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trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://ec.europa.eu/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm Inter@lia 43 Aprile 2009 SOMMARIO PAG CULTURALIA: Darwin 1809-2009 (Daniele Vitali ) 2 La Polonia vista attraverso gli occhi di una bambina (Giulia Gigante) 4 L’ideale estetico degli Egizi (Raphael Gallus) 6 Il futurismo a Londra (Clara Breddy Buda) 9 NOTE TERMINOLOGICHE: Diaspora e diaspore (Francesca Nassi ) 11 IL PELO NELL’UOVO: Divagazioni sulla pratica del tradurre (Domenico Cosmai ) 15 AVVENIMENTI: Settima giornata REI (Daniela Murillo) 18 Comitato di redazione: R. Gallus , C. M. Gambari , G. Gigante , F. Nassi , D. Vitali Collaboratori: D. Cosmai , D. Murillo Perdomo , C. Breddy Buda , Grafica: A. D’Amico

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trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

http://ec.europa.eu/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

Inter@lia

43 Aprile 2009

SOMMARIO PAG

CULTURALIA: Darwin 1809-2009 (Daniele Vitali) 2

La Polonia vista attraverso gli occhi di una bambina (Giulia Gigante) 4

L’ideale estetico degli Egizi (Raphael Gallus) 6

Il futurismo a Londra (Clara Breddy Buda) 9

NOTE TERMINOLOGICHE: Diaspora e diaspore (Francesca Nassi) 11

IL PELO NELL’UOVO: Divagazioni sulla pratica del tradurre (Domenico Cosmai) 15

AVVENIMENTI: Settima giornata REI (Daniela Murillo) 18

Comitato di redazione: R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, F. Nassi, D. Vitali Collaboratori: D. Cosmai, D. Murillo Perdomo, C. Breddy Buda, Grafica: A. D’Amico

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Darwin 1809-2009

culturalia

Allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma, "Darwin 1809-2009" è, come dice il nome, una mostra dedicata a Charles Darwin e alla sua opera per commemorare i 200 anni della nascita dell’autore dell’evoluzionismo. Ci sono varie riproduzioni di animali e dei loro scheletri (e qualche malcapitato animale vivo tenuto prigioniero nelle teche, in attesa di essere restituito allo zoo), per mostrare ad esempio come, malgrado le enormi differenze morfologiche, le strutture scheletriche dei vertebrati (pesci, anfibi, rettili, uccelli, il pipistrello, il ghepardo, la scimmia, l’uomo...) corrispondano fra loro nelle grandi linee. Ci sono alcuni esempi ed episodi del suo lavoro, fra cui spiccano naturalmente i reperti inviati dalle Isole Galápagos, con le famose tartarughe giganti e le tantissime specie di fringuelli. La mostra ripercorre anche gli interessantissimi appunti autografi del naturalista inglese, ne illustra il viaggio attraverso il mondo sul mitico brigantino Beagle e svela l’importante ruolo del mentore, del padre e della moglie, tutti impegnati a consentirgli di lavorare febbrilmente alla nuova teoria che lui, affinché risultasse inattaccabile, limava senza sosta e non pubblicava mai (si decise a farlo solo quando rischiava di essere "bruciata" da conclusioni analoghe di un giovane collega). Tante precauzioni naturalmente non bastarono: all’epoca nessuno osava mettere in dubbio il racconto biblico, e l’idea (troppo riassuntiva, e quindi facilmente ridicolizzabile sotto forma di caricature e di beceri libelli) che l’uomo discendesse dalle scimmie sembrò a tanti una bestemmia. I vecchi naturalisti rifiutarono il lavoro di Darwin, che fu però sostenuto dai colleghi giovani, i quali cominciarono con entusiasmo a diffondere le nuove idee, senza paura delle polemiche che invece tanto dispiacevano al loro maestro. E l’evoluzionismo, passo dopo passo, si fece strada, malgrado le furenti opposizioni come quella incontrata in Italia dal fisiologo russo Alexandr Herzen il quale, viste le reazioni alla conferenza popolare che tenne a Firenze nel 1869, sbottò incredulo: "Questi vogliono

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culturalia l’ignoranza obbligatoria pel popolo!" (se avesse saputo che, ben 137 anni dopo, il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti avrebbe surrettiziamente cercato di cancellare l’evoluzione dai programmi scolastici...). In effetti, anche se all’epoca l’abate contraddittore di Herzen e i codini suoi simili furono sbaragliati, la reazione alla teoria darwiniana prosegue ancor oggi, sotto forma di "intelligent design" dei nuovi integralisti americani, che cercano di far passare il creazionismo per una dottrina scientifica alla pari con l’evoluzionismo e intentano cause agli Stati per riuscire nel loro intento. Eppure, tutte le scoperte scientifiche successive a Darwin ne hanno confermato il lavoro, basti pensare alla lettura del DNA o allo sviluppo della resistenza agli antibiotici da parte dei batteri, esempio di evoluzione che si verifica sotto i nostri occhi (la situazione cambia da un anno all’altro, ma per i batteri, che si riproducono rapidissimamente, si tratta di diverse generazioni). Le celebrazioni di Darwin in effetti sono anche un modo per continuare a far conoscere il suo pensiero, e ribadirne la validità nonostante la voce dell’ignoranza obbligatoria pel popolo si faccia sempre più forte e pretenda che il creazionismo entri nelle scuole e nei musei, come si vede dal rifiuto, civilmente documentato su Internet, del Museo delle scienze naturali brussellese e della sua superba Galleria dell’evoluzione (per la quale si rimanda all’indirizzo www.sciencesnaturelles.be/museum/evolution).

