato di una stratificazione storica e concettuale complessa. Ed è in questa prospettiva che la ricostruzione presentata da Gheverghese Joseph risulta rivoluzionaria.

Come piccolo esempio di tanto, vale la pena soffermarsi su quanto l’autore scrive nella prefazione alla prima edizione: «[…] Nel 1987 visitai il paese natale del matematico indiano Srinivasa Ramanujan. Erano passati cento anni dalla nascita di Ramanujan in una cittadina dell’India meridionale chia-mata Erode. Alla sua morte, all’età di trentadue anni, alcuni riconobbero che era un genio, di una grandezza che poteva essere paragonata solamente a quella di matematici vissuti due secoli prima, come Eulero e Gauss. […]

Nel 1976 George Andrews, un matematico americano […], in una biblioteca dell’Università di Cambridge […] trovò per caso centotrenta pagine fitte di appunti che rappre-sentavano il lavoro di Ramanujan durante il suo ultimo anno di vita a Madras. […] Le ricchezze contenute [in quello che fu conosciuto come] il “Taccuino perduto” […] hanno con-tribuito all’elaborazione di uno dei concetti più rivoluzionari della recente fisica teorica [applicati in cosmologia]: la teoria delle superstringhe [...]. Uno studio del 1914 di Ramanujan su “Equazioni e approssimazioni a π” venne utilizzato qual-che anno fa nella programmazione di un computer per valu-tare π a un livello di precisione mai raggiunto in precedenza (milioni di cifre decimali)»7.

Per Gheverghese Joseph l’aspetto più appassionante del lavoro matematico di Ramanujan per un contesto di storia della scienza risiedeva soprattutto nella particolarità del suo metodo. Scarsamente istruito in matematica moderna e iso-lato per la maggior parte della vita dal lavoro che si stava realizzando alle frontiere di questa disciplina, Ramanujan raggiunse risultati di qualità e durata tali da oscurare suoi eminenti contemporanei, nonostante il suo stile nel fare ma-tematica fosse molto distante da quello che “secondo tradi-zione” si suole attribuire ad un matematico, tutto intriso di dimostrazioni deduttive ed assiomatiche.

Egli si limitava a trascrivere nel suo “taccuino” i risultati raggiunti, mentre era del tutto assente qualsiasi dimostrazio-ne o verifica sottesa alle conclusioni semplicemente enun-ciate. Questo suo metodo risultava del tutto coerente con la tradizione culturale indiana e cinese, secondo le quali ai matematici corre l’obbligo di limitarsi alla sola esposizione

7 G. Gheverghese Joseph, C’era una volta un numero. […], op. cit., p.10

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Godfrey Hardy

Ma caro fu il prezzo della sua permanenza nella gelida Europa degli inizi del Novecento: dopo sette anni di sog-giorno a Cambridge, vittima di uno spaesamento affettivo ed intellettuale, Ramanujan fece ritorno in India seriamente ammalato, per morirvi nell’aprile del 1920.

L’esempio di Ramanujan mostra indubbiamente come in campo matematico, indipendentemente dalle tradizioni e dagli ambienti culturali nei quali una elaborazione concet-tuale si esplica, è possibile raggiungere risultati eccellenti che siano validi universalmente. Il che spinge a porre l’inter-rogativo se sia necessario aderire ad un particolare metodo di presentazione formale affinché qualcosa sia riconoscibile come “matematica”.

Una definizione concisa e pregnante della matematica «è, all’atto pratico, impossibile». Tuttavia nel presentare la sua opera, Gheverghese Joseph ha modo di evidenziare alcuni aspetti salienti che individuano l’ambiente in questione: «la matematica moderna si è trasformata in un linguaggio uni-versale che dispone di un particolare tipo di struttura logica. Essa contiene un corpo di dottrine relative ai numeri e allo spazio e stabilisce una serie di metodologie atte al raggiun-gimento di conclusioni sul mondo fisico. Inoltre costituisce un’attività intellettuale che richiede intuizione e allo stesso tempo immaginazione per ottenere “prove” e raggiungere conclusioni».11

Gli studi degli ultimi trent’anni dedicati alla storia ed alla cultura di popoli non europei ed i progressi ottenuti nella decifrazione delle lingue hanno permesso considerazioni e ripensamenti di natura antropologica e cognitiva sulla natura della matematica stessa e della mente umana in generale.

La matematica non è solo numero: è una manifestazione naturale di capacità universali, che si esprimono nell’orga-nizzazione dello spazio, nella formulazione di strategie, nel-le costruzioni logiche, nell’interpretazione della realtà, nelle produzioni di figure (arte e linguaggi visivi) e nelle esperien-ze sonore (musicali e non). In diversi gruppi sociali, come in quelli primitivi, la matematica è infatti presente sotto for-ma di strutture che si stenta a riconoscere come matematica. Tanto che secondo alcune ricerche recenti piuttosto che di

11 G. Gheverghese Joseph, C’era una volta un numero. […], op. cit., p. 19

vrebbe investigare a fondo il ruolo dei brahmani Ayyangar come custodi della dottrina tradizionale in campo astrono-mico e matematico. […] Nella tradizione brahmanica la ma-tematica e i numeri avevano una importanza speciale come strumenti extrarazionali di controllo sul destino e sulla natu-ra. L’opera di Ramanujan suscita anche interrogativi riguar-do all’essenza stessa della matematica. C’è bisogno di aderi-re a un particolare metodo di presentazione formale affinché qualcosa sia riconoscibile come “matematica”?»9

La vicenda umana e scientifica di Srinivasa Ramanujan of-fre l’occasione eccellente, attraverso la ricostruzione esem-plare del percorso di vita di una delle più grandi menti mate-matiche del XX secolo, di dispiegare quanto in sede storica e scientifica si è andato costruendo in questi ultimi anni intor-no al ‘pensare matematico’.

L’appassionata biografia di Robert Kanigel dedicata a Sri-nivasa Ramanujan Iyengar, dalla quale è stato tratto il film nelle sale cinematografiche quest’anno, scritta nello stile proprio della più accreditata letteratura biografica di area an-glosassone, se da un lato ha avuto il chiaro merito di portare all’attenzione del vasto pubblico di non esperti del settore la vita ed il lavoro di Ramanujan, dall’altro ha semplifica-to in modo eccessivo la descrizione del retroterra culturale nel quale il matematico indiano compì la sua formazione e che gli permise di raggiungere quei traguardi ragguardevo-li, oggi applicati in settori come la chimica e l’informatica, tralasciando di porre in evidenza il dettaglio fondamentale, diversamente sottolineato egregiamente da Gheverghese Joseph, sull’unicità delle scuole di matematica indiane alle quali Ramanujan attinse ed attraverso le quali ebbe modo di costruire le sue particolari elaborazioni.

Nel 1913 il matematico inglese Godfrey Hardy10 ricevet-te la lettera di un impiegato della Corte dei Conti di Ma-dras, che gli sottoponeva alcune sue idee intorno ai numeri. Quell’uomo era Srinivasa Ramanujan Iyengar.

Hardy, resosi subito conto di essersi imbattuto in una men-te eccezionale, organizzò il viaggio che portò Ramanujan da Madras a Cambridge e che segnò l’inizio di un’amicizia e di una collaborazione tra le più singolari della Storia della Scienza.

Durante gli anni della sua permanenza in Inghilterra Ra-manujan elaborò circa quattromila teoremi e congetture che stupirono la comunità scientifica e che avrebbero trovato, a decenni di distanza, specifici campi di applicazione: dall’in-gegneria all’elaborazione di materiale plastico, dalla fisica delle particelle alla costruzione di altiforni, dalla ricerca sull’atomo a quella intorno alla proliferazione degli onco-geni.

9 G. Gheverghese Joseph, C’era una volta un numero. […], op. cit., pp. 11-1310 Per una bibliografia aggiornata su Godfrey Harold Hardy (1877 –1947) si veda: Roberto Lucchetti, Godfrey H. Hardy: una mente brillante, in C. Bartocci (ed), Vite matematiche : protagonisti del ‘900 da Hilbert a Wiles, Milano, 2007; Marco Abate, L’autobiografia riluttante di G.H. Hardy, in Michele Emmer (ed), Matematica e cultura, Milano, 2011; Robin J. Wilson, Hardy and Littlewood, in Peter Harman - Simon Mitton (Eds), Cambridge scientific minds, Cambridge university press, 2002

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cultura araba (e per araba l’autore comprende quella cultura sviluppatasi anche nei territori “non arabi” quali Iran, Tur-chia, Afganistan e Pakistan, che presentano tutti civiltà isla-miche proprie) e tradotta, affinata, sintetizzata e accresciuta nei diversi centri di studio da Jund-i-Shapur in Persia nel VI secolo, a Baghdad e al Cairo per arrivare attraverso Toledo e Cordoba, in tutta l’Europa occidentale.

Così come non è stato sottolineato a sufficienza il debito contratto dalla cultura greca dal 600 a. C. in poi con l’astro-nomia, la matematica, l’agrimensura egizia e mesopotamica. Tracce di cultura, non solo matematica, dell’India delle Upa-nishad sono rintracciabili nella dottrina di Pitagora, al quale giunsero, verosimilmente, attraverso la cultura persiana.

Per costruire in modo plausibile lo schema presentato nel suo studio The Crest of the Peacock a Gheverghese Joseph è stato necessario limitare il numero di aree culturali e geogra-fiche prese in esame, e la scelta, fatto salvo un inevitabile ele-mento di arbitrarietà, è stata motivata da due considerazioni fondamentali: da un lato sono state individuate quelle aree che, in base alle testimonianze esistenti, videro evoluzioni si-gnificative in ambito matematico; dall’altro, nell’identifica-zione delle zone d’interesse, è stata seguita una valutazione che tenesse conto della natura e del senso della trasmissione della conoscenza matematica.

Premesso lo scopo limitato del libro e i criteri adottati, che hanno ulteriormente ridotto l’ambito di indagine, lo studio di Gheverghese Joseph inizia con l’analisi, nel capitolo se-condo, delle più antiche testimonianze di protomatematica, dall’osso ishango dell’Africa centroequatoriale, al quipu degli Inca, dalle “pietre erette” tipiche di molte culture, ai sistemi yoruba e maya. I capitoli terzo, quarto e quinto sono dedicati agli esordi della matematica scritta: dai codici gra-fico-numerici egizi, con le loro conoscenze geometriche ed algebriche, agli equivalenti babilonesi.

Nei capitoli 6 e 7 l’autore passa alla valutazione della ma-tematica cinese, dove sono presenti una formulazione del te-orema di Pitagora (500 a. C. – 200 a. C.), il calcolo di π ( 260 d. C.), equazioni di II grado elevato (200 d. C. – 300 d. C.), l’elaborazione del cosiddetto “triangolo di Pascal” (1303) e l’analisi indeterminata.

I capitoli ottavo e nono sono dedicati alla matematica indiana antica, classica e ai suoi sviluppi successivi: dalla matematica dei mattoni della cultura di Harappa (3000 a. C. – 1500 a. C.), a quella dei Veda (1500 a. C. – 500 a. C.); dall’algebra dei Sulbasutra (1500 a. C. – 500 a. C.), del Ma-noscritto di Bakhshali (400 d. C.) e del matematico astro-nomo Aryabhata I (500 d. C.), alla trigonometria del Papi-ro di Ahmes (1650 a. C.), del Surya Siddhanta (400 d. C.), del Pancha Siddhantika di Varahamihira (500 d. C.) e del Brahma Sputa Siddhanta di Brahmagupta (628 d. C.). Alla matematica jaina (500 a. C. – 400 d. C.) sono riportate le teorie dei numeri, le permutazioni e computazioni, il teore-ma binomiale; le regole per le operazioni matematiche, la notazione posizionale decimale, la prima utilizzazione dello zero; l’algebra (equazioni semplici, quadratiche e sistemi di equazioni; radici quadrate ed istruzioni dettagliate su come

matematica si dovrebbe parlare di idee matematiche: società che non hanno istituzionalizzato lo studio della matematica, non isolando un gruppo di attività o dottrine cui applicare un nome specifico capace di identificarle sotto un’unica veste, presentano manifestazioni di idee matematiche nei riti, nelle cerimonie e nelle diverse regole di organizzazione sociale.

Prima di addentrarsi a percorrere l’ampio excursus storico dedicato alle singole tradizioni matematiche non europee, che si estende per ben 11 capitoli del volume, Gheverghese Joseph traccia tre percorsi elaborati dalla tradizione storio-grafica dedicati alla storia della disciplina.

La maggior parte delle storie della matematica che hanno esercitato una profonda influenza su opere successive, sostie-ne l’autore, fu scritta tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX. L’ideologia ad esse sottesa di una superiorità europea, che investì in quegli anni vari settori dell’attività sociale ed economica, influenzò le storie delle scienze, che misero in rilievo il ruolo insostituibile dell’Europa nel fornire nutri-mento e vigore alle scoperte scientifiche12: l’evoluzione della matematica prima dei Greci, quella che si sviluppò in area egiziana e mesopotamica vennero accantonate in quanto di scarsa importanza per la storia della materia.

Furono elaborati due modelli eurocentrici possibili di per-corsi storici della disciplina, che, dalla sua origine individua-ta in Grecia, giungeva al suo massimo sviluppo nell’Europa del XVI sec. fino ad arrivare all’età contemporanea, pas-sando attraverso le influenze ebraiche, indiane e persiane dell’età ellenistica, ed il contributo arabo in età medievale. Contributo del quale non è stata sottolineata abbastanza la natura composita: la dottrina scientifica che ebbe origine in India, in Cina e nel mondo ellenistico venne inglobata nella

12 L’ideologia di una superiorità europea sostenuta dalle diverse Compagnie delle Indie cui diversi Stati d’Europa assegnarono il monopolio delle attività commerciali nelle rispettive colonie in Asia e che investì vari settori dell’attività sociale ed economica portò ad esempio l’iniziale atteggiamento di soggezione dei britannici per la scienza indiana a tramutarsi in sdegno in conformità con i loro obiettivi imperialisti: uno dei metodi di controllo della popolazione colonizzata più accreditati consisteva nell’indurre nei territori sfruttati l’idea che nulla di utile avesse mai avuto origine nel paese prima dell’arrivo dei colonizzatori. Tutto ciò che era indigeno veniva scartato come non conforme, e questa politica fu perseguita in India dagli inglesi. Vari tentativi furono compiuti, come ad esempio quelli di Ramachandra Rao nel XIX secolo per fondere la scienza moderna e la scienza tradizionale, ma non sono mai stati portati a compimento a causa dell’atteggiamento di diniego dei britannici verso la scienza indiana: quando Charles Whish presentò nel 1832 il suo studio sulla Matematica del Kerala (On the Hindu quadrature of the circle and the infinite ‘series of the proportion of the circumference to the diameter exhibited in the four Shastras, the Tantrasamgraham, Yukti-Bhasa, Carana Padhati and Sadratnamala’, “Trans. R. Asiatic Soc. Gr. Britain and Ireland”, 3 (1835) 509–523), questo fu accolto di conseguenza con indifferenza. Questo scritto di Whish è stato ripubblicato in appendice al volume di I.S. Bhanu Murthy, A modern introduction to ancient Indian mathematics, New Delhi, 1992.Su Charles Whish (1794–1833) si veda: George Gheverghese Joseph, Cognitive encounters in India during the age of imperialism, “Race & Class”, 36 (3) (1995), 39–56; M. Winternitz (ed), A catalogue of south Indian Sanskrit manuscripts: especially those of the Whish collection belonging to the Royal Asiatic Society of Great Britain and Ireland, The Royal Asiatic Society, 1902 (il Catalogo è disponibile digitalizzato online [ultima verifica 22.08.2016]).

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è plausibile ritenere che allo steso modo molti di questi con-cetti relativi al calcolo infinitesimale possano essere perve-nuti nel continente europeo attraverso i metodi di calcolo computazionale importati dai mercanti, piuttosto che come puri concetti astratti su cui si fondano tali algoritmi. Tutta-via, una più importante e più nota via di trasmissione po-trebbe essere stata svolta dall’opera dei gesuiti: sostiene, il Prof. Joseph, come esistano marcate evidenze che inducono a ritenere l’entourage del matematico ed astronomo gesuita Matteo Ricci15, un possibile veicolo di diffusione di quelle particolari idee.

Ricci, dopo essere stato ordinato a Goa nel 1580, trascorse quasi due anni a Cochin, l’odierna Kochi, nel Sud dell’In-dia16. Per un certo numero di gesuiti che seguirono Ricci, Kochi costituiva una tappa obbligatoria sulla strada per la Cina. Kochi è distante solo 70 km dal più grande deposito di manoscritti astronomici in Thrissur, da dove, duecento anni dopo, Whish e Heyne, i primi due europei che studiarono e descrissero la Scuola di Matematica del Kerala17, ottennero i

15 Il Kerala fu di fatto in contatto con l’Europa fin da quando Vasco da Gama per primo vi giunse nel 1499 e vie di commercio furono stabilite tra il Kerala e l’Europa. Assieme ai commercianti europei, missionari Gesuiti dall’Europa furono presenti nel Kerala nel corso del XVI secolo. Molti di loro erano matematici ed astronomi, in grado di parlare una lingua locale come il Malayalam, quindi in grado di comprendere la matematica del Kerala. Manoscritti indiani di matematica potrebbero essere stati portati in Europa dai gesuiti e da altri studiosi europei presenti nel Kerala.Per quanto riguarda la trasmissione della matematica del Kerala attraverso i missionari gesuiti in servizio in India sono state mosse obiezioni circa la competenze di costoro in matematica e sanscrito. Ugo Baldini, per esempio, scrive che lo standard della matematica nelle scuole dei gesuiti era elementare, e che la maggior parte dei missionari gesuiti non sarebbe stata in grado di apprezzare la matematica altamente raffinata della scuola del Kerala. Così, ad eccezione di pochi come Ricci e Rubino, gli altri gesuiti non sarebbero stati capaci di comprenderne i contenuti. Gheverghese Joseph ritiene viceversa che lo standard di competenza in matematica posseduto dai membri del Collegio Romano fu molto alto e che i gesuiti destinati alle missioni in Oriente erano forniti dei dovuti strumenti per riuscire a relazionarsi con le culture scientifiche di quei paesi. (G. Gheverghese Joseph, The Crest of the Peacock […],Third Edition, p. xix).Per una aggiornata bibliografia di studi su Matteo Ricci (Macerata, 6 ottobre 1552 –Pechino, 11 maggio 1610) si veda: Gianni Criveller, Matteo Ricci. Missione e ragione: una biografia intellettuale, Milano, 2010; Filippo Mignini (ed), La cartografia di Matteo Ricci, Roma, 2013; R. Po-chia Hsia, A Jesuit in the forbidden city: Matteo Ricci (1552-1610), Oxford university press, 2010; Luisa M. Paternicò (ed), La generazione dei giganti: gesuiti scienziati e missionari in Cina sulle orme di Matteo Ricci, Catalogo della mostra tenuta a Trento nel 2011-2012, numero monografico de “Sulla via del Catai”, A. 5, n. 6 (ott. 2011), p. 1-155; Isaia Iannaccone - Adolfo Tamburello (Eds), Dall’Europa alla Cina: contributi per una storia dell’astronomia, Atti del Convegno tenuto a Napoli nel 1988, Napoli, 1990; Filippo Mignini (ed), Padre Matteo Ricci: l’Europa alla corte dei Ming, Milano 200316 Durante questo periodo, Ricci, che era in corrispondenza con il Rettore del Collegio Romano, scriveva al confratello Giovanni Pietro Maffei (1533-1603) affermando di stare tentando di imparare i metodi di rilevamento dei tempi da “un intelligente bramino o un onesto saraceno” [Lettera di Matteo Ricci a Giovanni Pietro Maffei datata 1 Dicembre 1581, in Josef Wicki, Documenta Indica, vol. 12, pp. 472–77 (p. 474). Cfr.G. Gheverghese Joseph, The Crest of the Peacock […], Third Edition, p. 441]. Giovanni Pietro Maffei è autore di Historiarum indicarum libri XVI, Mylius, 1589, tradotto in italiano da Francesco Serdonati (1540-1603) (Istoria delle Indie Orientali di Giovan Pietro Maffei).17 Su Charles Whish si veda la nota 12. Su Christian Gottlob Heyne

rappresentare incognite e segni negativi). L’ultimo capitolo è dedicato al Preludio alla matematica

moderna: il contributo islamico. Il decimo capitolo è interamente dedicato alla Scuola di

Matematica della regione del Kerala (1200 d. C. – 1600), con i suoi studi sull’analisi e calcolo infinitesimale, la sua scuola di astronomia ed alla sua influenza sulle matematica europea del XVII secolo, capitolo che troverà il suo approfondimento nel volume di Joseph Passage to Infinity: Medieval Indian Mathematics from Kerala and Its Impact13: è ben noto che il concetto di zero come nozione matematica abbia avuto origi-ne in India. Tuttavia, non è così ben noto come il concetto di infinito in matematica abbia anch’esso la sua nascita in India e si può bene accreditare la Scuola di Matematica del Kerala come sede nella quale avvenne la sua scoperta.

Passage to Infinity racconta l’evoluzione di questa epocale idea, che segna la nascita della matematica moderna, seguen-done lo sviluppo che dalla Scuola del Kerala nel XIV secolo ebbe il suo culmine nell’Europa del XVII secolo. Le ricerche di Joseph inducono ad affermare come queste idee abbiano potuto viaggiare in Europa, attraverso i missionari gesuiti, ben prima che il lavoro di Newton e Leibniz apparisse sulla scena matematica europea14.

Così come il sistema di numerazione raggiunse l’Europa dall’India attraverso l’Arabia, secondo Gheverghese Joseph

13 Il volume Passage to Infinity: Medieval Indian Mathematics from Kerala and Its Impact (2009), che nasce dallo sviluppo degli studi anticipati nel decimo capitolo di The Crest of the Peacock , espone i risultati della ricerca che ha visto nel 2005 il Prof. Joseph organizzare un International Workshop a Kovalam legato al progetto di ricerca finanziato AHRB dedicato allo studio dei possibili canali di trasmissione in Europa delle conoscenze matematiche sviluppate in età medievale dalla Scuola del Kerala. La scuola di matematica del Kerala (sviluppatasi fra il 1200 d. C. ed il 1600) ha in Madhava (1340- 1425) il suo maestro. Appartenente ad una casta di bramini, Madhava si era trasferito in Kerala dal Karnataka costiero. Le uniche sue opere superstiti sono testi di astronomia, ma dalle testimonianze desumibili nelle opere redatte da matematici del Kerala d’epoca successiva si conoscono diversi suoi lavori di matematica: l’asserzione «Così dice Madhava» costituisce il costante richiamo alla sua autorità che compare nei testi quando vengono riportati determinati risultati matematici. Come indica Gheverghese Joseph è certo che Madhava abbia scoperto “serie infinite per le funzioni trigonometriche circolari, comunemente note come serie Gregory per arcotangente, serie Leibniz per pi greco e gli sviluppi in serie di potenza o binomio di Newton per seno e coseno corretto per 1/3600 di grado”.14 Passage to Infinity: Medieval Indian Mathematics from Kerala and Its Impact ripercorre i primi incerti passi adottati nella teorizzazione matematica del concetto di infinito che segna la nascita della matematica moderna. Esso analizza il ruolo svolto dai matematici indiani della regione del Kerala, un ruolo importante ma trascurato nella storia della matematica.Il volume inizia con un esame delle origini sociali della Scuola Kerala e procede analizzandone la genesi così come i suoi sviluppi. Si sofferma sullo studio delle tecniche impiegate dalla scuola per derivare le serie infinite per le funzioni trigonometriche di seno, coseno, arcotangente etc. Utilizzando la notazione moderna, ma rimanendo vicino ai metodi delle fonti originali, permette al lettore, in possesso di una basilare conoscenza di trigonometria e algebra elementare, di seguire le argomentazioni. Oltre ad approfondire la natura dei processi socio-economici che hanno portato allo sviluppo delle conoscenze scientifiche nell’India pre-moderna, il libro esplora anche la validità dell’ipotesi intorno alla possibilità della trasmissione della matematica del Kerala in Europa attraverso il canale dei missionari Gesuiti.

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only a few landmarks on the high-way have been touched. Explorative studies have been carried out only on a small percentage of the mass of manuscripts that have come down to us from the past. An enormous amount of primary material lies unexplored in various repositories»

Quindi, data questa palese omissione nel resoconto storico dell’evoluzione della matematica moderna, gli studi di Ghe-verghese Joseph costituiscono un documento prezioso.

Nelle ricerche che Joseph ha in atto e che sono confluite nel volume intitolato Indian Mathematics: Engaging with the World from Ancient to Modern Times19 viene ulterior-mente e più marcatamente dimostrato come un percorso di storia della matematica che sia alternativo alle precedenti impostazioni storiografiche tradizionali debba mettere in evi-denza tre fondamentali aspetti della pluralità dell’evoluzione della disciplina:

1) la natura universale delle ricerche matematiche di qua-lunque tipo;

2) la possibilità di una evoluzione indipendente della mate-matica all’interno di ogni tradizione culturale;

3) l’importanza cruciale di diverse trasmissioni da una ci-viltà all’altra, culminanti nella creazione della matematica moderna come disciplina unitaria.

E proprio in questo senso l’opera di Srinivasa Ramanujan Iyengar costituisce l’esempio contemporaneo più eloquente ed evidente.

19 Intervista di Suganthy Krishnamachari a George Gheverghese Joseph in “The Hindu”, 29 ottobre 2015. Il volume di Joseph Indian Mathematics: Engaging with the World from Ancient to Modern Times, è stato pubblicato per i tipi della World Scientific nel luglio 2016.

manoscritti oggetto delle loro ricerche. È dunque ragionevo-le ritenere che questi gesuiti ebbero la possibilità di entrare in contatto anch’essi con i lavori di matematica della scuola del Kerala. E che, attraverso i loro scritti, matematici euro-pei con i quali erano in contatto a loro volta ne venissero a conoscenza18.

Matteo Ricci e Xu Guangqi in una illustrazione del 1670

Tuttavia, sulla validità dell’ipotesi intorno alla possibili-tà della trasmissione della matematica del Kerala in Euro-pa attraverso il canale dei missionari Gesuiti, rimane ancora molto da esplorare: alcuni dei documenti dei gesuiti sono in collezioni private; altri sono stati distrutti. Nel frattempo, scrive il Prof. Joseph, è necessario di rafforzare le prove cir-costanziali, identificate nei precedenti studi: esistono infatti ben 3473 testi di scienza in sanscrito e 12.244 manoscritti scientifici provenienti da più di 400 depositi in Kerala e Ta-mil Nadu da esaminare, per cui così immenso è il compito che lo storico della matematica si accinge ad assumere.

Scrive Joseph: «This is only a short account of a vast tradition and as such

(1729-1812) filologo, archeologo e bibliotecario tedesco si veda Marianne Heidenreich, Christian Gottlob Heyne und die Alte Geschichte, K. G. Saur, München – Leipzig 2006; René Sternke, Kabale und Kritik. Die Ilias malorum gegen Christian Gottlob Heyne im Mai 1803, in Martin Mulsow (Hrsg.), Kriminelle – Freidenker – Alchemisten. Räume des Untergrunds in der Frühen Neuzeit, Köln u. a. 2014, S. 597–616; Heinz-Günther Nesselrath, Balbina Bäbler (Herausgeber), Christian Gottlob Heyne. Werk und Leistung nach zweihundert Jahren, Berlin/New York 2014 (Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften zu Göttingen. Neue Folge 32); René Sternke, Klaus Gerlach (Hrsg.), Karl August Böttiger. Briefwechsel mit Christian Gottlob Heyne, Berlin 201518 I gesuiti erano tenuti a presentare periodicamente una relazione per la loro sede a Roma, ed è una congettura ragionevole, secondo Gheverghese Joseph, che alcuni dei loro rapporti possano aver contenuto appendici di natura “tecnica”, destinati alla loro scuola di matematica, e che da Roma avrebbero raggiunto diversi studiosi in grado di comprendere quei contenuti matematici. I materiali raccolti dai Gesuiti, scrive il Prof. Joseph, erano disseminati in tutta Europa: a Pisa, dove Galileo Galileo, Bonaventura Cavalieri e John Wallis trascorsero del tempo; a Padova, dove James Gregory era impegnato in studi matematici; ed a Parigi, dove Marin Mersenne, attraverso la sua corrispondenza con Galileo, John Wallis, Pierre de Fermat e Blaise Pascal, agì come “agente” per la trasmissione di idee matematiche (G. Gheverghese Joseph, The Crest of the Peacock […], Third Edition, pp. xix-xx)

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OPINIONI | SCIENZE E RICERCHE • N. 39 • 15 OTTOBRE 2016

carenza nell’elaborare un testo in modo organico e compiuto. Si ricava anche un campionario di risposte incomplete, errori e veri e propri strafalcioni, che sorprendono in maniera più acuta per il tipo di concorso in questione, ovvero una selezione tra chi si candida a insegnare alle nuove generazioni»2. Quello che già diceva Tullio De Mauro della nuova incapacità di comprendere testi complessi – e certo non si riferiva alla Teoria della relatività o alla Divina Commedia, ma ad articoli di tre colon-ne che non fossero mera cronaca o puro gossip – naturalmente si ripercuote an-che nell’incapacità di elaborare testi complessi: siamo al fondo del degrado culturale in cui siamo precipitati? O, poiché questi saranno i nuovi inse-gnanti o le cattedre resteranno vuote, dobbiamo ancora aspettarci altre brutte sorprese? Ai posteri l’ardua sentenza.

A noi qui preme sottolineare ancora una volta come questa sorta di gioco al massacro informativo vada tutto a sca-pito della capacità critica individuale, della crescita culturale dei popoli, e in-fine della democrazia.

2 G.A. Stella, Metà dei professori boccia-ti, in “Corriere della Sera”, 16 agosto 2016 http://www.corriere.it/scuola/16_agosto_23/concorsone-meta-professori-bocciati-scuola-rischia-iniziare-23-mila-cattedre-vuote-b44c-de90-68a3-11e6-b1b2-f8e89a7ffdaf.shtml

pagato il “salvataggio” della Compa-gnia di bandiera (sic.), e la cordata dei suoi amici ci ha speculato sopra, secon-do la solita logica che i debiti sono di tutti e i guadagni sono solamente i loro.

Ebbene, ormai la partnership Ali-talia-Air France è ben consolidata: quando è avvenuta? Nessuno ce l’ha detto! Non solo, nella stessa partner-ship sono incluse altre due compagnie: Delta Airlines e Vietnam Airlines; per non parlare di SkyTeam, che da sola comprende 20 compagnie aeree di tut-ti i continenti e offre ai propri clienti i privilegi della SkyPriority. Ma tutto questo non è mai stato raccontato all’o-pinione pubblica dai “bravi” giornalisti che pure erano stati così solleciti a ca-valcare l’onda nazionalista del “salvia-mo la Compagnia di bandiera”, né dai “grandi” oppositori di regime (qual-siasi regime sia) Grillo, Dario Fo, lo stesso Crozza, e il Gad Lerner che ora pare tornare in televisione, a raccontar-ci cosa? Del “profondo nulla” nel quale ha contribuito da 20 anni a sprofondar-ci? Testimoniato ora nella maniera più inquietante e sconcertante dal recente concorso per insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, che sta vedendo un profluvio di bocciature, motivate da «una scarsa capacità di comunicazione scritta, in termini di pertinenza, chiarezza e sequenza logica e una

La narrazione della realtàANGELO ARIEMMACentro di Documentazione Europea Altiero

Spinelli, c/o Sapienza Università di Roma

Non vogliamo parlare di let-teratura. Vogliamo parlare della realtà che ci circonda

in questo inizio di XXI sec. Si parla di realtà virtuale, di realtà digitale, in vero mi sembra che sempre più ci troviamo di fronte a una “narrazione” della realtà che travalica la realtà stessa, e condi-ziona giudizi e opinioni di cittadini ed elettori, fino ad arrivare a una realtà “percepita” tutt’affatto diversa dalla realtà “fattuale” (come la definiva Ma-chiavelli).

Porto un solo esempio nostrano1: ri-cordiamo la vicenda Alitalia? – forse no, visto che non se ne è più parlato, in questo eterno presente che mangia se stesso e non ha più alcuna memoria storica – quando doveva essere assolu-tamente “salvata” dalle “grinfie” di Air France? Su quella vicenda Mr. Bean ci ha vinto un’elezione, noi tutti abbiamo

1 Ma la vicenda Brexit, il successo del con-servatore Trump, sarebbero altrettanti esempi a dimostrazione che la problematica è mondiale.

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che un confine, uno steccato venisse infranto o che una frec-cia colpisse e ferisse fino alla morte un corpo, o con un ba-stone si rompesse la testa a qualcuno, è in fin dei conti l’espe-rienza del primo uomo e financo la sua tragedia. L’assassinio può essere una conseguenza di un atto di rottura violenta. La rottura del patto tra l’uomo e Dio nel Genesi è evidente negli effetti catastrofici di questa rottura del patto di alleanza dopo l’assassinio di Abele, in cui l’esilio di Caino segna la prima diaspora e il primo non-abbandono da parte di Dio.

