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UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET Association Internazionale sans but lucratif Bruxelles CORSO ARTS-THERAPHIES TESI: IN CAMMINO CON LE PERSONE DOWN VERTA KATIA Matricola n. 1835 Bruxelles, Décembre 2007

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UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET Association Internazionale sans but lucratif

Bruxelles

CORSO

ARTS-THERAPHIES

TESI:

IN CAMMINO

CON LE PERSONE DOWN

VERTA KATIA Matricola n. 1835

Bruxelles, Décembre 2007

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Indice

PARTE PRIMA 5 1. Caratteristiche e cause 5 Eziologia 6 Segni e sintomi 6 Prevenzione 6 Trattamento 7 Come viene diagnosticata 7 Il momento della diagnosi 8 Quante sono le persone Down 8 La presenza di fratelli 9 Chi sono e come crescono i bambini Down? 10 La diagnosi 11 2. Gesti e parole nel primo vocabolario 12 Caratteristiche della produzione verbale 13 3. La memoria 15 4. Le abilità visuo percettive 18 5. Le difficoltà di sviluppo motorio-prassico 20 Conclusioni 22 6. Il progredire dell’età 22 Neuropatologia 23 Valutazione clinica e neurologica della demenza in soggetti con Sindrome di Down 25 7. Il coinvolgimento dei genitori nei programmi di intervento precoce 28 Considerazioni 30 8. La riabilitazione delle difficoltà prassiche 30 La costruzione del profilo di sviluppo 31 Profili prassici di sviluppo dei bambini con ritardo mentale lieve 35 Conclusioni 37 9. Educazione al linguaggio 38 Prime fasi dell’acquisizione del linguaggio 40 Fase linguistica

44 10. Aspetti relazionali 52 11. Psicopatologia e riabilitazione

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52 Psicopatologia del ritardo mentale 54 Psicopatologia della Sindrome di Down 55 L’intervento precoce 57 Integrazione sociale extrascolastica ed extralavorativa 58 12. Lo sviluppo dell’autonomia 58 Perché educare all’autonomia 59 Adolescenza e sviluppo in soggetti non Down 65 Che cosa si intende per autonomia esterna in soggetti Down 66 Il corso di educazione all’autonomia dell’Associazione Bambini Down 70 Conclusioni 71 13. Esperienze di inserimento nella scuola dell’obbligo 72 Risultati di una ricerca 74 14. Prime esperienze di inserimento alla scuola superiore 75 Fasi del progetto 77 Conclusioni 78 15. I corsi prelavorativi 78 Riferimenti essenziali per un corretto orientamento Post-obbligo 81 Considerazioni conclusive 84 16. Il lavoro e la conquista dell’identità 86 17. Analisi di esperienze lavorative di adulti con Sindrome di Down 86 Le aziende 87 Modalità di collocamento 87 Scelta delle mansioni 88 Presenza in azienda 89 Cambiamenti nelle persone Down 89 Conclusioni PARTE SECONDA 90 18. Analisi di un caso attraverso l’arteterapia 90 L’utilità dell’arteterapia 91 Il ruolo della musica 94 Presentazione di un caso con relativo intervento 95 Svolgimento degli incontri 111 Considerazioni

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1. CARATTERISTICHE E CAUSE

La sindrome di Down è una delle più note patologie prodotte da un'anomalia negli autosomi. Il nome deriva da John Langdon Down che ha descritto la patologia nel 1862, usando il termine mongoloidismo per via dei tratti somatici del viso dei pazienti che richiama quelli delle popolazioni asiatiche orientali, quali i mongoli. Altro termine quasi sinonimo è trisomia 21 (si veda la sezione successiva). Poiché, di solito, questa condizione comporta diverse conseguenze negative, ci si riferisce ad essa come ad una sindrome, vale a dire un insieme di effetti anomali che si verificano contemporaneamente.

Eziologia

La sindrome di Down è causata dalla presenza di un cromosoma 21 in più (o parte di esso). Circa nel 95% dei casi, la causa di questa anomalia genetica è la mancata disgiunzione dei cromosomi che si verifica durante una delle divisioni meiotiche che portano alla formazione dei gameti di un genitore; ne consegue che il zigote avrà un assetto di 47 cromosomi, con un cromosoma 21 soprannumerario in tutte le cellule dell'individuo affetto, anziché il normale numero diploide di 46 cromosomi tipici della specie umana. Per tale motivo questa patologia è anche chiamata Trisomia 21: è da notare che la causa della sindrome può essere anche differente, come spiegato nel paragrafo successivo, quindi Trisomia 21 non è propriamente un sinonimo di Sindrome di Down. La sindrome può essere causata anche da un altro tipo di mutazione: la traslocazione robertsoniana, in cui un braccio del cromosoma 21 si congiunge al cromosoma 14 formando una sorta di cromosoma ibrido. Gli individui portatori di tale ibrido sono fenotipicamente normali, ma presentano un'elevata probabilità di avere figli con sindrome di Down (forma familiare). La Sindrome di Down comporta situazioni diverse di rallentamento dello sviluppo, ma in genere non preclude possibilità allo stesso: è possibile una buona integrazione e convivenza, data la volitiva capacità di apprendimento che caratterizza l'individuo down.

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Segni e sintomi

Nella maggior parte dei casi l'individuo ha corpo basso e tozzo, collo grosso, macroglossia, ipotonia e plica palmare. Il ritardo mentale varia da forme più gravi a forme lievi nei mosaici. Si ha maggiore sensibilità alle infezioni e, spesso, disfunzioni del cuore e di altri organi: principalmente per tal motivo la vita media, senza interventi, non supera i 30-40 anni. Attualmente, col progredire delle tecniche chirurgiche, molte anomalie cardiache anatomiche possono essere trattate con successo. Al downismo è associata un'amiloidosi Alzheimer-simile. Gli individui portatori della sindrome presentano un carattere molto docile, tranquillo, e sono caratterizzati da un forte spirito emulativo. La presenza della sindrome di Down è diagnosticabile nel neonato, oltre che con un'analisi cromosomica, fatta su un prelievo di sangue, attraverso una serie di caratteristiche facilmente riscontrabili dal pediatra, di cui la più nota è il taglio a mandorla degli occhi (che ha dato origine al termine mongolismo).

Prevenzione Quando si studiano casi di sindrome di Down dovuti a traslocazione, si trova di solito che un genitore, anche se fenotipicamente normale, presenta solo 45 cromosomi ben distinti. Uno di questi cromosomi è formato dai bracci lunghi dei cromosomi 14 e 21 uniti insieme, mentre i bracci corti residui si uniscono a formare un piccolo cromosoma che contenendo geni non essenziali generalmente viene perduto. Perciò ai genitori di un figlio affetto da sindrome di Down si consiglia di procedere alla determinazione del loro cariotipo; se l'uno o l'altro genitore sono portatori di una traslocazione, essi vengono avvisati del fatto che hanno alta probabilità di avere un altro figlio affetto da sindrome di Down e che metà dei lori figli normali potrebbero essere portatori della traslocazione. Da parecchio tempo si ritiene che la sindrome di Down, e un certo numero di altri effetti negativi legati alla non-disgiunzione, sia più probabile in bambini nati da donne non giovani. Le ragioni di questo fatto non sono chiare ma si è notato che sono in relazione con il tempo di permanenza dell'uovo nell'ovaio. Studi recenti hanno indicato anche che circa nel 5% di casi con sindrome di Down dovuta a non-disgiunzione il cromosoma in più deriva dal padre anziché dalla madre.

Trattamento Il trattamento può essere perseguito solo per le complicazioni della malattia, quali possono essere, tra le più frequenti, sordità, malattie cardio-vascolari, leucemia, invecchiamento precoce.

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Come viene diagnosticata

La Sindrome di Down può essere diagnosticata anche prima della nascita intorno alla 16a- 18a settimana di gestazione con l'amniocentesi (prelievo con una siringa di una piccola quantità del liquido amniotico, che avvolge il feto all'interno dell'utero) o tra la 12a e la 13a settimana con la villocentesi, che viene svolto meno comunemente e che consiste in un prelievo di cellule da cui si svilupperà la placenta, i villi coriali appunto. Queste analisi vengono proposte di solito alle donne considerate a rischio (età superiore ai 37 anni o con un precedente figlio Down) e fatte senza ricovero in alcuni centri particolarmente attrezzati. Sono allo studio nuove tecniche di prelievo, o di cattura, delle cellule fetali nel sangue materno o nella vagina che dovrebbero essere meno invasive e più sicure delle attuali. Il Tri-test è un esame del sangue meterno eseguito tra la 15a e la 20a settimana di età gestazionale per dosare tre sostanze particolari (alfa-fetoproteina, estriolo non coniugato e frazione beta della gonadotropina corionica). L'elaborazione statistica dei livelli ematici di queste tre sostanze, combinata con il rischio di sindrome di Down legato all'età della donna, fornisce una risposta che indica la stima della probabilità che il feto abbia una trisomia 21 oppure no. Il tri-test non ha alcun valore diagnostico; è difficilissimo da capire perchè è il primo esame predittivo di massa.

Il momento della diagnosi

La comunicazione della diagnosi puo' avvenire prima della nascita, alla nascita, nei primi anni di vita, successivamente (ad esempio a causa di un incidente automobilistico). Inoltre è opportuno distinguere i casi in cui l'informazione è del tutto improvvisa da quelli in cui essa è frutto di ipotesi e conoscenze che si sommano nel corso del tempo. Ad esempio è diversa la situazione in cui subito dopo la nascita viene comunicato ai genitori che il loro figlio è affetto da sindrome di Down e quella in cui una diagnosi di ritardo mentale viene comunicata nel secondo anno di vita o ancora piu' tardi. Se la diagnosi non viene comunicata subito i genitori arrivano progressivamente alla convinzione che "c'è qualcosa che non va bene". Essi formulano delle ipotesi. Ad esempio si chiedono se qualcosa non funziona nel loro modo di educare oppure se c'è qualche carenza a livello di intelligenza. La diagnosi è quindi la risposta a un problema che si era gia' posto. Soprattutto se la diagnosi è del tutto imprevista (come succede spesso quando è comunicata poco dopo la nascita) è normale una reazione di grande sconforto. Una terza distinzione, ovviamente, riguarda la gravita' della diagnosi. Produce vissuti diversi una diagnosi di "sindrome di Down" o di "tetraparesi spastica con ritardo mentale". La grande maggioranza dei genitori, comunque, una volta venuti a

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conoscenza della diagnosi, ha bisogno di ulteriori informazioni. Cosa implica, ad esempio, essere affetti da sindrome di Down? Nella loro mente si affollano informazioni contrastanti: "una volta mi hanno detto che una ragazza con sindrome di Down è diventata maestra"; "vi sono dei ragazzi con sindrome di Down che fanno gli attori; li ho visti per televisione"; "da bambina conoscevo un ragazzo con sindrome di Down, ma era proprio un disastro: sbavava, diceva solo poche parole confuse, rideva sempre"; "mi hanno detto che chi ha la sindrome di Down muore giovane". In definitiva la diagnosi colloca il figlio in una categoria, ma la sua individualita' è tutta da scoprire. Molte sono le variabili che influiscono sui vissuti dei genitori e non possiamo considerarle tutte. Da considerare è comunque il vissuto di accettazione che i genitori sentono attorno a sè. Ad esempio non c'è dubbio che negli ultimi trenta anni in Italia la situazione sia migliorata (per quanto non ancora ottimale).

Quante sono le persone Down? Attualmente in Italia 1 bambino su 800 nasce con questa condizione, questo vuol dire che nascono quasi due bambini Down al giorno. Grazie allo sviluppo della medicina e alle maggiori cure dedicate a queste persone la durata della loro vita si è molto allungata così che si può ora parlare di un'aspettativa di vita di 62 anni, destinata ulteriormente a crescere in futuro. Si stima che oggi vivano in Italia circa 40.000 persone Down.

La presenza di fratelli

La presenza di altri figli ha una notevole influenza sul vissuto dei genitori. In linea di massima la situazione piu' difficile si ha quando il figlio con ritardo mentale è l'unico. Uno degli effetti fondamentali dell'avere piu' figli è quello di ridimensionare eventuali sensi di colpa. Numerose sono state le ricerche che hanno studiato cosa significa avere un fratello o una sorella in situazione di handicap. Una recente rassegna di indagini (condotta da Alessandro Trabujo con la mia supervisione) sul "rischio psicologico nei fratelli disabili" ha innanzitutto evidenziato che anche in questo campo sono presenti stereotipi non fondati. In particolare è emerso che l'idea (tipica anche di vari studiosi) che sia alto il rischio di ripercussioni psicologiche negative non è avvalorata dalle ricerche. Riportiamo le conclusioni a cui Trabujo è pervenuto dopo aver analizzato decine di recenti ricerche dedicate specificamente a questo argomento. "Salute psicologica: non vi sono riscontri all'ipotesi secondo la quale crescere assieme ad un fratello in situazione di handicap costituisca a priori un pericolo per la propria salute psicologica e ciÚ indipendentemente da ordine di nascita e sesso di appartenenza. Relazioni con i familiari: se appaiono evidenti il maggior impegno e le maggiori responsabilita' richieste ai bambini normodotati nell'accudire e aiutare il fratello disabile, appare altresÏ rilevante che questo carico di responsabilita', forse perchè parte della quotidianita', non influisce

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negativamente sul grado nè sulla connotazione affettiva della relazione tra i fratelli o con i familiari. Rapporti sociali: la competenza sociale del fratello di un bambino con handicap non è influenzata negativamente dalla presenza di quest'ultimo e neppure i suoi rapporti con i coetanei o la partecipazione ad attivita' extrafamiliari quali sport o associazioni giovanili risultano in qualche maniera penalizzati direttamente da cio'. (...) Alla luce di questi risultati ritengo quindi che si possa definire non giustificata l'opinione secondo la quale la sola presenza di un bambino con handicap in famiglia sia di per sè sufficiente a determinare un rischio per la salute psicologica del fratello non disabile

Chi sono e come crescono i bambini Down?

Lo sviluppo del bambino Down avviene con un certo ritardo, ma secondo le stesse tappe dei bambini normali. I bambini Down crescendo possono raggiungere, sia pure con tempi più lunghi, conquiste simili a quelle dei bambini normali: cammineranno, inizieranno a parlare, a correre a giocare. Rimane invece comune a tutti un variabile grado di ritardo mentale che si manifesta anche nella difficoltà di linguaggio frequente tra le persone Down. Dal punto di vista riabilitativo non si tratta per loro di compensare o recuperare una particolare funzione, quanto di organizzare un intervento educativo globale che favorisca la crescita e lo sviluppo del bambino in una interazione dinamica tra le sue potenzialità e l'ambiente circostante. È importante inoltre ricordare che ogni bambino è diverso dall'altro e necessita quindi di interventi che rispettino la propria individualità e i propri tempi. Dal punto di vista medico, vista una maggiore frequenza in tali bambini rispetto alla popolazione normale di problemi specialistici, in particolare malformazioni cardiache (la più frequente è il cosidetto canale atrioventricolare comune, ma si presentano anche difetti intestinali, disturbi della vista e dell'udito, disfunzioni tiroidee. problemi odontoiatrici), è opportuno prevedere col pediatra una serie di controlli di salute volti a prevenire o a correggere eventuali problemi aggiuntivi.

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La Diagnosi

E' possibile diagnosticare la Sindrome di Down in Epoca prenatale mediante l'esame dei cromosomi del Feto eseguito su materiale da Villocentesi, Amniocentesi, e recentemente anche da QF-PCR (Cosidetto Test Rapido).

Queste Procedure, sono invasive, e sono associate ad un rischio di aborto di circa 1,5 % per il prelievo dei villi e di 0,8% per l'amniocentesi. Per quanto riguarda il Test rapido, al momento, della stesura di questo articolo non siamo in grado di quantificare il suo rischio, che tuttavia parrebbe essere leggermente inferiore a quello dell'amniocentesi.

N.B. I Test di Screening, quali ad esempio Il Test di Wald o Tri-Test, La Traslucenza Nucale, Ultrascreening o Test Combinato ecc.

Queste tecniche non sono in grado di fare la diagnosi di Cromosomopatie, servono solo a selezionare i soggetti a rischio, a cui consigliare l'esecuzione di suddette Tecniche Invasive.