Per chi andasse a Roma, la mostra è aperta fino al 3 maggio. Se si fa il biglietto cumulativo si può proseguire per le vicine Scuderie del Quirinale e vedere le opere dei futuristi (senza fare la fila e pagando 15 euro per le due mostre, 12 se avete con voi la tessera della libreria Feltrinelli oppure un biglietto del trasporto pubblico romano - la validità del biglietto cumulativo è di tre giorni).

Qualche sito: per Darwin www.palazzoesposizioni.it e www.darwin2009.it, per i futuristi www.scuderiequirinale.it (aperta fino al 24 maggio).

Daniele Vitali

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culturalia

Quando si giunge all’ultima pagina di Marzi.

La Pologne vue par les yeux d’une enfant di

Sylvain Savoia e Marzena Sowa (Dupuis, 2008),

con le immagini che ancora danzano vivide nella

mente, si è al termine di una sorta di viaggio

iniziatico nella Polonia dell’epoca comunista.

Attraverso gli occhi sgranati della protagonista

Marzi, una bambina di sette anni di una piccola

città industriale della Polonia Orientale, si entra

in contatto con i realia della vita di quegli anni

nei paesi al di là della cortina di ferro.

E’ un mondo che, benché straordinariamente

vicino, non esiste più: file estenuanti per

conquistare un pacco di zucchero o qualche

rotolo di carta igienica, appartamenti tutti uguali

in "blocchi" di stampo sovietico, frigoriferi

tristemente vuoti, pianerottoli come unico posto

in cui giocare quando piove.

"Marzi sono io" afferma senza esitazione

l’autrice dei testi Marzena Sowa che ora vive tra

la Borgogna francese e Bruxelles, traduce

sceneggiature di documentari e scrive versi e

racconti. Il libro è uscito sorprendentemente pri-

ma in edizione francese e solo successivamente

in polacco (manca per ora un’edizione italiana).

Le strisce di Marzi, inizialmente uscite a puntate

su "Spirou", sono state pubblicate prima in

piccole raccolte ed ora in questo volume - che

ospita gli episodi relativi agli anni 1984-1987- a

cui nel prossimo autunno farà seguito un volume

dedicato al biennio 1987-1989.

Attraverso gli occhi smisuratamente grandi di

questa bambina solitaria, si assiste a riti come

quello del Natale con l’immancabile carpa che

nuota nella vasca da bagno, si rivivono momenti

estremamente drammatici come la dichiarazione

dello stato di guerra, l’incidente di Ⴠernobyl con

la conseguente contaminazione ambientale, la

nascita del movimento di Solidarnoᖰၰ.

Come si viveva nella Polonia comunista poco prima dell’avvento di Solidarnoᖰၰ?

La storia vista attraverso lo sguardo di una bambina che scopre il mondo

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culturalia

Se la narrazione attraverso il fumetto ha il

grande pregio dell’immediatezza, sarebbe

riduttivo considerare questo libro una semplice

storia a fumetti degli anni ’80 in Polonia. Oltre

al significato storico, i ricordi di Marzi hanno un

indubbio valore universale, rappresentano la

scoperta del mondo da parte di un bambino,

narrano emozioni e sentimenti universali come

la paura dell’ignoto, la solitudine del figlio

unico, l’amicizia con i coetanei, il rapporto -

spesso problematico - con gli adulti il cui

comportamento appare talvolta incomprensibile.

I disegni di Sylvain Savoia, che è anche il

compagno di vita di Marzena Sowa, riescono a

rendere a perfezione il mondo di Marzi:

l’incanto e la tristezza che scaturiscono da

avvenimenti minimi (la nascita di un cucciolo, la

morte di un porcellino d’India) e dagli eventi

della storia (gli scioperi e il razionamento

alimentare).

Lo sguardo è sempre quello di un bambino;

spesso, la prospettiva è dal basso: si vedono i

piedi, le gambe dei "grandi".

La delicatezza delle immagini corrisponde alla

sensibilità che anima la narrazione e che

permette a Marzi di cogliere istintivamente gli

elementi di bizzarria, di assurdo e, talora, di

incongruenza e incomprensibilità delle vicende

umane e, con la meravigliosa duttilità

dell’infanzia, di metabolizzarli inserendoli in un

proprio quadro personale in cui tutte le tessere

del mosaico trovano un incastro nell’attesa che

la fiammella, accesa per Solidarnoᖰၰ nell’ultima

striscia, divampi.

Giulia Gigante

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Dopo la grandiosa mostra del 2007 dedicata all'imperatore Costantino, il Museo Renano di Treviri (Rheinisches Landesmuseum Trier) torna ad attirare gli appassionati di antichità e di archeologia con un'interessantissima mostra dedicata al concetto di bellezza degli antichi Egizi (Schönheit im Alten Ägypten). Sono oltre 350 gli oggetti esposti, provenienti da musei di Berlino, Hannover e Hildesheim, ma anche, come la famosa "mummia di Treviri", appartenenti alla ricca collezione stabile del museo.

culturalia

Io entro nel Cielo, simile a un Falco. Io percorro le Regioni celesti, simile a una Fenice.

Gli dei adorano Ra e gli apprestano le vie. Al presente, io mi inoltro in pace, nel bell'Amenti.

(Libro dei morti, capitolo XIII)

L’ideale estetico degli Egizi

Segui il tuo cuore Fintanto che vivi!

Metti mirra sul tuo capo, vestiti di lino fine,

profumato di vere meraviglie che fan parte dell’offerta divina.

(Il canto dell'arpista, tomba del Re Antef)

She wears an Egyptian ring That sparkles before she speaks.

She's a hypnotist collector, You are a walking antique.