Proprio a Caino, dopo l’allontanamento, toccherà, (dopo aver preso moglie e avuto un figlio, incredibile ma vero) fon-dare la prima città e di darle un nome, il nome del figlio Enoch. È la prima forma di schismogenesi antropica che

segue, nell’atto crea-tivo, alle altre infinite successioni frammen-tarie di cui è costitui-to l’universo umano e cosmico. La Qa-ballah di Isaac Luria (1534-1572) riprende-rà questa sequenza di fratturazione nella te-oria della ‘Rottura dei Vasi’, la sequenza del-le Sefirot, le gemme divine, che si aprono generando per serie di successioni l’infinito universale. Dio, nella sua nuova etimologia consegnata a Moshè, dichiara la sua entità come di uno che non abbandona: ’Io sono colui che sta accanto a voi, finché voi lo vor-

L’Infranto: la frangibilità, la cura e il non-abbandono (kintsugi) VINCENZO CROSIOStorico della conoscenza

La dimensione delle cose, della vita, degli og-getti in particolare che si rompono, - i cui effetti rivelano fratture, frangibilità, ferite di un qualcosa che è integro nonché familiare nell’uso che questa integrità ci garantisce

come funzionalità - , può assumere una valenza catastrofica, o meno catastrofica, a secondo del contesto e del significa-to che noi diamo all’evento di ‘rottura’. Immediatamente un oggetto che si rompe, una ferita, procura all’individuo un profondo disagio, fisico, mentale, psicologico. Il trauma è esattamente il termine con cui identifichiamo, nella perce-zione, questo evento in cui qualcosa si è rotto. Per i primi uomini che attraversavano il deserto, i ghiacciai, che erano esposti continuamen-te ai pericoli dell’av-ventura per terra o per mare, il carattere ‘fragile’ dell’esistente (nella doppia relazione di soggetto che impat-ta nella fragilità del proprio corpo o procu-ra la fragilità, la ferita) era l’esperienza di una norma essenziale che è diventata poi criterio di tutela, di cura, di attenzione a se stessi, agli altri, agli ogget-ti di uso domestico e strumentale, all’abita-zione e agli habitat di frequentazione noma-dica (la tenda, la ca-verna) o stanziale (la casa e l’abitato). Che un vaso si rompesse, o Caino e Abele. Bassorilievo di Lorenzo Ghiberti

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intero rotolo, quello di Isaia di cui finalmente abbiamo una copia in ebraico originale, si fa con grande senso di fierezza esposizione al museo del Libro,al santuario del libro in Ge-rusalemme come l’aspetto più prezioso della civiltà ebraica. Come il frammento della coppa di Nestore dell’ VIII seco-lo avanti Cristo ci da conto di cosa sia l’esametro greco di Omero e della civiltà greca prima dei Greci, del tempo degli eroi. Un frammento è, ripeto, è la testimonianza non solo di una rottura(che dal punto epistemologico va ripresa come la fase di non equilibrio proprio dei sistemi fisici generali, come accadimento temporale, una possibilità degli stati tempora-neamente stazionari. Il teorema di Kolmogorov è in qualche modo la terza legge della fisica nel calcolo probabilistico), ma di una appartenenza, simbolica o concreta. L’esperienza umana è una grande storia di rotture e ricomposizione fino a che l’ultimo, il prossimo, non sieda accanto a noi nella co-stituzione delle Prossimità, questa è la filosofia e la pratica dell’avvenire. Il frammento è la parte restante di un intero non di un generico insieme, il frammento testimonia di ‘un come fosse’, non di come era, è il monito del paradigma non dell’affermazione di una identità. Ma anche l’aspetto della cura dell’altro, -anche nell’ipotesi apocalittica marxiana-, la rottura dell’equilibrio della comunità (l’egoismo di un sin-golo o di una classe) va intesa come qualcosa che va rico-struito riconnettendo, ricostruendo la negazione di una parte dell’intero corpo sociale, le sue separazioni, le solitudini e gli abbandoni. La dialettica storica va verso la soluzione del suo enigma, come egli stesso nei Manoscritti economici-fi-losofici del 1844, afferma. Per il senso simbolico del ‘Comu-ne’, nell’Induismo dei Veda, è questo il senso dell’antilope nera che fugge via, dell’esilio, della diaspora, dell’esodo e della ricomposizione nella comunità reale, per il profetismo ebraico. Dunque principi come sussidiarietà, cura, prossimi-tà all’altro vanno intesi come riparazione, ricollocazione di un frammento, di un frammentario in un contesto quanto più possibile reintegrato, in senso logistico, formale-identitario, come località comune e tutto quello che ne consegue. Una teoria della località non può prescindere dalla ridefinizione dei Luoghi Comuni, come esperienze di pluralità, entità col-lettive e non parziali, di ‘entità di non marginalizzazione’. Il giardino in periferia che viene ’riqualificato’ dalla generosità operosa dei cittadini, è questo senso della riparazione sociale contro la rottura dell’atto egoistico.

Ma ci vuole, per una tazza rotta o una comunità disper-sa, le abili mani e la cura paziente che solo l’esperienza del non infranto può, (come esperienza e sapienza), può indur-re come riparazione; come nel caso del Kintsugi, l’arte di restaurare, di curare i frammenti di una tazza rotta con un filo d’oro. Secondo i criteri dello Zen, validi anche per l’I-kebana, la bellezza, il criterio di bellezza, la forma ‘Iki’ è connessa all’imperfezione. Una tazza rotta e riparata col filo d’oro, fa bella mostra di sé, -come la cicatrice sul volto di un guerriero-, su un tavolo o una credenza,come un oggetto nuovo e una sua dimensione ricreata in una forma nuova ed originale. Il criterio della cura e del non abbandono è l’a-spetto che impropriamente noi traduciamo con ‘compassio-

rete; io solo Colui che non vi abbandona’. Il che presuppone però una lontananza, in questo caso ontologica, tra creatore e creatura. Dunque le ‘forme’ dell’esilio, della particolarità individuale e collettiva separata, misurano la distanza dell’e-silio stesso e del ritorno dell’individuo nell’essere che è co-mune, nella sua moltiplicazione di aspetti non più frammen-tati, la comunità. Un po’ come nell’albero frattale in cui ogni segmento o frattura è un universo matematico di un insieme. In Deuteronomio, si da come precetto, come comandamento, l’istituzione di comunità d’asilo, di città di rifugio, per chi - separandosi dagli altri commettendo il male - , abbia tutto il tempo di riconvertirsi al bene. Questo è il primo effetto della rottura palingenetica, della separazione e della riparazione di un insieme disperso e frammentato. La ferita commessa attraverso un crimine deve essere riparata ricucendo la ferita. Dunque la ‘rottura’ e la ‘riparazione’ è un movimento uni-versale di concentrazione e dispersione continua e viceversa, fragilmente universale. La biforcazione e le asimmetrie co-smiche sono il principio, la sua archè, il fondamento stesso della dialettica universale. ‘Tiqqun ‘Olam’ è tipicamente, in ebraico, la ‘riparazione’ del mondo, nel senso più specifico di ogni atto umano indirizzato alla riparazione di ogni cosa sia fatto come torto, come offesa verso qualcuno o verso qualcosa, di ciò che ha rotto un equilibrio o una stabilità. Riparazione, ‘ tiqqun’, che ha anche il significato di ‘orna-mento’. Ogni cosa rotta e riparata acquista dunque il suo vero ornamento, la sua vera bellezza.

È l’acquisizione storica dell’uomo che fa l’esperienza di quanta fragilità è, sia, nelle cose, di quanta fragilità sia pro-prio l’azione che procura una rottura. Il religioso, il sacro renderà conto di queste ferite, di questa rottura come ma-leficio o discordanze nell’ambito del rapporto uomo natura, uomo e dio. La medicina nasce come sapienza nella cura, nei rimedi alle ferite, alle riparazioni fisiche o morali di un individuo o una comunità. Ricucire le ferite è un’azione con-creta, medica concreta, oppure è un’opera simbolica con cui per esempio una intera comunità pone mano alla riparazione di un danno e, come dopo una guerra o una strage, occorrono anni o forse più anni per rimettere in piedi una parvenza o una simulata integrità. Più in là la filosofia addirittura la te-ologia né farà un aspetto di Grund, di terreno fondamentale, tale per cui la rottura, la frangibilità non è che l’aspetto di un percorso più ampio che si dice ‘riparazione, espiazione e in ultimo resurrezione’, come completa guarigione dall’in-franto. La tazza rotta per esempio prende in antropologia questa valenza di qualcosa che va riconnessa, che va rico-struita. Un affresco che si rovina, che perde la sua interezza o riconoscibilità,un’anfora greca deve essere amorevolmente ricostruita per riportare alla luce il frammento di qualcosa che appartiene al passato. Un frammento è in questo caso importante quando il testo stesso. L’archeologia è sostan-zialmente il recupero di dati, reperti dell’antico attraverso il frammento. Nel dopoguerra i Manoscritti del Mar Morto ci hanno dato l’esperienza più forte di questo tipo di riparazio-ne, di restauro di frammenti: di un frammento di meno di quattro grafemi si discute se sia del vangelo di Marco, di un

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frammenti dell’antico manoscritto per leggerne l’autenticità. Almeno fintanto che sia possibile. La lotta tra l’infranto e la sua riparazione è una lotta se vogliamo etica ed epica nella dimensione dello scontro tra civiltà, dove il genocidio va di pari passo con la generosità del salvataggio, dello operazione di messa in salvataggio di persone, individui, popoli o etnie. Testimoniata già nel suo esordio dal Canto del Beato, la Bha-gavad Gita, in cui la guerra, la separazione dei fratelli dagli altri fratelli si coniuga paradossalmente in abbraccio mortale, la lotta diventa l’unico strumento che l’animale uomo ha per conoscersi. La marea dei dispersi che inondano il mare e le spiagge del sud Europa ci dice che la dispersione e la dispa-rizione etnica è l’affaire du siècle, come l’affaire Dreyfus, fu l’emersione scandalosa dell’odio razziale. E’ l’emergenza del secolo, come la fu la prima e seconda guerra mondia-le con la distruzione dell’Europa. Le prossime generazioni dovranno avere la forza e l’intelligenza di prendere tutti i frammenti e leggerne l’antica memoria: il senso concreto e astratto del destino umano, come il suo proprio genoma. I tempi storici e la grammatica dei tempi storici non sono altro che questo, la sua apocalitticità. Nel gesto amorevole di una

ne’, ma che non dice interamente tutto il senso di quella che è una amorosa cura dei mortali, la sollecitudine verso l’altro, anche se questa esperienza di ‘altro’ è un oggetto. In qualche modo forse è meglio così perché l’intento è ancora più chiaro. Le città ad esempio sono esattamente la dimensione dell’Infranto, della tazza che si è rotta, in mille pezzi; in ogni singolo frammento c’è una testimonianza di quale sia la dimensione di ciò di cui parliamo: la gemeinshaft, la gemeinwesen, la comunità dei luoghi e delle esperienze che preinclu-dono allo stato della grazia, della gratuità cioè e del dono. Nell’impianto delle città antiche, arabe in Italia, in Sicilia in parti-colare, il darbo, il disegno che consente il mescolarsi di vicoli e piazzette una dentro l’altra, mantiene in cura isolandole ma te-nendole unite insieme, le case in modo da consentire una topografia agile, rispettosa delle distanze e delle distanze uniformi e difformi dalle piazzette e dagli giardini. Tiene insieme, le contiene, le differenze e le simmetrie, le similitudini e le asimme-trie in un ordine tutto suo, in modo lineare e discontinuo, dove la mappa e il territorio si omologano intersecandosi l’una sull’al-tro, l’una dentro l’altro. Un’arte di cucire insieme l’abitato dentro la comunità reale, senza offendere la casa minore da quella maggiore, coniugandole entrambe in un unico tessuto. Dunque bisogna riferirsi alla tessitura e al canovaccio per intende-re cosa sia la volontà di tenere insieme i luoghi nella comunità e la comunità dentro i luoghi. Il prin-cipio di ‘località’ qui significa mettere insieme le differen-ze, le identità, i nomi, le culture, creare un non luogo per una molteplice identità collettiva. La più alta testimonianza della comunità infranta è stato il moltiplicarsi invece delle pratiche del genocidio razziale, con la configurazione di stati concentrazionari, di vere e proprie delocalizzazioni e ghetti che non favoriscono la ricostruzione comunitaria, ma volon-tariamente la separano, la frantumano nelle periferie urba-ne, separate dal centro storico e dalle ulteriori separazioni di classe, segnate così dal dominio della ‘marca denaro’, dalla definizione censitoria delle persone. L’epistemologia della Shoah ci rende conto di quanta violenza distruttiva ci sia nella pianificazione e realizzazione dello sterminio, quale ni-chilazione di specie e di genere deve essere messa in campo come distruzione totale dell’altro. L’esperienza della ‘ricu-citura,’ che è l’altra faccia dell’Infranto, è la ‘riparazione’, la ricollocazione del distrutto in un ambito ricostruito, come l’Angelus Novus nel dipinto di P. Klee, l’angelo strano, che nella distruzione della storia, delle macerie della civiltà e della storia, deve in qualche modo prendere la macerie, i

Paul Klee - Angelus Novus

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A. Magnaghi. Il progetto locale. Bollati Boringhieri. To-rino

Bereshit Rabbà. Commento al Genesi. UtetD. Florentino García Martínez, The Dead Sea Scrolls

Translated, Leiden-Grand Rapids, Brill-EerdmansG. Buchner e Carlo F. Russo. La Coppa di Nestore e un’i-

scrizione metrica da Phitecusa dell’VIII secolo a.C., Acca-demia Nazionale dei Lincei: Rendiconti, vol. 10, Roma 1955

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SaggiatoreG. Busi. Tiqqun. Ornamento, Riparazione in ‘Simboli del

pensiero ebraico’. Einaudi Jean Améry. Il risentimento come morale. Franco AngeliR. Pannikar. Introduzione ai Veda. RizzoliKuKi Suzo. La struttura dell’Iki. Adelphi Atti degli Apostoli. In’ Nuovo Testamento’R. Calasso. L’Ardore. AdelphiW. Benjamin. Angelus Novus. EinaudiE. Lévinas. Totalità e infinito. Jaca BookM. Foucault. La cura di sé. FeltrinelliJ. Lacan. Scritti. - a cura di Giacomo Contri. EinaudiM.Granet-M.Mauss. Il linguaggio dei sentimenti. Adelphi. Melita Richter Malabotta. L’esperienza dell’esilio nelle

opere delle scrittrici della ex- Jugoslavia; in DEP, rivista te-lematica di studi sulla memoria femminile

R. Milani. I volti della grazia. Il MulinoE. Guidoni. La componente urbanistica islamica nella

formazione delle città italiane. In ‘Gli Arabi in Italia’. UtetL. Bonesio. Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geo-

filosofia. Arianna EditriceA.N. Kolmogorov. Concetti fondamentali del Calco-

lo delle Probabilità (Grundbegriffe der Wahrscheinli-chkeitsrechnung) 1933

mano che prende una tazza e la ripara con oro (kintsugi) o un tessuto che viene ricucito per chiudere una ferita aperta (la sapienza medica), c’è questo senso contrario all’inten-zione del male. Questa pratica e questo gesto è esattamente il gesto e la pratica dell’Angelo Nuovo, dell’angelo che va al contrario del male in direzione del bene; che nonostante tutto pone la mano, la testa e il cuore in questo inizio riparatore, il suo tiqqun ‘olam, quasi che fosse l’inizio di quello che Freud definì come analisi e cura interminabile. Come in quel linguaggio inventato dal bambino e che nasconde nel gioco del rocchetto, del suo indicativo ‘Fort/Da’, che compare e scompare, che viene allontanato e poi ripreso dal bambino (nell’analisi freudiana, dinamica poi superbamente descritta nei successivi seminari di Lacan), quel Fort/Da che nascon-de tutta la richiesta sottaciuta, sommessa, che la ferita venga riparata. Nel desiderio infinito di amore, di non abbandono e cura dell’altro, è la definizione dell’uomo come essere po-litico, come essere che coniuga, nella pazienza dell’altro, il prossimo avvenire di se stesso, anche ‘egli’ oggetto (il suo ‘Ille’) della medesima cura.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

R. Tagliaferri. La tazza rotta. Ed. Il Messaggero J. Hillman. L’anima dei luoghi. RizzoliC. Sini. La scrittura e il debito: conflitto tra culture e an-

tropologia. Jaca BookC. Sini. La materia delle cose: filosofia e scienza dei ma-

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J. Derrida. Cosmopoliti di tutto il mondo, ancora uno sfor-zo! Feltrinelli

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national, European and international debates on the deve-lopment of higher educational systems.

So, who will be the main users of university education in the near future? What factors will influence the supply and demand of graduates? Will the tri-level (undergraduate, post-graduate, doctorate) become the general model or will regional or group differences reign? Like universities will they cooperate more and more with outside partners in re-search and teaching? If not, how will they compete for their own independence? How will higher educational systems contribute to societal progress? In the ever more internatio-nalized world what will it mean to be a citizen; how will that

Universities as Local Development Agencies in the Ambit of the Internationalization of Higher Education IDA CASTIGLIONI1, ALBERTO GIASANTI2, CRISTINA MESSA3

1 Assistant professor, University of Milano-Bicocca (Italy); President of Intercultural Development Research Institute Europa2 Full professor, University of Milano-Bicocca (Italy)3 Rector, University of Milano-Bicocca (italy)

One of the possible lines of action for the internationali-zation of universities is that of international co-operation for development. This definition generally implies a concept of aid to the so-called third countries: the thesis here suppor-ted is that co-operation for development should have criteria of reciprocity, made possible above all through exchanges. International institutions promoting exchange programs tend not to foresee an attention to the dimensions of potential change within people and organizations which happens as a result of contact. The intercultural dimension of exchange and co-operation is, in our vision, a key to the internationali-zation process: it is necessary to stabilize, through adequate reflection, all the practice of change in order to open the tra-ditionally closed systems of higher education.

INTRODUCTION

We have written [Castiglioni, Giasanti, 2010, 2012] that the interdependent relationship among research and education, freedom of teaching and autonomy in academic governance

are been the guidelines of the European university model [Humbolt 1810]. They have allowed for significant progress in the production of new forms of knowledge and the rise in social well-being. In this time of neo-conservative public po-licy, this model appears to be questioned in favor of models that merge the development of knowledge with short-term economic interests. Market logic fragments the university mission; universities respond to the growing demand for higher education by creating short degree programs and by regarding students as consumers [Boulton, Lucas 2008]. At the same time, individual universities’ autonomy is being questioned through a focus on hierarchies and centralized decision-making. Thus higher education will function less as a public social project in the mid- and long-term.

These are issues that refer to a series of questions that fuel

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The ever-expanding culture of assistance has become more exclusionary and impedes recipient individuals and commu-nities from taking on active and reciprocal roles using their own resources and capacities. Since the ‘90s, however, (at the international conferences in Rio de Janeiro on the envi-ronment, in Vienna on human rights, in Cairo on population, in Beijing on gender, in Istanbul on habitat, in Rome on food and in Copenhagen on social development) international co-operation has tried to confront important topics like poverty, unemployment and social marginalization with the goal of signaling ways to make development more fair and humane.

Still, it is obvious that development results from a com-plex material process involving different social agents and that marginalization is a logical consequence of the means of production in certain societies and times in history. It is thus insufficient to add adjectives to the term ‘development’ ‘like sustainable, local, community, participatory, integrated, last-ing, alternative, etc. – to contrast the competitive logic that sustains the still primary idea of development as continual economic growth. It is necessary to build or reconstruct a critical culture that is able to question the very content of development and that can strive to create a society based on quality of life rather than quantity, on cooperation rather than competition, on reduction rather than accumulation and lim-itless consumption [Latouche 2007].

If cooperation is in crisis, it is because still today it is based on ideologies and intervention capitalistic models that come from the end of World War II, which are inadequate today from a social and ethical point of view. From an ethical point of view, more than half a century of experience has shown that cooperation is still unevenly weighed in favor of donor countries and functions toward their economic and ideologi-cal hegemony. This contributes to the widening gap between rich and poor rather than reducing it. From a social point of view, the application of a Western model of cooperation shows exclusionary strategies of competition [Carrino 2005] in which some fight for dominance over others in an inter-national context of dramatic change in power relationships between no longer hegemonic countries and emerging ones.

Given this, how can we open up a space of critical compar-ison on ideas and practices of change in which cooperation can take on the role of a research laboratory? A concrete possibility lies in taking the local community as an example. The local community is made up of a strong synergy among a region, a population and a government that represents it. It is the level of organization best placed to strive for a better quality of life and to respond meaningfully to the collective needs of the population. The local community seems to be the de-centered cooperation model of the future since it fa-vors people’s direct and active participation in decision mak-ing through suitable local politics.

Furthermore, a critical approach must totally abandon the still wide-spread idea and practice that cooperation happens between donor and recipient countries and should be based on a nexus among regions, partnerships and constructive re-lationships between different cultural agents who acknowl-

category be defined?In the paper we will address only some of these important

issues and, perhaps, mainly whether by becoming a citizen itself, universities have abdicated their roles of developer of citizenry. It is possible that through more committed proces-ses of internationalization they will also be able to regain their original educational purpose of creating citizens.

It is important to emphasize how universities’ progressi-vely rising number of tasks makes them increasingly impor-tant as agents for local development [European Commission 2003].Therefore the university is measured not only on the basis of quality of knowledge and human capital, but also on the level of embedded social capital within a certain re-gion. Value is added in those contexts where suitable skills resulting from constant investment in university education and professional qualification are useful. The university must offer more and more spaces in which people (even those from abroad, and quite far away) can come together, ask questions, make demands and offer experiences. These social and professional practices pass through the university arena and return to their origins enriched by the exchange of new perspectives. These ideas that come from places of action and dynamic collectivity outside, stimulate the insi-de through continuous co-mingling with critical practice and knowledge that foster change with a view toward action re-search. Thus the university becomes a meeting ground for theories and practices that produce knowledge by placing different forms of understanding in dialog with each other and build connections while maintaining difference.

This is a vision of the university as a critical conscience of society that, perhaps, even requires a rethinking of the role of professors as intellectuals and generators of doubt rath-er than certainty [Treves 2009; Giasanti, 2009], who base themselves on scientific knowledge that by nature is open to change and thus relative and provisional.

DEVELOPMENT AND COOPERATION

If one were to measure the relative good and bad polit-ical practices of development and the effects international cooperation has induced at the end of the century, the sum would certainly be negative. The gap between rich and poor has widened and the prevalent economic concept of devel-opment still focuses on social, cultural and environmental aspects. One of the principal issues of cooperation is the very ambiguity of the concept of development, which in the most prevalent interpretations, seems to have little to do with the quality of life of communities, the needs of populations or regional resources.

In the years following World War II development became synonymous with growth and economic wealth, and coop-eration came to mean technical aid from ‘Northern’ coun-tries (the so-called donor countries) toward countries in the ‘South’ of the world (so-called receiver countries).This has brought about a perverse relationship between donor and re-cipient countries.

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reports, rarely in academic literature. Activating resources for the systemization of information and inputs would cre-ate nomothetic data that could make experiences compara-ble and interventions transferable. Transferability of theories and practices is a topic that has in fact not received enough attention in the co-operation literature. After the demises of several aid projects from the Sixties on, there has been an awareness of the inadequacy of the transfer of technology from richer to poorer countries, but there is still little aware-ness that behaviors and practices can also not be transferred from one cultural context to another, unless they are repro-cessed and revisioned with a different cultural framework. Not only a project should be seen through the eyes of the so called recipient, but also through a perspective which takes into account the interaction between this subject and an out-sider (once donor) in a dynamic of exchange. This implies an intercultural competence which is often a neglected subject in many professional trainings for co-operation. At best, stu-dents are prepared to deal with their own emotional changes which might occur when shifting cultural context, but not enough is being done to stress the importance of recognizing differences, accepting them for what they are, work through and with them in order to construe a mutual achievable goal and prepare a setting for reciprocal learning between stake-holders.

There is space for the training and qualification in this re-gard of both students, faculties and staff of higher education institutions that are dealing with decentered co-operation. Most of the exchange programs between universities have the underlying philosophy that is the contact itself between peo-ple and organization to promote the recognition and appreci-ation of differences, stretching to the ability to work together as partners or team members. Research shows that contact with cultural differences without preparation is bound to re-inforce stereotypes and divisions [Pettigrew,1997;Stephan, 1985]; nevertheless very little has been done to compensate this deficiency in exchange programs, which are, at present, the core of many efforts for internationalizing universities.

We propose here the creation of a model of a transnation-al and intercultural network of universities in which this concept can be implemented. The Transnational and inter-cultural network of universities (TINU) should involve: 1) local communities where they are based and/or communities where development projects have been set; 2) researchers both from academic settings and from agencies operating in a territory; 3) students, possibly from different contexts and/or countries; 4) faculties and staff of universities and differ-ent organizations. The idea is to have an interconnected pro-cess of learning among these subjects which all would share a platform of common language about the recognition of dif-ferences and of their potential, about the ability to process intercultural ethical issues and about the capacity of trans-ferability. This would create a communal competence that would allow the network to operate at a level of technical and humanistic performance that would support the creation of new models of respectful interventions and creative mod-

edge each other through the work of co-operation. A famous example of direct democracy is the Brazilian “participatory budget” experience in Porto Alegre. This was a grass-roots assembly of citizens’ groups, neighborhood groups, grass-roots committees, etc. in which the local population decid-ed where and how to dedicate community funds to improve quality of life. The goals of this grass-roots participation are to fairly distribute resources and to build a regional reg-ulatory panel compatible with the demands and needs of the local population Building these local societies’ fair networks can be defined as a bottom-up co-operation, which is also a world strategic network. This project, through the partici-pation of Local Social Forums and Local Governments, has started building this new form of co-operation [The New Municipium, 2003].

Taking the region as a system implies considering it as a seat of continuously transforming integration processes be-tween nature and culture, and as a place of exchange among different communities. Such a practice requires an intercul-tural approach that acknowledges these differences and can put their synergy and complementarity to good use. This can only happen of we restore the etymological meaning of the word co-operation, to operate jointly understanding that mu-tual aid allows for a better solution to local problems. Fur-thermore, local regions can make important contributions by opposing issues that derive from current global development such as [Carrino 2005]: excessive urbanization, the phenom-enon of social disintegration; regional vulnerability, margin-alization of weak areas, the consequences of conflicts, etc.

Therefore, the goal of a de-centered co-operation process is to construct a complex exchange network among local com-munities. These exchanges, understood as laboratories of action-research, allow comparisons of culture and different experiences as well as trials of possible alternative solutions through intercultural projects that stimulate positive change.

UNIVERSITY AS CO-OPERATION AGENT

It seems urgent to revise the notion of the current culture of co-operation as an uneven balance between haves and haves not. The contribution universities can bring to this discussion is an important one; even more so if they become part of this “new culture” of co-operation. Their role should remain one of training and research on the one hand, but also one of sys-tematizing various inputs coming from social actors on the field, both locally and internationally. For instance, collect-ing anecdotal information from local communities in their interaction with co - operation agents and reframe them into more theoretical coherent perspectives would be an import-ant task that would support a different direction in working with developing contexts: it would mean a more accurate and perhaps replicable intervention. More so, it would support a logic of reciprocity and exchange. In a perspective of eco-nomical de-growth, there is much more to learn about, say, recycling and self-sustainament from countries like Cuba than from the United States, but one can find this in project

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alization that can foster, at least in this domain of studies, a true ethnorelative mindset. It is through an ethnorelative per-spective that the idea of partnership can assume the meaning it was evoked for, in the sharing of goals and the creation of third cultures [Bennett, 2004; Castiglioni,2009] which en-compass values, behaviors, comunication styles and cogni-tive styles of the actors. Internationalization therefore is seen here not as a way to make our universities a more cosmopoli-tan place seasoned with some political correctness and a few courses taught in a different language, but as a way to prepare new citizens for an enlarged world. A world which demands more responsibility not only for a sustainable physical envi-ronment, but also for a more sustainable social environment in which intercultural competence becomes a central piece of people’s education to guarantee autonomy of development and mutual learning.

CONCLUSIONS

The Doctoral Program in Sustainable Human Develop-ment appears to be the realization of the Transnational and intercultural network of universities (TINU). It aims to pro-vide an overview of the challenges that any professional, acting as an agent of change, should know to face an inter-connected world in rapid transformation, both in the formu-lation of policies for sustainable human development and in their management at local, national and global levels. The Program also seeks to fill a gap in the international literature related to innovative and intercultural aspects of aid, interna-tional partnership, and local development.

The International Doctoral Program in Sustainable Human Development (SHD) is an agreement between Universities of four Countries (Argentina, Cuba, Italy, Nicaragua), and other organizations such as research institutes, Municipali-ties, NGOs, and commercial partners in their function of cor-porate social responsibility.

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possono riscontrare anche nei rischi che evidenzia, general-mente avvertiti dal pubblico come lontani e nella difficoltà di comunicare alcuni temi astratti. Inoltre la comunicazione sociale punta a sollecitare il senso di responsabilità collet-tivo, diminuendo di molto quello personale. A differenza della comunicazione commerciale, che dispone di risorse economiche elevate, quella sociale non è sempre in grado di valutare pienamente l’efficacia dell’azione comunicativa e quindi correggere rapidamente le proprie forme espressive per ottenere i risultati desiderati.

In genere la comunicazione sociale impiega un approccio “razionale” quando intende informare, “emozionale” per ge-nerare diversi stati emotivi e “morale” per alimentare il senso di giustizia. Ugo Volli sostiene che le forme della pubblicità sociale ricalcano in larga misura quelle più consolidate della pubblicità commerciale e ricorrono a due estremi linguistici: il “terrorismo” quando drammatizza il fenomeno e “l’eufe-mismo”, quando lo sdrammatizza, tra questi due estremi si possono considerare diverse possibilità per stimolare emo-tivamente il destinatario del messaggio. In particolare Gio-vanna Gadotti e Roberto Bernocchi ne hanno identificate otto: “drammatico”, “aggressivo”, “rassicurante”, “ironico”, “responsabile”, “provocatorio”, “informativo” (Gadotti & Bernocchi, 2010, pp. 129-176), generalmente predisposte, secondo obiettivi specifici, per un target di riferimento. Ap-pare, però, difficile segmentare il target e individuare un les-sico idoneo a coinvolgere sia quelli “caldi”, già sensibili a una problematica, sia target “freddi”, del tutto indifferenti a essa. I linguaggi visivi impiegati nella pubblicità sociale si configurano, quindi, elementi centrali in grado di determina-re il successo o l’insuccesso della campagna. In alcuni casi, la comunicazione sociale, nel tentativo di stimolare azioni e comportamenti “che non rispondono ai bisogni concre-ti e materiali ma, al contrario, richiedono uno sforzo o un impegno in prima persona” (Gadotti & Bernocchi, 2010, p. 165), adotta delle retoriche scontate, i cui lessici sembrano confinati in formule visive e verbali prive degli effetti con-

Le retoriche del design visivo per la comunicazione socialeFEDERICO O. OPPEDISANOScuola di Architettura e Design “E. Vittoria”- Università di Camerino

Negli ultimi anni diverse campagne di comunicazione so-ciale, sperimentando singolari registri narrativi, nuovi lin-guaggi e modalità, si sono impegnate a superare le retoriche convenzionali, che, in alcuni casi, non si dimostrano del tutto adatte a sensibilizzare l’opinione pubblica verso problemati-che di comune interesse. In questo quadro l’articolo intende illustrare il design visivo di varie campagne internazionali che raccontano, attraverso particolari metafore visive, il de-licato tema della violenza all’infanzia e, a livello nazionale, quelle di Pubblicità Progresso che affrontano gli aspetti della discriminazione sociale, adottano pratiche e strategie comu-nicative non convenzionali e statuti visivi legati alla contem-poraneità.

Intorno alla definizione di comunicazione sociale il dibattito appare ampio e articolato. In linea di massima si può affermare che la comunicazione sociale è uno strumento di conoscenza, un’attività impiegata da soggetti pubblici e privati, come or-

ganizzazioni non profit, pubblica amministrazione e impre-se, per promuovere d’idee, valori e a partecipare attivamente alla risoluzione di problematiche collettive. In sostanza l’o-biettivo della comunicazione sociale è quello di informare, sensibilizzare, educare il pubblico, per alimentare il progres-so civile e la qualità della vita degli individui, con processi di persuasione democratica condivisi dalla comunità.

Le azioni della comunicazione sociale si concretizzano at-traverso il sistema pubblicitario, che risulta, come afferma-no Francesca R. Puggelli e Rossella Sorbero, uno dei modi “insieme a relazioni pubbliche, direct marketing, eventi ecc., per sensibilizzare gli individui nei confronti di una tematica o promuovere atteggiamenti solidali” (Puggelli & Sorbero, 2010, p. 15).

I limiti della comunicazione sociale sono rintracciabili nei risultati non immediatamente visibili, nella promozione di benefici collettivi e non individuali, che si realizzano a medio o lungo termine e quindi difficili da percepire. Limiti che si

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perché ancora l’argomento non è opportunamente trattato e rimane avvolto da una sorta di omertà. L’opinione pubblica appare, afferma Alice Miller “ancora ben lontana dall’aver consapevolezza che tutto ciò che capita al bambino nei suoi primi anni di vita si ripercuote inevitabilmente sull’intera so-cietà” (Miller, 2007, p. VIII). Anche se negli ultimi anni il fenomeno dell’abuso sessuale verso i bambini ha trovato al-cuni canali di divulgazione, le forme della comunicazione, in particolare in Italia, sembrano ancora paralizzate in un timi-do stadio di denuncia e lontane dallo specificare, circostanze e ragioni del problema. Queste inibizioni appaiono la chiara espressione della difficoltà a scardinare le resistenze di vari organismi nei quali è rintracciabile il fenomeno. Infatti, dal rapporto dell’ONU rivolto al tema dell’abuso all’infanzia1

risulta che le forme di violenza sui bambini si mimetizzano proprio in quelle strutture deputate a tutelare, educare e pro-teggere, come la famiglia, la scuola, organi di accoglienza, riformatori, contesti di lavoro minorile e comunità locali.