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2. GESTI E PAROLE NEL PRIMO VOCABOLARIO

Fin dalla nascita, il bambino mette in atto una serie di comportamenti (diversi tipi di pianto, sorrisi, vocalizzi) che fungono da segnali comunicativi per gli adulti che si prendono cura di lui. Ma soltanto tra i 9 e i 13 mesi si può parlare di una vera e propria comunicazione intenzionale che si realizza inizialmente attraverso l’uso di una ricca gestualità. I primi gesti dei bambini sono stati definiti deittici o performativi perché esprimono esclusivamente l’intenzione comunicativa del parlante, il referente di tale comunicazione è dato interamente dal contesto, in cui la comunicazione ha luogo. Questi gesti sono la richiesta ritualizzata, il mostrare, il dare o l’indicare: nel primo caso il bambino si tende verso l’oggetto, talvolta con un gesto ritmato di apertura e chiusura del palmo della mano; nel secondo, il bambino tende l’oggetto verso l’adulto, del quale vuole attirare l’attenzione; nel terzo caso lascia andare un oggetto nelle mani dell’ adulto. Nell’ultimo caso il bambino indica con il braccio teso e/o con l’indice puntato in una certa direzione, guardando alternativamente l’oggetto e l’adulto. In tutte queste situazioni può pronunciare semplici vocalizzi o, più tardi, vere e proprie parole. Verso la fine del primo anno di vita, compare nei bambini un secondo tipo di gesti, chiamati referenziali o simbolici attraverso i quali il bambino dimostra di poter usare un comportamento non verbale per “nominare” o “raccontare” o “chiedere” qualcosa. Questi gesti possono essere prodotti con o senza oggetto in mano; ad esempio il bambino porta un bicchiere vuoto alla bocca per chiedere da bere, porta la cornetta del telefono all’orecchio per “nominare” l’oggetto, apre le braccia per comunicare che qualcosa o qualcuno non c’è più. Nel corso di tutto il secondo anno di vita questi gesti sono usati frequentemente e in diversi contesti comunicativi; è per questo che spesso i genitori dicono del proprio bambino: “non parla, ma capisce tutto e si fa capire”. Coso significa questo e, più in particolare, che rapporto c’è tra questi gesti e le prime parole? In alcune recenti ricerche (Casadio e Caselli, 1989), mediante l’uso di questionari somministrati ai genitori ed un’analisi unificata per le due modalità, è stata valutata l’ampiezza del vocabolario gestuale e vocale e i rapporti fra comprensione vocale e produzione di gesti e parole. I risultati hanno confermato che, nel secondo anno di vita, c’è un sostanziale parallelismo fra sviluppo gestuale e vocale sia in termini qualitativi che quantitativi. Infatti sia per i gesti che per le parole è stato individuato un graduale processo di decontestualizzazione: da una produzione di gesti e parole legata a situazioni specifiche, ristrette e altamente ritualizzata (uso non referziale) il bambino arriva ad un loro uso simbolico e referenziale. In termini quantitativi, i bambini usano inizialmente più gesti che parole;in questo periodo si evidenzia una precisa corrispondenza fra parole comprese e gesti prodotti, mentre il numero di parole prodotte è notevolmente inferiore rispetto a quello delle parole comprese. Questa dissociazione fra comprensione e produzione, evidente in realtà i tutto il secondo anno di vita

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del bambino, può lasciar supporre che i due domini seguano processi di maturazione diversi. Secondo uno studio fatto risulta che il gruppo di bambini Down produce in media 48.2 e 53.6 gesti, mentre il gruppo di bambini normali ne produce in media 44.8.

Caratteristiche della produzione verbale Numerose ricerche sono state condotte nel tentativo di descrivere le caratteristiche dello sviluppo linguistico di bambini con ritardo mentale e, in particolare, con Sindrome di Down. Da questi studi emerge con chiarezza che i bambini con Sindrome di Down, se confrontati a bambini con ritardo mentale di eziologia diversa ma di pari gravità, e a bambini normali di età mentale paragonabile, mostrano un deficit marcato nelle loro competenze linguistiche rispetto alle altre abilità motorie, cognitive e sociali. Lo studio dello sviluppo delle competenze cognitive e del linguaggio in persone con ritardo mentale, e con Sindrome di Down in particolare, può fornire informazioni utili sia per una migliore comprensione del ritardo mentale, sia per la comprensione dei processi che sottostanno all’apprendimento normale. Individuare specifiche difficoltà può avere importanti implicazioni sia in ambito teorico che applicativo. In ambito teorico, se si dovesse riscontrare una difficoltà specifica in uno solo dei tre aspetti linguistici ( lessicale, morfologico, sintattico) si potrebbe ipotizzare che alcuni domini linguistici sono almeno in parte dissociabili da altri, ad esempio il lessico della morfologia o la morfologia della sintassi. Sul piano applicativo, l’individuazione di difficoltà specifiche può contribuire alla messa a punto di programmi riabilitativi ed educativi più mirati e quindi più efficaci sul piano dello sviluppo del linguaggio.

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3. LA MEMORIA

La memoria costituisce una capacità cognitiva la cui integrità è indispensabile per un corretto sviluppo intellettivo ( Ellis, 1963/1969; Fisher e Zeaman, 1973). La valutazione di tale abilità in persone con ritardo mentale potrebbe fornire utili elementi per la comprensione della natura del deficit cognitivo che è alla base del ritardo mentale, nonché evidenziare eventuali differenze qualitative nelle prestazioni tra soggetti e tra diversi quadri sindromici causa di ritardo mentale ( come ad esempio la Sindrome di Down). Nonostante ciò la letteratura scientifica sui disturbi di memoria nei soggetti con ritardo mentale, e in particolare nei soggetti Down, è sorprendentemente scarsa e spesso limitata ad aspetti molto particolari.

Una possibile ragione di tale disinteresse può riguardare problemi di ordine metodologico, rappresentate dalla difficoltà a distinguere , in pazienti con ritardo mentale, disturbi specifici dei processi di apprendimento ( ad es., deficit nei processi di consolidamento e di retrieval della traccia mnesica) da deficit che, pur interessando primariamente altri ambiti cognitivi, tuttavia interferiscono con i processi di codifica e/o di acquisizione dell’informazione ( ad es., disturbi dell’attenzione, del linguaggio, etc,). Pur riconoscendo l’importanza di distinguere disturbi “strutturali” della memoria da deficit che interessano solo di riflesso i processi di memorizzazione ( Ellis, 1985) appar oggi possibile, sulla base dell’elaborazione teorica e del lavoro sperimentale su soggetti normali e pazienti cerebrolesi, elaborare modelli di riferimento e strumenti di indagine che consentano di interpretare in maniera adeguata la natura e la genesi dei disturbi di memoria.

In generale, i dati messi a disposizione sembrano documentare che almeno alcuni aspetti della funzione mnesica sono specificamente deficitari nei soggetti Down. Il loro profilo di prestazioni non appare, infatti, sovrapponibile né a quello dei bambini normodotati né a quello di ritardati mentali di diversa eziologia. Deficitaria appare anche la capacità di codifica nella memoria a lungo termine; i soggetti Down, infatti, usufruiscono meno degli altri ritardati mentali del legame associativo tra gli stimoli da ricordare e sono particolarmente in difficoltà quando il processo di apprendimento e/o rievocazione richiede l’elaborazione di materiale linguistico particolarmente complesso ( ad es., brani di prosa).

Una riduzione delle risorse di processazione della memoria di lavoro può interferire, in effetti, con il normale transito di dati dall’ambiente esterno alle strutture cognitive deputate alla loro codifica.

Va ancora rilevato che l’efficacia dei processi di codifica nei soggetti Down può essere ulteriormente compromessa da un disturbo strumentale delle abilità linguistiche, che forniscono le risorse di base affinché i legami lessicali, sintattici e semantici tra le varie parti del memorandum vengano apprezzate in maniera adeguata. Proprio queste difficoltà linguistiche, espressione

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secondo alcuni autori ( Hulme e Mackenzie, 1992) di un alterato apprendimento di schemi motori potrebbero essere le responsabili ultime dei deficit descritti.

In conclusione, l’esame neuropsicologico della funzione mnesica nella Sindrome di Down è ancora agli inizi. Alla luce di quanto detto finora, alcuni aspetti particolari, quali i processi di codifica nella memoria a lungo termine, meritano ulteriore approfondimento sia per un’adeguata comprensione della funzione mnesica nella Sindrome di Down, sia per capire quanto il deficit di memoria contribuisca alla comprensione del deficit intellettivo di questi soggetti.

I dati finora raccolti consentono, nel frattempo, di sostenere l’approccio teorico che considera il disturbo intellettivo della Sindrome di Down non un mero rallentamento del normale sviluppo cognitivo, ma un quadro caratterizzato da disomogeneità qualitative che conferiscono al ritardo mentale di questi soggetti una sua caratteristica peculiarità.

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4. LE ABILITA’ VISUO PERCETTIVE

L’insufficienza mentale è stata frequentemente definita come un uniforme malfunzionamento di tutti i settori della “cognition”. Questa definizione prevalsa fino a poco tempo fa ha trovato una prima ridefinizione nelle teorie sull’insufficienza mentale che hanno tentato una differenziazione di diversi tipi di ritardo intellettivo. Secondo la “Deficit Theory” di Ellis il comportamento intellettivo si basa su un complesso di processi uno o più dei quali possono essere malfunzionanti. Questi processi devono essere identificati perché si possano mettere a punto metodologie di sollecitazione e di rieducazione mirate al processo deficitario. In questo contesto storico si collocano le ricerche di tipo neurocognitivo e neuropscicologico che hanno tentato di individuare nella sindromologia e nella dismorfologia in generale fenotipi cognitivi e processuali che caratterizzassero fortemente una sindrome, accanto ai dati somatici e genetici. Sicuramente le sindromi più studiate sono quelle a maggior incidenza nella popolazione e la Sindrome si Down ha rappresentato un campo di studio interessante, sia per il peso sociale del problema che per il particolare pattern di funzionamento mentale. Questo pattern neuropsicologico sarebbe rappresentato da una dissociazione fra le abilità linguistiche che risulterebbero deficitarie, e quelle visuo-spaziali che risulterebbero all’opposto ben funzionanti al loro confronto. Dal punto di vista biologico questa dissociazione sarebbe sostenuta da un’alterata specializzazione emisferica rispetto alla configurazione abituale. I bambini Down avrebbero una specializzazione emisferica destra per il linguaggio, come dimostrato da numerosi studi condotti per dimostrare questo utilizzando il metodo di ascolto dicotico. Questo spiegherebbe l’alterata strutturazione del linguaggio nella sintassi e nelle morfologia: infatti questi aspetti di solito processati dall’emisfero destro, che non sarebbe obiettivamente in grado di arrivare ai livelli dell’emisfero sinistro desiniato geneticamente a questi compiti. Questo significherebbe in termini funzionali ed anatomici che l’emisfero sinistro è leso. Tuttavia in questi pazienti una dimostrazione radiologica di aspetti lesionali o malformativi macroscopici non è mai stata fatta. In contrasto con l’abituale riscontro di un malfunzionamento delle funzioni visuo-percettive in caso di lesione sinistra, in questi bambini queste abilità sembrano essere conservate, sempre ovviamente riferite al contesto deficitario in cui so collocano. Questo potrebbe essere a favore di una diversificazione della specializzazione emisferica, che rientrerebbe come le caratteristiche somatiche sotto un controllo genetico diverso dalla normalità. Questo spiegherebbe di conseguenza anche come il funzionamento mentale differisca da un modello atteso come quello della lesione emisferica unilaterale,

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proponendo invece un modello di funzionamento indipendente, tipico delle persone con Sindrome di Down. Questo modello sarebbe in contrasto con quanto avviene nelle lesioni unilaterali sinistre in cui l’emisfero destro sembra pagare il prezzo di un processamento verbale non di sua competenza, con la perdita di efficienza nelle abilità tipicamente destre. Questa diversa organizzazione sarebbe riconducibile ad alterazioni strutturali del cervello per cui il funzionamento mentale non avverrebbe più secondo il funzionamento classico. Altri studi hanno tuttavia posto in dubbio questo pattern di lateralizzazione suggerendo che l’ascolto dicotico ha di per sé importanti limiti metodologici. Tuttavia anche al di fuori dell’ipotesi affascinante che esista un controllo genetico “patologico” della specializzazione emisferica, è un dato clinico rilevante che, a parità di insufficienza mentale come determinata dal QI, esistano processi più efficienti con prodotti finali più raffinati rispetto ad altri bambini affetti da sindromi dismorfiche caratterizzate da insufficienza mentale. Nella storia dello studio del ritardo mentale i bambini con Sindrome di Williams sono spesso stati studiati in contrapposizione ai bambini Down; ciò non è casuale poiché le due sindromi presentano dal punto di vista neuropsicologico pattern di funzionamento opposto: mentre i bambini con Sindrome di Down presentano un’asimmetria di funzionamento a favore delle abilità visuo-spaziali, i bambini con Sindrome di Williams presentano un pattern opposto caratterizzato da un’insolita bravura nelle abilità verbali contro una scarsa capacità di elaborazione di prove visuo-spaziali. Questa dissociazione complementare rende particolarmente attraente lo studio comparativo fra i due gruppi. I bambini Down, rispetto ad altri ritardati mentali non Down, ottengono prestazioni peggiori nella riproduzione di un disegno percepito correttamente . Inoltre il QI di bambini Down non sembra correlarsi con la velocità della recezione visiva ma, piuttosto, con la velocità della risposta in uscita (Berkson). Stafford studiando 15 bambini Down ha dimostrato che erano in grado di riconoscere e identificare correttamente stimoli spaziali unidimensionali e bidimensionali, anche se non erano in grado di riprodurli correttamente. Nonostante quanto detto, i bambini Down presentano una maggiore efficienza in queste abilità rispetto a quelle verbali: in queste specifiche prove essi sono caratterizzati da un’altra peculiarità rappresentata dal fatto che sono più compromessi nell’analisi piuttosto che nella percezione globale dello stimolo. Ancora una volta presentano un pattern opposto a quello di bambini Williams che risultano più compromessi nella cattura globale dello stimolo.

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I soggetti con Sindrome di Down presentano anche un disturbo della sequenzialità dei gesti; si potrebbe ipotizzare un malfunzionamento dei sistemi di analisi sequenziale, di solito localizzati nell’emisfero sinistro, con conseguente difficoltà di processamento in serie del linguaggio, degli aspetti analitici della percezione visiva e dei movimenti sequenziali. Questo deficit renderebbe più evidente il relativo buon funzionamento dei processi di sintesi con un conseguente buon rendimento nelle prove di tipo percettivo-visivo, che traggono vantaggio da questo tipo di processamento.

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5. LE DIFFICOLTA’ DI SVILUPPO MOTORIO-PRASSICO

E’ ben noto che i bambini con Sindrome di Down presentano un marcato ritardo nell’acquisizione delle tappe di sviluppo motorio: alcuni autori (Henderson, 1986) indicano un’età media di acquisizione del controllo del tronco, della stazione eretta e della deambulazione autonoma omogeneamente ritardata ( 9, 18 e 19 mesi); questo ritardo è stato attribuito dal punto di vista neurologico essenzialmente alla marcata ipotonia ed a un ritardo nel controllo posturale legato a un deficit nei meccanismi dell’equilibrio che a loro volta sarebbero collegati con la presenza di una ipoplasia cerebrale e del tronco dell’encefalo (Crome, 1966) e di una lassità legamentosa. Questa ipotesi sembra essere ulteriormente confermata da un recente lavoro di Ulrich; egli, infatti, è stato in grado di dimostrare che nei bambini con Sindrome di Down, che ancora non hanno raggiunto la deambulazione autonoma (età media di 11 mesi), è presente, come nei bambini normali, uno schema di marcia che può essere elicitato in particolari condizioni; ciò viene interpretato dall’autore come una conferma che il ritardo motorio dei bambini con Sindrome di Down è legato all’ipotonia e alla mancanza di equilibrio piuttosto che alla assenza dello schema motorio.