(Bob Dylan, 1965,

"She Belongs To Me")

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culturalia

L'arte figurativa degli Egizi si ispirava a una serie di canoni estetici codificati dopo l'unificazione dei due regni (3000 a.C.), perfezionati durante l'Antico Regno (2700-2000 a.C.) e sempre mantenuti nel corso dei millenni successivi, pur consentendo un ampio spettro di variazioni. Proprio a queste variazioni del canone estetico è dedicata la prima sezione della mostra, intitolata "La bellezza nelle forme e nelle misure" (Schönheit in Form und Mass). Possiamo qui ammirare l'evoluzione nella raffigurazione del corpo umano. Lungi dall'aspirare alla somiglianza fisica, le sculture, i rilievi e le pitture degli Egizi puntano a creare una sorta di corpo alternativo, intatto, quasi sempre giovane e bello, destinato a rappresentare la persona anche dopo la morte. Osservando le "regine berlinesi" (tre sculture provenienti dal Museo Egizio di Berlino, collocabili temporalmente tra la diciassettesima e la diciottesima dinastia) si rimane stupefatti per la gentile morbidezza dell'espressione (più che nella pietra sembra scolpita in una materia morbida come la cera).

L’ideale estetico degli Egizi

L'ideale estetico di questa affascinante civiltà ci viene presentato in tre diverse sezioni, dedicate ai tre aspetti della "Neferu", parola traducibile con "bontà, bellezza, perfezione", ma anche con "integrità" (da qui il sottotitolo della mostra, Sehnsucht nach Vollkommenheit). La bellezza, intesa come integrità estetica, era infatti considerata dagli antichi Egizi un ideale da raggiungere sia durante la vita terrena - attraverso la cura del corpo – che nella dimensione ultraterrena – tramite i riti magici e l'arte funeraria. Non vi è contrasto tra bellezza terrena e ultraterrena: per gli Egizi i rischi connessi alla "seconda morte" erano conseguenza della distruzione del corpo e dell’annullamento della personalità qualora non fossero stati eseguiti correttamente i rituali funebri, tra cui la mummificazione.

La seconda sezione, intitolata "La bellezza nella vita quotidiana e nelle festività" (Schönheit im Alltag und Fest) è dedicata ai mezzi e agli utensili che gli antichi Egizi utilizzavano per raggiungere un'apparenza possibilmente "integra", cioè "bella", nella vita di tutti i giorni e in occasione delle cerimonie rituali che la scandivano. Dalle parrucche (indossate sia dagli uomini che dalle donne come acconciature di gala e rituali) agli unguenti e ai preziosi contenitori che li contenevano, dagli specchi ai gioielli di ogni tipo e foggia, ci troviamo di fronte a un ricco campionario di oggetti provenienti soprattutto da ambienti funerari. Al defunto veniva infatti sempre lasciato il necessario per continuare a curare l'igiene e l'estetica; la perfetta trasposizione della vita quotidiana nella dimensione del culto è esemplificata anche dal rito quotidiano del lavaggio riservato alle statue degli Dei all'interno dei templi, replica esatta di quanto avveniva nel mondo dei mortali. Impossibile ricordare tutti i reperti, ma certo la raccolta di gioielli, collocati in bacheche la cui sapiente illuminazione ne esalta lo splendore, lascia a bocca aperta. Bellissimi anche gli specchi, cui nella cultura egizia veniva attribuita un'importanza particolare: simboleggiavano infatti il disco solare ed erano associati ad Hathor, Dea dell'amore e della gioia, la cui figura veniva spesso usata come manico per i preziosi specchi da appoggiare sul petto o sul viso delle mummie, come simbolo di rinascita del defunto.

Nel corso dell'Antico Regno assistiamo a un graduale avvicinamento a un tipo di riproduzione anatomicamente più realistica, fino ad arrivare a un tipo di raffigurazione "non canonica", utilizzata soprattutto per rappresentare stranieri, nemici o persone emarginate dalla società, come gli schiavi (splendida ad esempio la scultura che rappresenta una servitrice intenta a macinare il grano).

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culturalia

Ed è proprio la famosa mummia di Treviri ad introdurci alla terza e ultima sezione della mostra, incentrata sulla concezione della bellezza e dell'integrità nell'aldilà (Schönheit und Vollkommenheit im Jenseits). Dopo essersi soffermato - non senza soggezione – ad osservare il corpo mummificato della figlia di un sacerdote vissuta nel VII secolo a. C. e giunta sulle rive della Mosella nel 1877, il visitatore passa sotto l'architrave che segnava l'ingresso della tomba di Neferti a Giza entrando in una sala disposta come un sepolcro, dove ammira una raccolta di sarcofagi, pitture, maschere e statuette funerarie. Proprio questa sezione esemplifica al meglio quanto fosse potente l'amore per la bellezza di questo popolo, tanto forte da superare la morte stessa. Il reperto più emozionante dell'intera mostra è forse il variopinto sarcofago interno di Penju, esposto nell'ultima sala, sul cui coperchio si ammirano un meraviglioso collare variopinto, i geroglifici del Libro dei morti e soprattutto le raffigurazioni delle varie fasi del rito della pesatura del cuore contro la piuma della dea Maat, alla presenza di Osiride e del tribunale degli Dei. Solo se l'esito della pesatura sarà positivo Penju verrà proclamato da Osiride uomo "retto" e potrà inoltrarsi verso i misteriosi portali dell'Amenti, dimora delle anime giuste e senza peccato. La mostra (http://www.landesmuseum-trier.de/de/home/ausstellungen/aktuell/schoenheit-im-alten-aegypten.html) è aperta fino al 20 ottobre 2009, il prezzo del biglietto è abbastanza modico (8 euro) e comprende anche la visita alla ricchissima collezione stabile di antichità romane. Da segnalare alcuni eventi speciali, come ad esempio l'apertura notturna della mostra con contorno musicale e gastronomico a base di specialità culinarie orientali (23 maggio), o i laboratori speciali destinati ai bambini, per imparare a realizzare autentici amuleti egizi o a produrre profumati unguenti sulla base delle ricette originali.