Tornando agli esempi in questione, l’abuso e la violenza ai minori sono raccontati in queste campagne da immagini dal forte statuto espressivo, che si propongono d’indirizzare il pubblico “verso una lettura emotiva e non razionale del mes-saggio” (Rullo, 2013, p. 92). In sostanza emerge l’impiego della figura retorica della metafora, che si realizza coniugan-do cause ed effetti di abusi e violenze con oggetti, figure, ico-ne e situazioni del mondo infantile. I giocattoli, ad esempio, “strumenti” che impiegano i bambini per costruire il proprio mondo (Gentile, 1924, p. 33), diventano il simulacro di una realtà drammatica. Alcuni esempi sono forniti dalle imma-gini di Prevent child abuse campaign (U.S.A., 2010, fig. 1), dove i giocattoli rappresentano i testimoni della violenza che rifiutano di osservare l’orrore dell’abuso sessuale, mentre in If you don’t fight child abuse, who will? Please make a con-tribution at www.unicef.org/southafrica (Sud Africa, 2010, fig. 2), figurano come i leali compagni del bambino, pronti a respingere la brutalità che si sta per compiere nel cuore della notte.

Il corpo infantile diventa simulacro di dolore e sofferenze nella campagna Anal sex (Thailandia, 2008, fig. 3), dove un bambino è marchiato a fuoco con le figure degli atti sessuali subiti, per sottolineare che questi rimarranno per lui indele-bili. Altrettanto dure e inquietanti sono le figurazioni della campagna Porcelain boy e Porcelain girl (Polonia, 2009, fig. 4) in cui i corpi delle piccole vittime sono frantumati come vasi di porcellana, per simboleggiare la fragilità fisica e psi-cologica del bambino e le difficoltà per ricostruirne l’identità e l’equilibrio.

Prevention of child sexual abuse. Classroom (Nord Co-

1 Il documento dell’ONU è disponibile al seguente indirizzo: http://www.unicef.it/doc/2780/pubblicazioni/rapporto-onu-sulla-violenza-sui-bambini.htm. [ultimo accesso: 10 settembre 2016]. Si ricorda che un primo segnale contro i crimini a sfondo sessuale perpetuati da diversi sacerdoti, in particolare quelli statunitensi, è rappresentato dallo studio, del 2004, denominato Jay Report, nel quale sono state convalidate 6700 accuse delle 10.667 presentate, di cui soltanto il 6% sono arrivate ad una condanna e il 2% a quella definitiva (circa 100 accusati).

creti che si prefiggono di raggiungere, capaci, piuttosto, di provocare allontanamento e disinteresse rispetto alla temati-ca trattata. Ad esempio alcune campagne contro la fame nel mondo o l’abuso di sostanze stupefacenti, per coinvolgere il pubblico estremizzano l’attenzione verso i bisognosi e le loro sofferenze, generando un interesse che, in molti casi, sfuma rapidamente, trasformandosi in indifferenza. In sostanza la comunicazione sociale non presenta una qualità estetica e seduttiva paragonabile a quella commerciale. I toni severi, colpevolizzanti, ricattatori, minacciosi, moralistici o pateti-ci non si dimostrano sempre efficaci nel modificare modelli comportamentali e iniziano a essere sostituiti con altri, posi-tivi e ironici, che fanno leva anche sullo humor per affrontare temi particolarmente complessi. Inoltre, molti ritengono che il messaggio della pubblicità sociale sia opportuno declinar-lo in espressioni positive, per offrire al destinatario una “via d’uscita”, piuttosto di amplificare la dimensione drammatica del fenomeno (Gadotti & Bernocchi, 2010, p. 164).

Tra gli esempi innovativi dei linguaggi della comunicazio-ne sociale risultano di particolare interesse quelli impegnati a restituire in forma visiva gli aspetti delle brutalità verso i minori, attraverso figurazioni capaci di stimolare, più di esortazioni orali o scritte, riflessioni profonde sulle loro con-seguenze. Sono forme, definite dal design per la comunica-zione sociale per campagne di vari Paesi, che sperimentano nuovi lessici e nuove modalità, connotate da singolari regi-stri narrativi, differenziati secondo le declinazioni che può assumere la violenza e condizionati dalla cultura nella quale questa è praticata.

La violenza all’infanzia è un problema ancora sommerso nonostante sia un dramma diffuso in tutto il mondo, che in-veste trasversalmente vari modelli culturali e diverse classi sociali. Il fenomeno, nell’immaginario collettivo provoca sdegno e riprovazione, ma se questo genere di violenza attiva un turbamento immediato e condiviso, è necessario chiedersi

Fig. 1 | Prevent child abuse campaign, by Bowen Ross Photo for Chicago Children’s Advocacy Center, U.S.A., 2010.

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scheramento dei maltrattamenti subiti dal genitore.Particolarmente interessanti sono quelle immagini nelle

quali lo sguardo è invitato a una lettura attenta per ricompor-re le tracce dell’abuso o della violenza. È il caso di Sexual Abuse (Austria, 2011, fig. 8), in cui la “casetta dei giochi” prende la forma di una di “casa di tolleranza”.

Anche il contrasto emotivo che si genera osservando azio-ni moleste in scenari fiabeschi si presta a descrivere maltrat-tamenti, oppressioni e brutalità, come in Fight against child

rea, 2007, fig. 5), presenta un’altra metafora visiva, quella di associare il corpo dei bambini ai giochi erotici. Una me-tafora che focalizza l’attenzione sul senso d’inconsapevolez-za del minore violato e la sua duplice identità di giocattolo erotico e di bambino. In Abuse kills childhood. Toy Story (Arabia Saudita, 2008, fig. 6), la stanza del bambino è tra-sformata in “scena del delitto”. Mentre in Parents, who beat their children, are trying to hide it (Polonia, 2007, fig. 7) la cosmesi del volto del bambino in costume, si rivela il ma-

Fig. 3 | Anal sex, by Creative Juice\g1 for Child Protection Foundation of Thailand, Thailand, 2008.

Fig. 5 | Prevention of child sexual abuse. Classroom, by McCann Erickson for Sunflower Children’s Centre, North Korea, 2007.

Fig. 7 | Parents, who beat their children, are trying to hide it, by DDB Warsaw for Fundacja Dzieci Niczyje, Polonia, 2007.

Fig. 2 | If you don’t fight child abuse, who will? Please make a contribution at www.unicef.org/southafrica, by Y&R Johannesburg for Unicef, South Africa, 2010.

Fig. 4 | Porcelain boy, by DDB Warsaw for Fundacja Dzieci Niczyje, Po-land, 2009.

Fig. 6 | Abuse kills childhood. Toy Story, by JWT Riyadh for Tanmiyat, Saudi Arabia, 2008.

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mentre il padre abusa della figlia.Tra i vari aspetti che caratterizzano la violenza ai minori

quello dell’abuso online e dell’adescamento nel web sono problemi di notevole entità. Nella rete si possono configurare spazi, difficilmente controllabili per scambi di materiale pe-dopornografico, organizzazione di viaggi a sfondo sessuale e forme di prostituzione minorile. Inoltre la rete ha favorito la comunicazione tra pedofili alimentandone il senso identitario e, in alcuni casi, anche la rivendicazione pubblica delle pro-prie personalità malate2. Il mimetismo, ad esempio, costitui-sce una forma largamente impiegata dagli adescatori, che in rete, assumono false identità per riuscire a entrare in contatto con minori per irretirli, camuffandosi da loro coetanei. Per sollecitare l’attenzione dei genitori verso il controllo delle attività dei figli durante la navigazione in rete, la campagna Children of the street society (Canada, 2010, fig. 14) mostra agenti di polizia con maschere di bambino, sottolineando an-che la preziosa attività di controllo che gli organi dello Stato compiono a prevenzione degli adescamenti nel web. Mentre la campagna Pedophiles hide the truth. Help us find it (Cile, 2009, fig. 15), visualizzando semplicemente dell’estendersi

2 Ad esempio “La giornata dell’orgoglio pedofilo” o “Giornata di Ali-ce”, promossa e organizzata dalla NAMBLA (North American Man-Boy Amore Association).

abuse, tooth (Sud Africa, 2004, fig. 9), dove il numero dei “dentini” svela la durezza delle percosse subite da un bambi-no per mano di un adulto.

Nella campagna Words Hurt Too. Any kind of violence against children is a crime (Brasile, 2009, fig. 10), insulti e ingiurie scritte figurano sui volti di bambini come ematomi e sanguinamenti, per sottolineare che la violenza verbale assu-me i medesimi connotati di quella fisica.

Un altro aspetto, trattato da diverse campagne, riguarda la condizione silenziosa nella quale è vissuto l’abuso. Il dram-ma del silenzio, condizionato dal senso di vergogna e di fru-strazione, inibisce il delicato stato psicologico del minore, consentendo all’abusatore di perpetuare nel tempo la sua azione devastante. Questo problema è sottolineato in Abuse need a voice (U.S.A., 2005, fig. 11) e da No Identity (Regno Unito, 2008, fig. 12), qui i tratti somatici dei bambini sono assenti, per denunciare l’elevato rischio di annullamento dell’identità infantile dovuto a maltrattamenti e abusi.

Al fenomeno del silenzio si connette quello dell’omertà, che si manifesta soprattutto quando l’abuso è consumato in ambito domestico. In molti casi a rendersi complici del-la violenza e del suo perpetuarsi sono gli stessi membri del nucleo familiare. Questo è il tema di Pretend not to see it, then you are the conspirator (Thailandia, 2006, fig. 13), che mostra una madre mimetizzata tra l’arredo della casa,

Fig. 9 | Fight against child abuse, tooth by Lowe Bull for CWSA, South Africa, 2004.

Fig. 11 | Abuse need a voice, by Use Your Voice Campaign and The Purple Ribbon Campaign, U.S.A, 2005.

Fig. 8 | Sexual Abuse, by PKP BBDO for Die Mowe Child Protection, Austria, 2011.

Fig. 10 | Words Hurt Too. Any kind of violence against children is a crime by Loducca, Brazil, 2009.

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Il bambino abusato con molte probabilità da adulto si tra-sformerà in abusatore, reiterando i medesimi atti di violen-za subiti. Il cosiddetto “Ciclo della violenza” è il tema della campagna Bedroom Circle. 70% of abused children turn into abusive adults (Messico, 2012, fig. 17), che racconta, in sintesi, gli stati evolutivi della trasformazione del bambino violato in adulto carnefice.

Pregnanti e dai singolari registri linguistici sono le campa-gne che utilizzano forme di comunicazione non convenzio-nali, nate per catalizzare l’attenzione del pubblico attraverso

delle cartelle di un sistema operativo, racconta come il pedo-filo nasconde e organizza il materiale osceno.

Particolarmente efficaci sono quelle campagne che impie-gano i disegni bambini abusati. Osservando il disegno della campagna Sexual abuse of children is usually By someone they know (India, 2007, fig. 16) appaiono le connotazioni ses-suali di un personaggio, connotazioni generalmente omesse nei disegni infantili. È un’immagine che racconta soprattutto l’ingenuità nella quale l’abuso è vissuto e il plagio messo in atto dall’abusatore nei confronti del bambino.

Fig. 13 | Pretend not to see it, then you are the conspirator by Agency Tonga Workroom for Child Protection Foundation of Thailand, Thailand, 2006.

Fig. 12 | No Identity, by Saatchi & Saatchi for NSPCC, United Kingdom, 2008.

Fig. 14 | Children of the street society, by Rethink for Predator Watch - Children of the street, Canada, 2010.

Fig. 15 | Pedophiles hide the truth. Help us find it, by Ogilvy & Mather for Unicef, Chile, 2009.

Fig. 16 | Sexual abuse of children is usually by someone they know, by Grey Worldwide for Stolen Childhood, India, 2007.

Fig. 17 | Bedroom Circle. 70% of abused children turn into abusive adults, by Y&R for Save the Children, Mexico, 2012.

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nomeni sono impiegati toni accusatori, rivolti direttamente al pubblico, oppure, in A difesa dei disabili (1977)6, toni “com-passionevoli”, che oggi possono apparire inadeguati e para-dossali per favorire l’integrazione dei disabili nelle scuole (figg. 19, 20, 21).

Oggi Pubblicità Progresso sembra aver rinnovato il suo registro linguistico, realizzando campagne con l’impiego di particolari metafore e forme di comunicazione non conven-zionali. Ad esempio la campagna Punto su di te (2014)7, che intende affrontare gli aspetti della discriminazione in diversi ambiti sociali, realizza una interessante integrazione tra lo spot e sistema di affissione. I manifesti presentano dei volti di donna e frasi che recitano: “Vorrei essere…”; “Al lavoro vorrei…”; “Dopo gli studi vorrei…”. Frasi lasciate incom-piute per sottolineare l’impossibilità delle donne di esprimer-si pienamente. Lo spot restituisce, attraverso le immagini di telecamere nascoste, le azioni vandaliche operate sulle frasi presenti nei manifesti, mostrando come, in pochi giorni, si-ano state completate con scritte e disegni volgari e discrimi-natori (figg. 22, 23, 24).

La particolarità di questa campagna è di impiegare delle immagini dal carattere “amatoriale”, realizzate, in genere, attraverso supporti digitali (webcam, smartphone, videoca-mere, sistemi di video sorveglianza, ecc.)” e codificate dal pubblico come genuine e autentiche. Queste immagini di vi-deo autoprodotti trovano spazio nella rete e in televisione, ad esempio nei notiziari per testimoniare l’autenticità della notizia, oppure in trasmissioni di natura ironica e in varietà.

Da questa breve analisi emerge che, nell’ambito della co-municazione sociale, il design può contribuire sia alla co-struzione di retoriche visive efficaci sia a fornire orientamen-ti per sviluppare nuovi modelli operativi in grado d’interve-nire, con il progetto, in vari contesti comunicativi.

Il design, in quanto disciplina trasversale capace di con-nettersi e operare con diversi ambiti del sapere, è chiamato, afferma Silvia Pizzocaro, a operare e prefigurare azioni per “migliorare la cognizione di una realtà complessa e di co-struire competenze e abilità capaci di fronteggiarla” (Pizzo-caro, in Bertola & Manzini, 2004, p. 67). Nella cultura del design si sta sviluppando la consapevolezza che la qualità della comunicazione può valorizzare beni, servizi, prodotti, promuovere un loro corretto impiego e modelli di vita più consapevoli per uno sviluppo sociale più equo. Inoltre oggi il progetto di comunicazione appare sempre più permeabile a variabili non controllabili di natura partecipativa, che ridu-cono la distanza tra progettista e fruitore.

In conclusione dall’analisi dei registri linguistici di que-ste campagne, che fuoriescono dalle retoriche tradizionali, risulta come i diversi obiettivi della comunicazione sociale: sensibilizzazione, raccolta fondi, educazione e prevenzione,

schede_mediateca/1973-difesa-del-verde/ [ultimo accesso: 10 settembre 2016].6 Il video è disponibile presso: http://www.pubblicitaprogresso.org/sche-de_mediateca/a-difesa-dei-disabili/ [ultimo accesso: 10 settembre 2016].7 Il video è disponibile presso: http://www.pubblicitaprogresso.org/sche-de_mediateca/punto-su-di-te-fase1 [ultimo accesso: 10 settembre 2016].

prassi e linguaggi visivi inconsueti, fuori dagli schemi or-dinari della comunicazione. Non si differenziano da quelle della comunicazione convenzionale soltanto per le insolite connotazioni ironiche e provocatorie, ma anche per le azioni, di solito articolate in diverse fasi, che si svolgono general-mente in luoghi pubblici. Un esempio interessante è la cam-pagna Stop child abuse now. Invisible (Australia, 2009, fig. 18), che, per denunciare l’invisibilità dei bambini violati, ha collocato, in un primo momento, su muri, impalcature e sa-racinesche corpi di manichini-bambini parzialmente celati da manifesti bianchi, che ne lasciano intravedere solo le gambe; nella fase successiva i corpi scompaiono, al loro posto, dietro le lacerazioni dei manifesti, appare la frase: “Thank you for seeing me”.

Questi esempi di campagne contro la violenza e l’abuso dell’infanzia adottano forme visuali aderenti ai lessici dei Paesi per le quali sono state ideate, presentando una com-ponente referenziale, legata, cioè, al dramma oggettivo che s’intende rappresentare, connessa all’apparato culturale del fruitore. In generale le immagini associano oggetti e situa-zioni a specifici significati, per dar luogo a delle metafore visive che, in alcuni casi, rimandano direttamente alla tipolo-gia di violenza o abuso, in altri spingono l’osservatore a rin-tracciarne i segni identificativi mimetizzati all’interno delle composizioni. Se osservate nel loro insieme, le immagini di queste campagne appaiono come un “vocabolario visivo” del precario stato emotivo e psicologico generato nei bambini da atti brutali. Sono figurazioni, che, oltre a denunciare il fe-nomeno, lo raccontano, offrendo all’osservatore l’occasione di riflettere sulle conseguenze drammatiche nello sviluppo psicologico dell’infanzia violata.

Infine, oltre questi esempi, in larga misura internaziona-li, si segnalano le innovazioni delle retoriche adottate da Pubblicità Progresso3, che ha subito profondi cambiamenti rispetto alle forme iniziali degli anni settanta. Ad esempio, nelle prime campagne C’è bisogno di sangue. Ora lo sai (1971)4 e in A difesa del verde (1972)5, per denunciare i fe-

3 Pubblicità Progresso è nata 1971. Per ulteriori informazioni: http://www.pubblicitaprogresso.org.4 Il video è disponibile presso: http://www.pubblicitaprogresso.org/sche-de_mediateca/ce-bisogno-di-sangue/ [ultimo accesso: 10 settembre 2016].5 Il video è disponibile presso: http://www.pubblicitaprogresso.org/

Fig. 18 | Stop child abuse now. Invisible, by JWT for Australian Childhood Foundation, Australia, 2009.

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Fig. 19 | Frame del video di Pubblicità Progresso per la campagna: C’è bisogno di sangue. Ora lo sai, 1971.

Fig. 21 | Frame del video di Pubblicità Progresso per la campagna: A fa-vore dei disabili, 1977.

Fig. 20 | Frame del video di Pubblicità Progresso per la campagna: A difesa del verde, 1972.

Fig. 22 | Frame del video di Pubblicità Progresso per la campagna: Punto su di te, 2014.

Fig. 23 | Frame del video di Pubblicità Progresso per la campagna: Punto su di te, 2014.

Fig. 24 | Frame del video di Pubblicità Progresso per la campagna: Punto su di te, 2014.

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Attesa e angoscia: Kafka, Beckett, Buzzati. La produzione letteraria a metà degli anni Cinquanta del Novecento ALESSANDRA PALISI

lo. D’altra parte, anche i “tecnici” dell’opposizione hanno presentato non poche ambiguità e ciò che era apparso come protesta e volontà di rinnovamento era in realtà più una fuga che una lotta, più un rifiuto disimpegnato che una concreta proposta alternativa.

Oggetto di tale saggio non è, dunque, rendere noti quegli intellettuali che, in realtà, non si sono posti lo scopo di ri-muovere tale ostacoli, ma di prendere in considerazione le più significative manifestazioni letterarie nelle quali vengo-no affrontati problemi e si sperimentano soluzioni.

LA CONDIZIONE ESISTENZIALE DELL’ATTESA

Uno dei primi scrittori a cimentarsi con l’alquanto pro-blematico tema dell’attesa è Franz Kafka, il quale traduce la condizione dell’uomo moderno come essere condannato, estraneo anche a se stesso, incapace di giustificare la vita, di

spiegarne gli enigmi, privo com’è di una presenza religiosa, quale Dio.

L’esistenza di quest’uomo di-venta, perciò. ineluttabilmente un “inferno”, una realtà terrificante sentita come effetto di una miste-riosa condanna fondamentalmente ingiusta perché non ne conosce la colpa. In questa situazione di vita, l’eroe-personaggio di Kafka, in un continuo sforzo agonistico, non cerca di tendere alla verità capace di illuminare e di giustificare la sua stessa esistenza. La sua azione si perde, perciò, in un’attesa ansiosa e sempre delusa della liberazione. Di qui l’allegoria della vita intesa come pena continua elevata a con-dizione universale.

A partire dagli anni 50’ del secolo scorso, si sviluppò in Europa quel tipo di società caratterizzata da una fase di capitalismo avanzato o, come si è soliti dire, di civiltà di massa le cui caratteristiche vanno dal

consumismo ai persuasori occulti, dalla omogeneità del gu-sto collettivo alla mercificazione di qualsiasi tipo di valore.

Il mercato dell’arte si allarga a dismisura, la richiesta dei beni culturali non si differenza da quella dei prodotti indu-striali poiché simboli anch’essi di promozione sociale prima ancora che di promozione culturale. Ciò comporta la ridu-zione del prodotto artistico a merce che segue le leggi del mercato. In tal senso, il prodotto artistico per essere fruibile deve essere gradevole, problematico, cioè omologo al siste-ma. L’artista, così, viene ridotto a semplice “produttore” di beni di consumo.

Di fronte alla negatività di certi prodotti culturali, scrittori ed artisti tentano la contestazione dei valori della società di massa, scegliendo o di rifiutare i canali offerti completamente dalla so-cietà di massa e crearne altri alter-nativi, oppure di sfruttare quei ca-nali per diffondere un “Materiale esplosivo”, situazioni, peraltro pericolose o, comunque, proble-matiche.

Da quanto detto, non posso che argomentare che all’intellettuale contemporaneo non sembra che si offrano quelle possibilità conces-se una volta. Certo, nessuno oggi può credere che poeti ed intellet-tuali possano cambiare il mondo. Troppi sono, infatti, i condiziona-menti che sono a loro di ostaco- Franz Kafka

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Dio, la Morte, il Nulla, il Perché della vita.

L’uomo ha a tal punto dilatato e deformato la realtà che questa non è più leggibile e decifrabile, nono-stante gli sforzi e gli impegni fatti in tal senso.

Nel campo letterario italiano, tra i migliori rappresentanti del-la narrativa “metafisica”, che si è soliti attribuire a Kafka, è Dino Buzzati.

Il suo mondo letterario è bilan-ciato, infatti, tra magia e realtà, tra favola e allegoria in una vasta tematica che abbraccia il tempo, il dolore, la solitudine dell’uomo oppresso da un terrore cosmico, l’ineluttabilità del destino umano,

l’inquietudine, l’attesa anche qui, forse, di Dio. In questa vi-sione, egli riscatta le ingiurie del tempo perché per l’autore oltre le sconfitte, le rinunzie, i dolori, la miseria, l’attesa, i dubbi, gli errori dovrebbero risplendere la speranza e il per-dono.

La concezione metafisica dell’attesa trova riscontro nel ro-manzo “Il deserto dei Tartari”.

Il protagonista, Giovanni Drogo, appena nominato ufficia-le, sale con il suo cavallo alla Fortezza Bastiani per compier-vi la sua “vigilia” d’armi e restarvi forse quattro mesi, forse quattro anni.

Alla fine, vi resterà, neppure lui sa come, tutta la vita.Centro del romanzo e suo motivo dominante è la stessa

Fortezza Bastiani, davanti alla quale, oltre i confini del regno si estende al Nord un deserto mai esplorato, dal quale sempre si aspetta e sempre si aspetterà di vedere un giorno l’esercito dell’ipotetico nemico: i Tartari.

Tutto appare descritto concretamente, ma è, nello stesso tempo, collocato fuori della geografia, della storia e della realtà: quella stessa fortezza è infine lo stesso mondo.

In questa Fortezza, tutto incomincia, anzi, deve incomin-ciare. Il tempo dei Tartari è passato: essi non sono più che una remota leggenda: è questo l’ultimo e desolato significato del racconto. E Giovanni Drogo è, ormai, un vecchio ufficia-le stanco, quando, dagli spalti della Fortezza, si vede all’oriz-zonte del deserto baluginare qualcosa: che questa volta siano davvero i Tartari?

COMMENTO PERSONALE

Se analizziamo il “legame” tematico tra Kafka e Buzzati, bisogna rivendicare a Kafka la priorità delle problematiche e delle caratteristiche narrative. In parole più chiare, Buzzati avrebbe avuto solo il merito di aver reso la difficile “lezione” kafkiana più accessibile ai suoi connazionali attraverso una rielaborazione più realistica.

Espressione emblematica di quanto detto sopra è il personag-gio-protagonista del romanzo “Il processo”. A Josef K., impiegato di banca, due poliziotti notificano un mandato di comparizione per una colpa non precisata. Questi non viene arrestato, ma se a suo carico si istruisce un processo per il quale dovrà presentarsi in tribu-nale, deve occuparsi seriamente del suo caso.

Tuttavia, se i messi del tribunale non gli hanno notificato la colpa presunta, egli dovrebbe sentirsi innocente, mentre, invece, arriva a riconoscersi profondamente col-pevole.

Incomincia, per Josaf K., per-ciò, il contatto con il mondo del tribunale segreto e sente che al processo non può sfuggire. Quando, dunque, alla fine del suo trentesimo anno si pre-sentano innanzi a lui due carnefici, egli si lascia condurre attraverso la città oscura fino ad una cava isolata e lì accetta di essere giustiziato, ritenendosi, ormai, inesorabilmente col-pevole.

Tra i parecchi autori del “teatro dell’assurdo” può essere considerato, in modo pertinente alla tematica trattata, Be-ckett, la cui produzione drammaturgica assume caratteri par-ticolari per la concreta rappresentazione del dissolvimento dell’uomo contemporaneo: situazione che egli ha analizzato con accenti tragici e grotteschi insieme, così amari e crudeli.

Il dissolvimento di cui parla è già dato come punto di par-tenza, come immodificabile condizione dell’uomo, la cui esistenza, secondo la definizione di Heidegger, alla quale Beckett si ricollega è “deizione nell’esserci”. Un “esserci” che non ha altro orizzonte e senso che il Nulla nel quale non possiamo aprire alcun varco, cioè dare un significato ad una situazione esistenziale che non ha significati come non ne ha il mondo nel cui contesto essa è inserita.

Non serve la speranza che, ben presto, si trasforma nell’i-nutile attesa dei due protagonisti, Vladimirio ed Estregone in “Aspettando Godot” e le parole, come mezzo di comuni-cazione, falliscono. Infatti, in quest’epifania del Nulla vi è un progressivo “sprofondare” dei personaggi, un annullarsi della dimensione umana, una regressione della parola al bal-bettìo o al verso animalesco.

L’azione, poi, collocata fuori di ogni spazio storico, in questo caso il futuro, tende alla staticità.

Il tempo, cioè, è immobile: ogni cambiamento ritorna al punto di partenza.

I due personaggi, infine, non sono sicuri neppure della loro identità e l’unico dato consistente è l’attesa che poi è il sim-bolo dell’assurda condizione dell’esistere. Ma, attesa di chi? Di Godot? Chi è quest’entità beckettiana? Molte le risposte:

Samuel Beckett

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re il cosiddetto “esistenzialismo” come un “umanismo integrale”, ossia come la consapevolezza che l’uomo solo attraverso le esperienze rivelatrici del nulla, dell’angoscia diventa soggetto di quella crisi capace di suscita-re in lui l’esigenza della libertà e dell’impegno.

La conclusione, allora, non può essere che una sola: bisogna concorrere a cambiare la socie-tà, soprattutto, quella a noi con-temporanea, perché è necessario modificare la condizione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso.

L’impegno, la scelta della re-sponsabilità, la non complicità con il male divengono un modo

nuovo di essere dell’uomo e dell’intellettuale nel mondo, una risposta alla disperazione esistenziale.

E io penso che gli stessi autori come Kafka, Beckett, Buzzati, ciascuno a loro modo, abbiano cercato, attraverso la rappresentazione concreta dell’angoscia, ma, soprattutto, dell’attesa esistenziale, la chiave per “aprire” il cuore di ogni uomo, di ciascuno di noi per sollevarlo dalla stessa angoscia, dovuta a quel grande mito del benessere e del consumo so-stenuto dai potentissimi mezzi di comunicazione di massa.

Di fronte agli stessi autori, a parere mio, c’è lo stesso uomo smarrito innanzi a quel “labirinto” della società di massa, un uomo anonimo, disponibile al consumo, quel medesimo uomo protagonista dei loro romanzi e dei loro drammi.

Certamente, però, sia Kafka che Buzzati, secondo me, hanno in-terpetrato, ciascuno a suo modo, un nucleo tematico più antico: gli oscuri “filoni” delle saghe popola-ri europee.

Se analizziamo, ora, il “legame” tematico tra Beckett e Buzzati, quest’ultimo, secondo il mio giu-dizio, ha in comune con Beckett la fedeltà alla problematica dell’atte-sa, all’immobilità del tempo, alla solitudine dell’uomo.

I personaggi di Buzzati sono anch’essi “tipi” “fissi”, scarsa-mente individualizzati e poco storicizzati. Inoltre, nel romanzo “Il deserto dei Tartari” si può ri-scontrare quel senso del mistero del quotidiano e dell’angoscia del vivere, tematiche presenti anche in altre opere.

CONCLUSIONE

Secondo il mio giudizio, il problema dell’angoscia esisten-ziale che, proprio in quegli anni, trovava eco nelle pagine di filosofi come Jaspers, Heidegger e Sartre non può esse-re scissa da quella “estetica dell’impegno”, per cui l’uomo si definisce e si autorealizza solo nell’agire, nello scegliere, nell’assumere giorno dopo giorno, istante per istante la pro-pria responsabilità.

Così questi romanzieri o drammaturghi come Kafka, Be-ckett, Buzzati cercano, pur tra mille difficoltà, di interpreta-

Dino Buzzati

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i giovani. Oltre 1 ragazzo su 10 mostra lievi sintomi di un disturbo che potrebbe essere prodromico di altre patologie. Il presente lavoro apre, infine, una finestra importante sull’ul-teriore studio di fenomeni di anedonia sociale come i NEET (“Not engaged in Education, Employment or Training”) che hanno importanti ricadute sulla qualità della vita nella nostra società.

INTRODUZIONE

La parola “ane-donia” è stata introdotta in letteratura dal-lo psicologo

francese Ribot1 per descrivere “una patologica insensibilità al piacere” propria di alcune gravi malattie psichiatriche. Lo stato di un anedonico viene parago-nato, dall’autore, a quello di un paziente trattato cronicamente con analgesici, i quali permetto-no sì di sopprimere il dolore ma, al tempo stesso, il suo contrario. La visione iniziale era focaliz-

zata, quindi, solo sugli aspetti consumatori del piacere (“io mangio, quindi ho piacere”).

Fin da subito si capì, però, che il costrutto dell’anedonia è estremamente più complesso e comprende non solo il con-sumo del piacere ma anche la sua concettualizzazione (“ho già l’acquolina in bocca al pensiero che stasera andrò nel miglior ristorante della città).

Storicamente, l’interesse medico-scientifico per l’anedonia

1 Ribot, T., 1896. La Psychologie des Sentiment. Felix Alcan, Paris.

Aspetti epidemiologici dell’Anedonia: uno studio di campione IOLANDA MARTINO1, DANIELA MOSCHELLA2, ANDREA D’AGOSTINO3, ANTONIO AUGIMERI4, ANTONIO CERASA2,3,4

1 Istituto di Neurologia, Università “Magna Graecia” di Catanzaro2 Ascoc. Accademia di Scienze Cognitivo-Comportamentali di Calabria, Castrolibero (CS),3 Dipartimento di Sociologia, Università “Magna Graecia” di Catanzaro4 Unità di Neuroimmagini, IBFM-CNR di Catanzaro

Il termine anedonia indica la perdita nella capacità di pro-vare piacere in attività e situazioni considerate gratificanti. Questo disturbo è considerato uno dei sintomi cardine della depressione maggiore ma viene trasversalmente riscontrato in diverse patologie neurologiche e psichiatriche. La sua rile-vazione nella popolazione Italiana non è mai stata effettuata.

Lo scopo di questa ricerca epidemiologica è di caratte-rizzare la presenza di anedo-nia utilizzando un questionario di autovalutazione dello stato dell’Anedonia (Snaith-Hamilton Pleasure Scale). Per quantificare la prevalenza di questo disturbo sono stati intervistati 1412 sog-getti sani, suddivisi in 3 fasce d’età.

In generale, nel 15% della popolazione Italiana è possibile riscontrare una lieve forma di anedonia ma con valori molto differenti in relazione alla fa-scia di età. La fascia maggior-mente colpita (38,3%) è quella delle persone anziane (tra 60-80 anni). Nelle fasce d’età media o giovanile (tra 40-60 anni e tra 18-39 anni) i valori percentuali si attestano rispettivamente al 13,5% e 15%. Un dato molto interessante è invece la distri-buzione in base al sesso. Nella fascia di età giovane e adulta i valori sono sovrapponibili tra i sessi, mentre negli anziani sono le donne a presentare maggiormente questo disturbo.

Dal nostro studio preliminare emerge che l’anedonia è un disturbo psicopatologico presente anche nella popolazione cosiddetta “sana” ed in particolar modo nelle persone più an-ziane. Mentre quest’ultimo dato è conforme alle rilevazioni dell’ISTAT sulla prevalenza della depressione nella popola-zione italiana, il dato interessante del nostro studio riguarda

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temporale7.Secondo le neuroscienze, invece, il sintomo anedonico

sembra legato ad un deficit della neurotrasmissione do-paminergica cerebrale che regola il network del Reward. All’interno del cervello umano esiste, infatti, un network che gestisce il piacere quale aspetto fondamentale del compor-tamento motivato di organismi altamente evoluti. La ricom-pensa si traduce, a livello neurobiologico, in un’iperattività metabolica e funzionale di aree del sistema limbico come l’area ventrale tegmentale, il nucleo accumbens, la corteccia cingolata e la corteccia orbitofrontale. Una disfunzione di questo network è riportata in tutti gli anedonici, a prescinde-re dall’essere pazienti psichiatrici o neurologici, ma soprat-tutto il network del Reward risponde sia agli stimoli istintivi di piacere primario (sesso, cibo) che a quelli intellettuali di bisogni secondari (lettura, religione, hobby etc.). Quindi at-tualmente l’anedonia è concepita dalle neuroscienze come un insieme di deficit a carico del sistema del Reward, che possono coinvolgere la perdita di: a) desiderio; b) aspettativa della ricompensa; c) motivazione ad ottenere la ricompensa; d) interesse per stimoli collegati a sensazioni piacevoli.