Altre ricerche hanno cercato di valutare qualitativamente il profilo motorio dei bambini con Sindrome di Down utilizzando dei test standardizzati di sviluppo motorio. Le Blanc ha evidenziato che i bambini con Sindrome di Down, con un’età cronologica media di 12 anni, presentavano soprattutto difficoltà di equilibrio statico. Henderson ha utilizzato un test che ha rilevato le competenze motorie sia senza oggetto sia con oggetto. I dati emersi mettono in evidenza che questi bambini presentano una caduta significativa nei compiti di agilità posturale e in quelli di agilità locomotoria. Gli autori sottolineano che il problema più rilevante in questi bambini sembra riguardare la lentezza esecutiva con cui compiono i movimenti e lo scarso equilibrio statico e dinamico.

In sintesi tutti i lavori esaminati sembrano concordare sul fatto che i bambini con Sindrome di Down presentano a livello posturocinetico significative difficoltà soprattutto nell’area dell’equilibrio e della velocità che tendono a permanere nel corso dello sviluppo; questi lavori lasciano però aperto il problema della definizione più precisa sull’esistenza o meno di un disturbo specifico comune alla base della programmazione dei movimenti fini.

Questi lavori concordano nell’individuare una caduta comune nel profilo motorio caratterizzata da difficoltà di tipo esecutivo e da una lentezza complessiva che compromette l’efficienza delle prestazioni motorie in toto; queste ricerche , per i compiti impiegati, tengono poco in considerazione gli aspetti ideativi e di programmazione prussica dell’atto motorio; d’altra parte in nessuna delle scale di sviluppo motorio utilizzate, che contengono alcuni item di uso di oggetti, emergono in questa area particolari difficoltà.

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Anche lo sviluppo delle competenze costruttive del bambino con Sindrome di Down è stato specificamente poco indagato. In una serie di ricerche che hanno studiato principalmente lo sviluppo delle competenze percettivo motorie dei bambini con Sindrome di Down, Stratford ha evidenziato una capacità visuopercettiva non diversa da quella dei bambini normali, una tendenza alla simmetrizzazione delle forme a scapito della loro complessità ed una difficoltà ad utilizzare, in compiti costruttivi, le istruzioni verbali facilitanti.

Da numerosi studi risulta che i bambini con Sindrome di Down hanno uno stile di apprendimento e di comunicazione specifici che possono essere così sintetizzati: una caduta significativa nelle competenze linguistiche, soprattutto nella produzione verbale che risulta atipica e inferiore alle capacità cognitive, ed una relativa normalità delle competenze visuopercettive e prussiche che appaiono compatibili con il livello complessivo e sono soltanto rallentate rispetto all’età cronologica. Pertanto nel profilo cognitivo e neuropsicologico dei bambini con Sindrome di Down sono presenti sia aspetti di atipica che di ritardo.

I bambini con Sindrome di Wiliams presentano un profilo neuropsicologico opposto al precedente caratterizzato da iperverbalismo, grave disprassia, cadute visuospaziali e comportamento iperattivo.

In un lavoro di laboratorio sono stati messi a confronto bambini con Sindrome di Down e Sindrome di Williams con ritardo mentale medio e medio-grave, di età cronologica tra i 7 e 8 anni, attraverso l’analisi delle diverse competenze motorie, visuopercettive, visuocostruttive, grafiche, linguistiche e simbolico-rappresentative, ottenendo un profilo neuropsicologico che ha evidenziato le diverse cadute e picchi in rapporto alle competenze attese rispetto all’età mentale. I bambini con Sindrome di Williams presentavano indipendentemente dall’età mentale una caduta significativa sia nelle competenze visuopercettive sia nelle competenze visuocostruttive che si ripercuotevano negativamente sul loro gioco e sulle loro prestazioni grafiche, mentre era evidente un picco verso l’alto nella produzione verbale. Al contrario nei bambini con Sindrome di Down era presente una caduta significativa nella produzione verbale accompagnata da prestazioni compatibili con l’età mentale in compiti visuopercettivi e visuocostruttivi. Le competenze motorie posturocinetiche non differenziavano in modo significativo i due gruppi ed erano compatibili con le attese in base all’età mentale.

I dati riguardanti i bambini con Sindrome di Down sono stati ulteriormente approfonditi allo scopo di valutare l’incidenza del fattore cognitivo globale sul profilo neuropsicologico e di evidenziare la presenza di eventuale strategie atipiche nelle risoluzione di un compito prassico costruttivo. In altre parole si è valutato se e come il grado di gravità del deficit intellettivo influenzi o modifichi il profilo neuropsicologico tipico della Sindrome di Down. A questo proposito vengono riportati i profili di due soggetti con Sindrome di Down con la stessa età cronologica con diversa età mentale.

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A.N. è un soggetto con Sindrome di Down e Ritardo Mentale di grado medio, ha un‘età cronologica di 8 anni e un’età mentale di 4. Ha presentato un ritardo nell’acquisizione della deambulazione autonoma che è stata raggiunta a 21 mesi; attualmente presenta una globale goffaggine motoria pur essendo in gradoni andare in bicicletta. Ha una buona capacità visuopercettiva che risulta essere addirittura superiore alle attese. Sul piano prussico è autonomo per quanto riguarda le prassie concernenti le attività di vita quotidiana. A livello grafico può rappresentare diversi oggetti se pur in modo molto povero e schematico. Dal punto di vista del linguaggio verbale comprende fino a tre consegne verbali se date in sequenza. In una prova di comprensione di strutture sintattiche fornisce prestazioni compatibili con la sua età mentale, mentre nella produzione verbale ha un frase di tre elementi con dislalie, elisioni dei funtori e a volte anche del verbo.

S.C. è un soggetto con Sindrome di Down e Ritardo Mentale di grado medio grave, ha un’età cronologica di 7.5 anni ed un’età mentale di 2.5 anni. Presenta un consistente ritardo nello sviluppo motorio: la deambulazione autonoma è comparsa a 28 mesi, attualmente sa salire e scendere le scale alternando ma non sa ancora pedalare. Le sue competenze visuopercettive e visuospaziali sono compatibili con la sua età mentale. Sul piano prassico ha raggiunto una parziale autonomia nelle principali attività di vita quotidiana. Dal punto di vista grafico spontaneamente esegue uno scarabocchio spiraliforme, se guidato con istruzione verbale riesce a raggiungere i particolari del viso, scrive la lettera A preparandosi da solo i puntini. Ha una comprensione verbale limitata ad un ordine; la produzione verbale è particolarmente compromessa, si esprime con frasi al massimo di due elementi senza il verbo. Usa frequentemente uno pseudolinguaggio. Nella prova di costruzione del ponte è in grado di produrre lo schema solo se vengono diminuiti gli elementi a disposizione, non lo sa denominare né utilizzare in modo funzionale; è da notare il ridotto numero di schemi costruttivi prodotti e l’assenza completa del linguaggio che accompagna la sua attività costruttiva.

Conclusioni

I dati che sono stati esaminati permettono di trarre alcune conclusioni generali sulla qualità e la natura delle difficoltà motorie e prussiche dei bambini con Ritardo Mentale e, nello specifico, sui bambini con Sindrome di Down. Tutti i bambini con Ritardo Mentale (RM) dimostrano, se pur in diversa misura, una difficoltà nello sviluppo e nell’uso degli schemi prassici, questa difficoltà assume una diversa qualità e una diversa espressività in relazione con la fascia di gravità del RM e con la sua eziologia. In alcuni bambini con RM la difficoltà motoria assume le caratteristiche di un vero e proprio disturbo “specifico” che sembra compromettere selettivamente lo sviluppo della prassia ideativi e di conseguenza la formazione di schemi simbolici così come la messa in atto dei programmi esecutivi.

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a) I bambini con RM all’interno di una Sindrome di Down presentano

importanti difficoltà nello sviluppo posturo-cinetico che però non sembrano compromettere lo sviluppo degli schemi prassici ideativi, le loro difficoltà nel settore prussico sono pertanto caratterizzate principalmente da difficoltà esecutive neuromotorie, compatibili con il loro deficit cognitivo di base. Peculiare nei bambini con Sindrome di Down appare inoltre la mancata integrazione dello strumento linguistico come guida alla programmazione dell’atto motorio.

b) Tutti i bambini con RM, sia i bambini con difficoltà prussiche “specifiche”

sia bambini con problemi prassici compatibili con la loro organizzazione cognitiva, presentano una tipica e persistente difficoltà nell’uso autonomo e spontaneo degli schemi prassici posseduti e nella integrazione dell’atto prussico all’interno di una mappa di significati.

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6. IL PROGREDIRE DELL’ ETA’

Le migliorate condizioni di vita ed il progresso registrato in questo secolo nella prevenzione e nel trattamento di molte malattie hanno portato ad un incremento considerevole delle aspettative di vita.

Anche per i soggetti Down si è assistito ad un progressivo aumento della durata media della vita: dai 9 anni stimati nel 1929 ai 12-15 anni del 1947 fino agli oltre 18 anni del 1961. Più recentemente Baird ha riportato come l’80% circa degli individui con Sindrome di Down supera l’età di 30 anni, il 25% di essi raggiunge l’età di 50 anni. La “longevità” dei soggetti Down ha permesso di evidenziare che una percentuale considerevole di tali individui mostrano segni clinici di demenza.

L’associazione tra Sindrome di Down e demenza non è certo una scoperta dei nostri giorni poiché fu notata già nel 1876 da Fraser e Mitchell:” In non pochi casi, tuttavia, la morte è stata attribuita a nient’altro che un decadimento generale, una specie di precipitata senilità…”. In epoche più recenti, numerosi autori si sono interessati all’argomento e la maggior parte di essi ha sottolineato come i cambiamenti neuropatologici nel sistema nervoso di adulti con Sindrome di Down sono simili a quelli osservati nella malattia di Alzheimer.

Su questa linea una grande quantità di ricerche è stata dedicata allo studio comparativo di Sindrome di Down e Alzheimer. L’importanza di questi studi è duplice: da un lato la conferma di un alto rischio di insorgenza di demenza tra i soggetti Down fa sentire sempre più vivamente la necessità di individuare strumenti per la diagnosi precoce; d’altra una maggiore consapevolezza delle cause di tale associazione potrà fornire elementi utili per la comprensione delle cause delle due condizioni morbose.

Neuropatologia

La presenza di alterazioni neuropatologiche Alzheimer-simili in individui con Sindrome di Down (SD) è ormai un concetto appurato. La prima osservazione rintracciabile nella letteratura risale a più di 60 anni fa. Jervis ha descritto la presenza delle tipiche alterazioni neuropatologiche della malattia di Alzheimer (placche senili, degenerazione neurofibrillare e spopolamento neuronale) all’esame autoptico di 3 soggetti con SD deceduti in età adulta.

In uno studio post-mortem riguardante 100 soggetti con SD, si osservarono alterazioni tipiche della malattia di Alzheimer in tutti gli individui deceduti dopo i 35 anni. Sebbene i segni istologici della malattia emergano pienamente dopo i 35-40 anni, Burger e Vogel hanno rintracciato la presenza di placche senili già nella seconda decade di vita, con un incremento numerico e una loro

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maggiore diffusione a partire dalla terza decade. Questi dati sono confermati dai lavori di Ellis, Olson e altri autori.

Valutazione clinica e neurologica della demenza in soggetti con

Sindrome di Down

La difficoltà di individuare l’esordio di un deterioramento cognitivo nella SD rende necessaria la ricerca di metodi di valutazione che risultino più sensibili ed efficaci della semplice osservazione clinica. Si deve considerare, infatti, che ci si trova di fronte ad individui in cui si intrecciano ritardo mentale, l’eventuale decadimento intellettivo e le loro conseguenze sia sul versante emotivo che relazionale.

Numerosi studi hanno evidenziato come un’adeguata valutazione neuropsicologica permetta sia di documentare le differenti conseguenze dell’invecchiamento in soggetti con ritardo mentale di eziologia diversa, sia di identificare l’insorgenza del decadimento cognitivo in soggetti con SD. Thase ha esaminato le abilità cognitive di 165 residenti istituzionalizzati con SD confrontati con un campione di soggetti con ritardo mentale di altra eziologia. La valutazione neuropsicologica comprendeva compiti attentivi, di memoria a breve e lungo termine, di linguaggio (denominazione di oggetti e colori) e di prassia. I soggetti con SD avevano prestazioni peggiori dei loro controlli: i deficit erano più evidenti negli individui con SD di età superiore ai 50 anni.

In un recente studio Collacott ha valutato la frequenza di disturbi psichiatrici nella SD in confronto a soggetti con Ritardo mentale di altra eziologia. I SD presentano un’aumentata incidenza di disturbi di depressione, un’uguale frequenza di autismo e una minore frequenza di disturbi della condotta, della personalità e di stati schizofreno-simili. La presenza di depressione non sembrerebbe correlabile ad una possibile fase iniziale del deterioramento intellettivo, vista la notevole distanza temporale tra l’età di esordio di tale patologia nel gruppo esaminato e l’età di esordio della demenza nei soggetti con SD. La depressione però, se non diagnosticata accuratamente, potrebbe rappresentare un fattore di ulteriore difficoltà nella valutazione clinica tendente all’identificazione del deterioramento intellettivo.

Nell’ottica dell’identificazione dei possibili parallelismi tra Alzheimer e forme di decadimento intellettivo degli individui con SD anziani e della reale incidenza di tale decadimento, un maggior numero di studi sono stati indirizzati all’esame di gruppi di individui SD di età diversa.

Nella valutazione di 50 soggetti adulti con Sindrome di Down, Wisniewski ha riscontrato che il risultato delle valutazioni neurologica, psicologica e cognitiva nei soggetti con più di 35 anni evidenziava performances inferiori a quelle dei soggetti SD più giovani. In particolare, gli individui sopra i 35 anni

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mostravano un’alta incidenza di deficit delle funzioni cognitive come la memoria verbale recente, la memoria visiva immediata, difficoltà nell’identificazione di oggetti (afasia-agnosia) e un vocabolario ridotto. In un recente studio un gruppo di pazienti con Sindrome di Down sono stati esaminati per mezzo di un’ampia batteria di test neuropsicologici. I risultati di questo studio confermano che mediante un’adeguata valutazione neuropsicologica è possibile evidenziare le variazioni del pattern cognitivo che si producono nei soggetti con SD al crescere dell’età; tali variazioni sarebbero distinguibili dalla presenza di un quadro demenziale vero e proprio e sarebbero più frequenti di quest’ultimo. Si tratterebbe di una compromissione della memoria a lungo termine e delle abilità visuo-spaziali e costruttive associata ad un sostanziale risparmio della memoria verbale a breve termine e delle funzioni linguistiche. Nei soggetti classificati come dementi si assisterebbe, invece, ad una diffusa compromissione del funzionamento cognitivo. Si potrebbe, quindi, ipotizzare l’esistenza di due modalità di presentazione, l’una lenta e insidiosa, l’altra più brusca e rapidamente invalidante, o in alternativa attribuire il primo quadro all’effetto dell’invecchiamento fisiologico ed il secondo al sovrapporsi di un processo demenziale vero e proprio. Tale dicotomia ripropone il dibattito esistente sui cambiamenti cognitivi nella malattia di Alzheimer: anche in questo caso si confrontano le ipotesi dell’accelerazione dell’invecchiamento fisiologico con quella che individua la presenza di un distinto processo degenerativo. In effetti il quadro di variazioni cognitive evidenziate nei soggetti anziani con SD non dementi sono simili, come sottolineato dagli stessi autori, a quanto osservato nei soggetti affetti da Alzheimer in fase iniziale, ma tale quadro ricorda anche quanto si osserva nell’invecchiamento normale, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà nel mantenere nuove informazioni nella memoria a lungo termine. In conclusione, appare evidente l’importanza di definire sempre più adeguati strumenti per l’analisi delle funzioni cognitive. Un’adeguata valutazione neuropsicologica, basata sulle premesse teoriche derivate dall’esame di determinati livelli cognitivi nei soggetti con Alzheimer, potrà forse permettere l’individuazione dei primi elementi del deterioramento e una migliore definizione patogenetica. Sarà di conseguenza possibile impostare adeguati programmi terapeutici e di supporto al soggetto con Sindrome di Down e alla famiglia, anche in questa fase di regresso delle capacità intellettivi.