Raphael Gallus

L’ideale estetico degli Egizi

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culturalia IL FUTURISMO A LONDRA

Ad Islington, uno dei quartieri residenziali della Londra-bene, da dieci anni un severo edificio georgiano ospita un singolare e sorprendente museo: The Estorick Collection of Modern Italian Art (39a Canonbury Square, London N1 2AN).

Eric e Salome Estorick, una coppia di intellettuali ebrei molto benestanti, con grande intuito e una vera e propria passione per le avanguardie artistiche italiane del ’900, hanno raccolto una quantità impressionante di opere d’arte, acquistate per lo più negli anni ’40 e ’50, quando la situazione economica di molti artisti e del paese in generale permetteva di fare affari d’oro.

Eric Estorick, professore di sociologia di origini russe, era nato a New York nel 1913. Egli attribuiva la sua affinità con il movimento futurista alla gioventù trascorsa nella metropoli americana, già allora dominata dalle macchine e dall’industria. Gli eredi hanno deciso di creare un museo ed una Fondazione per ospitare e gestire al meglio le numerose e pregevoli opere, cornice ideale per la mostra sul Futurismo e su Umberto Boccioni, allestita in occasione del centenario della pubblicazione del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti.

La mostra "Futurism 100!" (dal 14 gennaio al 19 aprile) è solo il pretesto per visitare uno spazio straordinario dedicato a quelle avanguardie artistiche che hanno dato un salutare scossone al mondo dell’arte di fine ottocento. Sono presenti tutti: Carrà, Balla, Severini, Russolo e ovviamente Boccioni, l’artista considerato l’esponente più famoso del Movimento.

Nato nel 1882 a Reggio Calabria da genitori romagnoli, muore tragicamente per una caduta da cavallo durante un’esercitazione militare nel 1916.

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culturalia

In un primo tempo Boccioni, che frequentava Balla e Severini, si può definire un pittore divisionista, come si vede nell’opera « La città che sale”, che documenta l’espansione della periferia urbana di Milano. Ma, dopo un viaggio a Parigi, dove conosce Modigliani, sente il desiderio di andare oltre e rimane molto colpito dalla lettura del Manifesto Futurista. In quel momento molti giovani artisti volevano evadere dall’atmosfera provinciale e conservatrice della cultura ufficiale e le idee iniziarono a concretizzarsi con la pubblicazione dei vari Manifesti. Viene respinta l’arte concepita come « immobilità contemplativa” e prevale un vitalismo frenetico, dissacrante, al centro del quale sono le macchine.

I pittori futuristi non analizzano e scompongono l’oggetto, ma si proiettano in esso per catturarne lo spirito. Non sorprende dunque che Boccioni, che nel 1910 aveva poi avuto occasione di conoscere personalmente Marinetti, accusi il cubismo di staticità. Dopo una fase esploratrice, alla ricerca di un dinamismo plastico per interpretare il travolgente ritmo della vita moderna, al centro della quale è la macchina, Boccioni decide di portare avanti la sua ricerca come scultore. Il pezzo forte della mostra è il capolavoro che rappresenta da solo la scultura moderna: "Forme uniche della continuità nello spazio" del 1912. L’opera la conosciamo tutti, basta guardare una moneta da 20 centesimi di euro, ma nel vederla da vicino si percepisce la forza sprigionata dal movimento della figura e si realizza la compenetrazione fra la statua e lo spazio che la circonda.

La mostra è arricchita da molti altri capolavori, fra cui la scultura "Sviluppo di una bottiglia nello spazio", ma vale la pena di esplorare tutti i piani dell’edificio. Modigliani, Morandi, Guttuso, Rosai e Sironi fanno compagnia a sculture di Manzù ed Emilio Greco.

Clara Breddy-Buda

IL FUTURISMO A LONDRA

In Italia sono numerose le iniziative promosse per celebrare il centenario del "Manifesto" di Marinetti. A Roma la mostra "Futurismo. Avanguardia-Avanguardie" aperta fino al 24 maggio alle Scuderie del Quirinale; al Palazzo Reale di Milano fino al 7 giugno "Futurismo 1909-2009: Velocità + Arte + Azione", con oltre 400 opere tra pittura, scultura, disegni, fotografie, oggetti, costumi teatrali, ceramiche, scenografie; al Mart di Rovereto l'esposizione "Futurismo 100" fino al 7 giugno. Altre due grandi mostre hanno avuto luogo a Venezia, con una ricca retrospettiva dedicata a Depero, e a Bologna, con l'esposizione "Futurismo 1910-1915, il centenario del manifesto" che si è conclusa il 30 gennaio scorso.