Per studiare in maniera più approfondita questo fenomeno psicologico bisognerebbe innanzitutto descriverlo e quantifi-carlo nelle sue fasi asintomatiche, cioè definire la sua presen-za nella popolazione che ancora non ha espresso in maniera completa il disturbo. Ad oggi, non esistono indagini epide-miologiche che abbiano valutato la frequenza di questo feno-meno nella popolazione Italiana. Per questo motivo, lo scopo di questo studio è di fornire un primo indicatore dell’anedo-nia in un ampio campione di soggetti sani. Per farlo, abbiamo utilizzato un questionario validato e tradotto da Santangelo et al,8 che prende il nome di Snaith-Hamilton Pleasure Scale (Shaps). La Shaps è una scala di autovalutazione composta da 14 items che esplorano il piacere provato a causa di sti-moli primari (es. mangiar/bere) e secondari come le intera-zioni sociali (familiari, amici, prestarsi per gli altri, ricevere apprezzamenti) o le esperienze sensoriali (un bagno caldo o freddo, la vista di paesaggi, una giornata di sole, etc). Il soggetto deve dire se è d’accordo o in disaccordo (totalmen-te o abbastanza) con quanto espresso in ciascun item e solo in caso di disaccordo (totale o parziale) viene assegnato un punto a quell’ item. Il punteggio totale della scala varia tra 0 e 14 e i punteggi maggiori o uguali a 3 indicano una signifi-cativa riduzione delle capacità edoniche.

RISULTATI

Sono stati intervistati 1412 individui i quali compilava-no, in forma anonima, il questionario Shaps reperibile su un

7 Leentjens AFG, Dujardin K, Marsh L, et al. Apathy and anhedonia rating scales in Parkinson’s disease: critique and recommendations. Mov Disord 2008;23:2004–2014.8 Santangelo G, Morgante L, Savica R, et al. Anhedonia and cognitive impairment in Parkinson’s disease: italian validation of the Snaith-Ham-ilton Pleasure Scale and its application in the clinical routine practice during the PRIAMO study. Parkinsonism Relat Disord 2009; 15: 576-581

iniziò a svilupparsi già agli inizi del ‘900, quando Bleuer2, avendo osservato la manifesta indifferenza che taluni sog-getti psicotici esibivano nei riguardi della loro vita sociale, considerò l’inabilità di provare piacere un sintomo primario e fondamentale del disturbo schizofrenico. Qualche anno più tardi, Kraepelin3, incluse l’incapacità edonica fra le caratte-ristiche psicopatologiche salienti della “sindrome amotiva-zionale” ed usò il termine “Endogenomorfico” per descrive-re un particolare sottotipo di disturbo depressivo maggiore, caratterizzato da una mancata reattività agli stimoli edonici e/o dalla carenza di una risposta affettiva congrua all’antici-pazione del piacere. Al di là di questi riferimenti storici, la psichiatria moderna ha sempre sottostimato il peso di que-sto sintomo relegandolo nella galassia fenomenologica della depressione. L’interesse è stato rinvigorito negli ultimi 10 anni grazie ad importanti studi multicentrici internazionali i quali hanno dimostrato che l’anedonia è il più importante sintomo che correla con la progressione della depressione, ma soprattutto è il principale riferimento per comprendere l’effetto positivo dei farmaci anti-depressivi4. L’importanza di questo costrutto psicopatologico è stata anche riconosciuta dal nuovo DSM-V.

Ma come viene definita oggi l’anedonia? La sua stretta re-lazione all’interno della sintomatologia depressiva è ovvia-mente imprescindibile. Fra i sintomi d’esordio più frequenti della malattia ci sono, infatti, la perdita di senso del benesse-re psicofisico e la mancanza di godimento consapevole anche per i piccoli gesti quotidiani. Dal punto di vista clinico, le principali difficoltà connesse alla definizione del fenomeno anedonico sono legate alla sua peculiare caratteristica di tra-sversalità nosografica. Si tratta, infatti, di un costrutto che è coinvolto in numerosi disturbi psichiatrici e neurologici in maniera assolutamente aspecifica. Pertanto, diagnosticare l’anedonia e differenziarla dalle altre sintomatologie clas-sicamente associate al disturbo depressivo, non è semplice. L’incapacità di provare piacere rappresenta, altresì, un sinto-mo delle sindromi psicopatologiche appartenenti allo spet-tro schizofrenico5. Altri autori, inoltre, le attribuiscono un ruolo di rilievo nella patogenesi dei disturbi della condotta alimentare e dell’abuso/dipendenza da sostanze stupefacen-ti6. Infine, l’anedonia si manifesta anche in ambito neurolo-gico, essendo un sintomo rilevabile sia in pazienti affetti da Malattia di Parkinson sia in pazienti con Epilessia del lobo

2 Bleuer E. Dementia praecox oder groupe der schizophrenien. Leipzig: Deuticke 1911.3 Kraepelin E. Psichiatrie/VIII. Liepzig: Deuticke 1913.4 McMakin, D.L., Olino, T.M., Porta, G., Dietz, L.J., Emslie, G., Clarke, G., Wagner, K.D.,Asarnow, J.R., Ryan, N.D., Birmaher, B., Shamseddeen, W., Mayes, T., Kennard,B., Spirito, A., Keller, M., Lynch, F.L., Dicker-son, J.F., Brent, D.A., 2012. Anhedonia predicts poorer recovery among youth with selective serotonin reuptakeinhibitor treatment-resistant de-pression. J. Am. Acad. Child Adolesc. Psychiatry51, 404–411, 3.5 Phillips LK, Seidman LJ. Emotion processing in persons at risk for schizophrenia. Schizophr Bull. 2008 Sep;34(5):888-903.6 Harrison A, Mountford VA, Tchanturia K. Social anhedonia and work and social functioning in the acute and recovered phases of eating disor-ders. Psychiatry Res. 2014 Aug 15;218(1-2):187-94

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frequenza maggiore negli anziani e con le donne più affette degli uomini. Dunque, se è vero che i punteggi elevati di ane-donia riscontrati nella popolazione anziana del nostro studio, dipendono dall’aumento dei livelli di depressione tipico di questa fascia d’età, è anche vero che esistono altre con-cause che possono essere prese in considerazione. Fra queste inclu-diamo: a) la presenza di fenomeni neurodegenerativi legati all’invecchiamento che rallentano tutte le funzioni cognitive umane tra cui anche quelle legate al sistema del Reward e b) con l’avanzare dell’età, i piaceri primari stimolanti il siste-ma di Reward sono difficilmente raggiungibili ed attuabili e diminuisce, pertanto, la propensione alla ricerca del piacere.

Il dato interessante del nostro lavoro di ricerca riguarda, però, i giovani. Sorprendentemente, anche nel 13,5% della popolazione giovanile rileviamo indicatori di un lieve distur-bo anedonico. In questo caso, la presenza di questo fenomeno psicopatologico potrebbe essere legato non tanto a processi patologici (sintomo prodromico di patologie psichiatriche o neurologiche) quanto a fattori di anedonia sociale come, per esempio, l’emergente “NEET” (Not in Employment, Educa-tion, or Training)10. Infatti, secondo le ultime ricerche epide-miologiche internazionali i NEET rappresentano un’enorme fetta di popolazione (oltre 2 milioni solo in Italia) caratteriz-zati da una maggior probabilità di avere problemi di salute e propensione all’abuso di sostanze11, un disturbo psichiatrico altamente dipendente dalla funzionalità del sistema del Re-ward.

Quello appena presentato è uno studio preliminare che apre a tanti interrogativi ancora da risolvere:

a) Qual è l’esatta relazione tra Depressione e Anedonia? Esiste un momento o una tipologia di sintomi che possono distinguerli? Se a livello psichiatrico esistono strumenti uti-

10 Alfieri S, Sironi E, Marta E, Rosina A, Marzana D. Young Italian NEETs (Not in Employment, Education, or Training) and the Influence of Their Family Background. Eur J Psychol. 2015 May 29;11(2):311-22.11 Goldman-Mellor S, Caspi A, Arseneault L, Ajala N, Ambler A, Danese A, Fisher H, Hucker A, Odgers C, Williams T, Wong C, Moffitt TE. Committed to work but vulnerable: self-perceptions and mental health in NEET 18-year olds from a contemporary British cohort. J Child Psy-chol Psychiatry. 2016 Feb;57(2):196-203.

portale web (http://ibfmpersonality.no-ip.org/). Ai soggetti veniva inoltre richiesto l’inserimento di brevi informazioni anagrafiche quali età, sesso e scolarità e se fossero o non fos-sero stati in cura per malattie neurologiche o psichiatriche. I dati raccolti sono stati considerati in funzione del sesso e delle varie fasce di età: giovani (18-40 anni; n°1127), adulti (40-60; n°186) e anziani (>60; n°99). Il 58% della popolazio-ne arruolata viveva al sud Italia, mentre il 22% al Nord e il rimanente 20% al Centro.

L’analisi dei risultati ottenuti ha evidenziato che, in gene-rale, il costrutto dell’anedonia era presente nel 15,5% (n°219) della nostra popolazione. Di questi 219, il 90% aveva pun-teggi alla Shaps indicatori di un lieve disturbo anedonico, mentre il restante 10% aveva punteggi da moderati a severi. Tuttavia, la presenza di anedonia aveva una differente distri-buzione in relazione alle fasce di età ed al sesso (Figura 1-2).

Nelle fasce di età giovane e media, l’anedonia si mantie-ne su frequenze basse e senza nessuna differenza tra sessi. Mentre negli anziani la presenza di anedonia è molto elevata (38,4%) ed è molto più presente nelle donne (46%) rispetto agli uomini (33%).

DISCUSSIONE

Scopo di questa ricerca è di indagare, in maniera preli-minare, la presenza a livello epidemiologico del costrutto psicopatologico dell’anedonia. Le analisi effettuate hanno dimostrato che l’anedonia non si manifesta solo in termini di comorbidità nelle fenomenologie psichiatriche e neurologi-che, ma è un costrutto presente anche nella popolazione sana, soprattutto nelle fasce di età più elevate. Quest’ultimo dato è in accordo con le recenti rilevazioni epidemiologiche pub-blicate dall’ISTAT riguardo la presenza di depressione nella popolazione sana. Nel 20149, nel rapporto annuale sulla Tu-tela della salute, L’ISTAT ha dimostrato che la depressione è uno dei disordini che maggiormente colpisce la salute degli italiani, ed è presente in quasi il 5% della popolazione con

9 http://www.istat.it/it/archivio/128176

Fig.1: Rappresentazione grafica della percentuale di presenza di anedonia per le diverse fasce d’età nella popolazione italiana

Fig.2: Rappresentazione grafica delle percentuali di presenza di anedonia nelle diverse fasce d’età per sesso

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li per diagnosticarla, a livello psicopatologico la presenza o meno di anedonia è difficilmente identificabile. Appurato che si tratta di un sintomo che può in realtà nascondere una serie di comorbidità molto più gravi, è necessario fornire agli psicologi strumenti accurati per poterlo identificare e caratte-rizzare prima che diventi patologico e finisca inesorabilmen-te nella categoria dei disturbi depressivi12.

b) Qual è la relazione tra anedonia e le variabili sociali (famiglia, lavoro)? In altre parole, la presenza di anedonia è una reazione ad una condizione psicopatologica sociale particolare o è la conseguenza di un disturbo organico che si manifesta tardivamente? Per dimostrare questo, è fonda-mentale unire alla valutazione clinica anche uno screening demografico sulla condizione sociale e familiare da cui pro-viene il soggetto.

c) La persona anedonica ha un profilo di personalità par-ticolare? Nasciamo con un determinato tratto di personalità che poi ci rende più vulnerabili alla perdita di piacere?

d) Quanto sono validi i test per la misurazione dell’anedo-nia? Molti test ne misurano lo stato (condizione transitoria) ma non il tratto (condizione permanente). Dobbiamo rico-noscere, quindi, che una parte dei nostri risultati potrebbe essere legata ad una condizione transitoria e non stabile nel tempo.

12 Rizvi SJ, Pizzagalli DA, Sproule BA, Kennedy SH. Assessing anhe-donia in depression: Potentials and pitfalls. Neurosci Biobehav Rev. 2016 Jun;65:21-35.

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L’esercito tedesco a Parigi

Il 2 settembre il Regno Unito e la Francia inviarono alla Germania un ultimatum che rimase senza risposta; il 3 set-tembre le dichiararono guerra.

Il 17 settembre l’Unione Sovietica, in linea con il patto Molotov-Ribbentrop, aggredì la Polonia da est incontrando scarsa resistenza; i territori polacchi orientali erano abitati in maggioranza da bielorussi e come tali vennero annessi all’o-monima repubblica.

Nell’arco di un mese, la Polonia fu sconfitta.Iniziò così la Seconda guerra mondiale, il più grande con-

flitto armato della storia. Non dimentichiamolo. Dalla con-clusione del conflitto l’Europa ha goduto di oltre settant’anni di pace (se si eccettua la guerra nella ex Iugoslavia).

La relativa calma che seguì la sconfitta della Polonia ter-minò il 9 aprile 1940, quando le forze germaniche invasero la

1° settembre 1939 ROBERTO FIESCHIProfessore Emerito di Fisica, Università degli Studi di Parma

Già prima del 1939 in Estremo Oriente la guerra insanguinava ampie regioni. Nel settembre 1931 le truppe giapponesi iniziarono l’invasione della Cina nord-orientale; nel 1932 lo Stato-fantoccio del

Manchukuo venne insediato in Manciuria. Nel luglio 1937 il Giappone iniziò una nuova penetrazione nella Cina del nord; negli scontri furono coinvolte anche le popolazioni; circa 300.000 furono i civili morti nel Massacro di Nanchino a seguito all’occupazione della città. I cinesi persero, approssi-mativamente, 3.200.000 soldati, nove milioni furono i civili morti per azioni di guerra dirette, e quasi altrettanti per cause riconducibili alla guerra. Il Giappone dichiarò di aver avuto, nella guerra, 1.100.000 perdite tra morti, feriti e scomparsi.

L’invasione della Cina costituiva parte del progetto stra-tegico complessivo giapponese per assumere il controllo dell’Asia.

LO SCOPPIO DELLA GUERRA IN EUROPA

In Europa la guerra iniziò all’alba del primo settembre 1939, quando cinque armate della Wehrmacht invasero la Polonia.

1° settembre 1939, soldati tedeschi rimuovono la barriera del confine tedesco-polacco

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Così eseguivo le esercitazioni col moschettino e le marce per le strade nei Sabati fascisti. Si cantavano allegramente, da giovani ignoranti e incoscienti, le orrende canzoni che vantavano le glorie di una lontanissima romanità, inneggia-vano alla guerra e irridevano Francia e Inghilterra. Eccone alcune:

Nizza, Savoia, Corsica fatal,

Malta, baluardo di romanità,

Tunisi nostra, sponde, monti e mar.

Tuona la libertà.

Roma rivendica l’impero

L’ora dell’aquile suonò …

Malvagia Inghilterra

Tu perdi la guerra

La nostra vittoria sul tuo capo fiera sta….

LE TAPPE SUCCESSIVE

(Solo qualche cenno agli eventi che segnarono svolte signi-ficative nel conflitto).

La battaglia d’InghilterraDal luglio all’ottobre i Nazisti condussero una intensa

campagna aerea contro la Gran Bretagna, nota come Batta-glia d’Inghilterra. Questa doveva preparare l’invasione del-le isole Britanniche, operazione battezzata Seelöwe (Leone marino).

La battaglia alla fine vide la sconfitta della Germania; il 19 settembre, accertata l’impossibilità di neutralizzare la Royal Air Force (RAF), Hitler rinviò a tempo indefinito l’operazio-ne Seelöwe: il primo segnale di arresto, dopo tante vittorie militari.

Winston Churchill riconobbe il contributo della RAF con parole passate alla storia: “Mai nel campo degli umani con-flitti tanti dovettero così tanto a così pochi”.

Norvegia e la Danimarca. Il 10 maggio dello stesso anno, la Germania diede il via al piano d’attacco contro l’Europa oc-cidentale (Guerra Lampo); la Francia, sconfitta, il 22 giugno firmò l’armistizio con la Germania.

L’ENTRATA IN GUERRA DELL’ITALIA

L’Italia, alleata con la Germania, entrò in guerra il 10 giu-gno.

“Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L’ora delle decisioni irrevocabili”. Così proclamava Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia annunciando la di-chiarazione di guerra, a Francia e Gran Bretagna, “le demo-crazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente… Vincere (ovazioni)… e vinceremo!”.

Mi trovavo allora a Ottobiano, il paese dei miei nonni ma-terni, in Lomellina. La nonna piangeva, io – avevo undici anni – esultavo: la guerra, avventure, atti eroici, …!

Tornai a Pavia dopo alcuni giorni. A quel tempo, inqua-drato nelle organizzazioni fasciste, non ero più Figlio della Lupa, ma Balilla moschettiere.

Balilla moschettieri

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I russi, ben equipaggiati per l’inverno, contrattaccano durante la battaglia di Mosca.

Il 5 dicembre il contrattacco cadde totalmente inaspettato sulle truppe tedesche ormai esauste; la Wehrmacht subì la sua prima pesante sconfi tta. La battaglia per la difesa di Mo-sca segnò la prima svolta nella guerra sul fronte orientale.

Pearl HarborIl 7 dicembre 1941, il Giappone bombardò la base ameri-

cana di Pearl Harbor, distruggendo buona parte della fl otta del Pacifi co; gli Stati Uniti reagirono dichiarando guerra al Giappone.

L’intervento delle maggiore potenza industriale ed economica pesò enor-memente sulle sorti del confl itto.

StalingradoLa svolta defi nitiva fu la battaglia di Stalingrado che, ini-

ziata nel luglio 1942, rovesciò completamente l’equilibrio strategico sul fronte orientale La resistenza sovietica dissan-guò la potente 6ª Armata tedesca del generale Friedrich Pau-lus, l’accerchiò e la costrinse alla resa (2 febbraio 1943). Da allora cominciava per la Wehrmacht una lunga e sanguinosa ritirata.

Il D-DayIl 6 giugno 1944, nell’ambito di una massiccia operazione

alleata, più di 150.000 soldati sbarcarono in Francia, riuscen-do a liberarla defi nitivamente alla fi ne dell’agosto successi-vo.

Il Piano BarbarossaIl 22 giugno 1941 la Germania iniziò l’invasione dell’U-

nione Sovietica, la più vasta operazione militare terrestre di tutti i tempi; avrebbe dovuto costituire un punto di svolta de-cisivo per assicurare la vittoria totale del Terzo Reich, ma il suo fallimento provocò la sua completa disfatta.

L’operazione Barbarossa, nei primi giorni di guerra, fruttò alla Wehrmacht un grandissimo numero di prigionieri.

La sorpresa dell’attacco tedesco fu assoluta. L’Urss fu col-ta impreparata perché Stalin non aveva voluto credere alla minaccia imminente. Inizialmente le perdite sovietiche im-mense, anche perché i vertici delle forze armate erano sta-ti decapitati nell’ultima delle criminali purghe ordinate da Stalin.

La battaglia di MoscaMa, con l’arrivo dell’inverno, la strenua resistenza dell’Ar-

mata Rossa impedì ai Tedeschi di occupare Leningrado e Mosca.

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LE RESPONSABILITÀ

Quanto sopra è ben noto e sui fatti e le interpretazioni non c’è dissenso tra gli storici. Più delicata e controversa è la questione delle cause della guerra e delle responsabilità.

Non v’è dubbio che la causa principale e determinante sia nelle mire espansionistiche della Germania nazista; Hitler rivendicava la conquista dello spazio vitale (il Lebensraum) necessario alla fondazione di un nuovo millenario Impero germanico, nelle sue mire di egemonia su un mondo domi-nato da una razza superiore, quella dei biondi ariani tedeschi.

Il giovane Hitler già dai tempi in cui era in carcere per il fallito Putsch di Monaco del 1923, durante la stesura del Mein Kampf aveva affrontato l’argomento della politica di espansione a Est a discapito dei Paesi slavi. “Se in Europa si vogliono acquistare terra e suolo ciò può avvenire in li-nea di massima solo a spese della Russia, e il nuovo Reich deve mettersi di nuovo in marcia sulla strada dei cavalieri dell’ordine di un tempo per dare con la spada tedesca la zolla all’aratro tedesco e alla nazione il pane quotidiano”.

Una responsabilità non trascurabile però spetta anche a Francia e Gran Bretagna. Quando ancora l’aggressività na-zista avrebbe potuto essere frenata, i due stati democratici non agirono, o agirono in senso opposto, sperando di argina-re, con l’aiuto del Nazismo, la crescente potenza e influen-za dell’Urss. Proseguiva così la politica di ostilità all’Urss, iniziata subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, quando Fran-cia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e altri stati orga-nizzarono spedizioni militari per sostenere le forze anti bol-sceviche, i cosiddetti bianchi. Come è noto, furono sconfitti dall’Esercito Rosso di Trotsky.

Nel 1935, alla Conferenza di Stresa, gli stati democratici protestarono solo debolmente di fronte al riarmo tedesco.

Nel 1938, alla Conferenza di Monaco, fu sostanzialmen-te avallato lo smembramento della Cecoslovacchia. Allora le forze armate tedesche non erano ancora potenti, mentre la Cecoslovacchia era un avversario ostico: il suo esercito era composto da circa 30-35 divisioni, possedeva una delle migliori industrie produttrici di armi e mezzi corazzati (la Skoda) e aveva approntato nei Sudeti una serie di difese dif-ficilmente superabili.

Inoltre l’Unione Sovietica aveva dichiarato la sua inten-zione di collaborare alla difesa della Cecoslovacchia, se an-che la Francia si fosse impegnata, secondo gli accordi esi-stenti; ma non se ne fece nulla, perché la Francia non rispose alla proposta sovietica.

La Germania hitleriana veniva infatti considerata un ba-luardo troppo importante contro la minaccia bolscevica dell’Urss.

L’11 settembre 1944, le prime truppe statunitensi entrarono in Germania, a un mese dall’entrata delle truppe sovietiche nella parte orientale.

La fine della guerra in EuropaA seguito dell’offensiva finale, iniziata il 16 aprile, le forze

dell’Armata Rossa circondarono Berlino. Hitler si suicidò il 30 aprile del 1945. Il 7 maggio la Germania si arrese alle forze Alleate Occidentali; due giorni più tardi si arrese anche alle truppe sovietiche.

Il maresciallo Žukov firma il documento di resa della Germania.

Se l’Europa non è caduta allora sotto il dominio nazista lo dobbiamo anche alla lungimiranza e alla durezza con cui Stalin ha imposto al suo popolo i piani quinquennali per lo sviluppo dell’industria pesante, che ha poi fornito all’Eserci-to Rosso le armi ber battere la Wehrmacht. Ciò non assolve certo il dittatore dai crimini che ha compiuto contro i suoi compagni di partito e contro il suo stesso popolo: processi, purghe, assassini.

E in Estremo OrienteIn agosto, gli Stati Uniti sganciarono due bombe atomiche

sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Il Giappone si arrese il 2 Settembre 1945.

La Seconda Guerra Mondiale causò la morte di circa 55 milioni di persone nei paesi coinvolti e fu senza dubbio il più vasto e rovinoso conflitto della Storia.

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dall’Educazione alla Teatralità, essa è una sintesi di quattro prospettive di lavoro che il Novecento teatrale ha lasciato in eredità6:

1) L’attore come artista e come creatore ossia come centro dell’azione teatrale.

2) Il Teatro Povero e il Teatro fuori dal teatro: il teatro come luogo di relazione basata sull’incontro-confronto tra attore-spettatore, cioè tra persone (dunque un’arte che può avvenire ovunque, senza la necessità di uno spazio istituzio-nalmente deputato).

3) La dimensione politica delle arti espressive: l’arte come processo culturale, come strumento per entrare nella società per proporre e favorire cambiamenti.

4) L’Arte come veicolo ovvero le arti espressive come stru-mento di ricerca sull’uomo.

Le diverse potenzialità nella nuova scienza sono studiate, sperimentate e teorizzate in una prospettiva unitaria, pedago-gico-artistica: le arti espressive come FormaAzione, la For-mAzione come processo artistico7.

Il presente articolo si propone di presentare la metodologia di lavoro teatrale dell’Io-Personaggio in relazione alla filoso-fia artistica dell’Educazione alla Teatralità.

L’EDUCAZIONE ALLA TEATRALITÀ E L’ARTE COME

VEICOLO: UNA FILOSOFIA DELL’ARTE

L’Educazione alla Teatralità sviluppa la sua filosofia este-tica a partire dal concetto di matrice grotowskiana di Arte come veicolo. Attraverso il rapporto tra l’Arte come veicolo e la pedagogia teatrale8 promuove sul piano culturale la demo-

6 Cfr. Fabrizio Cruciani, Registi pedagoghi e comunità teatrali del ‘900, Roma, E & A editori associati, 1995. Marco De Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Milano, Bonpiani, 1987. Marco De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 2000; Giuliano Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Roma, Bulzoni, 1973.7 Cfr. Gaetano Oliva, L’Educazione alla Teatralità e la formazione...,cit.8 Gaetano Oliva (a cura di), La pedagogia teatrale. La voce della

L’Educazione alla Teatralità e lo studio del “personaggio” MARCO MIGLIONICODipartimento di Italianistica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

PREMESSA

L’Educazione alla Teatralità è una scienza1 interdisciplinare2; il suo oggetto di studio è la teatralità3 in chiave scientifica e artistica. Da una parte, infatti, l’Educazione alla Tea-

tralità «prende in considerazione e verifica i processi neuro-logici e fisiologici che governano la sfera corporea dell’u-mano. Peculiarità di questa scienza è, difatti, quella di aver raccolto le prassi dei registi pedagoghi della storia e, sistema-tizzando i loro assiomi, aver saputo trarre da esse un sapere universale»4; dall’altra il centro del suo lavoro è la creatività umana: «L’uomo creativo è una categoria del pensiero con-temporaneo […] a partire dal concetto di Arte come veico-lo, infatti, l’idea di arte diventa un ambito pratico di ricerca sull’essenza umana. La creatività cessa di essere appannag-gio dell’artista o del genio e diviene caratteristica della per-sona in quanto tale […]. L’arte rappresenta, in questo senso, una grande possibilità di sviluppo di questo potenziale».5

Per quanto riguarda la concezione artistica teorizzata

1 Gaetano Oliva, L’educazione alla teatralità: il movimento creativo, in Vanna Iori (a cura di), Animare l’educazione. Gioco pittura musica danza teatro cinema parole, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 144 s.2 Cfr. Gaetano Oliva, L’Educazione alla Teatralità: Il Movimento Creativo come modello formativo, in “Scienze e Ricerche”, Roma, Agra Editrice Srl, n. 3, gennaio 2015, pp. 22-43. Gaetano Oliva, Le arti espressive come pedagogia della creatività in “Scienze e Ricerche”, Roma, Agra Editrice Srl, n. 5, marzo 2015, pp. 45-51.3 Gaetano Oliva, L’Educazione alla Teatralità: Il Movimento Creativo come modello formativo, cit., p. 24. Gaetano Oliva, L’Educazione alla Teatralità e la formazione. Dai fondamenti del movimento creativo alla form-a-zione, Milano, LED, 2005, p. 306: «vocazione teatrale della natura umana»; Cfr. Gaetano Oliva, Serena Pilotto, La scrittura teatrale nel Novecento. Il testo drammatico e il laboratorio di scrittura creativa, Arona, XY.IT Editore, 2013, p. 15 dove Oliva riporta la definizione antropologica di Evrinov sulla teatralità come atteggiamento proprio dell’uomo.4 Marco Miglionico, L’Educazione alla Teatralità e il movimento creativo, in “Scena”, Umbertide (PG), UILT, n. 70, settembre 2012, p. 11.5 Ivi, p. 4.

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che si deve accettare mentre allo stesso tempo ci si dice: “È temporanea, dovrà essere rinnovata”. Tocchiamo qui una questione di dinamica che non avrà mai fine».18

Il piano filosofico dell’Educazione alla Teatralità nell’Arte come veicolo definisce l’arte come dimensione processuale: dare forma alla vita attraverso i linguaggi (performatività nel triplice senso di: “arte in azione”, “arte per dare forma”; “arte per formare”)19.

Le arti diventano strumento concreto di indagine e di co-municazione sociale: la persona-artista attraverso le arti e nell’arte ha la possibilità di raccogliere i frammenti della propria vita, le proprie idee e di tradurli in forme manifeste ovvero di costruire e condividere significati, pensieri e sen-sazioni attraverso forme e linguaggi. In questo processo l’ar-te è uno strumento che contribuisce a costruire e cambiare la cultura20. Afferma a questo proposito Gaetano Oliva:

Il concetto definito è legato a quello di società, perché qualunque fun-

zione sottenda una forma, è una rappresentazione. Il teatro si avvale

oggi di leggi che governano la persona e il gruppo sociale; perché il

teatro è sostanzialmente un “fatto sociale”, legato da dinamiche di

gruppo.

Il teatro deve servire alla società: che sia uno strumento per una pre-

sa di coscienza collettiva riguardanti determinati problemi o che crei

quell’impalpabile sentimento di unità all’interno del pubblico, la sua

esistenza dipenda da quanto è in grado di rivelarsi e coinvolgere la

società; poiché se fosse puro divertimento sarebbe spazzato via com-

pletamente da altre forme di spettacolo più dinamiche, più vicine ai

gusti contemporanei […].

Si può ritenere che il teatro sia un fenomeno sociale e artistico risul-

tante da un certo modo di porsi dello spirito umano nei riflessi degli

altri; e nel contempo sia un’opera d’arte che obbedisce a più leggi

e, per mezzo dell’azione di una molteplicità di elementi, raggiunge

l’unità, il quale concetto di unità implica l’impegno dell’uomo alla

sua creatività.

Lo sviluppo della società moderna, con le sue nuove forme di lavoro

e i nuovi stili di vita, ha reso sempre più evidente il fatto che, il pro-

cesso teatrale, considerato fino ad oggi, almeno nella nostra civiltà,

a servizio dell’uomo, ha anche un valore autonomo. Lo studio delle

tecniche e delle metodologie teatrali ha confermato l’esattezza di que-

sta scoperta, e ha mostrato come, spesso, le moderne abitudini di vita

posso creare problemi all’equilibrio psico-fisico dell’uomo. La nostra

civiltà deve trovare delle forme di compensazione a questi squilibri e

l’educazione si è fatta carico di questa necessità, cercando nell’arte,

e in particolare in quella teatrale, un mezzo per realizzare tale com-

pensazione.21

18 Peter Brook, La porta aperta, Torino, Einaudi, 1993, p. 40.19 Cfr. «performance» [s. ingl. der. di (to) perform «compiere, eseguire», dal fr. ant. performer «compiere», che è dal lat. tardo performare «dare forma»] Tullio De Mauro - Marco Mancini, Dizionario Etimologico, Milano, Garzanti Linguistica Editore, 2000, p. 1500; Luigi Castiglioni, Scevola Mariotti, IL vocabolario della lingua latina, Torino, Loescher Editore, 1990, p. 762.20 Cfr. Catia Cariboni, Gaetano Oliva, Adriano Pessina, Il mio amore fragile...cit., p. 97 s.21 Ibidem.

cratizzazione dell’esperienza artistica; questo si concretizza nella formazione dell’attore-persona ovvero nella persona artista che agisce e attua il suo processo creativo.

In tale processo le arti espressive diventano un veicolo e uno strumento di scoperta e conoscenza della propria consa-pevolezza (acquisita nel corpo e con il corpo)9; di ricerca di una propria filosofia esistenziale (pensieri, valori, idee); di costruzione di una personale modalità comunicativa di rap-presentazione (i linguaggi della comunicazione)10.

L’Arte come veicolo, nell’ottica dell’Educazione alla Te-atralità - riprendendo l’etimologia della parola: arte, ar11, andare verso, legare insieme12 - promuove l’arte nella sua dimensione di ricerca filosofica ed estetica ma anche cultu-rale (costruzione di una comunicazione sociale) e antropolo-gico-pedagogica (co-costruzione di un sapere sull’uomo in relazione con).

Si parla, dunque, di arti espressive e di teatri al plurale13; poiché ognuno è portatore di un proprio modello artistico, unico e inimitabile, non comparabile in termini valoriali.

La concezione artistica proposta non definisce né modelli di riferimento, né stili o tecniche predefinite, ma promuove il processo creativo come strumento di crescita personale, cul-turale e sociale della persona14.

L’Arte è promossa come luogo del libero progettarsi, dove l’infinita possibilità delle comunicazioni e dei modelli (se ognuno è modello di se stesso l’arte è spazio filosofico dell’imperfezione15 e della diversità16) si associa alla rifles-sione per la costruzione, l’evoluzione e il cambiamento cul-turale nell’ottica di una crescita continua. Scrive a questo proposito Oliva: «Tale progetto propone lo sviluppo e la cre-scita dell’Uomo affinché ogni persona raggiunga o recuperi la sua pienezza».17

La persona-artista è individuo e attore sociale. Per questo l’obiettivo primario non è la produzione di oggetti immuta-bili e autonomi, ma si costruiscono pensieri in azione/forme in rapporto al vivere della persona nella società, in continuo divenire, capaci di riprogettarsi e ricomporsi di volta in volta in relazione all’azione, al comportamento, ai bisogni e alle necessità dei singoli e della comunità. Scrive a questo propo-sito Peter Brook: «Il dare forma è sempre un compromesso,

tradizione e il teatro contemporaneo, Arona, XY.IT Editore, 2009.9 Ivi, p. 8.10 Ivi, p. 7. 11 Roberto Diodato, L’arte come categoria estetica. Un’introduzione, Varese, Eupress Frl, 2005, p. 11: «arte deriva dalla radice indeuropea ar». 12 Cfr. Baldine Saint Girons, L’atto estetico. Un saggio in cinquanta questioni, Modena, Editore Mucch, 2010, p. 105.13 Gaetano Oliva (a cura di), La pedagogia teatrale...cit., p. 33.14 Serena Pilotto (a cura di), Creatività e crescita personale attraverso l’educazione alle arti: danza, teatro, musica, arti visive. Idee, percorsi, metodi per l’esperienza pedagogica dell’arte nella formazione della persona, Atti del Convegno 13 e 14 febbraio 2006, Teatro “Giuditta Pasta” Saronno, Piacenza, L.I.R., 2007.15 Marco Miglionico, L’Educazione alla Teatralità e il movimento creativo, cit., p. 10.16 Gaetano Oliva, L’Educazione alla Teatralità nella scuola: arte e corpo, in “Scuola e Didattica”, n. 1 sett. 2013, p. 19. 17 Catia Cariboni, Gaetano Oliva, Adriano Pessina, Il mio amore fragile. Storia di Francesco, Arona, XY.IT Editore, 2011, p. 101.