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7. IL COINVOLGIMENTO DEI GENITORI NEI PROGRAMMI DI INTERVENTO PRECOCE

Nell’ultimo decennio il campo di applicazione dei programmi di intervento precoce a favore dei bambini Down si è sostanzialmente modificato. Da forme di intervento finalizzate esclusivamente alla stimolazione di precise abilità del bambino, si è passati a differenti forme di intervento rivolte sia al bambino che alla famiglia ed in cui vengono definiti e realizzati ruoli distinti per i bambini, per le loro famiglie e per gli operatori. L’accresciuta enfasi riposta sulla necessità di coinvolgere i genitori è ricollegabile ad una molteplicità di fattori. Prima di tutto i genitori di bambini con handicap sono diventati utenti di servizi sociali, riabilitativi e assistenziali che anni fa non esistevano, e nel tempo hanno sicuramente migliorato la loro capacità di richiesta e valutazione dei servizi a cui possono rivolgersi. Parallelamente a questo si è sviluppata la tendenza da parte degli operatori ad individuare le necessità del bambino congiuntamente a quella della famiglia, sulla constatazione diretta o indiretta del fatto che le famiglie possono avere bisogni specifici collegati alla presenza di un bambino con handicap. Oltre a questi fattori di natura esperenziale, ci sono stati numerosi contributi concettuali che hanno rinforzato l’importanza del coinvolgimento dei genitori nelle varie forme di intervento precoce. Tra gli altri, un ruolo significativo lo ha sicuramente giocato il modello transazionale dello sviluppo formulato da Sameroff (1991). In esso lo sviluppo del bambino è visto come il,prodotto di interazioni continue e dinamiche tra il bambino, le esperienze offerte dalla famiglia ed il contesto sociale. L’aspetto innovativo sta nel fatto che uguale importanza viene riposta all’analisi degli effetti che la presenza del,bambino comporta sull’ambiente può determinare sullo sviluppo del bambino. Le modalità di coinvolgimento della famiglia nelle varie forme di intervento sono state molto diverse fra loro. E questo dipende ovviamente dall’aderenza ad un particolare approccio teorico. Nei programmi basati sull’impostazione concettuale comportamentista, per esempio, i membri della famiglia vengono sollecitati ad assumere un ruolo di intervento diretto sul comportamento del bambino. In altri programmi l’analisi dei bisogni della famiglia serve da presupposto per indirizzare un intervento sui bisogni del bambino, perché costui e la sua famiglia sono visti come un sistema integrato . Nonostante la maggior parte degli studi realizzati attribuiscano una rilevante importanza al coinvolgimento della famiglia nell’intervento diretto sul bambino e di fatto lo realizzino anche se con modalità ed in misura diversa, ben pochi autori si sono però posti il problema di una valutazione del prima e dopo trattamento rispetto alla famiglia. In genere non viene mai offerto un quadro

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delle caratteristiche familiari, sia relativamente allo status sociale e culturale, sia relativamente alle aspettative e atteggiamenti dei genitori nei confronti del bambino; e questo anche nel caso di programmi di tipo comportamentista, in cui il coinvolgimento dei genitori è sistematico ed intenso. Verranno presi in esame due modalità di intervento precoce: una che vede il genitore assumere il ruolo di insegnante-terapista del proprio bambino ed un’altra che considera il genitore come utente di un servizio. 1. Il genitore come insegnante-terapista. I programmi in cui il genitore è stato coinvolto in qualità di insegnante o terapista del proprio bambino sono molti. Sia pure con modalità diverse, il genitore, rappresentato tipicamente dalla madre, ha assunto funzioni programmatiche, esecutive e di valutazione del bambino, dopo un training intensivo effettuato dagli operatori che curavano la realizzazione complessiva del programma di intervento. Un simile approccio è esemplificato molto bene dalla Hanson che definisce il genitore come “membro cruciale del team degli operatori”. In questo tipo di programma l’obiettivo da perseguire è costituito dal raggiungimento di alcune tappe di sviluppo che nel bambino Down sono notoriamente ritardate, e lo “strumento” utilizzato è per così dire il genitore, ritenuto a priori la persona più efficace nella stimolazione del comportamento del bambino. Lo studio di Bidder ci offre un classico esempio di tale metodologia : le madri dei bambini Down venivano sottoposte ad un training iniziale della durata di 6 mesi presso il Centro (Development of Child Health, Welsh National School of Medicine di Cardiff). Il training era finalizzato ad istruire le madri sulle tecniche di stimolazione del linguaggio verbale, della manipolazione, dell’autonomia personale e dell’interazione sociale del bambino. Le istruzioni date venivano eseguite dalle madri direttamente con il bambino due o più volte al giorno. Il programma era rivolto principalmente alle madri, ma queste venivano sollecitate a coinvolgere altri membri della famiglia (padri e nonni) nell’educazione del bambino. Gli operatori del Centro non effettuavano alcun tipo di intervento diretto sul bambino. Nonostante la brevità del trattamento e l’esiguità del gruppo sperimentale (16 bambini Down di età compresa tra 12 e 33 mesi), l’autore conclude per una positività dell’intervento sia rispetto ai progressi raggiunti dai bambini, sia rispetto al cambiamento delle aspettative che si era venuto a creare nelle madri. Contemporaneamente all’estendersi di programmi di intervento precoce in cui veniva richiesto al genitore di diventare a pieno titolo un membro dello staff degli operatori, si sono andati sviluppando altri studi che consigliavano molta cautela in proposito e ribadivano la necessità di una attenta valutazione del processo di adattamento emotivo dei genitori all’handicap del bambino . Alcuni autori in particolare hanno anche considerato gli effetti negativi che un simile approccio può comportare. Spiker ha chiesto alle madri dei bambini

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Down di 2-4 anni di descrivere le loro interazioni con i bambini mentre eseguivano a casa le attività previste dal programma a cui avevano aderito. Ebbene le madri dei bambini con livelli di sviluppo più bassi si dichiaravano meno attente e meno felici delle madri dei bambini con livelli di sviluppo migliori e vivevano con un senso di frustrazione queste difficoltà di rapporto con i loro bambini. Shell ha indicato la possibilità per i genitori dei bambini con handicap di vivere un’esperienza di BURN-OUT (una progressiva perdita di energia e relativa sensazione di impotenza), derivante dalla constatazione di quanto siano lenti i progressi di sviluppo del bambino rispetto alle aspettative che si erano creati. 2. Il genitore come utente di un servizio. La letteratura relativa a forme di intervento che vedono il genitore come utente di un servizio è piuttosto scarsa e prevalentemente, riferita a famiglie con bambini affetti da altri tipi di handicap. Le ragioni che spiegano tale fenomeno sono molte: una potrebbe essere costituita dalla recente enfasi riposta a livello teorico sul ruolo della famiglia nelle varie forme di intervento precoce e la relativa scarsa conoscenza dei bisogni iniziali di questa; una seconda ragione la si può individuare nella scarsità di esperienza da cui ricavare modelli proponibili alle famiglie; una terza ragione infine può essere la difficoltà nel definire i limiti di un coinvolgimento dei genitori nell’attuazione dell’intervento. Complessivamente si può dire che gli studi realizzati concordano sulla necessità di misurare gli effetti dell’intervento sia in termini da acquisizioni raggiunte dal bambino (motricità, linguaggio, sviluppo cognitivo e sociale) sia in termini di competenze e attitudine al cambiamento da parte del genitore. L’individuazione dell’intervento basata su una valutazione dei bisogni familiari costituisce un altro aspetto comune che ribalta l’impianto teorico alla base dei programmi in cui il genitore partecipava attivamente all’esecuzione di attività di stimolazione sensoriale e cognitiva. Il genitore è ora visto non più come mediatore tra il programma e il bambino, bensì come soggetto avente dei bisogni propri e come tale da aiutare nell’individuazione delle risorse e delle opportunità che possono favorire lo sviluppo del bambino e l’adattamento della famiglia. Il Family Focused Intervention di Bayley (1986) offre una chiara esemplificazione di tale prospettiva. Questo modello propone l’attuazione di un intervento che si estrinseca in alcune tappe cruciali:

• una valutazione comprensiva dei bisogni del bambino e della famiglia; • la formulazione di un’ipotesi di intervento; • la discussione e l’accordo tra genitori e operatori rispetto agli obiettivi

da perseguire; • una discussione temporale degli obiettivi; • la realizzazione dell’intervento e la valutazione degli obiettivi raggiunti

sia rispetto al bambino che rispetto alla famiglia. Si tratta, come si vede, di un modello complesso che implica la realizzazione di un intervento pluridisciplinare e che si avvale quindi della collaborazione di

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operatori esperti nei vari ambiti dell’intervento ( riabilitativo, educativo, psicologico e sociale).

Considerazioni

Come è stato già menzionato, nei confronti dei bambini con Sindrome di Down, si sono andati sviluppando da circa vent’anni a questa parte, una notevole mole di programmi di intervento precoce. Partendo dal presupposto teorico che più stimoli venivano offerti al bambino nei primi anni di vita, più alti potevano essere i livelli di sviluppo raggiungibili, sono state allestite metodiche di trattamento anche molto intense sul bambino, che utilizzavano la figura genitoriale, prevalentemente la madre, come diretto esecutore delle attività previste nei programmi. L’analisi della letteratura relativa a tali programmi pone però molti dubbi interpretativi. Si tratta in genere di studi sperimentali condotti senza gruppi di controllo, di breve durata e privi di indicazioni necessarie a convalidare il successo del trattamento ribadito dagli autori. La grande variabilità del livello di sviluppo raggiunto dai bambini coinvolti nei programmi, ci fa porre seri interrogativi sulle opportunità o meno di una diffusione indiscriminata di tali programmi, senza tener conto delle necessarie differenze individuali di crescita. Pensiamo che non sia possibile applicare una stessa metodologia di intervento a bambini che pur avendo in comune lo stesso tipo di handicap, sono sicuramente diversi in quanto a personalità, stile di crescita, famiglia e ambiente sociale in cui vivono. I risultati raggiunti da tali programmi, spesso positivi per il raggiungimento di alcune tappe dello sviluppo a breve termine, non sembrano però durare a lungo. Se ne deduce quindi la necessità di:

• individualizzare l’intervento in base alle caratteristiche del bambino e della sua famiglia;

• avviare precocemente l’intervento, ma anche prolungarlo, sia pure con obiettivi e metodiche differenti, oltre i primi anni di vita per affrontare le problematiche che la crescita comporta nelle varie fasi del ciclo vitale del bambino e della sua famiglia (struttura longitudinale dell’intervento).

Fin qui abbiamo sempre parlato indistintamente del bambino e della sua famiglia; rispetto al coinvolgimento di quest’ultima nei programmi di intervento, grossi cambiamenti, ricordiamo, si sono verificati sia a livello concettuale che operativo. La famiglia, in primo luogo i genitori, all’inizio era considerata semplicemente come il tramite attraverso il quale realizzare l’intervento. Nel tempo, le conoscenze sulle modalità di sviluppo del bambino e sul contributo che la famiglia può dare in tal senso si sono molto modificate. Da un intervento mirato esclusivamente al bambino stiamo passando

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all’individuazione di modelli di intervento mirati al bambino e alla famiglia. Probabilmente siamo ancora all’inizio di tale processo di cambiamento, non solo concettuale ma anche di politica di servizi per l’infanzia. Nel caso di una famiglia con un bambino con handicap, nel nostro caso Down, abbiamo sì bisogno di individuare quelle che sono le necessità prioritarie del bambino (mediche, educative e sociali) ma tali necessità vanno sempre rapportate in primo luogo all’impatto emotivo che la presenza del bambino comporta sulla famiglia e in secondo luogo alle risorse interne ed esterne da attivare perché la famiglia possa affrontare una situazione così complessa. In tale ottica i presupposti teorici basilari dell’intervento diventano:

1. la necessità che si tratti di un’attività interdisciplinare. Dal momento che le problematiche collegate allo sviluppo sono così variegate, l’intervento dovrebbe prevedere le possibilità di usufruire dell’apporto di varie discipline come la medicina, l’educazione, la psicologia, etc., e quindi di una pluralità di professionisti che lavorino in collaborazione e offrano servizi che non si sovrappongano l’un l’altro;

2. i bisogni del singolo bambino non possono essere compresi al di fuori

del contesto familiare e, dal momento che la famiglia è un’unità dinamica all’interno del più vasto sistema sociale, i bisogni della famiglia non possono essere compresi al di fuori del tessuto sociale e culturale a cui appartiene;

3. i risultati raggiunti da programmi che coinvolgevano i genitori in

qualità di insegnante-terapista del proprio bambino non giustificano la continuazione di tale approccio, anzi producono serie preoccupazioni rispetto alle conseguenze negative sulla vita familiare e sul rapporto tra genitori e bambino. Andrebbe pertanto sempre mantenuta una chiara distinzione tra le competenze degli operatori e le competenze delle famiglie: di intervento diretto sul bambino gli uni e di assunzione esclusiva di un ruolo gli altri.

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8. LA RIABILITAZIONE DELLE DIFFICOLTA’ PRASSICHE

Il sistema prassico è un sistema multidimensionale che prevede l’integrazione tra fattori neuromotori, neuropsicologici, cognitivo-simbolici ed affettivi. L’atto motorio finalizzato (ovvero la prassia) consente al bambino di intervenire sulla realtà conoscendola, modificandola e modulando se stesso in relazione ad essa. La prassia quindi si configura come un continuum tra sistemi di conoscenza e l’agire nel mondo del soggetto rispetto al proprio bagaglio epistemologico ed al vissuto di sé.

Lo sviluppo prassico consiste essenzialmente nell’acquisizione di strategie sempre più adeguate, economiche, rapide ed efficaci di “intervento motorio” sulla realtà esterna. Un atto motorio transitivo per essere efficace prevede: a) una corretta elaborazione della realtà esterna che consenta l’azione di

meccanismi centrali di aggiustamento e compensazione rispetto al campo di forze esterne;

b) l’individuazione di strutture coordinative di base attraverso le quali e

sulle quali sia possibile operare delle trasformazioni e che costituiscono delle varianti organizzazionali in grado di raggiungere uno scopo, modulabili dal soggetto attraverso la possibilità di orientare la ricerca e di utilizzare tutte le informazioni utili.

Tutto questo è una sorta di prerequisito o comunque è parte integrante della linea dello sviluppo epistemico che si organizza in epoca estremamente precoce, attivata in modo diretto dalla realtà esterna. Il bambino percepisce gli aspetti trasformativi della realtà ed è intrinsecamente spinto a comprenderli scoprendo regolarità nella realtà interna ed esterna.

La costruzione del profilo di sviluppo

I livelli di analisi delle prassie che prendiamo in considerazione sono due poiché riguardano sia la compilazione di un profilo di sviluppo complessivo, sia l’analisi neuropsicologica della linea specifica motorio-prassica.

• Per profilo di sviluppo si intende la posizione del bambino rispetto alle singole linee di sviluppo esaminate sia in senso verticale, ossia rispetto al livello raggiunto in ogni singola competenza (linguistico-comunicative, motorio-prassiche, simboliche e cognitive), sia in senso orizzontale cioè rispetto a tutte le possibile interazioni tra fattori cognitivi, emotivi ed affettivi.

L’approfondimento del quadro prassico non può prescindere in nessun bambino e tantomeno nei bambini con RM, in cui l’espressione privilegiata del

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disturbo avviene a livello di integrazione tra competenze, dal definire una modalità di funzionamento più generale. Inoltre la compilazione del profilo di sviluppo risulta essere un momento estremamente importante dello stesso processo riabilitativo poiché consente la conoscenza dei problemi in un modello interattivo.

• Il profilo neuropsicologico della prassia consiste in una batteria di prove

che indaga aree specifiche che concorrono alla costituzione dell’atto prassico. Le aree prese in considerazione sono le seguenti:

1) Funzioni neurologiche di base e delle competenze posturo-motorie; 2) Competenza percettiva (visuo-percettiva e percettivo-spaziale); 3) Competenza nell’uso del proprio corpo; 4) Competenza gestuale; 5) Competenza nell’uso dell’oggetto; 6) Competenza costruttiva, 7) Competenza grafica.