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Negli ultimi anni si nota un cambiamento di significato del termine diaspora che può considerarsi un esempio di metonimia, nel senso di sostituzione dell'effetto con la causa: dalla dispersione, disseminazione forzata di un popolo (significato che proviene direttamente dalla lingua greca), la parola è passata a indicare una comunità che è frutto di una diaspora o, in generale, di un fenomeno migratorio. Quindi, in primo luogo non si tratta più di un evento ma di un'entità; in secondo luogo, lo spostamento dal paese di origine a quello di destinazione non è frutto di un intervento violento, come nel caso delle vere e proprie diaspore storiche ebraica e armena, ma può essere dettato da svariate ragioni economiche o politiche che vanno dalle persecuzioni alle carestie, alla ricerca di un lavoro; in terzo luogo, non si tratta dell'emigrazione di un intero popolo, come nel caso degli ebrei e degli armeni, ma di gruppi più o meno numerosi che tuttavia continuano a fare riferimento al loro popolo rimasto nel paese di origine. La scheda IATE, redatta con l'aiuto di un esperto della Rappresentanza permanente, definisce la diaspora "una comunità strutturata di stranieri, talvolta con rappresentanti presso le autorità e diritto di voto", e precisa che il nome può essere usato anche con funzione esplicativa, ad esempio specificando "diaspore (comunità stanziali di stranieri)" o "comunità stanziali di stranieri (diaspore)". Sempre secondo la scheda,

l ' "o pzio ne d iaspo ra" s ign i f ica , in contrapposizione all'"opzione ritorno", la "messa in rete e valorizzazione a distanza delle risorse umane emigrate" con l'obiettivo di "creare canali attraverso i quali coloro che sono emigrati possano essere effettivamente coinvolti nei processi di sviluppo, evitando la necessità di un ritorno fisico, permanente o temporaneo". Nei documenti delle istituzioni europee il termine viene utilizzato soprattutto a partire dal 2005, anno della comunicazione della Commissione europea Migrazione e sviluppo: orientamenti concreti. Il nesso tra migrazione e sviluppo ha infatti tra i suoi punti di forza l’idea di rivolgersi alle ‘diaspore’, cioè alle comunità più strutturate di stranieri all’estero, come leva per lo sviluppo dei paesi di origine. È questo un aspetto fondamentale di una trasformazione in corso al centro stesso del concetto di emigrazione: da sparute e deboli minoranze oggetto di sfruttamento, le comunità di emigrati possono trasformarsi in nuclei "forti" di un popolo in grado di aiutare i connazionali rimasti in patria; accanto all’immagine negativa dei clandestini assume un rilievo sempre maggiore quella positiva di immigrati sempre più integrati nei paesi ospitanti e capaci di far sentire la loro voce a livello locale e regionale. Nella comunicazione si parla quindi degli "immigrati della diaspora, attori dello sviluppo nei paesi d’origine", di "organizzazioni della diaspora", della necessità di “mantenere i

Diaspora e diaspore

Note terminologiche

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Note terminologiche

legami tra questi paesi [di origine] e le rispettive diaspore". Nei comunicati stampa del Consiglio si parlava già in precedenza di "impegnare costruttivamente la diaspora degli operatori sanitari in Europa" (cioè gli operatori sanitari di origine africana emigrati in Europa; in un testo dell’aprile 2005) e del dialogo con "i dirigenti politici del paese [Etiopia] e quelli della diaspora" (luglio 2005). A seguito della comunicazione della Commissione, le ricorrenze si moltiplicano: il Consiglio condivide l’intento della Commissione di concentrare l’attenzione sulle "questioni legate alle rimesse dei migranti, alla diaspora e alla fuga di cervelli" e sul "ruolo delle diaspore quali agenti di sviluppo nei rispettivi paesi di provenienza" (in un comunicato stampa del novembre 2005), di "utilizzare le diaspore come fonte di sviluppo" (aprile 2006), di puntare sul "coinvolgimento della società civile, delle a s s o c i a z io n i f e m m i n i l i e d e l l a diaspora" (settembre 2006). Nei documenti comunitari, quindi, il termine si è saldamente affermato in questa nuova accezione, anche se quella originaria non è certo scomparsa: in un discorso del luglio 2006 dal titolo "Migrazioni e

Diaspora e diaspore

sviluppo: sfide e opportunità per la cooperazione euro-africana" l’ex vicepresidente Frattini parla infatti da un lato di "contributo dei migranti allo sviluppo dei loro paesi di origine" (e non delle diaspore) e dall’altro del problema costituito dalla "diaspora dai Paesi africani", ossia dell’emigrazione degli afr icani più professionalmente qualificati. Se esaminiamo una campionatura di testi italiani contemporanei, troviamo notevoli oscillazioni: nella nuova accezione, il termine può essere usato per designare semplicemente un gruppo di stranieri all'estero, oppure - ed è questo il senso che prevale nei documenti "tecnici" sull'immigrazione – una comunità stanziale e strutturata. Si parla quindi di "diaspore africane nel territorio milanese", ma anche di "diaspora toscana nel mondo" nel XIX secolo, o di "diaspora italiana" negli Stati Uniti, e in tutti questi casi il termine rimanda a fenomeni migratori che danno luogo a gruppi più o meno omogenei e organizzati in un determinato paese ospitante. Per "diaspora culturale europea" si intende invece, stavolta in senso "attivo", il trasferimento della cultura europea negli altri continenti.

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L'Osservatorio sulle Diaspore, le Culture e le Istituzioni dei Paesi d'Oltremare (centro interdipartimentale di ricerca e dibattito dell'Università del Salento, fondato nel 1993) mira a "promuovere attività di ricerca e di studio sulle diaspore antiche e moderne, le culture, i conflitti culturali e le Istituzioni dei Paesi d'Oltremare" e pubblica la rivista "Palaver. Culture dell'Africa e della Diaspora", che intende far colloquiare tra loro i diversi "mondi letterari" delle comunità africane in Africa e nei paesi di emigrazione, spesso separati secondo la lingua dell'ex-colonizzatore in cui si esprimono. "Afrodiaspora" è il titolo di una rubrica di "Nigrizia" e "Sociétés africaines et diaspora" è il titolo di una rivista universitaria e pluridisciplinare trimestrale dell'editrice Harmattan di Torino. Il termine esiste anche al di fuori del settore dell’immigrazione: accanto alle diaspore culturali esistono anche, come ben sappiamo, le diaspore politiche, e in questo senso va l’espressione "cattolici della diaspora" che, come mi è stato segnalato da un amico competente, risale al ’68 e indica i cattolici che non si riconoscevano più nella Democrazia Cristiana. L’espressione si ritrova di recente in testi dell’area politica della "Margherita": ad esempio in un intervento del p. Bartolomeo Sorge del 2004, designa i cattolici italiani che