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D’Arte di Mosca dalla Scuola di Stanislavskij e rappresenta il punto di arrivo di tutte le ipotesi e le ricerche di lavoro tra il Secondo Ottocento e il Primo Novecento25; esso si basa sul concetto di interpretazione e di riviviscienza. Scrive Stani-slavskij:

Ma che cosa significa recitare nel modo giusto?

Vuol dire: pensare, volere, desiderare, agire, esistere, sul palcosceni-

co, nelle condizioni di vita di un personaggio e all’unisono col per-

sonaggio, regolarmente, logicamente, coerentemente e umanamente.

Appena l’attore ha raggiunto tutto questo comincia ad avvicinarsi alla

parte e compenetrarsene.

Questo significa «rivivere una parte». Questo processo e la parola che

lo definisce «riviviscienza» hanno nella nostra scuola un’importanza

assoluta.

Rivivere una parte aiuta l’attore a realizzare lo scopo fondamentale

dell’arte teatrale, cioè la «coscienza» di una «vita spirituale» in ogni

parte, e della necessità di comunicare questa vita, dalla scena, in forma

artistica.

Come vedete, il problema importante per noi non sta solo nell’imma-

ginare la vita della parte nelle sue manifestazioni esteriori, ma soprat-

tutto nel creare in scena la vita interiore del personaggio e del dramma,

adattando a questa vita estranea, i nostri sentimenti personali e tutti gli

elementi vitali.26

Nel Primo Novecento l’attore si afferma come artista in quanto interprete; la sua materia d’arte consiste nella crea-

25 Gaetano Oliva, La letteratura teatrale italiana e l’arte dell’attore 1860-1890, Torino, UTET, 2007, pp. 284-311.26 Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Vol. I, Roma-Bari, Universale Laterza, 1975, p. 24 s.

L’EDUCAZIONE ALLA TEATRALITÀ, UNA

PROPOSTA TEATRALE: L’ATTO CREATIVO TRA IO E

PERSONAGGIO

La filosofia dell’arte dell’Educazione alla Teatralità elabo-ra la proposta dell’Atto Creativo come incontro tra Io e Per-sonaggio. L’arte dell’attore nel Novecento, infatti, ha vissuto una ricca storia di ricerca che è approdata a due estremi: da un lato l’interpretazione del personaggio secondo il meto-do stanislavskijano nel quale il maestro russo - che «vive-va il teatro come fine»22 - utilizzava il processo creativo in funzione della rappresentazione portando l’Io dell’attore ad “adeguarsi” alle richieste della scena e del testo drammatur-gico; dall’altra la ‘negazione del personaggio’ grotowskiana, dove al contrario l’azione diventava «veicolo per lavorare su se stessi»23, fino all’abbandono «dei personaggi (e degli spettatori)»24.

La proposta teatrale dell’Educazione alla Teatralità ha come obiettivo - su un piano metodologico e scientifico di ricerca-azione e dunque lontano dalla definizione di un mo-dello unico e prestabilito di risultato - l’interazione fra queste due dimensioni: l’Io sono della persona e la creazione del personaggio nell’ottica di un Progetto Creativo in cui si in-contra lo spettatore.

La via del personaggio: L’io dell’attore al servizio del personaggio

Lo ‘studio del personaggio’ viene definito nel Teatro

22 Gaetano Oliva (a cura di), La pedagogia teatrale...cit., p. 32.23 Ivi, p. 31.24 Marco De Marinis, In cerca dell’attore... cit., p. 125

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ancora Stanislavskij:

[…] è indispensabile la prospettiva dell’attore […] è indispensabile

per poter avere, in qualunque momento ci si trovi in scena, la co-

scienza di quello che succede, per proporzionare le proprie forze

creative interiori e la possibilità espressive esteriori, per distribuire

con equilibrio e approfittare intelligentemente del materiale creativo

accumulato.

In questa scena per esempio, s’insinua e si sviluppa gradatamente,

nell’animo di Otello geloso, il dubbio. L’attore deve ricordare che

durante tutta la tragedia, dovrà recitare diversi momenti analoghi, ma

sempre più intensi. É pericoloso buttarsi di colpo nella prima scena,

con tutto il proprio temperamento, senza serbare qualche cosa per le

future scene sempre più intense di gelosia.

Sperperare così le proprie forze interiori, disturba il piano della parte.

Bisogna economizzare e calcolare, tenendo sempre presente il mo-

mento finale e culminante della tragedia. Il sentimento artistico non si

pesa a chili, ma a grammi.37

La pianificazione della parte è il fulcro del lavoro, l’Io dell’attore è l’ingegnere che progetta e controlla lo svolgersi preciso di questa costruzione e regola l’intensità degli ele-menti in relazione alla complessità e alla totalità della vicen-da drammatica.

Il concetto teatrale stanislavskiano vede quindi al centro il personaggio in scene, perfetta incarnazione del testo dell’au-tore.

La negazione del personaggio: L’Io creativo.Nel teatro del Secondo Novecento il punto centrale diven-

ta, all’opposto, l’Io creativo dell’attore; massimo esponente e teorico di questa ricerca è il regista polacco Jerzy Gro-towski. Questo sviluppo rappresenta solo un aspetto di un processo più ampio che De Marinis definisce emancipazione dell’attore, dissoluzione del personaggio e superamento del-lo spettacolo; lo studioso afferma che il nuovo teatro arri-va a definire l’«emancipazione dell’attore da ogni tutela e subalternità»38 e invece aspira «a porsi in teatro come un cre-atore, in prima persona»39. Le comunità teatrali del Secondo Novecento definiscono l’autonomia creativa dell’attore; scri-ve a questo proposito Julian Beck: «Il teatro del personag-gio è finito […] Questi miti (i personaggi), con tutte le loro seduzioni, in realtà ci derubano dall’esperienza universale in quanto impediscono di essere noi stessi».40

Il personaggio, quando ancora c’è, diventa solamente un mezzo; scrive De Marinis:

[…] è la verità interiore dell’attore, con la sua partitura espressiva che

le dà forma, a diventare il telos rispetto al quale anche il personag-

gio funge soltanto da strumento: uno strumento – scrive Grotowski

37 Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Vol. II, Roma.Bari, Universale Laterza, 1975, p. 526.38 Marco De Marinis, In cerca dell’attore... cit., p. 123.39 Ibidem.40 Julian Beck, La vita del teatro. L’artista e la lotta del popolo, Torino, Einaudi, 1975, p.74.

zione di un personaggio vivo a partire dall’immagine in pre-cedenza elaborata dall’autore attraverso la scrittura27. Scri-ve Gaetano Oliva: «la parte creativa del lavoro dell’attore è individuata nel passaggio dal personaggio dell’autore alla propria natura e del proprio mondo espressivo»28. Il maestro russo sottolinea questa operazione: «Il fine della nostra arte non è solo creare “la vita spirituale e umana di una parte”, ma anche quella di comunicare esteriormente, in forma ar-tistica, il problema che le corrisponde»29 ovvero «creare la vita umana e spirituale della parte e del dramma e incarnare artisticamente questa vita in una splendida forma scenica»30. Per Stanislavskij l’obiettivo è la caratterizzazione e la perso-nificazione del personaggio31; l’Io dell’attore è un servitore, egli è spinto a utilizzare sé stesso per il personaggio; il suo compito è quello di comprendere e restare fedele allo spirito e al pensiero del drammaturgo.32 Lo strumento a disposizione per questa operazione è la propria interiorità che deve essere ‘adattata’ per creare la vita in scena; afferma Stanislavskij:

L’attore può rivivere solo le sue emozioni personali […]. Si può

intuire, capire una parte, entrare nella situazione, agire come il per-

sonaggio. Questa azione creatrice rievocherà nell’attore esperienza

analoghe a quella della parte, ma saranno sentimenti suoi, dell’attore

e non del personaggio, inventato dal poeta. […] Agirai sempre con la

tua doppia personalità di uomo-attore. Non rinunciare mai al tuo «io».

Se lo fai ti perdi: non c’è niente di peggio. Nel momento stesso in cui

ti perdi, smetti di rivivere la parte e cominci a recitare enfaticamente.

Perciò per quanto tu reciti devi sempre, senza eccezione, ricorrere ai

tuoi sentimenti personali. Trasgredire questa legge equivale, per l’at-

tore, a uccidere il personaggio, privarlo del vivo spirito umano che,

solo, può far vita a una parte inerte.33

Regola per l’attore è quella di non smettere mai di ricor-rere ai sentimenti personali, pena la morte del personaggio. Se come scrive Guerrieri «l’idea del personaggio completo, compatto, nascente come un essere umano vivente dall’orga-nismo dell’attore è una realtà irrealizzabile»34 è anche vero che il profondo lavoro dell’attore, lavoro psicologico, psico-fisico ed emozionale porta a «uno stato di quasi identifica-zione con il personaggio»35 basata sulla fusione di elementi dell’attore (il sottotesto) con quelli del personaggio (il testo dell’autore). L’annullamento36 totale dell’attore nel perso-naggio non avviene, non per l’espressione della creatività e della personalità dell’attore, ma perché l’Io rimane condizio-ne necessaria per un controllo della logica dello spettacolo;

27 Gaetano Oliva, Serena Pilotto, La scrittura teatrale nel Novecento..., cit, p. 111.28 Ivi, p. 119. 29 Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Vol. I, cit., p. 26. 30 Ivi, p. 46.31 Ivi, p. 381.32 Marco De Marinis, In cerca dell’attore...cit., p. 108.33 Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Vol. I, cit., p. 230 s. 34 Vedi Gerardo Guerrieri nella prefazione di Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Vol. I, cit., p. XXXIII.35 Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano, Ubulibri, 1993, p. 108.36 Marco De Marinis, In cerca dell’attore... cit., p. 109.

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zo, Grotowski cerca «[…] non il teatro ma l’esistenza viva nel suo svelarsi»48, un cammino di conoscenza che non ha necessariamente contatto con gli spettatori in quanto smet-te di essere rappresentazione; scrive Grotowski: «Penso che questo genere di ricerche sia esistito più frequentemente fuo-ri dal teatro, benché talvolta sia esistito anche in certi teatri. È il cammino della vita e della conoscenza. É molto antico. Si rivela, si formula a seconda dell’epoca, del tempo, della società»49. Questo cammino attraverso l’arte performativa si focalizza sull’Io dell’attuante, ovvero il Performer; afferma Grotowski:

Il Performer, con la maiuscolo, è un uomo d’azione. Non è qualcuno

che fa la parte di un altro. É l’attuante […]. Il Performer è uno stato

dell’essere. L’uomo di conoscenza […] dispone del doing, del fare

e non di idee o teorie50 […]. Nella via del Performer, si percepisce

l’essenza quando è in osmosi con il corpo, quindi si lavora il processo

sviluppando l’Io-Io. Lo sguardo del teacher può a volte funzionare

come lo specchio del legame Io-Io (questo legame non essendo ancora

tracciato). Quando il canale Io-Io è tracciato, il teacher può sparire e il

Performer continuare verso il corpo dell’essenza.51

Il processo Io-Io rappresenta l’organicità totale del corpo con la propria essenza, orizzonte e fine del lavoro performa-tivo.

Stanislavskij si propone «di eseguire tutti gli intendimenti del drammaturgo; voleva creare un teatro letteriario»52; il suo focus è il personaggio e l’Io dell’attore lo strumento per la sua personificazione; in Grotowski il centro è l’io dell’attore e il personaggio lo strumento per ‘proteggerlo’. La ‘nega-zione del personaggio’ e la nascita del concetto filosofico de L’Arte come veicolo concludono il secolo e definiscono la negazione e il superamento del personaggio. Afferma De Marinis:

[…] con L’Arte come veicolo, l’attore – che si era già liberato del

personaggio – si emancipa anche dall’obbligo di utilizzare il lavoro su

di sé per far compiere un’esperienza a qualcun’altro (lo spettatore) e

se ne serve per fare egli stesso un’esperienza alta, forte, spirituale [...].

L’Arte come veicolo costituisce senza dubbio uno de culmini del No-

vecento teatrale e della sua rivoluzione, una delle eredità più feconde

per il nuovo secolo.53

Con questo passaggio Grotowski dirige l’attenzione del suo lavoro sull’Io sono antropologico e l’Arte diventa il vei-colo di una ricerca spirituale verso l’essenza54, ovvero verso tutto quello che non è sociologico, che non è appreso, im-parato dall’esterno, dalla società, ma è posseduto dall’Io in quanto Io.

48 Jerzy Grotowski, Performer (1987), cit., p. 61.49 Ivi, p. 64.50 Ivi, p. 83 s.51 Ivi, p. 86.52 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 66.53 Marco De Marinis, In cerca dell’attore...cit., p. 125.54 Jerzy Grotowski, Performer (1987), cit., p. 84 s.

in Per un teatro povero41 – che serve per studiare ciò che è nascosto

dietro la maschera di ogni giorno, l’essenza più intima della nostra

personalità42.

Come racconta Thomas Richard, infatti, negli spettacoli del Teatr Laboratorium: «gli attori non cercavano i perso-naggi. I personaggi apparivano solo nella mente dello spet-tatore, a causa del montaggio costruito da Grotowski come regista […]».43 Il ‘personaggio’ «era costruito dal regista, non dall’attore e serviva a tenere occupata la mente dello spettatore […] in modo che lo spettatore potesse percepire con una parte di sé più adatta al compito, il processo nascosto dell’attore».44

Grotowski rappresenta la dimensione radicale della ricer-ca iniziata da Stanislavskij e giunge a una risposta diame-tralmente opposta, in relazione alle sue motivazioni del fare teatro; afferma il regista polacco: «Il teatro per lui era un fine. Non sento che il teatro sia per me un fine. Esiste solo l’Atto».45

Per Grotowski il teatro, infatti, diventa mezzo per l’incon-tro:

Perché ci occupiamo di arte? Per abbattere e le nostre frontiere, tra-

scendere i nostri limiti, riempire il nostro vuoto – realizzare noi stessi.

Non è questo il punto di arrivo ma è piuttosto un processo mediante il

quale quello che è tenebre in noi lentamente diventa luce. Nella lotta

con la nostra personale verità, nello sforzo per liberarci della maschera

che ci è imposta dalla vita, il teatro con la sua corporea percettività, mi

è sempre parso un luogo di provocazione, capace di sfidare se stesso

e il pubblico.46

Un incontro tra esseri umani; afferma Grotowski:

L’attore mi interessa perché è un essere umano. Questo dice soprat-

tutto due cose: in primo luogo, il mio incontro con un’altra persona,

il contatto, un sentimento di intesa reciproca e il turbamento creato

dall’apertura verso un altro essere, dal nostro tentativo di comprensio-

ne: in breve, il superamento della solitudine. In secondo luogo, lo sfor-

zo di capire noi stessi attraverso il comportamento di un altro uomo,

riscoprendoci in lui.47

L’Arte come veicolo è l’ultima tappa che definisce l’e-mancipazione dell’attore e il superamento della rappresen-tazione; superata l’Arte come presentazione la dimensione del ‘personaggio’ come pretesto esaurisce la sua funzione. In Grotowski si assiste al superamento del concetto di attore e si approda al Performer; le arti performative diventano un mez-

41 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970, p. 45.42 Marco De Marinis, In cerca dell’attore... cit., p. 124.43 Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p. 87.44 Ivi, p. 108.45 Jerzy Grotowski, Performer (1987) in Opere e sentieri. Vol. 2: Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998, a cura di Antonio Attisani e Mario Biagini. Roma, Bulzoni Editore, 2007, p. 60.46 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970, p. 28.47 Ivi, p. 150

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studiato da Claparéd; lo studioso svizzero, infatti, identifica l’attività creativa come lo spazio nel quale il soggetto tra-sforma la realtà in relazione ai suoi bisogni e desideri senza però sganciarsi dalla realtà stessa61. In questo senso il per-sonaggio è lo spazio nel quale l’attore sviluppa qualcosa di diverso da sé senza perdere mai il proprio Io, liberando allo stesso tempo tutta la sua potenzialità creativa in uno spazio protetto: l’immaginario creativo simbolico.

L’Io-Personaggio rappresenta l’incontro tra l’azione tra-sformatrice che l’io compie su di sé e la realtà del perso-naggio che diviene spazio simbolico e luogo di un confronto sociale.

L’Educazione alla Teatralità non esclude la comunica-zione, essa viene solo ripensata; Gaetano Oliva riprende il concetto di rappresentazione, ritenendola importante per il teatro: «L’elemento centrale del teatro è la rappresentazione. In essa agiscono, in forma simbolica, alcuni attori che inter-pretano i personaggi; inoltre, tale rappresentazione si svolge sempre a diretto contatto con un pubblico»62 e propone al contempo un suo superamento, chiamato Progetto Creativo che costituisce l’esito visibile del laboratorio da parte di cia-scun attore-persona. Esso porta alla realizzazione della co-municazione: «Con questo termine si vuole sottolineare la validità del teatro come mezzo di espressione di un’idea o di uno stato d’animo che diventa causa dell’intero progetto cre-ativo. La persona ha intenzione di dire qualcosa e costruisce la situazione teatrale che lo vede protagonista per rivelare allo spettatore presente qualcosa di sé»63

L’Educazione alla Teatralità recupera la tradizione del teatro novecentesco rileggendolo all’interno di una filosofia di teatro-educazione: «La pedagogia teatrale rappresenta una struttura fondamentale per l’arte, poiché permette all’arte di rigenerarsi e di ripensarsi come veicolo, ma anche, in con-tinuità alla tradizione dei registi-pedagoghi, come rappre-sentazione che non è più concepita solo fine a se stessa, ma diventa parte di un vero e proprio processo creativo».64

Il superamento dell’attore si sviluppa nel concetto di at-tore-persona, uomo e artista che agisce per dare forma a se stesso (consapevolezza del se), alla sua creazione (il perso-naggio), alla relazione con lo spettatore (il progetto creativo), in un’ottica filosofica precisa: l’arte come veicolo formativo e l’esperienza estetica come arte e conoscenza.

L’attore-persona e l’Atto Creativo: l’Io-Personaggio

L’attore di Stanislavkij lavorava sul personaggio, l’attore grotowskiano sul proprio io; la metodologia di lavoro dell’E-ducazione alla Teatralità vuole mette a confronto queste due esperienze per assimilarne gli elementi fondanti; partendo dal lavoro grotowskiano recupera la centralità dell’io ri-prendendo allo stesso tempo il lavoro sul personaggio sta-

61 Ibidem.62 Gaetano Oliva, Serena Pilotto, La scrittura teatrale nel Novecento...cit., p. 16.63 Gaetano Oliva, Una didattica per il teatro attraverso un modello: la narrazione, Padova, CEDAM, 2000, pp. 80- 82.64 Gaetano Oliva (a cura di), La pedagogia teatrale...cit., p. 9.

L’Educazione alla Teatralità: Arte dell’attore e Arte come veicolo, un incontro.

L’Educazione alla Teatralità pone l’accento sul Io sono55 della persona: è la persona umana in quanto tale ad esse-re artista; la creatività dell’arte è strumento di formazione e culturale. L’Educazione alla Teatralità, per questo, parte dal concetto di Arte come veicolo grotowsiano – arte come mezzo per lavorare su se stessi - per elaborarlo recuperando allo stesso tempo tutti gli strumenti e gli elementi della storia del teatro e della pedagogia teatrale che possono essere fun-zionali nell’ottica delle sue finalità. Gaetano Oliva, teorico di questa metodologia di lavoro la esplica nella seguente defini-zione: «la consapevolezza del sé e lo studio del personaggio in un lavoro individuale e di gruppo»56.

Nella proposta teatrale dell’Educazione alla Teatralità av-viene l’incontro tra il laboratorio come luogo di formazione dell’attore-persona ripreso di Grotowski e la rappresentazio-ne del personaggio (Stanislavskij) che diviene il luogo della relazione con lo spettatore.

Rispetto al lavoro del laboratorio, Oliva afferma:

L’equilibrio tra queste due dimensioni, quella pedagogica e quella

teatrale, diventa indispensabile in un laboratorio di educazione alla

teatralità che vuole essere un luogo in cui la consapevolezza psichica e

fisica di sé e la capacità espressiva dell’identità ritrovata si sviluppino

in modo armonico. La formazione dell’attore-persona non è finaliz-

zata alla trasformazione dell’uomo in un “altro” rispetto a sé, ma ha

come obiettivo di valorizzare le sue qualità nel rispetto, sempre, della

sua personalità.57

Per quanto riguarda l’attore Oliva recupera l’azione crea-tiva: chi agisce può partire «dal lavoro immaginario dell’au-tore rielaborandolo ed esprimendolo con caratteristiche personali»58, focalizzando però l’attenzione verso il supera-mento della sola interpretazione. Viene affermato quindi un concetto di creazione più ampio, fino a concepire una dram-maturgia dell’attore-persona: «questo è il processo creativo dell’attore concepito come un lavoro compositivo, di tessitu-ra e di montaggio e dunque drammaturgico in senso proprio che ha come oggetto le azioni fisiche e verbale».59

Anche il personaggio diventa impegno conoscitivo ov-vero frutto di un’analisi antropologica attraverso la quale il soggetto riscopre se stesso e l’altro in sé determinando «lo sviluppo e l’espansione della personalità»60 dell’attore e del-la sua capacità di relazione. Questa operazione rispecchia, dal punto di vista psicopedagogico, il comportamento ludico

55 Cfr. Gaetano Oliva, Il laboratorio teatrale, Milano, LED, 1999, pp. 89-110.56 Gaetano Oliva, L’Educazione alla Teatralità e la formazione..., cit, p. 308.57 Gaetano Oliva, Educazione alla Teatralità e formazione..., cit., p. 234. 58 Gaetano Oliva, Serena Pilotto, La scrittura teatrale nel Novecento...., cit, p. 114.59 Gaetano Oliva, Il laboratorio teatrale, cit., p. 225.60 Gaetano Oliva, L’educazione alla teatralità e il gioco drammatico, Arona, XY.IT Editore, 2010, 52.

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giunto al «sistema» una presa di coscienza e un feedback ide-ologico: ha chiesto all’attore di non rappresentargli soltanto il personaggio; ma anche un suo punto di vista critico. Ha aggiunto nella recitazione dell’attore l’esigenza di un giu-dizio di valore sul personaggio»68 -, infine non raggiunge nemmeno la ricerca dell’essenza grotowskiana. Il lavoro di introspezione si pone come finalità primaria lo sviluppo del-la consapevolezza del sé, della capacità di relazione e della creatività. Per spiegare questo è utile confrontare il concetto di Atto Creativo definito da Grotowski e da Oliva. Rispetto al lavoro del Performer afferma Grotowski:

Uno degli accessi alla via creativa consiste nello scoprire in se stessi

una corporeità antica alla quale si è collegati da una relazione ance-

strale forte. Non ci si trova allora né nel personaggio, né nel non-

personaggio. A partire dai dettagli si può scoprire in sé un altro – il

nonno, la madre […]. All’inizio, la corporeità di qualcuno di cono-

sciuto, e in seguito, sempre più lontano, la corporeità dello sconosciu-

to, dell’antenato […]. Puoi tornare molto lontano all’indietro, come

se la memoria si risvegliasse. È un fenomeno di reminiscenza, come

se ci si ricordasse del Performer del rituale primario. Ogni volta che

scopro qualcosa ho la sensazione che sia ciò che ricordo. Le scoperte

sono dietro di noi, e bisogna fare un viaggio all’indietro per arrivare

fino a esse. Con uno sfondamento […] si può toccare qualcosa che

non è più legato alle origini ma – se oso dirlo – all’origine? Credo di

si. […] Quando lavoro in prossimità dell’essenza ho l’impressione di

attualizzare la memoria.69

Questo intenso lavoro di scavo e di auto-penetrazione psichico-corporeo verso l’origine viene ricentrato dall’Edu-cazione alla Teatralità su un piano psicopedagogico legato alla vita concreta e ai valori esistenziali dell’attore-persona.

L’analisi antropologica che spinge a trovare il diverso in se viene spostata su un piano quotidiano diventando l’autentico terreno di incontro dell’altro, dello spettatore e della società. Ciò che viene stimolata è l’espressione della propria unicità, della propria visione del mondo, della propria storia perso-nale. Scrive Oliva:

L’esperienza più profonda che un attore-persona può compiere è quel-

la della produzione di un atto creativo. Consiste nella realizzazione

68 Ivi, p. XXXIII s.69 Jerzy Grotowski, Performer (1987), cit., p. 86 s.

nislavkiano . Questo non è, però, affidato al montaggio del regista - come in Grotowski - ma è opera creativa dell’attore liberato dalla sudditanza del testo, che diviene mero pretesto e non fine della creazione della parte.

I due poli – centralità dell’Io e creazione del personag-gio – indagati separatamente nelle due idee di teatro hanno raggiunto una profondità straordinaria escludendosi però a vicenda. Il processo artistico dell’Educazione alla Teatralità semplifica i due processi coniugandoli.

Nell’Educazione alla Teatralità l’elaborazione del concetto del personaggio avviene superando la dipendenza dal testo, il personaggio non è la fedele messinscena dell’idea dell’auto-re - scrive Grotowski a questo proposito: «Stanislavskij cre-deva che il teatro fosse la realizzazione del dramma»65 - ma è opera dell’attore.

Il personaggio è necessario sia all’attore sia allo spettato-re come momento fondamentale dell’incontro teatrale; esso, infatti, è il medium artistico, creazione dell’attore attraverso la quale esprimere la propria personalità artistica, la propria creatività secondo una logica che dia ordine e senso all’azio-ne scenica. Scrive Peter Brook:

Il caos che può nascere dalla liberazione del mondo segreto di cia-

scun individuo dev’essere unificato in un’esperienza comune. In altre

parole, l’aspetto della realtà che l’interprete evoca deve ridestare una

reazione all’interno della stessa zona in ogni spettatore, cosicché […]

il materiale fondamentale presentato, la storia o il tema, è dopotutto

lì per fornire un territorio comune, il campo potenziale in cui ogni

membro del pubblico, quali siano la sua età o il suo retroterra, si possa

ritrovare unito al suo vicino e condividere un’esperienza.66

Nella prospettiva dell’Educazione alla Teatralità l’io è sempre presente, non solo come autore del personaggio ma anche artista che esprime se stesso. L’Io dell’attore-persona è sempre vigile, attento, il suo rapporto con il personaggio non si esaurisce solamente nel senso stanislavkiano come biografo67, neppure si apre unicamente alla dimensione cri-tica brechtiana che determina il completamento del lavoro sul personaggio iniziato dalla scuola russa - «Brecht ha ag-

65 Jerzy Grotowski, Performer (1987), cit., p. 60. 66 Peter Brook, La porta aperta, cit., p. 59.67 Vedi Gerardo Guerrieri nella prefazione di Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Vol. I, cit., p. XXXII.

Fig. 1 Modalità di lavoro dell’Educazione alla Teatralità: Io-Personaggio

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una composizione, una tessitura, un montaggio, una sapiente alternanza e congiunzione tra il proprio io e la propria crea-tura immaginaria a cui si da forma con corpo, voce, idee ed emozioni.

L’incontro tra io e personaggio determina una sovrappo-sizione, un dualismo, un conflitto, un’ambiguità mai risolta che non porta alla definizione di un modello preciso, anche se si sviluppa a partire da una precisa modalità di lavoro che ogni attore-persona è chiamato a personalizzare: in relazio-ne alla tipologia di personaggio che vuole costruire, alla suo stato esistenziale nel momento in cui crea, alla dinamica di incontro con il pubblico, egli modella il personaggio ogni volta in modo nuovo e differente.

Il personaggio non è più necessariamente verosimile e de-finito nella sua totalità psicofisica e storica, né si rifà a un modello che chiede un risultato preciso; è una creatura più dinamica che definisce una dimensione umana, che nasce in relazione al processo creativo dell’attore-persona e si orienta in interazione con lo spettatore-persona.

La creazione del personaggio può partire da un testo pre-esistente, da un racconto, da una sensazione, da un imma-gine, da un quadro, da una fotografia; o può partire dalla mescolanza di alcuni di questi elementi. Il lavoro con un drammaturgo o un dramaturg non viene quindi escluso; si esige, però, la definizione di un nuovo modo di pensare al testo per la scena: una dimensione drammaturgica al servizio del lavoro e della personalità di chi agisce.

L’azione del Progetto Creativo non esclude il dialogo e la storia, ma non è strettamente basata sullo sviluppo di una trama, ma mette in scena personaggi in una data condizione umana (una tematica filosofica) che divengono il mezzo e il luogo per incarnare una dimensione esistenziale e per il confronto con gli altri (spettatori).

Questa sorta di negoziazione tra Io e personaggio è funzio-nale a costruire una scena che lavora sulla vita in forma di rappresentazione legandosi alla quotidianità; ancora Brook chiarisce l’importanza di questo elemento:

Un’ esperienza teatrale che vive nel presente dev’esse-re vicina al pulsare del tempo […]. Il teatro deve avere un aspetto quotidiano – storie, situazioni e temi devono essere riconoscibili, dato che un essere umano è soprattutto interes-sato alla vita che conosce. L’arte del teatro deve anche avere una sostanza e un significato. Questa sostanza è la densità dell’esperienza umana; ogni artista anela a catturarla nel pro-prio lavoro in un modo o nell’altro, e forse si accorge che il significato nasce dalla possibilità di entrare in contatto con l’invisibile sorgente che è oltre i suoi limiti consueti, e che da significato al significato[...].

Qual è dunque il nostro scopo? È un incontro con il con-testo della vita, né più né meno. Il teatro può riflettere ogni aspetto dell’esistenza umana, pertanto ogni forma di vita è valida, ogni forma può avere un posto potenziale nell’espres-sione drammatica.72

72 Peter Brook, La porta aperta, cit., p. 67.

di un «dramma della memoria» attraverso l’esercizio fisico. L’atto-

re messo in presenza di un qualsiasi oggetto della sua vita comune,

che funge ritualmente da simbolo evocatore, con l’aiuto di vari ac-

corgimenti dettati dall’esperienza e organizzati in tecnica interiore

(una canzone di quando era bambino accompagnato da un gesto o

da un movimento ripreso dai giochi che faceva), giunge a rivivere in

forma fisica episodi della sua vita, esperienza spesso sepolte nel suo

subcosciente. Egli esprime allora questa sua inusitata esperienza in

forma dialogica o monologica, spesso densa di straordinaria sugge-

stione teatrale. Gli accenti, le intonazioni, le frasi di cui egli si serve

scaturiscono da zone profonde della sua personalità e sfuggono così

al vaglio delle sue assuefazioni conformistiche. Egli fa del teatro allo

stato puro e il suo linguaggio reca l’insolito timbro della sua personali-

tà più autentica. L’attore giunge a un buon livello di abbandono senza

perdere mai il controllo di sé perché il corpo e la sua fisicità sono il suo

tramite. Agli effetti pratici l’atto creativo rappresenta una rottura del-

le incrostazioni dell’abitudine, un tuffo nelle profondità, una presa di

contatto con la propria personalità ignorata e spesso sepolta sotto strati

di conformismo e inibizione. Costituisce quindi un’apertura psichica,

un contributo alla liberazione della vera originalità dell’artista.70

Questa impostazione preserva lo sviluppo dell’originalità artistica e allo stesso tempo lega l’attore alla sua quotidianità. Focalizzare l’atto creativo sui propri ricordi e sulla propria storia di vita permette di mettersi in ricerca della propria per-sonalità più profonda, ma al tempo stesso di dare ordine e rielaborare la propria vita interiore esprimendola in un’azio-ne in un’ottica formativa. Afferma lo stesso Oliva sull’im-portante ruolo della narrazione: «significa trasmettere l’im-portanza di dare agli eventi e alle emozioni che popolano la nostra vita, una storia che dia loro senso e significato. La dimensione del racconto, inoltre, permette di riappropriarsi del passato, facendo emergere dal caos e dalla frammenta-zione ricordi, memorie e vissuti».71 Il piano antropologico indagato da Grotowski viene quindi spostato in una dimen-sione esistenziale.

L’attore-persona nel suo stato di rappresentazione è un uomo che attraverso le sue azioni crea la sua opera d’arte immaginaria dinamica (il personaggio) e insieme cerca, dà forma e comunica se stesso. Il personaggio è lo strumento con cui si relaziona allo spettatore, di cui si serve per creare la comunicazione artistica e allo stesso tempo il luogo per dare forma al suo stato creativo. Questa doppia dimensione - Io sono e personaggio - è anch’essa una relazione, mai data per definitiva; è compito di ciascun attore-persona definire il proprio modello espressivo e creativo e dosarlo nelle diverse rappresentazioni a seconda dell’esperienza, della sua sensi-bilità, delle proprie finalità, del ‘qui e ora’ e delle reazioni del pubblico.