L’ipotesi di fondo di questo tipo di osservazione è che oltre ad indagini sull’integrità di funzioni motorie e neurologiche di base tale da consentire un uso del movimento libero da interferenze vincolanti, sia possibile compilare una sorta di profilo interno rispetto alla competenza prussica. Tale profilo è composto dall’area percettiva (raccolta, analisi e sintesi dei dati informativi) come area integrata, e da linee evolutive diverse ed in parte autonome che costituiscono la competenza prussica: quella gestuale, costruttiva, dell’uso degli oggetti, dell’uso del proprio corpo e quella del grafismo. In particolare la competenza dell’uso degli oggetti è l’area che risulta più satura oltre che di fattori neuro-motori (controllo del movimento e di variabili quali, ad esempio, vincoli o gradi di libertà che consentono la fluidità e la rapidità), di fattori legati all’evoluzione delle capacità rappresentative implicante lo sviluppo della conoscenza degli oggetti, e di fattori legati all’apprendimento in relazione alla maturazione di competenze motorio-prassico e di altre competenze.

Profili prassici dei bambini con ritardo mentale lieve

Ci si è proposti di individuare dei profili prassici del bambino con ritardo mentale lieve ne i primi 5 anni di vita tentando di individuare i comportamenti che caratterizzano ogni fascia di età secondo i criteri esplicativi sopra esposti. Il profilo “pre-prassico” e prassico dei bambini con ritardo mentale lieve rispetto alle varie fasce di età presenta:

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- a 1 anno: . I bambini mostrano un netto incremento della curiosità verso l’oggetto. Gli schemi motori si modificano da schemi generici analitici rivolti a parti di oggetti (es., mettere in bocca e ciucciare) e usati in totale assenza di controllo visivo a prime combinazioni di schemi (es., portare alla bocca il biberon rovesciandolo in posizione corretta) con un’iniziale supervisione della vista. Prevalgono schemi di movimento quali agitare casualmente, lanciare o battere mentre sono attratti maggiormente da caratteristiche intrinseche al movimento piuttosto che da variazioni sensoriali o caratteristiche funzionali dell’oggetto. La manipolazione è in genere limitata ad un unico oggetto, tuttavia sono in grado di battere un oggetto contro l’altro compatibilmente con il tipo di prensione (a rastrello) e con la stabilità della posizione (in genere c’è un buon controllo del tronco in posizione seduta con difficoltà per le variazioni di equilibrio per scarsità delle difese laterali). L’attenzione è orientata prevalentemente o sull’adulto o sull’oggetto senza che sia possibile condividere entrambe le situazioni. L’attenzione focale è comunque breve, ma sollecitabile dall’adulto. L’oggetto sembra avere una pregnanza soltanto momentanea, se viene nascosto alla vista scompare del tutto. - A 2 anni: Con una certa variabilità hanno acquisito la deambulazione autonoma che però viene controllata ancora con difficoltà ed utilizzata alternativamente ad altri modi di spostamento (deambulazione quadrupedica, spostamento da seduti). Non sono presenti decisioni rispetto a percorsi e raramente si spostano per prendere qualcosa: in genere viene preso l’oggetto che si trova sul loro percorso. In rapporto all’oggetto: si consolidano schemi di esplorazione prefunzionale (battere, strisciare, scuotere) alternati a schemi funzionali (esempio, pettinarsi) più per uso imitativo che per reale comprensione, in quanto non sono applicabili a situazioni differenti. E’ maggiore il controllo del canale visivo e l’attenzione a particolari rilevanti dell’oggetto, tuttavia hanno difficoltà a comprendere i rapporti reciproci di due oggetti (ad es. la pallina nella bottiglia). Sfilano le ciambelline dall’asta, ma con scarsa attenzione al compito. Nell’uso dell’oggetto meccanico non c’è una chiara comprensione del nesso di causa/effetto: toccano il pupazzetto per riprodurre il movimento, ma non sono i grado di riattivarlo. Ritrovano un oggetto nascosto visibilmente sotto due schermi in sequenza, se lo spostamento è invisibile si perde la traccia dell’oggetto. Compare definitivamente l’uso dell’indicazione per chiedere talvolta associato a lalleggi o a rare parole. Riconoscono alcune parti di sé (occhi, capelli, bocca), costruiscono torri di due cubi, scarabocchiano imitando una direzione. - A 3 anni: Sul piano motorio è possibile un accenno alla corsa con la flessione del bacino e l’antiversione del tronco, salgono le scale con appoggio, non le scendono se non in posizione laterale e spesso servendosi dell’appoggio di entrambe le mani come se non controllassero il dislivello percettivo-spaziale. E’ aumentata l’attenzione agli oggetti nell’ambiente, lo spostamento avviene con la finalità

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di raggiungere l’oggetto desiderato, anche se permane la tendenza a muoversi poco e con poche strategie esplorative. Permangono strategie motorie alternate in cui è evidente un progetto alterato (per sedersi salgono in ginocchio sulla sedia e poi si girano su se stessi). Sul piano percettivo riescono dopo più tentativi, ad inserire tre stampi nella tavoletta. Nell’infilare le perle non riescono a centrare il buco con il filo: in tal caso le strategia si fa ripetitiva o inefficace (ad esempio girano il filo dall’altra parte). Riescono a svitare il tappo di una bottiglia; acquistano una maggiore consapevolezza dell’uso funzionale di oggetti notevolmente aumentati sul piano quantitativo. Tuttavia spesso l’uso è improprio sul piano motorio (occhiali posti al contrario, posizionamento della cornetta del telefono o del pettine in modo sbagliato rispetto alla parte del corpo). C’è un’iniziale possibilità di ricontrollo che talvolta va sollecitata dall’adulto, ma che sempre più frequentemente è autonoma. Il ricontrollo visivo sembrerebbe però quasi possibile solo dopo aver agito. Nelle prassie costruttive riescono a riprodurre un treno allineando i cubi, costruiscono una torre di quattro o più cubi; la strategia utilizzata è tuttavia incerta. Nel gioco iniziano a strutturare sequenze (2 o 3) che si appoggiano più al canale verbale e utilizzano maggiormente strategie imitative. Il conflitto qui sembrerebbe sul piano prassico tra il non fare o il fare imitando moduli preesistenti (imitazione differita). Le variazioni possibili sembrerebbero a carico del verbale, che tuttavia rischia di sganciarsi dall’oggetto che aveva inizialmente elicitato il gioco. Rispetto alla permanenza dell’oggetto cominciano a rendersi conto dello spostamento invisibile sotto due schermi, ma l’introduzione di un terzo fa perdere interesse per l’oggetto. Nel grafismo è possibile l’imitazione di linee verticali e orizzontali. - A 4 anni: Sul piano motorio riescono a salire e scendere le scale con appoggio monolaterale e alternando i piedi. Tuttavia la motricità è in genere lenta, vengono espresse verbalmente auto-istruzioni e spesso preoccupazioni nei confronti del movimento. Sanno correre e iniziano a pedalare. Sul piano percettivo si adattano alla rotazione della tavoletta per la collocazione delle figure geometriche, comprendono relazioni spaziali quali dentro/fuori, sopra/sotto. Con l’oggetto permangono difficoltà di prensione che spesso ne causano la caduta. Se l’uso funzionale degli oggetti più comuni sembra essere consolidato, permangono però difficoltà di relazionare due oggetti tra loro (ad es. appoggia la collana sulla bambola invece di infilarla, comprende l’errore, ma invece di modificare dice: “attenta cade”). Mostrano difficoltà nell’infilare la chiave nel buco o per aprire una scatola di sigarette. Sono ormai chiari i nessi causa/effetto per oggetti semplici (es. caricare un pupazzo con la chiave), ma non vengono risolti conflitti più complessi o che presumano l’integrazione con altre capacità cognitive (ad es. riconoscimento di colore più spinta bottone per far aprire una scatola). Di fronte a difficoltà nell’infilare le perle compaiono strategie di rinuncia (“mi piace così”), tuttavia, se sollecitati o aiutati nella modifica del movimento o della posizione del filo, portano a termine il compito. Nelle prassie costruttive sono in grado di costruire un ponte per progressivo avvicinamento al modello. Mentre si è consolidato l’uso di gesti comunicativi o imitativi (ad es. quelli delle filastrocche), permangono

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difficoltà nell’imitazione di gesti che presumano il controllo di segmenti corporei o di gesti semplici con oggetti. E’ ormai stabile la permanenza dell’oggetto: sono in grado di dire i nomi di oggetti che sono stati nascosti o di partecipare a giochi di ricerca di oggetti nascosti. Il gioco simbolico risulta articolato, sono in grado di far interagire due oggetti o pupazzetti tra loro, di esprimere attraverso di essi capacità cognitive o di esplicitare stati d’animo semplici. Lo sviluppo del gioco prevale sempre sul piano verbale rispetto all’azione. Nel grafismo è ormai acquisito il modulo circolare ed un primo prototipo di figura umana con l’aggiunta di gambe ad esempio con la testa; è possibile l’attribuzione di significati alle produzioni grafiche. Sono in grado di descrivere due o tre azioni in una figura. - A 5 anni: Sul piano posturo-motorio, se le difficoltà sembrano essere in generale piuttosto risolte per compiti motori più globali (corsa, pedalare), prevale però un atteggiamento di rifiuto del movimento, una notevole lentezza ed inibizione motoria. In genere incontrano difficoltà a risolvere percorso e preferiscono desistere. Sul piano percettivo sono in grado di ricostruire puzzle di 4 pezzi, buona capacità analitica nel cogliere le differenze, peggiore la capacità di sintesi (ricostruire ad es. un oggetto da un insieme di particolari). Nelle prassie con gli oggetti c’è una difficoltà ad usare contemporaneamente le due mani e due oggetti in relazione tra loro; anche rispetto a questa competenza si nota che, al crescere delle difficoltà, preferiscono non fare o lasciar fare agli altri. Nelle prassie costruttive il ponte è possibile anche senza modello, possibile con aiuto e modifiche del modello iniziale come ad es. per la costruzione di una porta. Permangono difficoltà nella riproduzione di gesti e nel compiere gesti con o senza oggetto. Nel grafismo risultano complessi disegni su copia da modello nel rispetto dei rapporti topografici tranne che per moduli ormai acquisiti quali il cerchio e talvolta il quadrato; su richiesta di disegno di oggetti tendono a riprodurre o moduli grafici semplici anche se inadeguati, o particolari di oggetti. Tentano di spiegare ed espandere i tentavi grafici scarsamente comprensibili con il linguaggio. Nel gioco simbolico emergono giochi di ruolo con possibilità di introdurre variazioni di turni e regole elementari non sempre comprese. Tuttavia questi elementi compaiono in un gioco interattivo con l’adulto; nel gioco spontaneo è spesso il linguaggio a prevalere con l’introduzione di elementi non sempre pertinenti o frasi complesse su imitazione. Sono in grado di descrivere una sequenza di tre azioni, non sempre mostrando una chiara comprensione dei nessi logici. Controllano piccole quantità numeriche. Nei bambini con ritardo mentale medio le difficoltà rilevate dai profili dei bambini con ritardo mentale lieve aumentano per due ordini di fattori: - la maggiore distanza tra età cronologica ed età mentale comporta sia un

maggiore ritardo nell’acquisizione di competenze, sia una maggiore difficoltà di integrazione all’interno della singola competenza e tra competenze di domini diversi;

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- le maggiori dissociazioni consolidano l’uso di modalità imitative-ripetitive a tutto svantaggio della possibile comprensione ed elaborazione della situazione problemica.

Conclusioni

I profili di sviluppo che sono stati tratteggiati ed il percorso riabilitativo descritto in dettaglio permettono di individuare da un punto di vista qualitativo le alterazioni prussiche che sembrano essere comuni ai bambini con ritardo mentale e che possono essere così schematizzati:

1. i bambini con ritardo mentale hanno difficoltà nel raccogliere e selezionare le informazioni rilevanti sull’oggetto e sul tipo di attività da compiere: spesso lo stimolo viene elaborato solo a posteriori, gli stimoli percepiti sono solo quelli che entrano “vistosamente” nel campo visivo;

2. i bambini con ritardo mentale possiedono poche sub-routines motorie

modicamente adattabili ed in relazione con la comprensibilità della situazione; entro certi limiti non vengono messi in crisi

dall’inadeguatezza della strategia soprattutto se risulta inalterata l’efficacia (che è maggiore con oggetti semplici);

3. i bambini con ritardo mentale mostrano problemi di memoria motoria e

quindi di apprendimento in relazione a strategie di memorizzazione inadeguate o che non consentono operazioni immediate di shifting nei meccanismi di controllo.

Sul piano delle competenze gnosico-prassiche la conoscenza dell’oggetto sembra assumere una centralità rispetto al dato evolutivo: la competenza nell’uso dell’oggetto integra fattori motorio-prassici, cognitivi, simbolici ed affettivi. I bambini con ritardo mentale non mostrano dei veri ritardi motori, ma semmai un uso del movimento (al di là dell’ipotonia comunque esistente) che non riesce a tener conto delle caratteristiche situazione/contesto. La riabilitazione del bambino con ritardo mentale non deve mirare al raggiungimento di “tappe motorie” inutilizzabili: la centralità dell’oggetto rispetto al trattamento riabilitativo può modificare tale errore favorendo l’emergere di condotte pre-simboliche integrate e lo sviluppo di strategie esplorative intra ed inter-sensoriali. Lo sviluppo cognitivo è finalizzato essenzialmente alla sistematizzazione di conoscenze: l’azione sull’oggetto, la ripetizione dell’esperienza consente operazioni di codifica/decodifica della realtà e di “accomodamento” rispetto a questa. Gli apprendimenti di senso (in grado di integrare informazioni percettive, motorie, affettivo-emozionali) sembrano essere maggiormente deficitari nei bambini con ritardo mentale: è il senso delle cose ad essere alterato poiché non è riconoscibile tramite le sue caratteristiche spaziali,

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temporali ed emotive. Dare il senso ad un evento significa riconoscerne il valore cognitivo e la tonalità affettiva nel momento in cui avviene sulla base di un’interazione significativa: l’oggetto come elemento condiviso può essere il perno su cui si “ricuciono” le spinte evolutive comunque esistenti. La seduta di terapia diviene allora il momento in cui vengono rigiocati sul piano interattivo dinamiche, azioni, emozioni con l’aiuto di un operatore consapevole del profilo di quel bambino specifico e quindi delle sue specifiche difficoltà. L’interazione terapeutica ha l’obiettivo di mediare il processo di apprendimento rendendo decodificabili alcune situazioni di per sé percepite come irrilevanti per la non riconoscibilità o la non integrabilità delle informazioni disponibili. Da tutto ciò emerge chiaramente l’indicazione per i bambini con ritardo mentale in cui siano visibili i rischi di una disarmonizzazione evolutiva dello sviluppo delle varie competenze, l’indicazione e l’utilità di un intervento terapeutico precoce. Tale precocità è essenziale per evitare la comparsa di importanti dissociazioni ed il conseguente instaurarsi di comportamenti atipici. Inoltre se pur la componente ritardo sembra caratterizzare il quadro patologico, alcuni comportamenti, quali ad esempio conoscere l’oggetto manipolandolo, hanno un senso solo se età specifici (compatibilmente con l’età mentale e quindi con le risorse utilizzabili dal bambino), prima che strategie di tipo compensatorio attivino comportamenti atipici. La precocità e la finalità di preservare una possibile integrazione tra competenze sono importanti anche per prevenire l’instaurarsi di disturbi comportamentali o di veri e propri quadri psicopatologici. Infine ci sembra opportuno tentare di una ridefinizione del concetto di tempo nel ritardo mentale. Il tempo è percepito dai genitori e dagli operatori come centrale nel ritardo mentale creando nei genitori delle false aspettative molto spesso frustrate ( “se è in ritardo prime o poi recupererà”) e nell’operatore la sensazione di dover in un certo senso “velocizzare” le procedure (qualitativo-quantitative) per ottenere dei risultati. Questa interpretazione confusiva del disturbo finisce col nascondere quella che è la giusta “lettura” del tempo nel bambino con ritardo mentale: un tempo di comprensione e apprendimento che è diverso, più lento, e che produce dei risultati non solo diversi, ma specifici per ogni bambino. Non è la clessidra lo strumento di rilevazione dei benefici ottenuto dal bambino dal trattamento riabilitativo, ma il parametro centrale deve essere l’adattività dei comportamenti nei confronti della situazione ambientale e la possibilità di integrare variabili cognitive con variazioni emotivo-affettive. In questa ottica gli interventi terapeutici devono consentire comunque al bambino con ritardo mentale ed alla sua famiglia un’organizzazione di vita che non sia centrata solo di essi. La ripetizione dei cicli di terapia che consentano un’alternanza per la famiglia e per il bambino tra tempi di “stimolazione” e tempi di “elaborazione” sembra essere una delle strategie più efficaci.