Note terminologiche

Diaspora e diaspore

hanno perso la loro unità dividendosi tra i due "poli" parlamentari. Si parla altresì, ancora nel senso originario del termine, della diaspora ebraica e armena, ma la stessa espressione "diaspora ebraica" può anche indicare le comunità ebraiche che si sono ricomposte nel mondo in seguito alla diaspora: così, ad esempio, nel recente libro di Vittorio Dan Segre "Le metamorfosi di Israele". Qui il termine assume per lo più un significato assoluto, a indicare gli ebrei che vivono fuori dal territorio di Israele (quindi, se teniamo presente il senso originario del termine, del "frutto" della diaspora storica avvenuta con la distruzione del Tempio). Si parla quindi, ancora nel senso classico, di "ebraismo diasporico", di "comunità ebraiche della diaspora" o di "sistema culturale sviluppato nella diaspora". Ma si parla anche delle "molte diaspore israelite sorte nel mondo nel corso dei millenni" o di "potere ebraico nelle diaspore": usato al plurale, il termine non può che essere sinonimo di comunità. Anche in questo caso, va tenuto presente il ruolo fondamentale attribuito alla diaspora (alle diaspore) da un autore che apre il suo libro dichiarando: "Non ho dubbi che fra mille anni gli ebrei esisteranno ancora come tali. Non ho dubbi che fra mille anni lo Stato di Israele attuale non esisterà più".

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Inutile dire che in questa trasmigrazione di significato l'italiano segue pedissequamente il modello inglese, nel quale si ritrova la stessa ambiguità. Ad esempio, in un sito dal titolo "Overseas indian. Connecting India with its diaspora" il termine indica collettivamente tutti gli indiani che vivono fuori dall'India. Il termine "african diaspora" viene usato sia per indicare, storicamente, la migrazione forzata degli africani causata dalla tratta degli schiavi nei secoli scorsi, sia per designare le comunità africane in America e in Europa che contribuiscono economicamente e culturalmente allo sviluppo dei loro paesi di origine. In un recente articolo di Paul Stubbs su "Sociological Research Online" si parla di "Virtual diaspora" a proposito della comunicazione via computer tra le "diaspora communities" di croati e la loro madrepatria. Da un breve esame della bibliografia emergono, fin dalla fine degli anni ’90, titoli come Global diasporas: An introduction (di Robin Cohen, London: University College London Press 1997), Migration, diasporas and transnationalism (R. Cohen e Stephen Vertovic eds., Cheltenham,

UK: Elgar, 1999), Diaspora studies (di Guy Beauregard, in "International Journal of Canadian Studies", 25, 2002). E gli esempi si potrebbero moltiplicare. In conclusione: il significato di ‘comunità di emigrati’ si è indubbiamente affermato negli ultimi anni. Ma che il termine diaspora indichi, in particolare, le comunità stanziali e organizzate, questo si percepisce esclusivamente nei testi settoriali, e non è di immediata comprensione. La fluidità di significato deriva chiaramente dall'esigenza di spiegare un fenomeno che è di per sé, come ho già detto, in trasformazione: l'emigrazione come genesi di nuove forme associative che assumono caratteri sempre più strutturati e che devono essere studiate nelle loro relazioni sia con i paesi ospitanti, sia con i paesi di origine. D'altra parte si ha l'impressione che il termine diaspora sia utilizzato spesso con un intento di drammatizzazione, per evitare da una parte di parlare semplicemente di flussi migratori e dall'altra di comunità di espatriati; per dare, insomma, maggiore dignità e immediata visibilità a queste entità e a questi fenomeni accostandoli implicitamente ad eventi solenni (nella loro tragicità) della storia umana. Se ci poniamo in un’ottica di evoluzione – che è la sola ottica possibile per la lingua, oltre che per il mondo in generale -, è inutile opporsi al cambiamento di senso del termine e cercare di tornare al significato originale. Ciò che a mio parere si potrebbe, e si dovrebbe, cercare di evitare nei documenti ‘tecnici’ è l’ambiguità che questo genera: quando si può parlare di ‘comunità’ è preferibile farlo, oppure, invece del sintetico ‘diaspore’, specificare ‘comunità della diaspora’; ed è preferibile evitare di parlare di ‘diaspora’ in senso assoluto, come sinonimo di emigrazione. Questo non impedirebbe, ripeto, il mutamento semantico, ma contribuirebbe non poco alla chiarezza.

Francesca Nassi

Note terminologiche Diaspora e diaspore

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il pelo nell’uovo divagazioni sulla pratica del tradurre

In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione

disperata e luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza, l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si volge. […] L’Atlantico è una via che non si chiude ed è una via eroica, come dimostrano i novissimi inseguitori che hanno colorato l’Ourcq di sangue tedesco. Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza, non siamo venuti se non per la prova di quel che potremo osare e fare quando vorremo, nell’ora che sceglieremo. Il rombo della giovine ala italiana non somiglia a quello del bronzo funebre, nel cielo mattutino. Tuttavia la lieta audacia sospende fra Santo Stefano e il Graben una sentenza non revocabile, o Viennesi. Viva l’Italia.