Tale processo, per queste ragioni, può essere concepito come una vera opera di drammaturgia (scrittura dell’azione),

70 Gaetano Oliva, L’Educazione alla Teatralità e formazione...,cit. p. 310 s.71 Gaetano Oliva, Serena Pilotto, La scrittura teatrale nel Novecento... cit., p. 135.

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il medico Soresi «Lo spettatore che osserva composizione artistiche non completamente oggettivabili, ha il vantaggio di poter definire nella sua mente, in svariati modi, l’opera che osserva».76 Lo spettatore è quindi coinvolto come co-creato-re della comunicazione relazionale teatrale. Come afferma Cristina Boracchi, infatti, nella comunicazione «non si tratta […] di trasferire mere informazione ma significati»77; questi significati vengono sostanziati nella compresenza di spazio, tempo e corpo»78; afferma Boracchi:

L’assenza di presenzialità fisica […] comporta la mancanza di una

sua parte essenziale, quella fisico-gesuale, espressiva, quella cioè del

contesto logico del porsi di un io rispetto a un tu, con l’immediatez-

za della percezione degli impatti sul ricettore. L’autenticità di una

comunicazione siffatta si evidenzia poi soprattutto nella dimensione

del tempo entro il quale si manifesta: gli antichi leggevano il tempo

della comunicazione come quello dell’oralità circolare, ove la mai-

eutica poteva operare anche una costante ermeneutica comunicativa,

comportante la crescita comune dell’io e del tu, nel superamento delle

precomprensioni pregiudiziali e in un itinerario progressivo di cono-

scenza e di senso.79

Il confronto aperto dalla relazione e dal teatro è strumento culturale volto alla produzione di un cambiamento in un’ot-tica di crescita del benessere personale e sociale dei singoli e della comunità.

La creazione dell’Io-personaggio è una relazione che nel progetto creativo si apre ad altre relazioni. Lo stesso Progetto Creativo, infatti, deve essere considerato uno strumento, un punto di partenza per aprire una riflessione e non come una scena chiusa su se stessa come nel vecchio concetto di spet-tacolo. Nel tentativo di costruire un dialogo che vada oltre la scena a partire dalla scena, ci si apre a una dimensione esteti-ca e filosofica che vede l’incontro come esperienza formativa per attore e spettatore.

La proposta dell’Io-Personaggio va in questa direzione, una proposta globale che vuole mettere in gioco tutti gli ele-menti della persona (quelli sensoriali, quelli fisici e corpo-rei, quelli psichici, emozionali e creativi, quelli valoriali e intellettivi - fantasia, immaginazione, pensiero culturale) in uno stato creativo relazionale. Nel Progetto Creativo l’attore-persona pur portando un suo specifico messaggio e una sua precisa visione di una condizione esistenziale conduce la relazione in una dinamica vitale, attento a ciò che succede intorno. La dinamica creativa del personaggio si svolge quin-di tra progettazione dell’incontro e avvenimento dello stes-so sotto l’influenza dello spettatore, in quanto una specifica relazione con esso rimane l’obiettivo primario; il confronto viene quindi condotto verso una riflessione di carattere esi-stenziale e politico-sociale.

76 Enzo Soresi, Il Cervello Anarchico, Torino, UTET, 2005, p. 128.77 Cristina Boracchi, Comunicazione, in Claudio Benzoni (a cura di), In una parola... cit, p. 59.78 Ibidem.79 Ibidem.

L’attore-persona ricerca la sua verità nella creazione del personaggio, strumento per un lavoro profondo sul proprio Io e sul modo di vedere una condizione umana. Allo stes-so tempo il personaggio contestualizza la scena anche per lo spettatore; la sua presenza trasferisce l’incontro reale e vivo con l’attore-persona in una dimensione extraquotidiana, im-maginaria e fantastica.

É strettamente necessario in primo luogo che avvenga la rappresenta-

zione di un certo brano di realtà in forma simbolica. Realtà e simbolo,

nel teatro, si incrociano, si sovrappongono in un’ambiguità che è l’a-

nima stessa dell’arte scenica. Ciò che si vede sulla scena, infatti, vale

anzitutto nella sua concretezza: c’è la corporeità degli attori, ci sono

gli oggetti scenici, si fa e si dice fisicamente qualcosa, ma contempo-

raneamente, gli elementi della messinscena funzionano come eventi

fittizi, come rinvio a un’altra realtà. Ogni elemento sta al posto di ciò

che non si vede: è il processo di significazione, de comunicare attra-

verso segni, che sostituisce il reale con ciò che non è reale.73

IL PROGETTO CREATIVO: IO-PERSONAGGIO

INCONTRA LO SPETTATORE

L’attore-persona, nell’Educazione alla Teatralità, defini-sce un lavoro che:

- dal punto di vista pedagogico e formativo ricerca il pro-cesso di sviluppo del benessere personale psico-fisico e so-ciale (lo sviluppo della persona attraverso l’arte e nell’arte);

- dal punto di vista artistico mette a confronto i due esiti a cui la pedagogia teatrale del Novecento è approdata: lo svi-luppo dell’Io (la persona) della ricerca grotowskiana e lo stu-dio del personaggio (l’arte dell’attore) dei registi-pedagoghi della prima metà del Novecento.

- dal punto di vista culturale e filosofico promuove l’Arte come veicolo.

L’Educazione alla Teatralità si propone di uscire dallo spettacolo inteso come fruizione di un prodotto, per creare un momento di incontro che sia comunicazione e relazione. Pur rispettando le regole e i linguaggi del teatro, l’obiettivo pecu-liare rimane la relazione umana di persone che si incontrano: «Pensare all’arte come veicolo che mette al centro l’attore, non significa escludere lo spettatore dal processo teatrale ma egli viene posto in una condizione in cui deve ripensare al suo modo di essere pubblico, legandolo alla sua esperienza personale»74.

Il Progetto Creativo è un momento di incontro e di con-fronto tra uomini. È il luogo dove l’Io-Personaggio si apre a una nuova relazione, quella con lo spettatore-persona. Esso non è un modello risolto, esemplare, finito, ma una relazio-ne dialogante che mette in gioco l’identità come processo75 dell’attore-persona e dello spettatore-persona. Come afferma

73 Gaetano Oliva, Serena Pilotto, La scrittura teatrale nel Novecento... cit., p. 17.74 Gaetano Oliva (a cura di), La pedagogia teatrale ...cit., p. 31.75 Rita Pezzati, Identità, in Claudio Benzoni (a cura di), In una parola. Frammenti di un enciclopedia casuale, Varese, Benzoni Editore, 2014, p. 93.

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scrivendo alla tastiera del suo computer, osservando in par-ticolare alcune località, per tanti aspetti esemplari, lungo la spaziosa, ridente, laboriosa instancabile, costiera romagnola. Compone in modalità simile, ma non identica, a quella da lei già praticata con i suoi Wiener Schriften (2013-2014), manoscritti da lei concepiti e realizzati a Vienna, composti in tempo reale, durante periodiche visite. In questo saggio compie scelte retoriche compatte, modula i toni e modera le intonazioni per raggiungere una tenuta stilistica priva di in-terruzioni, senza ripensamenti o correzioni. Uniche revisioni sono ovviamente dovute alla rilettura complessiva del testo, che è contemporaneamente alleggerito ma non modificato: l’autrice mantiene inalterato l’uso alterno della prima e della terza persona femminile singolare.

1. LA CAPITALIZZAZIONE DELL’INDOTTO

LETTERARIO

La rarefazione delle mie attuali prose è dovuta al conteg-gio proiettivo, che porterebbe il capitale letterario nella sua

valutazione da genna-io 2016 a raggiungere una quota superiore a quella del capitale scientifico come re-staurato e stabile fino al dicembre 2015.

Si creerebbe una concorrenza interna fra le due fasi e periodi del mio lavoro scienti-fico e letterario, che in-debolirebbe entrambe le posizioni con inutili entropie e sovrapponi-bilità.

Una pausa, intesa ri-

Economia letteraria sincronica e filologia dinamica GRAZIELLA TONFONI

PREMESSA

In questo saggio, l’autrice, non rilancia, ma ribadi-sce la rilevanza storica del suo intero patrimonio scientifico, che risale agli inizi degli anni ottanta del precedente secolo e si riversa nei suoi innu-merevoli contributi, capitoli, articoli, volumi, tra-

scrizioni di sue lezioni magistrali e accademiche, materiale abbondante e tutto già ampiamente reso disponibile agli stu-diosi.

Cambiati completamente sono i temi affidati alla sua com-petenza e i problemi che intende analizzare per risolvere. Procede alla delineazione di uno scenario conforme alle ne-cessità dei lettori attuali, utenti, frastornati, distratti, confusi dalla quantità eccessiva di notizie e asserzioni spesso non verificate e immediatamente diffuse e presentate come in-discutibili certezze. Indicato l’eccesso di interconnessione, come la causa di gravi incomprensioni, mostrandone origi-ni e dinamiche, una per una e definendone le conseguenze sull’immaginario collettivo, indica alcune patologie compor-tamentali, descrivendo i risultati critici, defi-nendo i nuovi proble-mi emersi, che si rive-lano spesso del tutto paradossali. Identifica uno per uno i limiti dell’attuale prassi cor-rente per proporre un paradigma decisamen-te più adeguato alle esigenze dei lettori.

Realizza questo ar-ticolo nell’arco delle due prime settimane di agosto 2016, che tra-scorre operosamente,

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Neppure vi ho investito molte energie, data la densità di presenze assai poderose di autori già stabili e di giovani pro-messe assai competitive. Non mi muovo su questo piano per-ché ne vedo chiaramente i contraccolpi che ne potrei subire. Mi manca inoltre quella dose di assertività che è necessaria a fare fronte ad attacchi di chi si senta messo in discussione.

Ma avendo scelto io stessa di narrare della mia propria nar-rativa, di comporre sui risultati delle mie analisi scientifiche permettendo un rialzo dei valori esplicativi, solo ricorrendo alle mie glosse e apparati critici, ne sconto una solitudine pensosa, che ritengo comunque essere la condizione prima-ria per ogni ricercatore e scrittore anche se di fatto oggi si riscontra il contrario.

Rinunciare ai festival non è stata per me scelta difficile, neppure quella di rinunciare alla dimensione didattica di aula, dato che ogni mia pagina è una didattica potenziale. Più complicato è presentarsi a chi invece fa di queste dimensio-ni di esternazione il presupposto ideologico di un vissuto di scrittura, che diversamente considera un fallimento, se man-chino occasioni di pubblica presentazione. Ricapitalizzare i derivati scientifici del mio lavoro impacchettandolo lettera-riamente è comunque una operazione emotivamente costosa, perché mi conduce alla disamina non solo del come eravamo ma anche del come avremmo potuto essere se certi tracciati e linee di geometrica perfezione fossero state seguite e se cer-te rischiose scelte e decisioni avventate di altri non fossero state attuate.

Quindi ogni aspetto di questa attualità sconcertante è mo-tivo di effettivo dolore, profonda tristezza del senno del mai. La scrittura mi supporta nel proseguire a credere che la sto-ria, oltre alla mia quotidiana composizione, potrà mantenere solidi i valori oscillanti delle mie lezioni, indicazioni stabili soprattutto alla luce degli eventi e sul lungo termine. Una ricapitalizzazione dell’attualità oggi può passare attraverso la ricapitolazione di tanti concetti che si mostreranno quelli esatti anche sulla base degli estratti termini del passato pa-trimonio scientifico di cui sono e resto la autrice pioniera. Ma pensare che questa ricapitalizzazione possa avvenire in tempi limitati anche se ne sarei ovviamente ben contenta non mi pare realistico e neppure credibile.

Quello che conta è che ogni tassello interpretativo intro-dotto non vada perduto, che non diventi scheggia filologi-ca, neppure appendice dimenticata quando ci sarà necessi-tà di introdurre un lessico italiano specifico letterariamente connotato di ciascuna delle mie opere. Ogni paragrafo che compongo può diventare frase esemplare, ma pretendere che ciò si misuri subito sulla base di un credito immenso da me maturato non è realistico, anche date le spinte contrarie e contrapposte del presente mercato degli autori e dei critici.

La mia letteratura resta comunque sistemica, quindi a di-sposizione di più investitori e come tale potrebbe accadere che qualche lettore effettivamente interessato ne raccoglies-se e raccontasse le dinamiche corrette per farla ricapitalizza-re ricapitolandone il senso.

progettare i contenuti del 2016, si rende indispensabile per approntare una griglia selettiva. Nel periodo accademico le sporgenze lessicali si materializzavano in spazi interpretati-vi, che potevano essere saturati dalla verticalizzazione di un vocabolario tecnico specialistico.

Nel periodo post-accademico le attese di ricapitolazione in conto dei lettori assidui possono oppure non possono essere soddisfatte da atteggiamenti filologici corretti data la man-canza di tempo di critici oberati da oneri accademici prece-denti.

Le prose attuali sono quindi destinabili ad una rivalutazio-ne delle atipicità seppur nella consapevolezza di una volatili-tà avverbiale e di una tempistica instabile.

Le crisi oggi riscontrate nelle basse presenze di titoli soli-di, mentre intere filiere di parole chiave paiono tuttora essere in movimentazione improduttiva, è da conteggiare sulla base delle discrepanze fra le affermazioni contenute nei nuovi pa-ragrafi e la mentalità dei lettori attuali costantemente spinti a non ben chiarite istanze di innovazione. La innovazione con-tinuativa ha provocato omologazioni semantiche e instabilità pragmatiche cui fa riscontro una detrazione sintattica.

La conservazione di elementi di fantasia, se dichiarata tale, nel recupero di traiettorie storicamente accertate come produttrici di indotto letterario porta ad una poeticità seppur parziale di frasi che, se estratte con cura, alzano i toni della operazione di ricostruzione di valore perduto mettendola in relazione alle mancate valorizzazioni dei punti di riferimento forte di ogni tradizione che giustifica e rende coerente cia-scun paragrafo.

Se tali elementi del fantastico sono invece linearizzati in una prassi referenziale con mancanza di appendici critiche, allora si riscontra la totale carenza di punti di contatto fra una tradizione scientifica da cui non si deve prescindere e svuo-tamenti di senso basati sulle frettolosità.

Importante seguire una lenta ma costante tendenza alla crescita dei titoli se conformi alle relative paragrafazioni, evitando di percorrere sentieri di virtualità che sono bolle destinate a dissolversi.

La paziente fedeltà ecdotica nei confronti di una tradizio-ne storicamente provata, può evitare quei picchi di crescita, che poi conducono ad altrettante ricadute negative sull’im-maginario collettivo nei tempi lunghi. Innovare velocemente paragrafi non dà la garanzia di una leggibilità omogenea, ma solo di temporanee, sporadiche alzate e ricapitolazioni che nulla hanno a che vedere con la stabile ricapitalizzazione di senso e di significato.

La richiesta pervenutami di spostare l’asse di attenzione dei miei usuali lettori dagli aspetti tecnici e scientifici del mio lavoro di ricerca concepito in lingua inglese e poi sem-pre adattato alla realtà nazionale, ricapitalizzandone senso e significato per studiosi e lettori, in una dimensione lettera-ria prettamente italiana ha comportato una difficoltà perfino maggiore. Entrare a fare parte di liste di autori che già si spartiscono una area assai affollata e che si consorziano per seguire un minimo di regolamento interno che permetta ad ognuno di loro di esprimersi non mi è stato possibile.

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vedere con il come siamo diventati ora. Nei suoi due brevi romanzi del 2015 l’autrice si limita a fare questo: indica ai lettori che si potrebbe essere davvero più sereni di così come siamo oggi.

Le detraibilità concettuali dalle frasi emergono in linearità post-lessicali, che l’autrice addita non come app da scarica-re ma come appendici che evocano una filologia rigorosa, una disamina precisa nulla concedendo ad un nostalgismo di forma.

Cambiare direzione appare il motto fluido, che scorre fra le pagine che pur nulla hanno di quel didatticismo che allonta-na, che molte didascalie possono evocare.

Detrarre deduzioni logiche risalendo a un contesto stabile può aiutare chi oggi debba compiere scelte importanti a ve-dere più chiaramente le implicazioni e le conseguenze per essere poi in un domani orgoglioso di avere messo in atto de-terminati percorsi nell’avvicendarsi di corsi e ricorsi, quelli che la storia e quindi anche quella del pensiero computazio-nale realizza.

3. ATIPICITÀ PERMANENTE

Una atipicità permanente non può fungere da esempio e non deve attrarre imitatori, neppure dare luogo ad emuli; non è giudicabile, ma solo valutabile retroattivamente sulla base dell’estimo dei risultati potenzialmente conseguibili e di quelli effettivamente raggiunti.

Se un obiettivo è la premiazione letteraria sostitutiva di una adeguata valutazione accademica allora si può sancire un unicum in forma di una tantum e formato filologico a norma eccezionale.

Può essere realistico e realizzabile in tempi rapidi solo se ne viene colta e raccolta in forma di narrazione la squisita unicità, la pregiata insostituibilità delle forme retoriche, la intraducibilità di traiettorie stilistiche, che non si fanno rac-chiudere in sigle, neppure ricondurre a titolazioni evocative di alcuna proporzione di spessore critico.

La grande rinuncia a occupare il tempo e le energie di altri può essere il simbolico resoconto di una prassi tanto solitaria da richiedere il rispetto del lettore, che non è più affannato e neppure affannoso protagonista alla ricerca di senso e di significato nascosti, ma può comodamente attendersi alcune glosse incorporate nel testo a fondo pagina.

L’autrice finalmente riesce a fare riposare il critico, non richiedendo implicitamente una cultura interdisciplinare e neppure esigendo un ascolto minuto e minuzioso, che rac-comandi l’uso di un dizionario alla mano, perché nulla di quanto appare scontato di fatto è mai ovvio.

Pare che un estimo di tempi lunghi per riconoscere la por-tata di un portale che tanto contiene delle sue attuali consi-derazioni non sia più adatto alla situazione, che richiede una maggiore velocità nell’ascolto e nella percezione del mes-saggio.

Davvero nulla deve apparire intentato in questa frenetica corsa contro un tempo affastellato di costante pressione tutta intorno. Senza mai rinunciare a quell’asse di coerenza, che si

2. LE DETRAZIONI TESTUALI

La cultura informatica preventiva, che è quanto avevo in-teso sostenere, promuovere nelle sue linee prudenziali, che per vicende non da me dipese non corrisponde alla situazione attuale che è addirittura quella che avrei voluto scongiurare data la accelerazione nelle prassi interconnesse globalizzanti, che ha prodotto molti più disastri che effetti positivi, è tuttora disponibile ai lettori delle mie opere del periodo accademico.

Se ne ritrovano reperti concettuali importanti nel museo diffuso costituito dalle mie innumerevoli pubblicazioni, includendovi le trascrizioni di miei seminari e conferenze del secolo scorso.

Evidente che hanno prevalso ben altre indicazioni, se oggi la civiltà dell’estremismo digitale, della costante connessio-ne, che non corrisponde a una cultura della gestione delle reti e delle conversazioni altrettanto avanzata, ci sta di fat-to smembrando disperdendoci, in mille rivoli di dati, di cui molti non verificabili, con emozioni artificiose e spurie.

In sintesi la mia narrativa attuale intende precisare che il mondo interconnesso, che oggi viviamo, non è affatto quello che avrei voluto vedere io e neppure quello che i padri fon-datori e pionieri per cui ho lavorato avrebbero pronosticato o auspicato di vedere.

Da sempre avevo praticato una narrativa sommersa, a sal-vaguardia delle deviazioni, che ogni esagerazione prevedibi-le può causare e devo dire che proprio anche grazie a queste letterarie espressioni almeno alcuni estremi potenziali sono stati evitati.

Ma oggi la spinta globale impedisce a chi sia scienziata consapevole, che si sente responsabile delle proprie inven-zioni e scoperte e teorie e metodi, di decelerare fasi che altri abbiano innescato con decisioni frettolose e pericolose. Tale spinta non consente all’esperta di mettere a disposizione le sue esperienze, competenze, conoscenze specialistiche che si mescolano non ascoltate ad un vociare rumoroso di opinio-ni senza fondamento. Questa fluidità appiccicosa, spacciata come democratico egualitarismo, non consente a chi ha basi solide di avere semplicemente voce in capitolo su scelte che, se altri fanno in modo errato, possono modificare radical-mente la natura umana e sconvolgere i comportamenti indi-viduali e collettivi.

Ecco perché la attuale letteratura di Graziella Tonfoni ap-pare come è, operazione di solitario ripiegamento. Di fronte a una ondata massiccia di mancato buon senso paiono le sue pagine passerelle di logiche deduzioni, sospese a guadare lo stagno attuale, in una totale carenza di senso e di significato. Le sue frasi attuali consentono una possibile detraibilità ov-vero reindirizzano a quella saggezza informatica, degli anni ottanta del secolo scorso, che i nativi digitali oggi ignorano e che i più anziani che hanno vissuto tale fase, hanno dimen-ticato in un smemoratezza grave, dolorosa, talvolta davvero dolosa.

Non si tratta di rigirare la storia all’indietro, perché non è fisicamente possibile farlo, ma di comprendere e fare co-noscere la idealità di un “come eravamo” che nulla ha a che

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ma della deduzioni implicite, che si possano emettere a se-guito di documentata compulsazione delle sue costanti com-posizioni.

Non ha tempo per interludi o interazioni, che portino i critici a essere di parte di un ascolto su propaggini di buon senso, che lei ribadisce in stile retrò.

In fondo la dilatazione dei concetti nella sua prosa odierna permette a chi si sia prima lamentato della fittezza di griglie, impossibili da combinare fra loro in reti immaginifiche, di rassicurarsi su linee stabili di coerente comprensione avve-nuta di fatti e di effetti.

Non c’ è alcuna ricerca di consenso in una realtà che è sempre consenziente con correnti contrarie. Non compare neppure il didatticismo temuto da molti, esorcizzato come atto di sopraffazione.

La corrente delle sue prose fluisce limpida perché solo ac-cessibile a chi autenticamente intenda coglierne il profondo

materializza in un piano di coesione, senza ammettere cam-biamenti di rotta non previsti.

Avendo infatti chiaramente enunciato la sua norma di astensione, non prevede twitter e neppure facebook e nep-pure blog perché lei non intende disperdersi nei mille rivoli delle chiacchiere, neppure negli anfratti delle supposizioni, delle reazioni immediate, mai meditate a sufficienza prima di essere divulgate e disseminate in giro. Fiera oppositrice del chiacchiericcio spurio che trancia giudizi improvvidi, resta in una nicchia che la rende personalmente indisponibile ai lettori ma non indisponente.

In fondo richiede a chi sappia apprezzare la sua prosa di andarsene a cercare quei pertugi filologici appesi intorno alle sue appendici che non sono scaricabili, come app provviso-rie, ma che rappresentano il suo apparato critico, indiscusso data la alta precisione.

Accoglie la conversazione solo come risultato della som-

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senza chiederne le chiavi interpretative, era soggetto ad una serie di numerosi abbagli.

Ora le mie attuali prose non contengono più immaginifici riferimenti, non richiedono appositi vocabolari e non abbiso-gnano di un apparato critico. Si leggono per quello che espri-mono letteralmente e letterariamente. Non alludono, quindi non illudono nessun emulo o imitatore malintenzionato, che creda di avere scoperto un recondito racconto. Sono semplici acconti di una narrazione, che si svolge piana perché il tem-po di consultazione culturale richiesto oggi non sarebbe più esigibile.

Le sofferenze concettuali me le sono accollate tutte io, come autrice che di fatto resta unica o fra i pochi interpre-ti rigorosi delle proprie opere del passato, mentre i riassor-bimenti teorici di tanto patrimonio di conoscenze possono effettivamente accadere in forma di brevi riassunti, sintesi semplificate ma non banalizzate.

Le intemperanze stilistiche di una raffinatezza estrema di chiosa, sono oggi rischiose, date le intemperie poetiche, cui darebbero luogo. Perché imitare, emulare il tessuto di frasi ad alta complessità come le mie erano, senza averne colto l’ adeguato spessore, innalzerebbe ancora di più il tetto dell’in-quinamento informativo fitto e denso in cui viviamo.

Invettive didascaliche sarebbero confuse con domande e risposte, evocazioni espressive verrebbero trascritte come un inno di invocazione, avvoltolato e arrotolantesi nelle propag-gini di tanto filamentosa diceria. Si sedimenterebbero in un tessuto sociale ove quello che conta non è la verità dei pa-ragrafi, ma il numero di coloro che trasmettono voci spurie, agglomerati di mancata significazione, che attraggono altret-tanto consenso basato sul nulla.

Una inopportuna fola, diventa facilmente notizia se alme-no un gruppo virtuale la mette in onda e la trasmette con la opportunistica convinzione.

Gesti, atti privi di alcun doppio senso diventano, in una fibrillazione twitter, elucubrazioni che stallano nelle menti, ossessionando alcuni critici che si sentono prevaricati se non sono loro i primi ad aderire, confermare, ritrasmettere, senza neppure accertare.

In questa realtà intrecciata con la paradossale paranoia fi-lologica, le opere attuali dell’autrice si muovono lente per non colpire, con improvvise mobilità, per non provocare ventate di striscio, ideologicamente avventate e per nulla av-venturose, spostamenti inadeguati di note, che non feriscono ma spaventano e turbano le menti.

La prosa attuale di Graziella Tonfoni intende indicare la inutile sfida, che alcuni non certo lei hanno posto, autentico tormento divenuto totale e globale autolesionismo di ritor-no. Sotto le parvenze liquide di una manovra per evitare le cosiddette disparità di reddito filologico, sono stati infilati i presupposti tecnicamente a norma, per compensare le più clamorose inadeguatezze critiche.

Si sono realizzate le premesse per mantenere sempre in-tatte le nuove professionalità del perenne correggere, quelle costanti aporie che necessitano infinite ammende in forma di rammendato e rammentato emendamento.

senso, accoglierne le vibranti sensazioni, senza pregiudizio ma con mente pronta allo stupore erudito, che nulla ha a che vedere con la paura della variantistica coerente.

La pratica della lettura delle sue pagine di oggi non è meno selettiva di quanto sia stata quella dei passati capitoli, solo si rivolge a punti di attenzione diversi, quindi si apre a una popolazione di potenziali estimatori che possono volere pre-scindere dal suo passato, seppur scientificamente monumen-tale, per accedere molto più semplicemente al suo presente, documentato e documentabile riga per riga, in tutte le sue massime sfumature e minime sfaccettature.

4. LE SOFFERENZE CONCETTUALI E I

RIASSORBIMENTI TEORICI

Ho per decenni sostenuto la libertà delle scelte nelle im-plementazioni, attiva contributrice, militando fra coloro, che intendevano progettare sistemi di elaborazione dati per la informatica democratica, che secondo i principi delle ori-gini che hanno ispirato le ricerche più avanzate, significava lasciare agli utenti la decisione del cosa e come e quando e quanto praticare e non certo distribuire a tutti le stesse appli-cazioni, assegnando obblighi.

La globalizzazione è un fenomeno solo apparentemente positivo, solo superficialmente esaltante. Di fatto è un ap-piattimento, che sconvolge il panorama ecologico mondiale e se ci dovessimo davvero preoccupare del climate change è proprio da questa massificazione del non senso, da questa distribuzione impertinente di disturbo, insistente e pervicace che provvede soluzioni del tutto illogiche a problemi creati appositamente, che si dovrebbe davvero cominciare.

Essendo quindi dalla parte degli sconfitti, dato che le scelte attuali dimostrano che non hanno prevalso le tipologie e le teorie, di cui ero portatrice o autrice, non posso che analizza-re gli effetti collaterali di quanto avevo previsto ed operato per non vedere accadere.

Serpeggia una certa tristezza storicizzata nelle mie scrittu-re letterarie attuali che registrano i toni e le intonazioni del dovere prendere atto di un dato di fatto e di date, che hanno impacchettato ere distinte, senza mai compromettere la va-lenza estetica, intensa, delle fasi più significative della mia esistenza scientifica.

Il recupero paziente di fasi ideali, ma concrete, cui sono state preferite tratte del tutto implausibili non mi ha reso nostalgica, non mi ha condotto a riprendere quegli stessi percorsi, che un tempo avrebbero avuto precisi significati. Molto più semplicemente prendo atto della realtà dell’og-gi, che richiede quelle semplificazioni stilistiche, che sono evidenti nelle mie frasi contemporanee, ponderate seppur paiano estemporanee, sempre comunque sincronicamente organizzate.

Per le mie prose del passato, era necessario ricorrere ad una intera sala di lettura per potere essere certi di averne evinto l’ effettiva intenzionalità, date le intrecciate allegorie e le metafore e le analogiche deduzioni e induzioni realizza-bili, tanto che chi per caso si impadronisse di una mia pagina,

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ricadute di silenzio. Sono solamente fluttuazioni provvisorie nella imprevedibilità ormai tanto prevedibile, da costituirsi come situazione stabile.

Permangono ipotesi che tali restano, irrisolte domande: questioni di fondo che non possono più essere affrontate e neppure riconsiderate o rese opinabili; restano come asser-zioni forti di una territorialità mancata, che ha aperto le porte alla ingestibilità, spacciata come accoglienza della espressi-vità diversa. Ma non ci si è posti il problema della capacità di organizzarsi di fronte all’inimmaginabile, perché alcuni fraseggi si definiscono come tali proprio solo sulla base della sancita e perenne denominazione di vacuità assoluta.

La mancanza di delimitazione geografica ha portato al collasso delle distinzioni culturali, alla caduta di tono delle precedenti civilizzazioni; ha messo in onda la necessità di non aderire a principi distintivi, ha reso appetibile quanto do-vrebbe invece essere elemento di costante preoccupazione: la ipotesi divenuta tesi, la diceria spuria, la farsa accomunan-te sancite come necessità espressiva, dichiarata come realtà stabile del terzo millennio. Se poeticamente a norma.

In questo scenario Graziella Tonfoni ripropone le sue pa-gine. Dei suoi tessuti narrativi più recenti esistono precedenti versioni, ma è dalla stabilizzazione sancita dalle edizioni del 2015, che lei parte non negando la possibilità per i lettori di accedere alle ridondanze precedenti e ventilando perfino la possibilità che chi vi trovi espressioni importanti, poi omes-se, le introduca in forma di apparato critico virtuale, a piè di pagina come si usava fare nelle filologie forti e ben consoli-date dei tempi che oramai sono conclusi. Le attuali edizioni non presentano pagine tanto fitte, da non consentire questa eventuale operazione se e ove sia possibile. Ma sono anche frasi lasche che danno luogo a spazi di sosta meditativa, su concetti presentati che non necessariamente richiedono la fissità della paragrafazione continua e contigua a fare fede di una effettiva ricezione.

6. INNALZAMENTO DEI TASSI DI INTERESSE

All’oggi non ho provveduto ad indicare come necessario l’innalzamento atteso dei tassi di interesse critico sulle mie prose attuali, ben sapendo che, se fosse stato effettivamente sancito, avrebbe dovuto approvvigionarsi di valori del pas-sato, andando a rimettere in discussione le valenze storiche fisse delle mie innumerevoli pubblicazioni che hanno già una quotazione stabile che sarà apprezzata solo nel futuro.

Questa rinuncia meditata ad attingere a patrimoni comple-tati e chiusi porta i lettori attuali a doversi accontentare, piut-tosto limitare, a una considerazione delle opere dal 2015 in poi che comunque sono sufficientemente dotate di paragrafi importanti da non dovere richiedere altre propaggini in spazi temporali precedenti.

Ma posso aggiungere alcune affermazioni, che so essere non politically correct ma di fatto reali, portatrici di un con-senso prudente e prudenziale mai pruriginoso sulle me frasi. Su queste odierne esternazioni di assoluta veridicità, seppur scomode, si calcola il tasso di interesse poetico lessicale su

All’instabilità assoluta dell’oggi, Graziella Tonfoni che non può bloccarla tale confondibilità dell’essere e del dive-nire, dato che il potere delle manovre concettuali sta in altre mani, almeno indica discretamente, con il suo indice puntato, la direzione giusta e quella errata.

Il pollice resta ferito perché nella sua diversità didascalica, non interpellata, di fatto non riesce a diventare verso, ma solo eventualmente si presenta come titolo di una prossima punta-ta di capitolo sospeso.

5. LA CAPILLARIZZAZIONE INDOTTA DELLE IPOTESI

Esiste oggi una pervasività di assunti non verificati cui fa riscontro e seguito una vera e propria capillarità delle affer-mazioni; la mancanza della doverosa coibentazione fra am-bienti culturali, estremamente diversi fra di loro, porta alla messa in comunicazione di realtà che non sono affatto basate sulle stesse prassi e neppure sulle rispettive teorie.

Ne deriva una frammentazione dei saperi, che provoca l’obbligo di avere gruppi di lavoro non per scelta personale, ma per ovvia necessità, dato che i partecipanti a un progetto testuale raramente rendono possibile la interscambiabilità di ruoli, essendosi resi disponibili per una unica o per solo li-mitate funzioni.

Rendere collettivo perfino l’atto di scrittura non porta al-cun beneficio ai lettori, danneggia chi avendo ruolo di scrit-tore responsabile, vede le proprie attività rigorose rese seria-lizzate esecuzioni.

Esiste oggi una capillarità indotta di concetti, che si sono sedimentati senza passare al vaglio critico perché nel terzo millennio le usuali questioni, che si ponevano nella critica letteraria tradizionale neppure trovano moduli per essere contenute.

Quella preziosa attività di disamina attenta di opere po-tenzialmente valide distinte da lacerti di composizione, che seppur con i suoi limiti ma anche con le sue possibilità di tardivo recupero era presente fino alla fine del secolo scorso, si è oggi perduta.

Il giudizio del mercato dei lettori non presenta maggiori garanzie rispetto alle opinioni dei critici e quanto si rischiava di lasciare indietro per poi eventualmente riscoprirlo tardi-vamente, oggi si oblitera, rendendolo segmento di obsole-scenza.