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9. EDUCAZIONE AL LINGUAGGIO

Per impostare un progetto educativo e riabilitativo corretto bisogna aver chiaro a quali modelli teorici far riferimento, conoscere strumenti appropriati per la valutazione, con la consapevolezza che, per ogni bambino, va considerata la necessità di un intervento individualizzato e mirato al livello di competenza, alle diverse fasce d’età ad agli obiettivi da raggiungere. La messa a punto di un programma di intervento è correlata all’osservazione, ai dati della valutazione ed inoltre alle ipotesi prognostiche, è comunque fondamentale considerare nel corso dell’intervento, la modificabilità delle condizioni del bambino nelle varie aree e competenze, rispetto alla qualità dei cambiamenti, oltre che alla quantità. Nell’educare al linguaggio si ritiene di dover porre estrema attenzione, nelle prime fasi dello sviluppo della comunicazione, all’intima correlazione esistente tra i vari sistemi (affettivo, comunicativo , socio-ambientale, cognitivo, attentivo-percettivo e linguistico) in termini non solo di sviluppo di funzioni isolate, ma di processi che si devono attivare ai fini dello sviluppo del linguaggio. Via via poi che emergono funzioni fondamentali per lo sviluppo linguistico, l’attenzione verrà posta in senso più specifico sulle capacità linguistiche vere e proprie (fase verbale), in senso sia formale che funzionale e rispetto sia alla comprensione che alla produzione. Va in tal senso attentamente considerato a seconda dei diversi livelli di sviluppo di ogni bambino:

• quali competenze sono da privilegiare in ordine di sviluppo; • qual è la qualità dell’interazione comunicativa che il bambino vive sia in

ambito familiare, che nei diversi contesti sociali (famiglia, nido, scuola) e quindi qual è la qualità dell’input linguistico che riceve;

• quali sono le attività di vita quotidiana ed in quale contesto vengono esplicate;

• qual è il livello di competenza comunicativa e linguistica acquisito fino a quel momento dal bambino nei diversi settori specifici del sistema linguistico;

• qual è la fase evolutiva da un punto di vista cognitivo-percettivo e attentivo.

Vanno evidenziati, più precocemente possibile, deficit di tipo strumentale, tenendo conto che anche questi possono contribuire ad un ritardo nell’acquisizione del linguaggio, ad es. nei bambini con Sindrome di Down, problemi a livello motorio, prassico, percettivo-uditivo possono contribuire a ritardare lo sviluppo del linguaggio. Dopo queste premesse, il tema verrà, dunque, sviluppato secondo due linee fondamentali:

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• la prima terrà conto delle fasi di acquisizione del linguaggio e

dell’importanza di un intervento precoce, intendendo con questo termine porre attenzione ai vari aspetti dell’interazione, partendo dalla relazione madre-bambino, dagli aspetti della comunicazione preverbale e dall’input linguistico che il bambino riceve;

• la seconda affronterà l’argomento dell’educazione al linguaggio in senso

più specifico, considerando le precise difficoltà che il bambino con Sindrome di Down presenta proprio nello sviluppo di questa competenza.

Prime fasi dell’acquisizione del linguaggio

Il linguaggio parlato rappresenta la continuazione di una serie di apprendimenti già avvenuti, che ne costituiscono i presupposti indispensabili. Il bambino “impara a parlare” sin dalla nascita, anche se la “parola”, l’espressione verbale, non si sviluppa prima che abbia circa un anno. L’uso della lingua parlata viene trasmesso dal contesto sociale, attraverso la dimostrazione dell’efficacia di una varietà di atti comunicativi. Per sviluppare la comprensione e l’uso del linguaggio parlato, è dunque, determinante l’apporto degli adulti e soprattutto il modo in cui essi si pongono nei confronti del bambino, rispondendo alle sue esigenze di comunicazione e di relazione. E’ perciò estremamente importante che si instaurino rapporti costanti tra i genitori del bambino con Sindrome di Down ed i vari specialisti (medici, terapisti della riabilitazione, psicologi) che debbono sostenere, aiutare e far capire a coloro che si occupano del bambino, quale è il modo più adeguato di interagire con lui. Lo sviluppo prelinguistico, nella maggior parte dei bambini con Sindrome di Down, è solo moderatamente ritardato, ma delle differenze qualitative sono comunque osservabili anche in questa fase. Nella comunicazione preverbale rispetto agli scambi ed alle interazioni comunicative che avvengono tra madre e bambino, va ricordato il contatto corporeo. Grazie alla comunicazione corporea con la madre, il bambino arriva a stabilire i confini del proprio corpo, ad individuare i propri mezzi motori ed ad acquisire autonomia ed intenzionalità nei movimenti che, all’inizio del tutto involontari, vengono a poco a poco ad acquisire significati espressivi, come ad es. l’afferrare un oggetto, la mutualità di sguardo. Va ricordato, a tal proposito, che i bambini con Sindrome di Down presentano una “ipotonia diffusa” che non facilita i loro movimenti, sia in senso globale più grossolano, sia in senso di motricità fine. Spesso, inoltre, insuccessi e delusioni nelle aspettative della madre scoraggiano ulteriori stimolazioni e tentativi di scambio tra madre e bambino. Anche per quanto riguarda i primi segnali comunicativi quali il pianto, il sorriso, le vocalizzazioni, il contatto oculare, il turn-taking, cioè l’alternanza di

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scambi vocali, si è evidenziato un ritardo di sviluppo ed un deficit abbastanza consistente. Il bambino con Sindrome di Down viene spesso descritto come un bambino “buono” o anche “pigro”, che non fa rumore, non richiede molte attenzioni da parte dell’adulto ed è in generale meno rispondente alle stimolazioni verbali e non verbali. E’ importante, invece, sapere che il bambino va incoraggiato molto e spinto a prendere iniziative, sia da parte della madre, che dell’adulto che si prende cura di lui. Anche se non è facile ottenere subito una buona interazione, questa va comunque ricercata costantemente nelle varie fasi di sviluppo del bambino, dalle prime vocalizzazioni ai giochi di routine con o senza oggetti sonori, al gioco del cucù ed ad altri giochi convenzionali. Durante la fase di vocalizzazione, da molti viene posto l’accento sull’importanza ed il ruolo dell’alternanza di scambi vocali, che motorizza ed influenza il comportamento del bambino. I bambini con Sindrome di Down tendono a vocalizzare in successione continua, non rispettando il turno e cioè con pause molto ravvicinate. Tale deficienza del turn-taking che viene rilevato lento a svilupparsi, e spesso atipico con fasi di contemporaneità o “urti vocali” tra madre e bambino, merita grande attenzione in quanto è stato ipotizzato che questa abilità sia da considerarsi precursore di ulteriori sviluppi comunicativi e linguistici. Non sembrano, invece, esserci differenze quantitative o qualitative nella fase di lallazione e di babbling canonico, che da un punto di vista fonetico segue lo stesso sviluppo del bambino normale. E’ invece sull’uso delle vocalizzazioni e quindi degli aspetti fonologici che i bambini con Sindrome di Down sembrano essere deficitari. Rispetto alla fase preverbale e ai segnali comunicativi, va sottolineata, ancora, l’importanza del “contatto oculare”, in quanto espressione dell’attenzione condivisa tra madre e bambino ai fini dello sviluppo cognitivo e linguistico. Infatti il contatto di sguardo va considerato come fondamentale segnale comunicativo, precursore di richieste intenzionali per agire o ricevere informazioni. Lo scambio di sguardi significativi accompagnati da vocalizzazioni crea nelle prime fasi dell’interazione l’impressione di una “ conversazione” che, invece, manca al bambino con Sindrome di Down. Berger-Cunningham, hanno studiato il contatto oculare tra madre e bambino nei primi 9 mesi di vita. I bambini con Sindrome di Down mostrano un ritardo nella comparsa di questo comportamento di due mesi circa e ritardi nella frequenza d’uso del comportamento appreso. Essi tendono, più che ad uno scambio di sguardo con la madre, ad utilizzare lo sguardo della madre come indice per scoprire a che cosa può riferirsi vocalmente. Queste difficoltà di contatto oculare possono essere intese anche come difficoltà nella formazione del legame madre-bambino ed in seguito come

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incapacità di attenzione selettiva per il volto dell’adulto e come deficit di sguardi referenziali anche per gli oggetti. Anche l’incapacità di prolungare l’attenzione su uno stimolo può venire interpretata come conseguenza di un mancato uso di scambi di sguardi significativi. Ma a tale proposito merita comunque ricordare che il bambino con Sindrome di Down presenta spesso difficoltà di sguardo, inoltre presenta iperfissazione e deficit di scanning visivo. Questi deficit andrebbero valutati e presi in considerazione precocemente, tenendo conto dell’importanza di tale funzione di base per l’apprendimento e lo sviluppo di altre attività più complesse come, ad esempio, la deambulazione, la coordinazione occhio-mano, la lettura, la scrittura. Il significato e la funzione degli atti comunicativi nella fase preverbale, nel senso di indici precursori per la comparsa delle prime parole, è stata esaminata da Greenwald e Leonard (1979) rispetto alla presenza e all’uso di gesti deittici nei bambini con Sindrome di Down. I comportamenti esaminati sono stati l’uso dei gesti: indicare, mostrare, prendere, dare, accompagnati da scambi e contatti di sguardo ed espressioni vocali. E’ stato evidenziato che i bambini con Sindrome di Down usano più gesti e meno vocalizzazioni rispetto ai bambini normali, scelti allo stesso stadio di sviluppo sensomotorio. La tendenza, quindi, di questi bambini a farsi capire e comunicare usando molto la mimica facciale, i gesti referenziali oltre che l’utilizzazione dell’adulto, confermerebbe l’ipotesi, ripresa da molti autori di un ritardo “specifico” nell’espressione verbale. In questa fase di sviluppo è importante considerare inoltre la capacità ludica ed il gioco simbolico, che correlano sempre con lo sviluppo della competenza linguistica. Spesso l’utilizzazione degli oggetti è di tipo perseverativo e raramente le azioni funzionali con l’oggetto sono inserite in un progetto ludico, con un inizio ed una fine. Inoltre il loro gioco non è veramente simbolico, ma piuttosto un’imitazione differita: soprattutto carente è la sequenza nel gioco simbolico. A livello educativo-terapeutico, quindi, vanno distinti questi diversi aspetti; va comunque progettato un intervento che aiuti il bambino a superare queste specifiche difficoltà, creando situazioni ludiche adatte al livello di sviluppo di ogni singolo bambino; i vari punti finora considerati vanno intesi come parte di un programma che va condotto insieme ai genitori e a coloro che si prendono cura del bambino, più precocemente possibile, addirittura sin dalla nascita.

Fase linguistica

Numerose ricerche hanno messo in luce un marcato ritardo nell’acquisizione del linguaggio nei bambini con Sindrome di Down; in particolare di è evidenziato che le loro abilità linguistiche, ad ogni stadio dello sviluppo (dalla

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primissima infanzia all’età adulta) sono al di sotto del livello atteso rispetto alla loro età mentale e presentano particolari atipie. C’è comunque da tener presente che all’interno della Sindrome di Down esiste, come abbiamo detto, una grande variabilità tra i soggetti sai rispetto allo sviluppo cognitivo, sia rispetto allo sviluppo motorio o a deficit di altro tipo e soprattutto rispetto al deficit linguistico. A tutt’oggi non sono chiari i fattori e le cause di questa variabilità anche se molte ipotesi sono state avanzate rispetto all’incidenza di fattori genetici-organici, biologici, ambientali e comportamentali. Su quanto osservato, un dato rimane certo: pochi soggetti con Sindrome di Down sono così handicappati da non sviluppare affatto il linguaggio, pochissimi sono così poco handicappati da avere un funzionamento linguistico “normale”. Importante dunque raccogliere dati specifici con metodo ed esattezza così da poter meglio comprendere, e forse risolvere la vecchia questione, se i soggetti ritardati sviluppano il linguaggio nello stesso modo dei non ritardati (ipotesi quantitativa) o se il loro sviluppo linguistico sia del tutto, o più probabilmente differente (ipotesi qualitativa). Per affrontare correttamente il tema dell’educazione al linguaggio bisogna tenere presente:

1) la continuità tra la fase pre-linguistica vera e propria;

2) l’importanza del contesto cioè del significato che lo scambio

comunicativo tra l’adulto e il bambino assume in ogni particolare situazione sia in comprensione che in produzione;

3) Il feed-back che il bambino riceve nei suoi sforzi e nei suoi tentativi di

comunicazione;

4) gli aspetti “specifici” del deficit di comunicazione (come dire che lo sviluppo non procede per tappe consequenziali come spesso avviene nel bambino normale), ma ci possono essere atipie e lunghi arresti tra una tappa e l’altra, che vanno considerati attentamente.

L’intervento deve dunque essere specifico nei diversi settori linguistici che risultano deficitari, tenendo conto delle intime correlazioni esistenti all’interno del sistema tra produzione e comprensione e tra diversi aspetti formali e funzionali. Quando si parla di aspetti formali si vuole intendere gli aspetti fonetici, morfologici e sintattici, mentre parlando di aspetti funzionali ci si riferisce all’uso e alle funzioni linguistiche cioè la funzione dialogica, discorsiva e

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narrativa. Vanno inoltre considerati gli aspetti legati al contenuto (lessico-semantica) e gli aspetti pragmatici. A livello di produzione verbale nei bambini con Sindrome di Down si riscontrano sempre problemi di articolazione e deficit sia a livello fonetico che fonologico. Anche a livello della singola parola la produzione è spesso inintelligibile e tale problema si riscontra fino all’età adulta. Bisogna a tale proposito considerare la differenza tra la funzione o abilità fonetica e fonologica. Il bambino sa a volte articolare quasi tutti i suoni della lingua (livello fonetico) ma “l’organizzazione” dei suoni che isolatamente egli sa e può produrre, cioè il passaggio da categorie fonetiche a categorie fonologiche implica un’abilità superiore a livello cognitivo che è appunto l’abilità di analisi sequenziale. Il bambino deve non solo conoscere come utilizzare il patrimonio che possiede, ma anche saperlo organizzare in sequenze ravvicinate (coarticolazione). Nel progetto terapeutico quindi il bambino deve essere implicato “attivamente” e nel corso del trattamento va aiutato a “controllare” le sue capacità articolatorie non isolatamente ma nella coarticolazione. Alcuni accorgimenti in tal senso vanno attuati più precocemente possibile e cioè il bambino va aiutato a porre attenzione ai “suoni” della lingua, sia a livello di produzione, ma soprattutto a livello recettivo, ad esempio con associazioni visivo-auditive. Gli vanno fatte osservare le varie posizioni articolatorie mentre lui stesso produce i diversi foni, facendogli capire le opposizioni fonetiche rispetto al cambiamento di significato di parole fonemicamente simili. Il bambino va incoraggiato a produrre i suoni intenzionalmente (a comando e poi per imitazione); e si può far uso del tatto o di visualizzatori delle voce e non appena possibile di filastrocche, scioglilingua, canzoncine con rima. Prima dell’intervento terapeutico è importante capire come il bambino utilizzi nella catena fonica i fonemi che possiede e studiare accorgimenti e facilitazioni per stimolarne l’uso corretto. Va visto inoltre quali tratti siano più frequentemente usati in maniera errata quali cioè rendono il messaggio più confuso ed ingarbugliato, sì da intervenire con scelte terapeutiche mirate. In ogni caso è essenziale far capire al bambino che alcuni suoni possono essere associati a precisi significati; stimolare quindi la comprensione e la produzione delle prime parole, utilizzando, ad esempio, giocattoli in miniatura e soprattutto facendo riferimento ad esperienze di vita quotidiana. Per impostare una terapia corretta bisogna comunque partire da una corretta valutazione e dalle competenze che il bambino possiede, tenendo conto che, diverse funzioni comportano gradi diversi di abilità. La rieducazione deve, quindi, avvenire in tutti i contesti dell’uso della lingua: si può e, spesso, si deve partire dall’impostazione di suoni singoli, ma bisogna che poi il bambino li usi nei vari contesti e soprattutto per funzioni diverse quali ad es. la denominazione di oggetti o figure, la conversazione, la descrizione di scene, il racconto di storie in sequenza, ecc.