È incerto se questo stile eroico – che col passar del tempo volge tristemente verso l'eroicomico – sia riuscito a far breccia nell'animo dei viennesi, se non di quei pochi che conoscevano l'italiano tanto da capirci qualcosa. Già, perché una volta visionato in anteprima dai co-organizzatori della missione, il testo fu considerato non solo inefficace, ma anche impossibile da rendere in tedesco. E, siccome i cultural studies e i principi dell'adeguamento transculturale erano ancora di là da venire, si decise di lanciarlo così com'era sulle teste degli ignari austriaci, che probabilmente lo accolsero come i romani o i milanesi avrebbero accolto un bel discorso alla nazione di Fichte in originale tedesco. Un comunicato ufficiale del Comando Supremo riferì a fine missione che "sulle vie della città era chiaramente visibile l'agglomeramento della popolazione", e altre fonti riportano che i viennesi fecero incetta dei manifestini. Non so, magari saranno stati colpiti dal carattere ludico dell'impresa, ma mi pare dubbio che dal messaggio dannunziano la gente potesse cogliere il senso di ciò che avveniva quel giorno nel cielo di Vienna.

L'episodio dei volantini dannunziani mi ha colpito per il riferimento a un concetto-paradosso che, come traduttore, mi ha sempre sedotto: l'intraducibilità. L'intraducibilità è una sfida filosofica, un po' come uno di quei labirinti di Escher dove si vede gente che sale e scende le scale in tutte le direzioni, senza che si riesca a capire quale sia il giusto senso di marcia. Ed è anche una di quelle antinomie che polarizzano la teoria della traduzione.

Il 9 agosto 1918, dieci velivoli monoposto e un biposto appartenenti all'87a squadriglia dell'aviazione italiana, detta la Serenissima, partivano da San Pelagio, presso Padova, per un clamoroso volo dimostrativo su Vienna, dando così vita all'impresa vagheggiata più di un anno prima dal maggiore Gabriele D'Annunzio. Una volta raggiunta la capitale dell’impero austro-ungarico, gli aerei lanciarono 50.000 manifesti il cui testo, manco a dirlo, era stato concepito dal Vate in persona:

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il pelo nell’uovo divagazioni sulla pratica del tradurre

Da un lato, tutto è traducibile, tutto cioè può essere in qualche modo rimasticato ed espresso in un codice espressivo differente, così come è sempre possibile dire la stessa cosa in altro modo. La rivoluzione chomskiana sarà magari fallita e le teorie sugli universali linguistici saranno state sopravvalutate, come non si stancano di ripetere i pragmatici, tanto più che lo stesso Chomski sembra di anno in anno più interessato alla geopolitica che alle sorti della grammatica generazionale. Non per questo, però, si può negare che la mente umana funzioni nello stesso modo indipendentemente dalla razza e dalla lingua dei parlanti, il che fa il paio con la tesi che qualsiasi esperienza umana sia comunicabile, comprensibile e quindi, per dirla con George Steiner, traducibile. Torna in mente Terenzio e il suo Homo sum, nihil humani a me alienum puto.

All'estremo opposto la visione solipsistica di chi, pur ammettendo la possibilità materiale della traduzione, ne contesta l'efficacia, sottolineando con forza più gli elementi che in questo percorso si perdono che quelli che si guadagnano. Si può, sì, tradurre l'Infinito leopardiano per "comunicarlo" a chi non sa l'italiano, ma è fatica sprecata cercare di renderne la pregnanza semantica e l'evocatività complessiva. Idem per quanto riguarda la comunicazione tra gli esseri umani. Ricordate le parole di Kurtz in Heart of Darkness?

...No, it is impossible; it is impossible to convey the life-sensation of any given epoch of one's existence – that which makes its truth, its meaning – its subtle and penetrating essence. It is impossible. We live, as we dream – alone…

L'alternativa teorica "traducibile versus intraducibile" è al centro delle riflessioni di uno dei massimi esponenti dell'ermeneutica, Paul Ricoeur, riflessioni raccolte qualche anno fa in un agile volumetto dalla casa editrice Morcelliana(1). Nei quattro saggi – bellissimi – che compongono il libro e mostrano una volta di più, se ancora ve ne fosse bisogno, quanto il problema del linguaggio sia parte integrante di tutta la filosofia moderna da Wittgenstein in poi, Ricoeur si adopera per superare il conflitto tra un processo teoricamente incomprensibile come la traduzione e il fatto che tale processo sia effettivamente praticabile e praticato, sia pure a rischio del tradimento dell'originale. Lo fa proponendo un'"etica dell'ospitalità linguistica" tesa a conciliare quanto di proprio e quanto di estraneo, quanto di sé e quanto di altro interviene nell'atto del tradurre. Un'ospitalità linguistica dove

al piacere di abitare la lingua dell'altro corrisponde il piacere di ricevere presso sé, nella propria dimora d'accoglienza, la parola dello straniero,

e che può addirittura erigersi a modello di altre forme di ospitalità:

le diverse confessioni, le religioni, non sono forse come delle lingue straniere le une alle altre, ciascuna con il suo vocabolario, la sua grammatica, la sua retorica, la sua stilistica, che occorre studiare per poterle comprendere dall'interno?

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il pelo nell’uovo divagazioni sulla pratica del tradurre

È quindi legittimo – per non dire che fa anche bene al cuore di noi traduttori – parlare di un ethos della traduzione, della traduzione vista come gesto di ospitalità tra lingue e culture diverse, sì, ma mai contrapposte.

Ripensavo alle sagge parole di Ricoeur sull'ospitalità linguistica qualche tempo fa, quando, non avendo di meglio da fare, mi è saltato il ticchio di mettere a confronto alcune traduzioni di bestseller con gli originali, accorgendomi di quanto in effetti non venga tradotto. Mi limito a un paio di esempi. Ecco Giovanni Guareschi che descrive un viaggio a Firenze con famiglia al seguito:

A Firenze io feci il pieno di benzina e Albertino il pieno di giornaletti illustrati. Poi ci sedemmo a un tavolino di caffé.