Non ci sono recuperi di fatto, ma solo giudizi ad effetto nella frettolosità di un presente debordante, senza i confini che permettono la riappropriazione della propria identità, la decifrazione delle varianti tonali e delle variabili intenzio-nali.

Tutto equiparabile significa sancire la equipollenza di una capillarità indotta, ove la mancanza di logica da un lato si sposta su altra sponda per acquisire una legittimità di lettura incondizionata.

Lo sfondamento di settori del sapere non ha garantito la precisione, ha mandato in onda la vibrazione costante di tasselli sparpagliati ovunque. I lessici imbizzarriti non sono segnale di aumentata poeticità nei picchi di ascolto o nelle

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dalle scadenze di consegna. La redazione, cui tali nuovi ar-ticoli sono proposti, ha indubbia necessità informativa e for-mativa in tempo reale ma può decidere di mantenere al pro-prio interno le pagine, prima di prendere decisioni avventate.

La stampa di saggi operativi e direzionanti come sono quelli dell’autrice, il cui tasso di prescrittività potenziale e re-ale resta assai alto, implicano il declassamento ovvio delle ipotesi contrarie, delle tesi contrastanti, perché le sue opere non si prestano a miscellanee di autori vari, ma solo possono prevedere edizioni in traduzione attendibile.

Non è dalla fusione di teorie, che può emergere la solu-zione alle problematiche acritiche attuali, ma piuttosto dal consolidamento nella fiducia che le asserzioni contenute nei paragrafi esatti possano servire come direzionatori verso un senso perduto da recuperare, ristabilire, restaurare.

In attesa di quel rivolgimento di prospettiva che de-ideolo-gizzi la prassi ecdotica residua attuale, le pagine più recenti della autrice possono restare bozza, senza che ciò ne diminu-isca la autorevolezza inficiandone la autorità.

La autenticità delle descrizioni e prescrizioni contenute si esplicita attraverso il diniego, che si applica alla riconduzio-ne di un senso spurio; certe frasi, se capovolte da un imma-ginario collettivo indotto in opposta direzione, diventano ca-ricaturali digressioni, raggiungono lo scopo opposto a quello preventivato.

A tale paradosso, che porterebbe paragrafi solidi ad es-sere appesi a linee ideologiche del tutto contrarie a quelle scientifiche analisi, oggettive disamine che portano l’ autrice ad osservare un periodo di silenzio, si ovvia appunto solo e soltanto raccomandando il risparmio frastico, che solo se rispettato nelle sue conseguenze logiche e cronologiche può preludere ad una serie di ricapitalizzazioni.

Esondazioni avverbiali, che provocano esodi lessicali, non possono supportare le glosse, che dovrebbero infittirsi signi-ficativamente per evitare errori filologici che paiono messi in onda da interpreti, non solo frettolosi ma spesso intenzio-nalmente dedicati alla produzione del malposto giudizio di stampa.

Possono esserci tergiversazioni, dedicate a fare affermare alle espressioni lineari della autrice, asserzioni opposte ri-spetto a quelle da lei preordinate. Il rischio semantico, nel secondo decennio del terzo millennio, può provocare la esi-genza di non esprimersi se non in bozza costantemente re-visionabile, appena si noti un tentativo di sfibramento o di disallineamento da parte di avventori casuali, intenti a fare asserire alla scrittrice scientifica l’esatto contrario.

Esistendo oggi la manipolabilità preterintenzionale totale si devono diversificare i canali possibili della ritrasmissione, evitando retroattività di commenti spurii che abbiano poteri evocativi applicati all’inconscio collettivo confuso e costi-pato.

Voci dichiarate come autorevoli possono e devono, sui tempi lunghi, essere valutate nelle derive dell’immaginario che hanno causato con le loro indicazioni.

Massicce entrate di elementi lessicali, che non rappresen-tano concetti stabili nella pretesa di includerli comunque in

brani, i miei oggi più brevi e decisamente concisi.Vorrei quindi fare investire su questa affermazione ri-

schiosa ma solida, il tempo di riflessione di alcuni critici che, se vorranno poi vederla consolidata da un concetto potranno decidere di vendere alcuni loro slogan in cambio del nuovo fondo di titoli, che ho predisposto per loro dal 2015 in poi.

Ecco il paragrafo controverso: le ricerche scientifiche e letterarie del passato spesso non risultano a norma secondo i nuovi criteri, che però non possono essere retroattivamente applicati. Di fatto tante pubblicazioni accademiche, che si basavano su irregolari consensi e concorsuali predisposizioni di dubbia matrice, risultano comparativamente di una qualità assai superiore rispetto alle ricerche eque e solidali, collettive, redatte secondo ogni vincolo di dialettica composizione, con una correttezza di procedura, che viene costantemente sanci-ta in contrapposizione a presupposte scorrettezze, in alcuni casi addirittura congedate come corruzione in corso di opera. Si conclude che la prassi accademica del passato, pur con tutti i suoi limiti, ha prodotto risultati pratici as-sai superiori rispetto ad una fase di aurea mediocritas sconcertante seppur con ogni riassunto attuale a norma. Su questa accurata descrizione di un dato di fatto incontro-vertibile, seppur ideologicamente controverso, si misurano le reazioni del mercato didattico; a tanta buona volontà speri-mentante nelle aule oggi si deve contrapporre senza timore, l’ eccellente resa di alcune gestioni considerate spericolate, che di fatto non sono mai state in perdita come si dimostrano essere alcune attuali.

Su questo titolo sincero seppur impopolare, richiedo un tasso di riflessione prima di potere proseguire oltre. Innalza-re i valori su certe pubblicazioni dell’oggi collettivo, comu-nitariamente regolamentato, significherebbe avallare prove tecniche di un procedere incerto e tremebondo, che non tiene conto delle economie contrastive e neppure delle filologie comparative.

Meglio quindi fare emergere la sincerità, prorogare i tem-pi della attesa di una elaborazione che sia l’opposto di que-sta prova di esame, che risulterebbe del tutto insuperabile. Ma che siano altri finalmente i decisori e i redattori per una leggibilità efficace anche se a volte fuori dalla norma.

7. RISPARMI FRASTICI E RICAPITALIZZAZIONI

PARAGRAFICHE

Al momento attuale di evidente incertezza ecdotica, l’au-trice preferisce risparmiare i suoi inediti non prospettandone una collocazione immediata in attesa di una solidità di stam-pa che potrebbe avvenire nel corso del prossimo anno 2017.

I rischi di attrarre attenzione da parte di investitori, che non siano lettori effettivamente interessati, ma che si rivelano au-tori in cerca di ispirazione, porterebbero ad un abbassamen-to, nella quotazione delle prose attuali, dato che la prolifera-zione di titoli deve essere contenuta all’oggi nella semplice delineazione di sottotitoli in uno stesso saggio.

Il procedere della composizione attuale prescinde da date di stampa, anche se tiene conto e rispetta le linearità poste

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in un secondo momento assorbendone le propaggini, cosa invece evitare di inglobare.

Si trattava di procedure più lente, forse anche in alcuni casi carenti di quella sensibilità, che permette di cogliere rabdo-manticamente le significatività reali distinguendole dalle iperboliche affermazioni, se spurie.

Pur avendo quindi limiti umanisticamente reali, un filtro esisteva così come una distribuzione di parcelle di credibili-tà, che permetteva la identificazione di errori e la segnalazio-ne di tratte di incongruità.

La realtà attuale ha cancellato il concetto di sbaglio, per-ché portatore di una applicazione di responsabilità, anche se solo relativa, sostituendolo con quello di versione provviso-ria la cui modificabilità infinita rende possibile non la corre-zione, che sarebbe ammissione di colpa, ma la rettifica che pare un evento collettivo ineluttabile, con fasi di sospensione senza limite.

I lettori restano in attesa di certezze filologiche, che non possono dichiararsi tali perché perfino nelle certificazioni critiche più accurate sono stati innestati meccanismi auto-matici euro-linguistici in grado di attivarsi da soli, rivoltando parole di un certo idioma in refusi zonali.

Quindi anche se la scrittrice oggi misura ogni sua frase e perifrasi e parafrasi è fatto certo che un prossimo lettore meccanico ne modificherà la struttura morfo-sintattica a di-fesa di una comunanza di interesse a norma che sfibra non solo i saggi di partenza, ma anche gli eventuali adattamenti e traduzioni di arrivo.

La “babelizzazione” delle interazioni dialogiche porta ad azzerare l’usufrutto delle attese di degustazione stilistica, perché ogni fantasia retorica oggi si rileva essere a rischio di deformazione e le pregiate declamazioni a voce alta diventa-no declinazioni, ove ogni breve scherzoso cenno deve essere dichiarato al fisco della linearità controllata, in modo da non risultare agli atti del guadagno di un consenso derivato dalle capacità oratorie di singoli protagonisti.

Un prodotto interno lordo di efficacia informativa non potrà crescere perché bloccato nei suoi stessi presupposti ideologicamente contratti, detratti di ogni possibile valore raggiunto. La stagnazione di una prosa generica a sintassi già controllata, dai verificatori automatici diventa in modo del tutto anomalo la unica condizione di certezza di avve-nuta accettazione redazionale, non per aumentato stallo ma per auspicabile pubblicazione, in fasi neutre e costantemente soggette a regole di riassunto transitorio.

9. IL RISTABILIMENTO DEL BUON SENSO

Comporre gialli oggi significherebbe massima visibilità di categoria, ma non personale spicco di quota di leggibi-lità perché di “giallistica narrativa” ne esiste tanta ormai in circolazione libera, ovvero in lingua madre italiana o natura-lizzata con traduzione da altre zone da non potere garantire alcuna crescita di ascolto a nuove elucubrazioni che si occu-pino di efferatezze di cui è comunque carica già la stampa quotidiana.

territori già provati dalla pressione forte di numerose fatiche critiche, sono da riconsiderare come parte della irresponsa-bile gestione, di chi non intende selezionare ma invita a pre-sentare tutto, ad accettare comunque un sovraffollamento di proposte, che non ha precedenti se non nella storia dell’an-tichità molto spesso invasa e turbata da movimenti epocali nella alternanza di civiltà emerse sommerse ed emergenti.

Suggerendo a se stessa quindi la ricapitalizzazione con-cettuale tardiva, che non prevede la quotidiana costante os-servazione del valore delle sue frasi, prescindendone com-pletamente dati i livelli intollerabili che questo percorso arrecherebbe, ecco che l’ autrice si attiene alla legge della leggibilità interna e quindi del risparmio frastico in attesa di periodi meno soggetti ai costanti contraccolpi della specula-zione basata sulla apparenza e sulla immagine.

8. DIVERSITÀ FRA REPERTORI E DISFORMITÀ FRA

EPOCHE

Il repertorio delle classicità computazionali, che l’autrice ha realizzato dagli anni ottanta e per tutto il restante periodo del secolo scorso, poi restaurato nel corso del primo decennio del terzo millennio, successivamente reso patrimonio cultu-rale per corsi accademici può essere costantemente ripreso e rilanciato da altri docenti a loro discrezione. Si tratta di un percorso storico che registra una realtà talmente diversa da quella attuale, da avere portato la stessa autrice ricercatrice a optare per una afferenza al dipartimento della storia culture e civiltà proprio per indicare la preziosità dei reperti.

Le fasi di elaborazione parallela di una critica costruttiva ad un europeismo di forma, estremo, che di fatto impoveri-va le varianti della produzione letteraria e scientifica, seppur parendo rafforzarne lo spessore sono parte della sua ricerca autonoma del primo decennio del terzo millennio. Le linee procedevano in parallelo senza alcuna interferenza o intru-sione o sovrapposizione.

I risultati di questo percorso decisamente contro corrente sono stati condensati in numerosi saggi fino al 2014 incluso.

La collezione di Tonfoni Graziella del 2015, pubblicata in “Scienze e Ricerche”, riflette e rilancia le acquisizioni teori-che e metodologiche della scienziata, collocandone l’essenza nella contemporaneità più assoluta e al tempo stesso, diluen-done i tecnicismi in uno stile divulgativo attento alla perdita di spessore culturale, che i fenomeni di globalizzazione han-no causato nei lettori.

Si tratta di repertori fra loro ben differenziati, aderenti a momenti storici distinti, anche se apparentemente apparte-nenti a un unico arco di tempo, a cavallo fra due secoli, ere caratterizzate dalla più affrettata accelerazione nei sistemi di comunicazione.

Gli utenti del passato procedevano alla paziente accetta-zione delle scremature che gli esperti filologi erano in grado di compiere, evidenziandone le ragioni e mettendo in luce discrepanze e sfumature, avendo ancora quelle competenze necessarie per decidere cosa fare entrare antologicamente su-bito, cosa lasciare decantare per accettare poi eventualmente,

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vibile ad una nuova era di media-evale, ipermediatica distra-zione. Rimedio sia il ristabilire il contatto non su dimensione prorogata globale ma sul piano locale di tante piccole aspet-tative di recensione giusta andate tutte disattese.

Un pacchetto scontato di autore, che deve attrarre lettori spaesati non necessariamente ripaga delle fatiche tecniche concentrate in tanta promozione.

Non sia il vincolo numerico dei partecipanti, attratti da tan-ta generosa esternazione a dettare le leggi giuste di una eco-nomia, che deve essere non descrittiva di un fatto ma piut-tosto prescrittiva di un effetto. Non sia il sottocosto di una copertina aperta online a riassestare i parametri di leggibilità totale. Siano la selezione e la antologizzazione a guidare le sintonie delle nuove generazioni, che attendono stabili e so-lide indicazioni.

CONCLUSIONE

In questo saggio, il cui valore aggiunto sta nella concisio-ne, che riflette la turbata ecdotica attuale e le costanti flut-tuazioni nella critica italiana e nella filologia, la vera prota-gonista diventa la scrittura stessa nel suo svolgersi in frasi, nel suo concretizzarsi in paragrafi. L’attenzione dell’autrice va ai lettori di oggi, sottoposti a una discordante disarmo-nia, continuamente stimolati, oberati di scadenze, impegni, che necessitano di essere coadiuvati nella loro fatica di com-prendere, apprendere, ricordare. Se si volesse indicare un termine, che caratterizzi questo saggio, si può affermare che l’autrice celebra il concetto di ridondanza, cui spesso viene attribuita una valenza non adeguatamente apprezzativa. Filo-loga severa, delle sue stesse prose, intende accertarsi ancora una volta, che non ci siano fraintendimenti sulle sue frasi e paragrafi, indicando l’importanza di organizzare momenti di lettura graduali, successivi da parte di studiosi interessati alla gestione delle problematiche comunicative del presente attuale.

PER APPROFONDIMENTI

Tonfoni Graziella, 2016, Elogio della burocrazia, in: Scienze e Ricerche n. 34, 1° agosto 2016, pp. 32, Roma

Occupandomi io piuttosto continuamente di risolvere si-tuazioni economiche in rosso da altrui causate con racconti scritti di getto sulla base della più ferrea disciplina da me autoimposta, ma che mai intenderei insegnare ad altri per-ché è del tutto soggettivo e relativo ogni comportamento di scrittura e non esistono ricette per imparare a scrivere conti-nuamente e costantemente come sono io dedicata a fare, ecco che i miei sono racconti in forma di acconto concettuale.

In una sequenza di versamenti cadenzati sta la possibili-tà di cogliere le complessità inutili della nostra realtà fra-stornata: le scene del crimine che le mie pagine analizzano sono le scelte economiche errate cui fanno seguito azioni di riparazione in costante turbolenza di significato con ovvio turbamento dei sensi.

I tecnicismi di cui mi avvalgo vengono esaminati con quel-la pignoleria possibile che conduce a una accuratezza massi-mamente plausibile: ma le iperboli, che inserisco nell’anda-mento piatto di oggi, le corredo tutte di doverose subordinate con alcune coordinate di versamento lessicale a norma.

Evito le parallassi e soprattutto non esigo alzamenti di tono, che conducano altri a pensare che le mie intonazioni siano fuori luogo: la collocazione di ogni mio verbo si com-bina alla ricollocazione avverbiale netta e non lascia lorda alcuna avventata evocazione.

La scrittura deve essere un movimento rapido come le mie composizioni in tempo reale di fatto si dimostrano essere; realistiche risposte a questioni spesso già vaghe all’origine, inficiate di ideologie che depenalizzano quanto è decisamen-te errato sotto gli occhi di tutti, rilanciando quanto in passato si definiva come vistoso strafalcione, rendendolo la risultan-za di non meglio precisati limiti collettivi a parare masse di incongruità.

La composizione stentata e stentorea pare perentoria affer-mazione di pregiudizio, ma poi viene incorporata in una logi-ca sfibrata dalle ipotesi, che si addensano su paragrafi appe-santiti da spurie aggregazioni aggettivali, che non corrispon-dono alla morfologia di alcun vocabolario oggi esistente.

Personalmente mi occupo di scrivere sullo scrivere stesso che sprigiona dalla mia mente guidata da griglie cognitive, che pare avere appositamente cancellato tanti ricordi letterari perché nessuna frase altrui già scritta possa essere seppur in modo inconscio riflessa dalle mie parallassi.

Accolgo come elogio la accusa di mancanza di trama che le mie composizioni attuali presentano.

Agli atti resti la esternazione estrema di un indotto logico, che proclama semplicemente l’urgenza di ristabilire le prati-che del buon senso, di rivitalizzare quei solidi investimenti su titoli stabili e fermi, non per questo raffermi pezzi di sboc-concellato rappreso alimento concettuale.

Riprendere la disamina del presente scatena dolorose rea-zioni, in chi abbia sensibilità estrema e induce patologie della deglutizione dato che certi bocconi sono davvero difficili da digerire sulla base della peptonizzazione economica di oggi.

Ogni direttiva esterna appare tentativo, sperimentazione. Di fronte alle rinomate redazioni di un tempo, con direzioni illuminate, tanta oscurità di pensiero e di azione pare ascri-

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FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 39 • 15 OTTOBRE 2016

Per inserire il lavoro di Cappuzzello et al. nel corretto con-testo, conviene prima introdurre il modo di eccitazione nu-cleare più antico e più noto, la cosiddetta vibrazione gigan-te di dipolo elettrico. Questa vibrazione è meglio illustrata come la risposta del nucleo ad un campo elettromagnetico esterno. Anche se i neutroni, in quanto elettricamente neu-tri, non subiscono gli effetti del campo elettrico, i due ‘fluidi quantici’ - uno elettricamente carico, comprendente i protoni e l’altro neutro dovuto ai neutroni - si muovono in direzioni opposte all’interno del nucleo. Quando il campo elettrico è spento, i due fluidi quantistici iniziano a oscillare in opposi-zione di fase l’uno rispetto all’altro, nel tentativo di ripristi-nare la configurazione originale. Le energie tipiche associate a questa oscillazione sono 10-20 milioni di elettronvolt, il che implica che la ‘campana nucleare’ suona ad una frequen-za enormemente alta di circa 1021 Hz. A differenza della serie Lyman-Balmer-Paschen dell’atomo di idrogeno, che appare negli esperimenti come una serie di singole linee spettrali, la risposta nucleare si manifesta come un picco gigante negli esperimenti di assorbimento di fotoni, da qui il termine ‘Ri-sonanza Gigante’. Questo specifico comportamento quanti-stico è indicativo di una forte coerenza, o ‘collettività’, insita nella dinamica nucleare. Cioè, anche se inizialmente la son-da esterna (il fotone) può eccitare solo una singola particel-la, promuovendo un salto quantico ad un singolo protone o neutrone e lasciando una buca nel livello quantico occupato prima dallo stesso protone o neutrone, la forte interazione fra i nucleoni all’interno del nucleo, fa sì che molti – se non tutti - i nucleoni nel nucleo risultino rapidamente coinvolti. In gergo nucleare: tutti le transizioni singole particella-buca vengono collettivamente mescolate in un’unica risonanza gi-gante [2].

La stessa forte coerenza osservata in queste eccitazioni particella-buca è stata prevista esistere nei sistemi nucleari con due particelle aggiunte o rimosse al nucleo. Tali eccita-zioni particella-particella o buca-buca – Risonanze Giganti di Pairing – furono previste nel 1977 da argomenti generali

La Risonanza Gigante di Pairing nei nuclei atomici: un nuovo ballo di gruppo FRANCESCO CAPPUZZELLO1-2, DIANA CARBONE1, MANUELA CAVALLARO1, ANNAMARIA MUOIO1-3

1 INFN – Laboratori Nazionali del Sud, Catania2 Dipartimento di Fisica e Astronomia, Università degli Studi di Catania3 Dipartimento di Scienze Matematiche e Informatiche, Scienze Fisiche e Scienze della Terra, Università degli Studi di Messina

Nel 1911 E. Rutherford, per spiegare i ri-sultati del suo esperimento di diffusione di nuclei dell’atomo di Elio (particelle α) su bersagli di Oro, dedusse che il nucleo è assimilabile ad una sfera di raggio circa

10-13 cm. Il nucleo dell’atomo è quindi piccolissimo, rappre-sentabile come una nocciolina se l’atomo venisse considera-to come un intero campo di calcio. Successive indagini spe-rimentali mostrarono che il nucleo è, a sua volta, costituito da mattoncini ancora più piccoli, i protoni e i neutroni, e che le forze fondamentali che governano tale microcosmo non sono assimilabili alle sole forze allora note ovvero la gravi-tà e l’elettromagnetismo. Nuove forze fondamentali furono pertanto introdotte, l’interazione forte e l’interazione debole, grazie al contributo decisivo di grandi fisici italiani come E. Majorana e E. Fermi. In quegli anni si scoprì anche che le proprietà che regolano la struttura e l’evoluzione dinamica dei nuclei non erano descritte dalle leggi della fisica classica di Newton ma richiedevano l’uso dei principi e delle meto-dologie della meccanica quantistica.

Fin dall’introduzione del modello quantistico dell’atomo, gli scienziati hanno continuato a sondare la struttura e le eccitazioni di sistemi quantistici, tra cui atomi e molecole, ma anche nuclei atomici, con sempre maggior dettaglio. Le previsioni della meccanica quantistica hanno sempre trova-to il conforto dei dati sperimentali, ampliando enormemente la nostra capacità di comprendere la struttura microscopica del mondo in cui viviamo. Tuttavia, nuovi interrogativi sono emersi, che necessitano appropriate indagini. In un recen-te esperimento pionieristico [1] riportato sulla prestigiosa rivista Nature Communications, una collaborazione inter-nazionale guidata dal Prof. Francesco Cappuzzello del Di-partimento di Fisica dell’Università di Catania e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) ha raccolto prove sulle sfuggenti vibrazioni giganti di appaiamento (pairing), eccita-zioni particolari del nucleo, la cui esistenza era stata prevista più di 50 anni fa da Hartwig Schmidt e Aage Bohr.

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SCIENZE E RICERCHE • N. 40 • 1° NOVEMBRE 2016 | FISICA

care la misteriosa risonanza in nuclei di elementi “leggeri”. L’esplorazione e stata infatti focalizzata su nuclei dell’ato-mo di Carbonio piuttosto che nuclei di Stagno o Piombo, come era avvenuto in molti esperimenti precedenti, guidati dall’idea che in tali nuclei gli effetti del pairing dovessero essere più evidenti. Altrettanto innovativa è stata la tecnica sperimentale utilizzata, caratterizzata dall’uso di fasci di ioni dell’isotopo 18O, accelerati dal Tandem Van der Graaff dei Laboratori Nazionali del Sud dell’INFN. Nell’esperimento di Cappuzzello et al. la Risonanza Gigante di Pairing è stata popolata nei nuclei di 14C e 15C nuclei attraverso il trasferi-mento di una coppia di neutroni correlata, esistente in pro-iettili di 18O, in nuclei bersaglio di 12C e 13C, disposti in un sottilissimo film realizzato presso il laboratorio chimico dei Laboratori Nazionali del Sud. Nella cessione della coppia di neutroni i proiettili di 18O si trasformano in 16O. Tali eiettili di 16O, prodotti nella suddetta reazione di trasferimento, sono stati identificati e analizzati mediante lo spettrometro magne-tico MAGNEX, che ha rappresentato l’arma principale per il successo di tale esperimento. MAGNEX è uno strumento di ottica magnetica unico al mondo per prestazioni, ideato e realizzato dal gruppo di Catania dal 1996 al 2007 ed in-stallato presso i LNS. Nell’esperimento che ha condotto alla scoperta, MAGNEX è stato posto a piccoli angoli rispetto al fascio in ingresso, ciò al fine di migliorare la probabilità di trasferire una coppia di neutroni con momento angolare pari a zero – un requisito necessario per il verificarsi della Risonanza Gigante di Pairing. E’ stato misurato il numero

relativi alla simmetria fra particelle e buche [3]. Tuttavia, an-che se le prime prove sperimentali per la risonanza gigante di dipolo risalgono al 1937 [4], nessuna prova dell’esistenza della Risonanza Gigante di Pairing era mai stata trovata - fino al recente lavoro di Cappuzzello et al.

La mancata osservazione della Risonanza Gigante di Pai-ring poneva quindi un severo problema alla validità della simmetria quantistica fra stati di tipo particella e stati di tipo buca. La scoperta di tale risonanza gigante assume pertanto un significato scientifico più generale del contesto di fisica nucleare da cui scaturisce, rimuovendo un’importante criti-cità sulle simmetrie della natura a livello microscopico com-patibili con la meccanica quantistica.

La nuova osservazione darà inoltre nuove e importanti in-dicazioni sulla natura della forza di pairing che due neutroni sentono dentro un nucleo. Sebbene nota da almeno 70 anni, tale forza non è stata ancora compresa del tutto. Tra le mani-festazioni più evidenti della forte correlazione di pairing nei nuclei c’è che tutti i nuclei con un numero pari di protoni e neutroni hanno momento angolare nullo nel loro stato fon-damentale (stato di minima energia). Ciò fornisce una chiara indicazione che è energeticamente favorevole per i nucleoni formare coppie con momento angolare totale nullo, in modo simile alle coppie di elettroni (coppie di Cooper) nei materia-li superconduttori tradizionali [5].

Malgrado molti tentativi, la Risonanza Gigante di Pairing non era stata mai provata sperimentalmente; l’idea innova-tiva, ad opera del gruppo di Catania, è stata quella di cer-

Lo spettrometro magnetico MAGNEX installato ai Laboratori Nazionali del Sud di Catania

SCIENZE | SCIENZE E RICERCHE • N. 39 • 15 OTTOBRE 2016

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FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 39 • 15 OTTOBRE 2016

di eiettili di 16O che hanno raggiunto MAGNEX, in funzione della loro energia cinetica. Attraverso semplici relazioni ci-nematiche, è stato dedotto il numero di conteggi in funzione dell’energia di eccitazione dei nuclei residui della reazione, ovvero 14C o 15C. Il risultante spettro di energia di eccitazione mostra caratteristiche strutture a “picco” e a “dosso” e una di queste strutture, mai osservata prima, rappresenta proprio la Risonanza Gigante di Pairing.

Nel microscopico mondo dei nuclei esistono quindi feno-meni “giganti” che la fisica moderna e in grado di osservare e di comprendere, grazie a tecnologie uniche e innovative. Tali fenomeni mostrano come esista una forte coerenza anche nel moto di questi piccolissimi costituenti della materia che sono i nucleoni, analogamente a quanto osserviamo in uno stormo di uccelli, in un banco di pesci o in un ballo di gruppo. La natura non smette mai di stupirci con i suoi fenomeni, sta a noi scovarli e capirli.

REFERENCES

[1] Cappuzzello, F. et al. Nature Commun. 6, 6743 (2015). [2] Harakeh, M. N. & van der Woude, A. Giant Resonan-

ces (Oxford Univ. Press, 2001).[3] Broglia, R. A. & Bes, D. Phys. Lett. B 69, 129–133

(1977).[4] Bothe, W. & Gentler, W. Z. Phys. 106, 236–248 (1937). [5] Bardeen, J., Cooper, L. N. & Schrieffer, J. R. Phys.

Rev. 108, 1157–1204 (1957).

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di ordine cristallografico danno luogo ad una frattura fragile con superfici a specchio concoidali dal bordo tagliente. In questo modo, fu possibile ottenere manufatti adatti ad essere usati come punte di frecce, coltelli, raschiatoi per tagliare e ripulire le pelli animali.

Dal punto di vista molecolare, tanto il quarzo che il vetro, presentano una struttura covalente continua in cui tetraedri di SiO4 sono legati a formare una rete molecolare indefinita… A rigore si tratta di un polimero reticolato. Tuttavia, per con-venzione, i materiali inorganici di questo tipo non sono clas-sificati come polimerici ed appartengono all’ampia classe dei ‘materiali ceramici’. In generale, i materiali strutturali sono raggruppati in polimeri, metalli e ceramici: in quest’occasio-ne parleremo di questi ultimi.

Struttura cristallina dell’ a-quarzo.

Le proprietà di taglio dell’ossidiana sono così spiccate che tutt’oggi si adoperano talvolta bisturi con punta d’ossidia-na. Inoltre, la silice trova i suoi corrispondenti nella ‘germa-nia’ cristallina GeO2 e recentemente nella ‘carbonia’ amorfa CO2. In particolare quest’ultima è stata realizzata nel 2006

Un’introduzione alla Scienza dei Materiali VINCENZO VILLANIDipartimento di Scienze, Università della Basilicata

Di cosa è fatto il libro che ho tra le mani? E la maglietta che indosso? La penna che stringo? Ed i tasti che sto pigiando? E… si potrebbe continuare all’infinito! Come si comporta un pezzo di gomma sotto l’a-

zione di una forza? Ed un righello piegato? L’iPhone quando cade? A domande di questo tipo risponde la Scienza dei Ma-teriali: ‘Di cosa è fatto un materiale strutturale e quali sono le leggi che ne governano la resistenza meccanica’.

E che dire dei materiali polimerici strutturali?. La resi-stenza dei materiali percorre tutta la storia dell’Uomo, con un’importanza non solo scientifica e tecnologica ma anche storica e filosofica, tanto da condizionare tutta l’evoluzione umana.

Cominciamo da lontano… dal Paleolitico. Come è noto, le età preistoriche (da circa 3 Myears fa a 3 000 a.C con l’in-venzione della scrittura) sono suddivise in base ai materiali che caratterizzano le diverse fasi. Paleolitico (fino a circa 10 000 anni a.C.), in questa fase fu ‘addomesticato’ il fuoco (circa 40 000 anni a.C.) premessa necessaria alla massima parte degli sviluppi successivi. Quindi, il Neolitico (10 000 – 5 000 a.C.), Età dei metalli: rame (5 000-2 500 a.C), bronzo (2 500 – 1 200 a.C) e ferro (1 200- 0 a.C. ).

Il XIX secolo fu definito ’Età dell’acciaio’ e ci ha lasciato straordinarie realizzazioni come torri, ferrovie, ponti, gratta-cieli… E che dire dell’Età contemporanea? Secondo alcuni è l’Età dei polimeri data la loro diffusione massiccia e ubiqui-taria… nel bene e nel male!

I materiali che utilizzò l’Uomo paleolitico furono il le-gno, l’osso, le pelli e naturalmente la pietra. I primi sono tutti compositi polimerici d’origine biologica, costituiti da un insieme complesso di macromolecole. E la pietra? Ossidiana e selce furono alla base dei primi prodotti litici. Si tratta di minerali costituiti da silice amorfa (SiO2) ovvero, della stessa natura del vetro. Mentre il quarzo è silice cristallina e si sfal-da lungo piani regolari, ossidiana e selce a causa dell’assenza

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SCIENZE CHIMICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 39 • 15 OTTOBRE 2016

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Struttura molecolare di un materiale argilloso tipo fi llosilicato

(con struttura laminare a fogli).

L’argilla asciugata al sole si trasforma in ‘terra cruda’ sagomata, sin dai tempi più remoti, in vasi o mattoni (resi resistenti con paglia o fi bre naturali sotto forma di materiale composito). Durante l’essiccamento, l’acqua è espulsa ma la struttura molecolare a strati conservata. Invece, durante il processo di cottura (a circa 1000 °C) l’argilla è trasformata in ‘terracotta’: l’acqua è eliminata e si forma una struttura tridimensionale covalente (tipo silice amorfa) ma porosa. I cationi vengono ossidati, ad esempio Fe2+ a Fe2O3 , conferen-do al manufatto il caratteristico colore rossastro. Dal punto di vista morfologico, la ceramica è un solido cellulare a celle aperte, permeabile ai liquidi, ma utile come contenitore di granaglie e simili.

Nel III millennio a.C., età del bronzo, fu inventato il vetro. Verosimilmente fu osservato per caso tra la cenere di un falò in riva al mare: in presenza dei carbonati si ottenne la fusione alcalina della sabbia silicea.

La struttura amorfa (in 2D) del vetro a base di SiO2.

La ceramica smaltata o ‘invetriata’ (che nella Porta di Ishtar in Babilonia circa 600 a.C. raggiunge il suo apogeo) è resa impermeabile trattando il manufatto prima della cottura con una vernice a base di quarzo e un ‘fondente’ Na2CO3, o

nei laboratori del LENS di Firenze comprimendo a pressioni fantascientifi che di circa 500 kbar (in fondo alla Fossa delle Marianne abbiamo una pressione di 10 kbar ed in un pneu-matico di circa 2.5 bar), tra incudini di diamante, ‘ghiaccio secco’ (anidride carbonica allo stato solido) e quindi ‘cuo-cendolo’ (a quelle pressioni) a circa 600 °C. Si ottiene di un materiale ceramico durissimo, con modulo elastico secondo solo al diamante! Tuttavia, in condizioni normali la carbonia è instabile e si trasforma spontaneamente in anidride carbo-nica. Al contrario, la lega silice-carbonia risulta stabile ed è suscettibile di sviluppi tecnologici.