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Ancora a scopo riabilitativo e soprattutto preventivo va tenuto conto di alcune cause che possono incidere sullo sviluppo del linguaggio del bambino con Sindrome di Down:

� otiti medie frequenti che possono compromettere la finzione uditiva e quindi procurare una moderata perdita di udito. Nei bambino con Sindrome di Down va periodicamente controllata la funzione uditiva in quanto un deficit uditivo anche lieve può influire sulla discriminazione percettiva uditiva e quindi sulla competenza fonologica. Questo ci aiuterebbe a spiegare i deficit e le atipie negli aspetti fonologici e soprattutto nella memoria fonologica a breve termine che viene considerato un fattore correlato di fondamentale importanza per l’acquisizione del vocabolario e che spesso è deficitaria nei bambini con Sindrome di Down. Inoltre il deficit uditivo inteso come “impercezione uditiva” potrebbe essere causa di un più ampio deficit di comprensione linguistica;

� il ritardo nello sviluppo motorio e soprattutto “l’ipotonia” generalizzata

possono causare problemi nel controllo degli organi fono-articolatori (lingua, labbra, velo) e nelle prassie relative a questi organi oltre che nella coordinazione respiratoria ai fini dell’espressione verbale. Uno studio longitudinale nei bambini con Sindrome di Down ha messo in luce che il tono muscolare può essere considerato un potente indice predittivo dello sviluppo del linguaggio a 36 mesi. E’ importante che, i genitori ed il personale del nido o chi si occupa del bambino siano messi al corrente ed aggiornati costantemente sul progetto educativo e sugli obiettivi che via via ci si pongono, in modo che il bambino venga da più parti incoraggiato ed aiutato nel raggiungimento di tali obiettivi.

Va precisato però, che i genitori dei bambini con Sindrome di Down non devono assumere il ruolo di terapisti; diverso è invece sapere che cosa è possibile ottenere in quel momento dal proprio bambino, adeguare le aspettative alle reali possibilità del bambino stesso ed agire appropriatamente per aiutarlo. La terapia specifica (del linguaggio, della motricità, dell’apprendimento) va invece di volta in volta garantita precocemente da personale specializzato e dovrebbe avere valenza non solo riabilitativa, ma anche preventiva. Ciò significa che non è giusto aspettare, come spesso avviene, che il bambino accumuli un grosso ritardo nel linguaggio o inizi a parlare “male”; una serie di interventi su settori correlati al sistema linguistico stesso possono garantire un esito migliore rispetto alle possibilità di apprendimento del linguaggio ed in seguito anche alla lettura e scrittura, abilità intimamente correlate al linguaggio.

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10. ASPETTI RELAZIONALI

Possiamo dire che grazie all’inserimento nella scuola normale, le persone con Sindrome di Down sono più conosciute socialmente in Italia che in qualsiasi altro paese. Chi lo afferma fa parte dell’Associazione Bambini Down, un’équipe costituita da medici, psicologi, assistenti sociali e genitori. Dal 1977 ad oggi ha visto una media di 210 famiglie all’anno ed in seguito numerose famiglie appartenenti all’area romana. In un lavoro precedente sono state descritte le diverse tappe dello sviluppo oggettuale di alcuni bambini Down osservati a casa in modo sistematico nei primi due anni. Ci si è avvalsi inoltre dei risultati dei colloqui con genitori ed insegnanti per verificare che lo sviluppo oggettuale delle persone con Sindrome di Down avvenga secondo le stesse tappe delle persone non Down ed avvenga in alcuni casi negli stessi tempi o anche prematuramente rispetto alla norma. In questo contesto sembra utile accennare brevemente al contributo teorico di Margaret Mahler che ha descritto le diverse fasi dello sviluppo normale del bambino, cercando di integrare gli aspetti dello sviluppo emozionale con quelli dello sviluppo motorio e cognitivo. “L’osservazione dei fenomeni motori, cinestetici e gestuali…… può permettere di intuire che cosa avvenga all’interno del bambino; in altre parole i fenomeni motori sono correlati agli eventi psichici. Ciò è particolarmente vero nei primi anni di vita” (M. Mahler, 1978). Essa descrive la nascita psicologica del bambino come un emergere dalla sfera simbiotica in cui è racchiuso con la madre all’inizio della vita. Il bambino alla nascita non sa bene la differenza tra sé e la madre, non sa ancora cosa appartenga a lui e cosa sia fuori a lui. Come in una simbiosi, sente di appartenere assieme alla madre ad un sistema onnipotente, “ad un’unità duale racchiusa in uno stesso confine”. C’è un’indifferenziazione, una confusione, una fusione con la madre e, solo gradualmente, il bambino comincerà a differenziarsi e a capire di essere separato. La comprensione di ciò sarà legata anche al suo sviluppo motorio. Con la crescita il bambino è sempre meno fuso e confuso con la madre. Se tenuto in braccio comincia ad irrigidirsi, spostandosi da lei per poterla vedere meglio e guardarla, differenziarsi da lei anche a livello intrapsichico. Nel caso di bambini con Sindrome di Down, ipotizziamo che alla minore indipendenza fisica legata all’ipotonia, possa corrispondere una maggiore e prolungata dipendenza psichica con gli aspetti di fusione e di onnipotenza. Nella simbiosi non è solo la fusione con la madre e il senso di onnipotenza che prevalgono. All’interno della fusione onnipotente simbiotica, la madre è per il bambino la fonte di tutto il bene (cibo e tenerezza) ma anche di tutto il male (mal di pancia e ogni sensazione sgradevole). Il senso di onnipotenza del bambino viene esteso alla madre che onnipotentemente diviene per lui la causa di tutto il piacere e di tutto il dispiacere.

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Il bambino Down a causa del suo ritardo motorio rimane più a lungo amalgamato non solo fisicamente ma anche mentalmente alla madre. Essa proverà una grande tenerezza per questo bambino che comincerà a sorriderle e a rassicurarla si essere un bambino. Questa tenerezza potrà coesistere a un senso di rifiuto più che naturale per questo figlio così diverso da quello atteso. Dunque l’ambivalenza della madre può contribuire a rafforzare a sua volta nel figlio un atteggiamento di ambivalenza all’interno della fusione. Anche in epoca successiva possono prevalere gli aspetti contradditori di questo periodo precoce: gli attacchi alla madre alternati ad una grande tenerezza. Si pensa che il protrarsi della fase simbiotica possa essere legato nel bambino Down agli aspetti di onnipotenza ed ambivalenza e al bisogno di toccare (la famosa affettuosità), che sono elementi che rischiano di emergere e perdurare, in alcuni casi determinare futuri problemi. I genitori possono vivere i primi passi del figlio con piacere ed incoraggiarlo nelle sue prime esplorazioni. Dice Margaret Mahler :“con l’impulso alla maturazione di funzioni autonome come il pensiero e soprattutto la deambulazione…… il bambino compie il più grande passo verso l’individuazione….. la deambulazione ha un grande significato simbolico sia per la madre che per il bambino: è come se il bambino che cammina avesse provato con il raggiungimento della deambulazione autonoma di essere entrato a far parte del mondo degli esseri umani indipendenti. L’aspettativa e la fiducia emanata dalla madre, che sente che il bambino è ora in grado di “farcela” nel mondo, sembrano rappresentare un elemento determinante per la sicurezza del bambino e forse rappresentano anche l’incoraggiamento iniziale a trasformare parte della sua magica onnipotenza nel piacere per la propria autonomia e per la propria crescente autostima”. Alcune madri possono colludere con i bisogni simbiotici del figlio e scoraggiare qualsiasi tentativo di separazione psichica. Esse possono valutare “il figlio della creatura vegetativa, tenendolo in uno stato di continua dipendenza simbiotica…. Non riescono a sopportare il graduale distacco del figlio all’inizio della fase di separazione-individuazione….. e scoraggiano ogni tentativo di funzionamento indipendente, invece di permettere e favorire una separazione graduale”. I primi passi del bambino non sono verso la madre, ma lontano da essa e questo può creare delle ansie che verranno recepite dal figlio. Per alcuni genitori il ritardo del linguaggio del loro bambino rappresenta un problema assai gravoso e può essere la causa di problemi per il suo sviluppo verso l’autonomia. Essi pensano che il loro figlio non parlando non possa capire e quindi rischiano di estendere il suo mutismo verbale ad un mutismo mentale; “è troppo piccolo per capire” e quindi è inutile qualsiasi forma di comunicazione. E’ come se pensassero che perpetuando il senso di fusione nel bambino che le loro parole, le loro mani, la loro intelligenza possano

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funzionare da Io ausiliare “tu non puoi capire, ma capiamo noi per te”, “tu non puoi farcela da solo, noi faremo tutto per te”, “tu ci tratti male, noi ti accettiamo così”. La reazione del bambino dipenderà anche dalla sua costituzione individuale. Una minoranza di bambini non svilupperanno in futuro la capacità di un funzionamento autonomo. In ognuno di questi casi si è verificata una situazione familiare molto adeguata. Altri bambini, la grande maggioranza, manifestano comportamenti adeguati socialmente e sono autonomi, con progresso nel linguaggio in concomitanza con l’inserimento all’asilo. Altri bambini cominciano precocemente a manifestare comportamenti che a noi sembrano preoccupanti per un futuro sviluppo, e che a volte vengono tollerati in modo sorprendente dai genitori i quali vengono a chiedere consulenza solo dopo la scuola elementare, dall’inizio della pubertà in poi. Si tratta di bambini che intorno ai 2 o 3 anni e in seguito possono alternare in modo onnipotente ed ambivalente comportamenti aggressivi soprattutto nei confronti della madre, a grandi effusioni. Sono descritti dai genitori come bambini che vorrebbero scappare, che non stanno mai fermi, ostinati e provocatori. Però sono anche affettuosissimi e così via. Nella fase di riavvicinamento che segue la fase di sperimentazione, Mahler descrive come caratteristica di questo periodo l’alternanza nel bambino “tra il desiderio di evitare la madre e quello di strale molto vicino in un conflitto tra il desiderio di farcela da soli e quello di partecipare all’onnipotenza materna…… I desideri del bambino sono ancora poco differenziati da quelli della madre che viene usata come un’estensione del sé, un processo che gli permette di negare la dolorosa consapevolezza di essere separato”. “Il conflitto di ambivalenze si evidenzia in un rapido alternarsi di comportamento di attaccamento e negativismo. Questo fenomeno può riflettere in alcuni casi il fatto che il bambino ha scisso in modo permanente il mondo oggettuale in buono e cattivo”. E’ stato molto interessante notare che nella grande maggioranza di questi casi, parliamo di bambini di due anni fino alla fine della scuola elementare, quando chiediamo ai genitori come si comporta il loro figlio a scuola e in casa d’altri, appare un’immagine diversa e più positiva confermata dai suoi insegnanti. Questi stessi “insopportabili” bambini inseriti tra compagni non Down, in ambiente con delle regole e rispettoso della loro identità ed individualità, funzionano in modo più maturo che a casa ed armonioso con quello dei coetanei. In questi casi si tratta di bambini che possono comunque avere una buna struttura e spesso bastano alcuni colloqui con i genitori per facilitare un comportamento del bambino più adeguato anche a casa. Questa grande capacità del Down di cambiare comportamento a seconda del contesto fin dai primi anni ed in seguito nell’adolescenza e nella vita adulta, ci ha fatto riflettere su quali possono essere i suoi meccanismi difensivi. Il bambino che all’asilo, è autonomo, mangia da solo, rispetta le regole, a casa ha comportamenti ostinati e onnipotenti, e che poi crescendo durante la

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scuola elementare è in grado di manifestare analoghe differenze di comportamento, è un bambino che cerca, con i conflitti tipici della fase di riavvicinamento, di affermarsi in modo adeguato come essere separato. Si può sentire soffocato a torto o a ragione da una situazione che non gli permette di crescere. E’ come se dicesse:” voi mi trattate da Down,e allora vi faccio vedere io”. Il suo meccanismo difensivo consiste soprattutto nell’uso onnipotente delle propria disabilità. Questa onnipotenza in alcuni casi può diventare ancora più dannosa della disabilità primaria. Pensiamo che si tratti di un aspetto che non appartiene necessariamente alla Sindrome, ma che è secondario ed è legato sia a fattori costituzionali che ambientali. I bambini e i ragazzi Down vivono in un mondo spesso assai più tollerante dei loro comportamenti inadeguati. Durante i primi tempi dell’inserimento si osservava frequentemente all’asilo il piccolo Down coccolato in braccio alla maestra, mentre i suoi compagni svolgevano delle attività, oppure si notava il suo entrare in classe come un evento da celebrare con toni eccessivi e i suoi disegni o le sue prodezze ammirate più di quelle dei compagni. Ora con l’esperienza questo atteggiamento degli insegnanti è più raro. Ma spesso fuori dall’ambiente scolastico il piccolo Down vive in un mondo assai più ovattato e protettivo di quanto non lo sia per i suoi coetanei. Dovunque vada è spesso il suo posto d’onore, a casa, con gli amici di famiglia e in qualsiasi contesto sociale in cui si muova. Sappiamo come il bambino Down possa essere accattivante e ispirare una tenerezza particolare. Ci si può accorgere allora che a lui quasi tutto è permesso e deve fare meno fatica dei suoi fratelli o dei suoi amici per essere e rimanere al centro dell’attenzione. Abbaiamo visto i bambini di tre anni, socievoli con i compagni comportarsi con un’insolita curiosità o molta cautela alla vista di un altro bambino Down incontrato per la prima volta in Associazione. Cosa può significare per lui questa diversità? Certamente qualcosa di molto diverso da quello che significa per i suoi genitori. Nei suoi primi anni può significare per lui qualcosa che gli permette di conquistare un mondo con minori ostacoli di quanti non ne incontri suo fratello o i suoi compagni. Ancora può non aver capito che la sua diversità è una disabiltà, al contrario si tratta forse di qualcosa di prezioso che i suoi fratelli possono invidiare. Abbiamo visto alcuni fratelli gelosi farsi venire qualche disabilità per conquistare un maggiore interesse da parte dei genitori. Un fratellino di 4 anni ha chiesto. “ Io quando divento Down posso dormire con voi?”. Si potrebbero fare molti esempi in questo senso. Se dà uno spintone ad un amico o lo abbraccia con insistenza, il compagno potrà tollerare più di quanto non farebbe di fronte ad un atteggiamento identico in un compagno non Down. In una ricerca del 1984 su 110 ragazzi Down inseriti alle elementari nella città di Roma, gli insegnanti usavano nell’88% dei casi, le parole disponibile o affettuoso o gentile nel descrivere l’atteggiamento dei compagni nei confronti del Down. Nel 12% dei casi in cui il ragazzo Down manifestava comportamenti onnipotenti, l’atteggiamento dei compagni era descritto come paziente, tollerante, indifferente. In una ricerca attuale nell’area di Roma i