- Quello è il campanile di Giotto, - dissi ad Albertino. – Se lo vuoi guardare è là. Albertino stava leggendo i suoi giornaletti:

- C'è l'O? – si informò senza alzare la testa. - No: l'O di Giotto non c'entra col campanile di Giotto. Sono due cose distinte. - Allora, niente, - rispose tranquillo Albertino continuando a leggere(2) .

Ed ecco la versione francese di Michel Vermont:

A Florence nous fîmes le plein d'essence. Albert fit le plein de journaux(3).

Il resto, espunto. Forse il riferimento all'O di Giotto era troppo per il lettore francese degli anni '50, eppure a qualche pagina di distanza il traduttore avverte l'imperioso bisogno di aggiungere due note a piè di pagina per spiegare dove si trovi il Col de la Futa (sic per Passo della Futa) e che il Bardolino è un "vin de l'Emilie" (sic!).

E che dire delle mitiche traduzioni mondadoriane di Agatha Christie? Nelle sole due pagine iniziali di "La morte nel villaggio", titolo italiano così così di Murder at the Vicarage, Giuseppina Taddei trasforma un "dish of singularly moist and unpleasant dumplings" in un "budino di mele" che viene offerto al narratore e rifiutato senza apparente motivo; elimina una decina di righe di inglesissimi conversari infarciti di riferimenti biblici, e ne sopprime un altro paio in cui il narratore, un pastore anglicano, descrive sua moglie come una donna "incompetent in every way and extremely trying to live with. She treats the parish as a kind of huge joke arranged for her amusement." Scarsa ospitalità linguistica o semplice solidarietà femminile?

Domenico Cosmai

(1) P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica (a cura di D. Jervolino), Brescia, Morcelliana, 2001 (trad. di I. Bertoletti e M. Gasbarrone). (2) G. Guareschi, Corrierino delle famiglie, Milano, Rizzoli, 1954. (3) Guareschi, La Pasionaria et moi, ou le petit courrier des familles , Paris, Seuil, 1955 (trad. di M. Vermont).

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Il 24 aprile a Roma, nella sede della Rappresentanza della Commissione in Italia, via IV Novembre 149, si svolgerà la VII giornata REI. Si presenta come un convegno molto interessante per la presenza di persone di rilievo come Tullio De Mauro e Francesco Sabatini e di altri "addetti ai lavori" di diversi ambiti istituzionali e, naturalmente, per il tema: IL LINGUAGGIO E LA QUALITA’ DELLE LEGGI. Le regole per la redazione dei testi normativi a confronto. Ci auguriamo che le relazioni suscitino vivaci e utili dibattiti e che questa giornata segni un ulteriore passo avanti verso una maggiore armonizzazione dei linguaggi settoriali.

Daniela Murillo Perdomo

SETTIMA GIORNATA REI

IL LINGUAGGIO E LA QUALITA’ DELLE LEGGI

Le regole per la redazione dei testi normativi a confronto

Roma, 24 aprile 2009

Commissione europea – Rappresentanza in Italia

Sala delle Conferenze

Via IV Novembre, 149

avvenimenti

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avvenimenti

PROGRAMMA

PRIMA SESSIONE - LE REGOLE REDAZIONALI

9.00-9.30 Registrazione

9.30-9.50 Benvenuto

PIER VIRGILIO DASTOLI Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione europea

GINO VESENTINI Capo del Dipartimento linguistico italiano della DG Traduzione – Commissione europea

9.50-10.00 Introduzione generale

MICHELE CORTELAZZO Università di Padova

10.00-10.20 Interviene

TULLIO DE MAURO Università La Sapienza, Roma

10.20-12.20 TAVOLA ROTONDA

RAFFAELE LIBERTINI Osservatorio legislativo interregionale – Regione Toscana

VALERIO DI PORTO Servizio Studi – Osservatorio legislativo e parlamentare - Camera

CARLA PARADISO Osservatorio legislativo interregionale – Regione Toscana

MANUELA GUGGEIS Servizio giuridico - Consiglio dell'Unione europea

JEAN-LUC EGGER Cancelleria federale, Servizi linguistici centrali - Divisione italiana

Apertura dei lavori

I manuali di redazione

Coordina:

Intervengono:

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13.00-14.30 Pausa pranzo

SECONDA SESSIONE - ASPETTI APPLICATIVI

14.30-14.50 Introduzione

FRANCESCO SABATINI Presidente onorario dell’Accademia della Crusca

Modera la sessione sugli aspetti applicativi:

ROBERTO ADAM capo del Dipartimento per le Politiche comunitarie

15.00-15.20 Le leggi mal scritte e l’applicazione giurisprudenziale

UGO DE SIERVO Giudice della Corte costituzionale

15.20-15.40 L’esperienza del Comitato per la legislazione e la cooperazione tra le

Assemblee legislative

LINO DUILIO Comitato per la legislazione

15.40-16.00 Le leggi mal scritte e l’applicazione della Pubblica amministrazione

STEFANO VACCARI Direttore generale dei Servizi amministrativi -

Ministero per le Politiche agricole, alimentari e forestali

16.00-16.20 La legge toscana sulla qualità della normazione

RAFFAELE LIBERTINI Osservatorio legislativo interregionale – Regione Toscana

16.30-17.30 Dibattito

17.30-18.00 Conclusioni della giornata

MICHELE CORTELAZZO Università di Padova

Dibattito

Inter@lia è il periodico autogestito dei traduttori italiani della Commissione europea. La pubblicazione è aperta anche a contributi esterni. Gli articoli pubblicati rispecchiano l'opinione degli autori e non sono necessariamente rappresentativi delle posizioni del comitato di redazione né della Commissione.

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