Dalla silice otteniamo, invece, un materiale prodigioso. Si tratta di una spugna solida con pori nanometrici, il ma-teriale tecnologico più leggero in assoluto (99.8% di aria) con proprietà meccaniche e termiche importanti, è l’aerogel. Il ‘fumo blu’, come talvolta è detto, si ottiene attraverso un processo di sublimazione dell’anidride carbonica supercriti-ca adsorbita in un gel di silice amorfa.

Nel 2006 la sonda spaziale ‘Stardust’ raccolse particelle di polvere dalla coda della cometa Wild mediante un racco-glitore (grande come una racchetta da tennis) composto da blocchi di aerogel. Le particelle catturate, impattando l’ae-rogel, scavarono micro-gallerie in fondo alle quali rimasero intrappolate.

Un blocco di aerogel.

L’uomo inventò la ceramica durante il neolitico. Si tratta, come è noto, di un materiale enormemente diffuso in tutte le epoche storiche e tutt’oggi di grande importanza tecnologica. Si parte dall’argilla, un minerale litico plastico, generato dal dilavamento delle rocce, plasmabile nel modo più vario ed artistico, con l’ausilio del tornio a partire dal 500 a.C. Dal punto di vista chimico, si tratta di allumino-silicati idrati, in cui tetraedri di SiO4 ed AlO4 si legano a formare strutture bidimensionali che coordinano tra gli strati cationi metallici (tipo Mg2+, Al3+, Fe2+) ed acqua.

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tenti lenti convergenti e specchi ustori come ‘fornace solare’ (conservate al museo della ceramica di Dresda). Osserviamo che nel 1774, Joseph Prisley (1733– 1804) utilizzerà lo stes-so metodo per calcinare HgO e PbO sotto una campana di vetro, scoprendo l’ossigeno, tuttavia lo interpretò come ‘aria de-flogisticata’.

Ehrenfried Walther von Tschirnhaus (1651 – 1708).

Se fu Von Tschirnhaus o Böttger il vero padre della por-cellana europea non è ben chiaro: Von Tschirnhaus morì im-provvisamente durante i suoi esperimenti. Tuttavia, ci sono documenti in cui lo stesso alchimista gli attribuisce la pater-nità della scoperta.

PbO che abbassano il punto di fusione della miscela eutettica a circa 1000 °C.

La porta di Ishtar al Pergamonmuseum di Berlino.

Oggi la ceramica è utilizzata per piastrellare le nostre abi-tazioni e … come ‘scudo termico’ e meccanico dello Space Shuttle, costituito da ‘mattonelle’ composite a base di fibre ceramiche in silice amorfa, legate da una sospensione col-loidale di silice, il tutto racchiuso in un involucro di vetro borosilicato!

A differenza della ceramica, la nobile porcellana è una ceramica compatta e semicristallina, ottenuta dalla fusione a circa 1500 °C di una miscela a base di caolino (idrossi-silicato di alluminio Al2(OH)4Si2O5) ed alabastro (idrossi solfato di Calcio). Nella struttura del reticolo cristallino si di-stinguono due stati, uno costituito da tetraedri di SiO4, l’altro da ottaedri con ossigeno od ossidrile ai vertici ed alluminio al centro.

E’ stata prodotta in Cina sin dal 600 d.C. Finalmente, la porcellana dura di alta qualità, fu prodotta in Europa per la prima volta a Meissen (in Sassonia- Germania) nel 1708 dal genio di Ehrenfried Walther von Tschirnhaus (matematico, inventore, fisico, medico e filosofo, 1651 – 1708) e dall’al-chimista Johann Friedrich Böttger (1682 – 1719).

Ceramica di Meissen, 1745.

Von Tschirnhaus raggiunse lo scopo sperimentando la cot-tura ad alte temperature delle miscele di minerali usando po-

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SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 39 • 15 OTTOBRE 2016

I delicati equilibri cellulari tra sopravvivenza e morte: l’apoptosi e la sua scoperta nel modello di Caenorhabditis elegans *

FRANCESCA D’ANNA, ANDREA DE ROSA, ILARIA PANELLA, GIACINTO FALCO, MARCO RICCARDO, ROBERTO SEQUINO Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, Scuola di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Napoli Federico II

EMANUELE SASSO, NICOLA ZAMBRANODipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche, Università degli Studi di Napoli Federico II

Associazione Culturale DiSciMuS RFC, Casoria, Napoli

“pulita” ed efficace, senza che il processo stesso provochi danni al tessuto interessato (1).

Il processo apoptotico va normalmente considerato nell’accezione positiva del temine “morte”, in quanto esso prende parte al normale ricambio cellulare nei tessuti ed al normale sviluppo degli organismi pluricellulari. In virtù del suo ampio coinvolgimento in questi processi, l’apoptosi è un meccanismo fondamentale della vita, ed i suoi malfunzio-namenti sono alla base di numerose malattie dell’uomo, da quelle degenerative, alle malattie autoimmuni, fino al cancro. Per questo motivo l’apoptosi rappresenta anche un importan-te campo di indagine nella ricerca biomedica, per la possibi-lità di prevenirla in caso di malattie degenerative, in modo da salvaguardare le popolazioni cellulari che vi siano abnor-memente esposte; in maniera complementare, di indurla nel trattamento delle neoplasie, per eliminare selettivamente le cellule tumorali, in cui i meccanismi della sopravvivenza prevalgono su quelli della morte cellulare programmata.

Nonostante le ricerche sull’apoptosi continuino con un rit-mo incalzante, la strada da percorrere per la sua completa definizione nei dettagli molecolari e per la messa a punto di farmaci in grado di modularne l’attuazione nelle numerose patologie che la vedono come agente eziologico determinan-te è ancora molto lunga. In questo articolo descriveremo la scoperta e la caratterizzazione dei meccanismi molecolari “universali” dell’apoptosi in Caenorhabditis elegans e nei Metazoi.

UN PO’ DI STORIA

Di seguito riportiamo una timeline delle ricerche che han-no portato alle attuali conoscenze dell’apoptosi ed al chia-rimento dei suoi meccanismi molecolari, a partire dal XIX

1. INTRODUZIONE

È ovvio ritenere che la maggior parte delle cellule in un tessuto siano vive; meno ovvio, che cellule invecchiate siano continuamente rimosse dal tessuto per essere rimpiazzate da cellule provenienti dai compartimenti sta-

minali del tessuto stesso. Questa omeostasi tissutale è, per l’appunto, attuata attraverso il delicato bilanciamento tra i meccanismi cellulari della sopravvivenza e della morte, due processi fondamentali della vita degli organismi pluricellula-ri. La sopravvivenza cellulare mantiene attive e funzionali le cellule “giovani” mentre la morte cellulare provvede ad una sorta di suicidio per quelle cellule, invecchiate o che abbia-no accumulato danni a carico del genoma, che è opportuno vengano rimosse dal tessuto. Il termine apoptosi indica una specifica (e non unica) forma di morte cellulare che si con-traddistingue, rispetto ad altre forme, per le caratteristiche morfologiche che si accompagnano al processo, e per una se-rie di meccanismi biochimici che ne determinano l’attuazio-ne. Oltre a determinare la morte cellulare, l’apoptosi provve-de anche alla rimozione della cellula dal tessuto, in maniera

* Questo articolo è stato elaborato da un gruppo di studenti del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Napoli Federico II, su argomenti trattati nel modulo di attività didattica interattiva (ADI) del Corso di Biologia Molecolare e Cellulare (a.a. 2014-2015). L’iniziativa che ha portato all’elaborazione e alla stesura dei conte-nuti di questo articolo è stata promossa dall’Associazione Culturale DiSci-MuS RFC, nell’ambito delle sue attività di stimolo e supporto per attività pubblicistico-divulgative da parte di giovani studenti. Tutti gli Autori han-no contribuito all’idea dell’articolo ed alla sua iniziale redazione; ES, FDA e NZ hanno anche contribuito alla revisione dei contenuti e all’elaborazio-ne finale del testo, ADR ha anche contribuito alla realizzazione grafica.

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SCIENZE E RICERCHE • N. 39 • 15 OTTOBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE

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L’APOPTOSI IN C. ELEGANS : STORIA DI UNA

SCOPERTA FONDAMENTALE

La maggior parte delle conoscenze sull’apoptosi derivano dagli studi fondamentali condotti, dai premi Nobel sopraci-tati, sul modello del verme Caenorhabditis elegans (4). Tale nematode è un organismo modello di cui è completamente descritta, grazie al lavoro pioneristico di Sulston e collabora-tori, la genealogia delle 1090 cellule somatiche che lo carat-terizzano. Ben 131 cellule delle 1090 sono eliminate durante lo sviluppo del verme (si veda la Figura 1 per un esempio), attraverso un processo programmato e praticamente inva-riabile tra i diversi individui, che genera adulti ermafroditi composti da 959 cellule. Grazie agli studi genetici di Hor-vitz, poi, la descrizione “morfologica” dello sviluppo è stata completata con la definizione del programma che comporta l’attivazione dei meccanismi apoptotici nelle cellule “desti-nate” a morire.

Gli studiosi hanno infatti potuto documentare e seguire al microscopio, l’alterato destino delle cellule apoptotiche in una serie di mutanti caratterizzati da alterazioni dello svi-luppo; i difetti genetici di questi mutanti furono ricondotti ad una serie di geni che furono denominati ced (cell death abormal)1. Ad esempio, vermi con mutazioni2 inattivanti (loss-of-function) a carico del gene ced-1 o di ced-2 impe-discono la rimozione di alcune cellule apoptotiche che, per-manendo, risultavano facilmente visibili all’osservazione microscopica. Abbiamo infatti già riportato che il meccani-smo apoptotico, oltre all’esecuzione del processo stesso, si completa con la rimozione della cellula apoptotica. Questa funzione richiede pertanto le attività delle corrispondenti

1 In C. elegans i geni sono indicati con tre lettere minuscole seguite da un numero, il tutto in corsivo (es., ced-9). Spesso la sigla di tre lettere indica la funzione del gene, o gli effetti della sua mutazione, mentre il nu-mero indica l’appartenenza ad un gruppo di geni accomunati per funzioni. Le proteine sono i normali (anche se non gli unici) prodotti che attuano le funzioni dei geni che le codificano. Esse sono indicate allo stesso modo, ma con carattere normale maiuscolo (es., CED-9). 2 La strategia di studiare la funzione dei geni attraverso lo studio del feno-tipo di ceppi mutanti è stata ampiamente sfruttata in Biologia per numerosi modelli sperimentali, da E. coli ai mammiferi (soprattutto nel topo, Mus musculus), attraverso eucarioti semplici (come il lievito Saccharomyces cerevisiae) ed invertebrati (Drosophila melanogaster e Caenorhabditis elegans). Gran parte del successo riconducibile al modello sperimentale di C. elegans all’interno della comunità scientifica è da attribuire alla di-sponibilità, ed alla (relativamente) agevole possibilità di isolare o generare ceppi mutanti, e di studiarne i fenotipi (4). Negli approcci della genetica inversa l’induzione della mutazione è mirata al gene di interesse, per cui si ricerca e si chiarisce, nei mutanti, il fenotipo alterato riconducibile alla mancata funzione del gene che è stato mutagenizzato. Questi approcci sono stati resi possibili grazie alle tecnologie biomolecolari ed alla co-noscenza dettagliata dei genomi ed alla loro annotazione funzionale. In particolare, il genoma di C. elegans, per le sue dimensioni e compattez-za, è stato il primo genoma, tra i Metazoi, ad essere stato caratterizzato. Prima dell’affermazione della cosiddetta “era genomica”, l’osservazione dei fenotipi (ad esempio, di alterata locomozione, o di alterazioni visibili dello sviluppo) costituiva il punto di partenza per la caratterizzazione dei geni, la cui inattivazione era responsabile del fenotipo osservato. L’attri-buzione del cromosoma in cui era presente il gene e, per approssimazioni successive, la posizione relativa del gene rispetto a marcatori genetici già caratterizzati culminava nella sua identificazione attraverso gli approcci della genetica classica, o diretta.

secolo (2):1842 Carl Vogt definì la morte cellulare come parte del

normale sviluppo, documentando la morte di cellule carti-laginee e della notocorda durante lo sviluppo dell’anfibio Alytes obstetricans.

1885 Walther Flemming, uno dei pionieri della caratteriz-zazione della mitosi, descrive i cambi morfologici che ac-compagnano il fenomeno di morte cellulare e conia il ter-mine “cromatolisi”, che sarà ampiamente utilizzato nei suc-cessivi 30 anni. Il fenomeno, già identificato nel XIX secolo, rimane confinato per gran parte del XX secolo, a causa di una limitata diffusione della letteratura scientifica originale sull’argomento, in lingua tedesca. Un esempio dell’impor-tanza di un linguaggio “universale” per la Ricerca e per la sua diffusione, la cui tardiva affermazione ha causato sicuri ritardi nello sviluppo delle conoscenze!

1964 Williams e Lockshin in seguito allo studio sullo svi-luppo dei muscoli del baco da seta (Bombyx mori) rilevarono la presenza di alcune cellule destinate a morire, peraltro a causa di un programma di morte intrinseco alla cellula stessa. In seguito a questa osservazione essi definirono il fenomeno osservato come Programmed Cell Death (PCD).

1972 Kerr, Wyllie e Currie, descrivendo la perdita di cel-lule sovrannumerarie in tessuti diversi durante lo sviluppo dei vertebrati, ed in tumori, coniano la definizione di apop-tosi, a partire dal termine greco che ha come significato “ca-duta”, assimilabile a quella delle foglie e dei petali dai fiori.

1977-2002 gli studi integrati di Horvitz, Sulston e Brenner sullo sviluppo del nematode Caenorhabditis elegans attribu-iscono ad un evento programmato del normale sviluppo la morte di alcune cellule. Le ricerche di Horvitz, in particolare, ne chiariscono i meccanismi, identificando i geni responsabi-li del processo e caratterizzando le loro funzioni specifiche. Le loro scoperte, ma anche quelle di numerosi altri Ricerca-tori, si riferiscono essenzialmente alla via intrinseca dell’a-poptosi, che vede il mitocondrio come l’organello decisivo per l’innesco del processo. Si chiarisce infine che l’apoptosi è un processo condiviso, e fondamentale per lo sviluppo, tra i Metazoi (animali pluricellulari). Per le loro scoperte i tre ri-cercatori saranno insigniti del Premio Nobel per la Medicina o la Fisiologia 2002 (3, 4).

1995 e successivi Lo sviluppo del sistema immunitario fornisce esempi di morte cellulare mediata da meccanismi apoptotici dipendenti da interazioni tra cellule (la via estrin-seca dell’apoptosi) (5). Con gli anni si chiarisce che le vie, intrinseca ed estrinseca, differiscono nei meccanismi iniziali di segnalazione, per convergere nei meccanismi più a valle, della esecuzione del processo. Si scopre, inoltre, sempre nel sistema immunitario, un meccanismo alternativo di morte cellulare, mediato dal sistema perforina/granzima B. Si sco-pre e si caratterizza l’autofagia, un ulteriore processo che abbraccia gli aspetti della sopravvivenza, e quelli della morte cellulare.

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era avvenuto? La mutazione nel gene ced-3 “sopprimeva” l’effetto della mutazione a carico di egl-1, ripristinando la normale funzione della ovideposizione nei vermi doppi mu-tanti. Questo esperimento divenne un canovaccio sperimen-tale per approfondire le conoscenze sull’apoptosi. Infatti, la ricerca di mutazioni a carico di geni che, al pari di quelle di ced-3, sopprimessero gli effetti della mutazione di egl-1, ha fatto scoprire nuovi geni esecutori dell’apoptosi, tra cui ced-4. Infine, un ruolo centrale nell’apoptosi fu attribuito al gene ced-9, grazie all’identificazione di sue mutazioni, at-tivanti ed inattivanti, che determinavano effetti diversificati sull’apoptosi. Le mutazioni attivanti di ced-9 favorivano la sopravvivenza cellulare in C. elegans, mentre quelle inatti-vanti comportavano il prevalere dei meccanismi apoptotici. Per questo motivo ced-9 può essere considerato il “gene del-la sopravvivenza”, e ad esso e, come vedremo a breve, alle sue interazioni funzionali con egl-1, è attribuibile il delicato equilibrio tra i meccanismi della sopravvivenza e della morte cellulare con cui abbiamo introdotto questo articolo.

LE FUNZIONI DEI GENI DELL’APOPTOSI

Come abbiamo avuto modo di verificare, i geni ced-1, ced-2, ced-3 e ced-4, sebbene a livelli diversi, rappresentano dei veri e propri esecutori del programma apoptotico, mentre egl-1 e ced-9 rappresentano i geni regolatori del processo.

proteine CED-1 e CED-2 codificate da questi geni, per cui la loro mancata funzione nei mutanti, pur permettendo la re-alizzazione dell’apoptosi, non permetteva la rimozione delle cellule apoptotiche. In questo contesto, le mutazioni a carico del gene ced-1 o ced-2 si comportavano come dei reporter dell’apoptosi. Infatti, oltre a permettere il chiarimento di questo aspetto, l’utilizzo dei mutanti ced-1 ha anche permes-so la scoperta di nuovi geni che partecipano alla esecuzione del programma apoptotico. Ad esempio, vermi “doppi mu-tanti” con mutazioni nei geni ced-1 e ced-3 non evidenziava-no più le cellule apoptotiche caratteristiche dell’alterazione nel gene ced-1. Evidentemente, nei vermi doppi mutanti, la mancata funzione del gene ced-3 non permetteva l’attua-zione del programma apoptotico. Pertanto, la funzione del gene ced-3 può essere descritta come quella di un esecutore dell’apoptosi.

La funzione esecutrice di ced-3 fu dimostrata anche con ulteriori esperimenti. L’analisi di un ceppo di C. elegans che recava una mutazione attivante (gain-of-function) del gene egl-1 comportava la morte per apoptosi del neurone HSN. Questo neurone controlla la normale deposizione delle uova fecondate da parte dei vermi ermafroditi, ed infatti la sigla egl attribuita a questo gene ne identifica la funzione (egg-laying). Ebbene, l’incrocio di questi vermi con i mutanti ced-3 risultava nella generazione di vermi, doppi mutan-ti, in cui si osservava la sopravvivenza del neurone. Cosa

Figura 1 - La fotografia (tratta dall’articolo citato come referenza n. 6) mostra un embrione di C. elegans in cui le tre cellule indicate dalle frecce sono in una fase avanzata di morte cellulare programmata. Si noti la loro forma tondeggiante, visualizzabile con ottica Nomarski. La morte di queste cellule fa parte del normale programma di sviluppo del verme. La barra nera in basso a destra corrisponde a 5 μm.

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di CED-9 il meccanismo della sopravvivenza è prevalente su quello dell’apoptosi. Oltra a CED-4, anche la proteina EGL-1 è in grado di contrastare l’attività di CED-9 (6), per cui essa rappresenta un importante fattore pro-apoptotico “a monte”. Oltre a condividere alcuni motivi strutturali, CED-9 e EGL-1 interagiscono fi sicamente, oltre che funzionalmen-te, per così dire nel “controllarsi a vicenda”.

L’APOPTOSI È UN MECCANISMO FONDAMENTALE

TRA I METAZOI

Il mitocondrio è un organello che caratterizza le cellule eucariotiche, rappresentando il sito di maggior produzio-ne dell’ATP, la molecola responsabile delle trasformazio-ni energetiche cellulari. Tuttavia, il mitocondrio copre una funzione non secondaria, rispetto a quella energetica, anche nei processi dell’apoptosi. In particolare, nei meccanismi descritti, la sua superfi cie rappresenta un sito intracellulare fondamentale per la localizzazione di CED-9 e dei suoi com-plessi con CED-4 ed EGL-1 (Figura 3). Questa Figura evi-denzia il ruolo di regolatori esercitati da CED-9 ed EGL-1; CED-9 lega CED-4 sul mitocondrio, impedendo l’attuazione

Da una parte, l’analisi genetica ha contribuito all’identifi ca-zione dei geni ed al loro posizionamento nel pathway dell’a-poptosi (Figura 2), dall’altra la comprensione delle funzioni specifi che delle proteine codifi cate da questi geni ha contri-buito enormemente al chiarimento del meccanismo dell’in-tero processo.

Partendo dagli esecutori (posizioni “a valle” rispetto ad EGL-1 e CED-9 nel pathway), la proteina CED-4 rappre-senta un attivatore di CED-3. Quest’ultima agisce da pro-teasi, demolendo numerose proteine strutturali e funzionali citoplasmatiche, e comportando l’attivazione di nucleasi che attuano la frammentazione del DNA nucleare. Risalendo il pathway a monte, la proteina CED-9 inibisce le attività di CED-4 e CED-3; è quindi un inibitore della morte cellulare, che controbilancia l’attività proapoptotica di CED-4 (6). La presenza di CED-9 non è intrisecamente necessaria per la vita delle cellule, tuttavia essa è indispensabile per la loro soprav-vivenza in quanto impedisce che CED-4 prima, e CED-3 a seguire, attuino il suicidio cellulare. A questo proposito Jean Claude Ameisen (1999) suggerì che la vita di una cellula può essere vista come la manifestazione della capacità di repri-merne il suicidio (7). Quindi, in una cellula in cui vi è attività

Figura 2 - La Figura mostra il pathway apoptotico descritto, nel corso degli anni, da Robert Horvitz in C. elegans (riga in alto). Sono anche mostrate le interazioni funzionali, negative (inibitorie) o positive (attivatorie) tra le diverse proteine del meccaniemo. La riga in basso mostra le corrispondenze delle proteine di C. elegans con quelle dei mammiferi (uomo compreso). Si noti che questo schema riporta una semplice schematizzazione funzionale delle fasi iniziali del processo apoptotico (via intrinseca).

Figura 3 - La Figura mostra un dettaglio della regolazione dell’epoptosi in C. elegans. Si noti che la superfi cie esterna del mitocondrio gioca un ruolo determinante nel processo (via intrinseca), attraverso la nucleazione di complessi dei regolatori CED-9 (funzione anti-apoptotica) ed EGL1 (funzione pro-apoptotica). Il meccanismo comporta la liberazione, e quindi la nucleazione di CED-4; quest’ultimo forma complessi con CED-3 che attivano l’autoproteolisi della stessa CED-3 (caspasi), e quindi l’avvio della esecuzione del processo.

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dificate dalla famiglia multigenica di Bcl- 2 sono parte di un complesso che controlla il processo di morte cellulare pro-grammata, agendo sulla permeabilità della membrana mito-condriale esterna e sul rilascio del citocromo C nella fase di inizio del processo stesso. Abbiamo già citato l’importanza del mitocondrio nei meccanismi dell’apoptosi; in particolare esso è determinante nei meccanismi “intrinseci” dell’apop-tosi, non solo come sito di ancoraggio per le proteine anti-apoptotiche (come riportato per CED-9 in C. elegans), ma anche come sorgente del citocromo C, una piccola proteina intramitocondriale (in condizioni normali), la cui fuoriusci-ta verso il citoplasma determina l’attivazione dell’adattatore molecolare CED-4/Apaf-1.

I geni della superfamiglia di Bcl-2 codificano per alme-no due diversi tipi di proteine: le proteine pro-apoptotiche (tra cui Bid, Bad, Bax, Bim, Bak), e quelle anti-apoptotiche (come Bcl-2 e Bcl-XL). Tutte queste proteine condividono uno o più tra quattro domini omologhi BH (Bcl-2 homo-logy), denominati BH1, BH2, BH3 e BH4, indispensabili per il loro corretto funzionamento. Le proteine anti-apoptotiche hanno tutti e quattro i domini in comune. Tra le proteine pro-apoptotiche della famiglia, alcune hanno più domini BH rispetto ad altre; altre sono note come proteine BH3-only, es-sendo dotate del solo dominio BH3; EGL-1 appartiene, per l’appunto, a questa categoria (Figura 2). A conferma dell’an-tagonismo funzionale tra proteine pro- ed anti-apoptotiche, queste ultime possono esplicare la loro funzione, inibendo la formazione di canali mitocondriali, e prevenendo il rilascio dei “segnalatori” dell’apoptosi, come il citocromo C.

Oltre al coinvolgimento nei processi fisiologici dello svi-luppo e dell’omeostasi tissutale, è utile riportare le alterate funzioni di queste proteine anche nella patologia. Ad esem-pio, è utile citare la sovraespressione delle proteine Bcl-2 che prevengono in maniera anomala l’apoptosi cellulare facen-do, così, sopravvivere anche cellule con danni al DNA, un prerequisito per la progressione delle cellule verso il fenotipo canceroso. Bcl-2 è stato infatti identificato già negli anni ’80 del secolo scorso da Carlo Maria Croce, come il prodotto di un oncogène, attivato per traslocazione cromosomica t(14;18) in linfomi follicolari (8). Il coinvolgimento di Bcl-2 nella sopravvivenza cellulare ha stimolato la messa a punto di strategie terapeutiche miranti alla sua inibizione, al fine di permettere ad agenti anti-tumorali di agire con maggiore efficacia e a dosi più basse.

I MECCANISMI DELL’APOPTOSI: LE DUE VIE,

INTRINSECA ED ESTRINSECA

La via intrinseca è il meccanismo apoptotico sin qui de-scritto, chiarito in C. elegans, ma presente ed attualmente ben caratterizzato fino ai mammiferi. Essa è normalmente attivata da stimoli interni, come elevate concentrazioni di calcio, danni cromosomici, condizioni di ipossia, iperprodu-zione di radicali liberi dell’ossigeno, e quindi danni ossida-tivi consistenti. Tutti questi tipi di stress cellulari inducono cambiamenti conformazionali nelle proteine pro-apoptotiche

del programma apoptotico (si ricordi che CED-4 comporta l’attivazione della proteasi CED-3), ed in questa situazione il meccanismo della sopravvivenza cellulare prevale su quello dell’apoptosi. L’attivazione di EGL-1, promuovendo la for-mazione di complessi con CED-9 sulla superficie mitocon-driale, può comportare il rilascio di CED-4, e quindi l’ese-cuzione del programma apoptotico, mediata dall’attivazione della proteasi CED-3.

Oltre a caratterizzare l’apoptosi dal punto di vista genetico e molecolare in C. elegans, gli studi di Horvitz risultarono determinanti anche per la comprensione che l’apoptosi fosse un processo universale, tra i Metazoi. In maniera aneddoti-ca, lo stesso Horvitz racconta che il suo laboratorio ritardava sistematicamente la pubblicazione sulla caratterizzazione di CED-3, in attesa di scoprirne le similitudini di sequenza a proteine umane o di mammiferi. Così, si scoprì che CED-3 aveva delle sequenze omologhe a quelle di ICE (interleukin-1-beta converting enzyme), una proteasi dei mammiferi coin-volta in processi infiammatori. Successivamente, CED-3 ed ICE rappresentarono i capostipiti delle caspasi, le proteasi a cisteina (l’amminoacido presente nel sito attivo di questi enzimi) coinvolte nell’attuazione del processo apoptotico (si veda anche la Figura 2 per le corrispondenze tra i geni del ne-matode e quelli dei mammiferi). Analogamente, man mano che in C. elegans si identificavano i geni coinvolti nel pro-cesso apoptotico, gli studi bioinformatici evidenziavano, nel-le banche dati di sequenze proteiche che durante gli anni ’90 del secolo scorso si arricchivano quotidianamente di nuove annotazioni, ulteriori similarità di sequenze con proteine umane o di mammiferi. Così, si dimostrò la corrispondenza tra una regione proteica di CED-4 con una proteina che, per il suo coinvolgimento nell’apoptosi in cellule di mammiferi, era stata denominata Apaf-1 (apoptotic protease activating factor). Successivamente si evidenziò che, sia EGL-1, sia CED-9, rappresentavano versioni di fattori appartenenti, nei mammiferi, alla famiglia delle proteine Bcl-2 con funzioni, rispettivamente, pro- e anti-apoptotica.

In definitiva, da questi studi e da tanti altri, condotti in numerosi laboratori, che utilizzavano sistemi sperimentali complementari al verme, come il modello di Drosophila, emerse che i macchinari che attuano l’apoptosi nei Metazoi, da C. elegans all’uomo, si basano sulle funzioni di geni omo-loghi. Quindi, l’apoptosi rappresenta un meccanismo biolo-gico fondamentale degli organismi pluricellulari.

LA FAMIGLIA DELLE PROTEINE BCL-2

La ricerca sull’apoptosi in C. elegans ha portato all’iden-tificazione di numerosi geni, e delle corrispondenti protei-ne, con ruoli simili nei mammiferi, uomo compreso. Come abbiamo già descritto, la proteina Bcl-2 (B cell lymphoma gene-2) rappresenta il prodotto del gene ortologo ced-9 in C. elegans ad attività anti-apoptotica. Successivamente all’i-dentificazione di Bcl-2, sono state identificate numerose altre proteine ad essa riconducibili per la presenza, al loro interno, di regioni proteiche conservate. In generale, le proteine co-

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recchio che Sydney Brenner3 stava esplorando un nuovo “or-ganismo genetico” con un sistema nervoso particolarmente semplice -il nematode microscopico del suolo Caenorhabdi-tis elegans- decisi di unirmi a Sidney nella sua impresa...”. Certamente, una fiducia, ed un’intuizione, ben ripagate dai successi scientifici che abbiamo descritto. La scoperta dei meccanismi dell’apoptosi in C. elegans e l’identificazione di meccanismi analoghi e condivisi tra i Metazoi, uomo com-preso, hanno costituito infatti un traguardo importantissimo nella moderna ricerca biomedica. Esso sottolinea l’impor-tanza dei modelli sperimentali semplici, e la possibilità di generalizzare le scoperte e le intuizioni dei ricercatori che affrontano problematiche di base per la scoperta di mecca-nismi fondamentali per la Vita e per la Medicina. Così, a conclusione del suo intervento, Horvitz riferisce: “Ciò che emerge dagli studi della morte cellulare programmata in C. elegans ed in altri organismi è la sorprendente similitudine dei geni e dei pathways genici tra organismi solo apparen-temente differenti, come vermi e uomini... ... Mi piace ri-ferirmi a ciò come “Il principio di universalità biologica” che sottende la mia forte convinzione che lo studio rigoroso, dettagliato ed analitico di qualsiasi organismo può portare a scoperte di rilievo per la comprensione di altri organismi, inclusi noi stessi”.

BIBLIOGRAFIA

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3 Sidney Brenner è considerato il “papà” di C. elegans, colui che intro-dusse questo sistema sperimentale nella comunità scientifica. Anch’egli risultò vincitore del Premio Nobel 2002, insieme allo stesso Horvitz ed a John Sulston.

Bax e Bak che prevalgono sulle attività delle proteine anti-apoptotiche Bcl-2 e Bcl-XL, spostandosi sulla membrana mitocondriale esterna, dove possono formare un canale. La presenza di quest’ultimo modifica la permeabilità del-la membrana mitocondriale, favorendo il rilascio di alcune proteine mitocondriali, tra cui il citocromo C. Questo, nel citosol, forma un complesso multiproteico, l’apoptosoma, cui prendono parte anche la procaspasi-9 con l’adattatore Apaf-1. Ciò comporta l’attivazione delle caspasi iniziatrici e, in una cascata enzimatica di amplificazione, l’attivazione proteolitica delle caspasi esecutrici a valle.

Oltre alla via intrinseca, le cellule eucariotiche possono at-tivare l’apoptosi attraverso meccanismi “estrinseci”, attivati cioè da fattori esterni. La rigidità di questa classificazione non esclude però che le due vie siano in comunicazione. La via estrinseca è normalmente attivata da stimoli di origine extracellulare come il rilascio di citochine, come i tumor necrosis factors (TNF), dal sistema immunitario, in risposta a fattori esterni quali temperature elevate, agenti chimici, radiazioni ionizzanti o anche in seguito a chemioterapia. Il processo ha inizio quando il TNF si lega ad un recettore tri-merico transmembrana, TNFR1 appartenente alla famiglia dei cosiddetti “recettori di morte”. Tra i recettori di questo tipo tra i più studiati vi è anche il recettore trimerico FAS (FAS-r) che risulta costituito da un dominio extracellula-re responsabile del legame con il ligando (FAS-l) cioè una proteina presente sulla membrana dei linfociti T attivati, un dominio transmembrana, e il death domain DD. Il legame tra FAS-r e FAS-l (presenti su cellule diverse) induce la tri-merizzazione del recettore e il reclutamento di una specifi-ca proteina adattatrice FADD al dominio DD. La proteina FADD, a sua volta, presenta un dominio DED, death effector domain, che lega omotipicamente lo stesso dominio presente sulla procaspasi-8; il complesso DD, FADD e procaspasi-8 viene denominato DISC Death-inducing signalling complex, il quale provoca un cambiamento conformazionale nel domi-nio del recettore stesso che porta al reclutamento di numero-se proteine. La vicinanza tra procaspasi-8 assemblate induce un reciproco taglio proteolitico della porzione extra presente, portando così alla maturazione delle procaspasi-8 in caspa-si-8, una caspasi iniziatrice. All’attivazione di quest’ultima seguiranno altri tagli proteolitici, in particolare sulle caspasi esecutrici -3 e -7 che, a loro volta, scindono e attivano nucle-asi che conducono alla degradazione nucleare e al completa-mento del processo di morte cellulare programmata.

CONCLUSIONI

Alla premiazione del Nobel 2002 per le sue scoperte sull’apoptosi, Robert Horvitz introdusse in questo modo la sua relazione: “Non mi sarei mai aspettato di trascorrere gran parte della mia vita a studiare vermi. Tuttavia, quando giunse il momento di scegliere un settore per la mia ricerca post-dottorato, ero intrigato sia dai problemi della neurobiologia, che dagli approcci della genetica. Essendomi giunto all’o-

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-cellulare-programmata_(XXI-Secolo)/8. Tsujimoto Y, Finger LR, Yunis J, Nowell PC, Croce

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