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ragazzi con problemi comportamentali sono scesi all’8% circa. Questa differenza può essere dovuta ad una maggiore esperienza da parte degli insegnanti su come intervenire in modo adeguato. Nonostante la presenza di questi aspetti a rischio del suo sviluppo, il Down può crescere in modo soddisfacente. Una madre racconta che suo figlio di 10 anni stava sdraiato sul divano a guardare la TV invece che mettere in ordine la sua stanza. “Mamma non posso” “Perché?” “Perché sono diverso” “Cioè?” “Non sai che sono Down?”. La madre replica:”tu sei Down quando pare a te”. Nei colloqui con i genitori in Associazione questo aspetto emerge frequentemente, e spesso i genitori usano l’espressione “se ne approfitta” nel descrivere i comportamenti inadeguati dei loro figli. Questo aspetto nel caso di questo ragazzo si esaurisce con uno scambio umoristico con la madre; ma può essere alla base di comportamenti che in futuro possono diventare inadeguati, quando i genitori interpretano i comportamenti del figlio come funzione della Sindrome e reagiscono con impotenza. Si ipotizza che un perdurare eccessivo degli aspetti infantili del Down, sia molto legato ad un ritardo dell’acquisizione del senso di separatezza e quindi del senso di identità. Come dicevamo prima, finchè è piccolo, essere Down può significare per lui qualcosa di prezioso, ma crescendo e rafforzandosi la sua individualità, comincia a rendersi conto della sua inadeguatezza rispetto agli altri. Per esempio si sono osservate delle reazioni diverse in bambini Down, dai 6 agli 8 anni, nei confronti del fratello minore da cui si sentivano superati riguardo certe competenze. Alcuni reagivano assumendo il ruolo di genitori protettivi ma molto severi, altri manifestando una grande indifferenza nei suoi confronti, altri diventando aggressivi, altri ancora non erano in grado e così via, ognuno a modo suo. La capacità di crescere in modo autonomo, cioè differenziarsi psichicamente dai propri genitori e quindi avere un’autostima, è per tutti, in particolare per il Down legato al senso di identità. Problemi di tale genere e quindi autostima sono alla base della sofferenza di chiunque affronti una psicoterapia. Non crediamo che esista un solo Down talmente disabile da non capire di esserlo. Eppure molti genitori dicono che il loro figlio non lo sa. E’ come se pensassero “tu non hai bisogno di saperlo, lo so io per te” perpetuando con questa negazione la fusione simbiotica dell’infanzia. Pensando di proteggerlo, non gli permettono di assumersi la propria identità, tenendolo immerso in un mondo di bugie. Un ragazzo Down ha chiesto in Associazione due libri sulla Sindrome; sua madre è convinta che lui non sappia di averla. Il ragazzo infatti, colludendo con i genitori, dice che i libri gli servono per fare lezione ad un suo amico Down. Pensiamo che i trucchi servano solo a mantenere confusioni che sicuramente non aiutano il ragazzo ad avere una chiara immagine di sé e quindi ad accettare la propria disabilità. Quando un bambino chiede perché gli altri leggono o scrivono meglio di lui, a noi sembra che sia rispettoso rispondergli Parlandogli serenamente delle sue difficoltà rispetto a certi problemi, naturalmente descrivendogli le sue buone capacità. I genitori che dicono al

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figlio “tu hai la Sindrome di Down” lo rassicurano che hanno loro accettato la sua realtà con cui lui fa i conti da sempre. Significa quindi rafforzare il suo senso di identità e permettergli un rapporto più lucido e certamente più sereno con se stesso. A volte questo non avviene, e allora la negazione dei genitori diventa la negazione dei figli i quali non avendo un’immagine chiara e quindi accettabile della propria disabilità, rischiano di immergersi in un mondo di fantasie onnipotenti sul loro presente e sul loro futuro, allo stesso tempo facendo i conti con una quotidianità che può divenire sempre più inaccettabile. Da questo possono apparire i primi segni di una depressione che in futuro può manifestarsi anche in modo drammatico. Il contrasto tra l’immagine onnipotente e infantile di un sé “astronauta o fidanzato di Ornella Muti”, e un è disabile incapace di allacciarsi le scarpe, può portare a una pena psichica che ha la stessa matrice della depressione che può nascere in tutti noi. Ma abbiamo notato, in alcuni casi, una differenza molto interessante fra la depressione di un Down e quella di un non Down. Abbiamo osservato che certi sintomi depressivi nel soggetto Down nell’età puberale, possono essere più legato al contesto immediato e quindi più risolvibili. I genitori vengono con richieste di aiuto in concomitanza con l’apparire dei primi segni sessuali secondari. La preoccupazione di alcuni (priva di fondamento) è che la sessualità possa irrompere senza un sufficiente controllo dell’intelligenza. Come conseguenza può esserci da parte loro un tentativo di prolungare l’età prepuberale e ostacolare le esigenze del figlio che sono molto simili a quelle dei suoi coetanei: uscire da solo, avere le chiavi di casa, vedere gli amici, innamorarsi, avere il motorino e così via. A Roma vi sono due ragazzi Down che girano in motorino. Le modalità difensive di un adolescente Down che si sente ostacolato possono essere più improvvise, più drammatiche ma anche più reversibili di quelle di un adolescente non Down. Un ragazzo Down ha minori scelte di un suo compagno. In qualche modo può improvvisamente smettere di comunicare, diventare molto “pigro” come dicono i genitori, rifiutarsi di uscire, chiudersi in camera sua, strapparsi i vestiti, passare le ore a letto, parlare solo con un amico immaginario, non mangiare e farsi accudire di nuovo come un bambino piccolo. I genitori di un adolescente vengono in Associazione perché il loro figlio da alcuni mesi aveva smesso di parlare e di ascoltare. Pensavano che fossero degli incomprensibili comportamenti Down. Mentre si parlava coi genitori, il ragazzo è andato in segreteria e un’assistente sociale lo ha pregato di aiutarla perché doveva fare in fretta delle fotocopie e aveva effettivamente bisogno di aiuto. Il ragazzo investito di un ruolo adulto, non solo ha aiutato con molta efficienza, ma ha conversato a lungo con l’assistente sociale, con grande stupore da parte dei genitori. In un altro caso, dei genitori sono arrivati in Associazione preoccupati perché da una settimana la figlia di 14 anni si rifiutava di andare a scuola, non si alzava dal letto dove consumava i suoi pasti e teneva sempre la televisione accesa, rifiutando ogni forma di comunicazione. Essi temevano un deterioramento mentale legato alla Sindrome e si sentivano impotenti. Nel

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colloquio con loro è emerso un problema, e cioè che la ragazza da tempo insisteva per andare a scuola da sola come i suoi compagni (20 minuti a piedi), ma la madre insisteva a volerla accompagnare. La ragazza aveva reagito come se dicesse “mi trattate da bambina?Allora divento piccola”. Il giorno successivo la ragazza è andata a scuola da sola. Qualche volta le persone Down sono costrette ad artifici drammatici e ad esasperare la propria disabilità quando non si sentono rispettati nei propri aspetti adulti. Un ragazzo che doveva fare la spesa si è imparato a memoria la lista che la madre gli aveva scritto per non fare la figura di doverla leggere davanti al negoziante. Questo ragazzo come molti dei suoi coetanei è costretto a fare grandi sforzi per essere trattato con il rispetto dovuto alla sua età. Pensiamo che l’intensità drammatica delle difese di alcune perone con Sindrome di Down possa essere collegata alla difficoltà di esprimere altrimenti la propria sofferenza e quindi rappresentare necessariamente un problema psichiatrico irreversibile o comunque legato agli aspetti genetici della Sindrome. In un convegno sulla Sindrome di Down in Inghilterra nel 1984 un esperto di sessuologia, statunitense, parlò del comportamento sessuale delle persone Down. Si trattava di persone in istituti speciali. Il loro comportamento era descritto come quello di animali pazzi in calore; le donne, soprattutto durante le mestruazioni, venivano narcotizzate per evitare comportamenti incontrollabili. Vorremmo brevemente riportare i dati di una ricerca sul comportamento sessuale di 50 adolescenti inclusi in una scuola media di Roma. Abbiamo usato questionari scritte e interviste a 70 insegnanti; erano 50 classi di 20 allievi da 12 ai 15 anni in cui un Down era inserito (22 maschi e 28 femmine). Il questionario riguardava vari aspetti del comportamento dei ragazzi nei confronti dei compagni e viceversa: due maschi su 28 erano descritti come particolarmente fastidiosi e con tendenza ad abbracciare le ragazze in modo insistente e provocatorio. Ambedue i ragazzi hanno smesso in seguito all’intervento dell’insegnante; nessuno degli altri ragazzi e ragazze mostrava comportamenti inadeguati. Delle 22 ragazze, 18 avevano le mestruazioni ed erano completamente autosufficienti e discrete nella gestione dell’igiene personale. Non c’era nessuna differenza significativa nel comportamento emozionale durante il ciclo mestruale tra le ragazze Down e le altre. Anche qui, l’attitudine generale dei compagni era descritta dagli insegnanti come paziente e disponibile. In interviste fatte a 75 madri sul comportamento delle figlie adolescenti durante le mestruazioni, tutte hanno esitato a rispondere riflettendo sul problema per poi dire:”forse un po’ depressa o un po’ nervosa”, finendo poi col parlare del proprio umore. L’86% delle ragazze erano autosufficienti. Riassumendo, abbiamo verificato che nelle scuole di Roma, solo una piccola minoranza di bambini e giovani adolescenti manifestano problemi relazionali (l’8% circa). Quando sorgono problemi, può essere utile affrontarli con lo

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stesso approccio clinico che si usa di fronte a problemi analoghi in persone non Down. Tuttavia ipotizziamo che in ogni caso siano presenti alcuni problemi potenziali, alcuni elementi a rischio che nell’adolescenza e nella vita adulta possono riemergere dalla prolungata fase dell’onnipotenza simbiotica e dalle successive fasi dello sviluppo verso l’individuazione. In particolare abbiamo accennato alla fase di riavvicinamento con la caratteristica ambivalenza, che in alcuni casi può riflettere una scissione permanente dell’oggetto. Nei primi anni i bambini con Sindrome di Down possono fare un uso intelligente della propria disabilità come guadagno secondario. Con la crescita verso l’individuazione e con il raggiungimento di una maggiore consapevolezza, le persone Down possono esasperare in modo drammatico la propria disabilità, se sentono che le proprie esigenze verso una crescita autonoma non vengono rispettate. Un aspetto importante, legato a fenomeni regressivi, è la confusione sul senso di identità, soprattutto in presenza di un ambiente svalutante. Negare che la persona Down possa capire di esserlo, è un esempio di come sia facile svalutare la sua intelligenza relazionale e la sua esigenza di capire.

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11. PSICOPATOLOGIA E RIABILITAZIONE

Psicopatologia del ritardo mentale

La psicopatologia si occupa dello studio delle organizzazioni mentali soggiacenti ai sintomi, alle condotte, alle narrazioni, alla sofferenza mentale direttamente espressa da un individuo con funzionamento mentale deviante (Lang,1975); ma essa si occupa anche della coerenza di queste organizzazioni, cioè della loro struttura. Essa è quindi volta alla definizione di una organizzazione di insieme, di un modo complessivo di funzionamento, in un determinato periodo dello sviluppo. Diversi modelli patologici si differenziano in rapporto alla natura dei processi di inferenza dal piano clinico-sintomatologico a quello psicopatologico-strutturale. Questo tipo di analisi operante nella psichiatria dell’età evolutiva, ma con alcune importanti limitazioni. Se è stata classicamente ammessa l’importanza di un’analisi psicopatologica dei disturbi emotivo-affettivi (psicosi, nevrosi, i quadri borderline, ecc.), i disturbi dell’intelligenza, ed in particolare il ritardo mentale, sono rimasti spesso ai margini di questa indagine. E’ divenuta così operante una distinzione tra i disturbi emotivo-affettivi (da taluni definiti disturbi mentali) e disturbi d’intelligenza, quasi che essa non fosse una funzione mentale. I soggetti ritardati sono stati almeno in parte privati di uno spazio mentale nel quale sono situate le emozioni, gli affetti, le motivazioni, ecc.; questo nonostante già negli anni ’30 Vygotsky e Lewin sottolineassero come il ritardo mentale coinvolge non solo l’intelligenza, ma la personalità nel suo complesso. Un importante contributo alla comprensione psicopatologica del ritardo mentale è venuto, a partire dai primi anni ’70, da autori di scuola francese (Misès, 1975). E’ stata così codificata l’esistenza, accanto ad altre strutture psicopatologiche già definite (nevrotica, psicotica, borderline, ecc.), di una struttura di personalità tipica del soggetto con ritardo mentale, che possiamo definire struttura deficitaria. Quello che conferisce specificità alla struttura deficitaria è a nostro avviso il ruolo cruciale del disturbo cognitivo, che rappresenta la chiave di volta intorno al quale ruota l’intera organizzazione affettiva e relazionale del soggetto ritardato (Marcheschi). L’analisi psicopatologica deve quindi porsi i seguenti obiettivi:

a) proporsi una caratterizzazione dell’organizzazione cognitiva, nei suoi diversi livelli di funzionamento;

b) deve poi individuare l’effetto di tale organizzazione cognitiva sul più

generale equilibrio della personalità;

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c) valutare come tale organizzazione condiziona il rapporto (bidirezionale) tra il soggetto ritardato ed il mondo che lo circonda;

d) deve infine comprendere come questa struttura deficitaria si evolve

nel tempo, in rapporto ai diversi appuntamenti (cognitivi, affettivi, motori, linguistici) ed alle diverse transizioni di fase.

- L’organizzazione cognitiva nelle diverse forme di ritardo mentale, e nelle diverse fasce di gravità, appare caratterizzata da una maggiore caoticità: da un lato la struttura cognitiva è più indifferenziata, meno articolata e specializzata, dall’altro l’equilibrio tra le diverse componenti è alterato, con alcune abilità cognitive che tendono a prevalere sulle altre (Levi e Musatti, 1994). Questo può implicare una difficoltà nelle coordinazione delle diverse componenti della struttura, i cui rapporti intrinseci risultano deformati: coesistono in modo disordinato procedure di ragionamento che fanno riferimento a diversi modelli di sviluppo, con incoerenti oscillazioni o imprevedibili regressioni. A questa caoticità strutturale corrisponde un’incompetenza funzionale, con conseguente cattiva utilizzazione delle risorse disponibili; il soggetto con ritardo mentale scarsamente capace di utilizzare il proprio apparato cognitivo come strumento di analisi e rappresentazione della realtà, in quanto le rappresentazioni che costruisce non gli consentono la edificazione di una rete di significati in grado di dare coerenza alle sue esperienze interne ed esterne. Peraltro tali disarmonie strutturali non sono presenti nella stessa misura nei diversi quadri di ritardo mentale; l’analisi della coerenza strutturale trasversale (tra le diverse linee di sviluppo) e longitudinale (tra le diverse fasi evolutive) rappresenta quindi un parametro di analisi di grande valore prognostico. - L’effetto del disturbo cognitivo sull’organizzazione di personalità del soggetto con ritardo mentale può essere espresso dal concetto di “confusione”: confusione nella rappresentazione del mondo esterno, ma anche nell’organizzazione del mondo interno, quale emerge ad es. dai test proiettivi. Questi protocolli mostrano l’esistenza di temi poco elaborati che fanno riferimento a diversi livelli di sviluppo, con difficoltosa definizioni delle pulsioni lipidiche ed aggressive, ambivalenza nei confronti del mondo esterno, timori relativi all’integrità corporea, fantasmi di ferite, frammentazione di morte; tutto questo in modo più o meno caotico, ma con un livello di elaborazione simbolica molto primitivo. L’intensità di questi aspetti è variabile da soggetto a soggetto, anche in rapporto alla gravità del disturbo cognitivo; quello che è comune è la precarietà della struttura, sottoposta a sovvertimenti in rapporto ad eventi interni ed esterni. - Il rapporto con il mondo è direttamente influenzato da questa organizzazione cognitiva. Oggi si sa come sin dalle prime fasi della vita il bambino stabilisce, in virtù delle competenze di cui dispone, un rapporto con il mondo esterno molto più realistico e fedele di quanto non si ritenesse. Le precoci competenze cognitive, motorie, percettive, ecc. sono sin dall’inizio usate per stabilire con il mondo un rapporto di conoscenza, basato su

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previsioni ed inferenze che riguardano sia l’universo fisico (“se muovo la mano il sonaglio farà rumore”), sia l’universo relazionale (“se piango la mamma verrà da me”). Ogni ripetizione che confermi la previsione attesa è fonte di un piacere, giustamente definito epistemico, che rappresenta un’importante difesa “cognitiva” in grado di rafforzare la fiducia del bambino nelle proprie capacità di rapportarsi alla realtà che lo circonda. Tutto questo implica non solo un’integrità del proprio apparato conoscitivo, ma anche un ambiente che si “lasci conoscere”, che sia cioè sintonizzato sulla lunghezza d’onda del bambino, in modo da essere prevedibile senza essere monotono; entrambi questi requisiti possono essere carenti nel bambino con ritardo mentale. I suoi strumenti mentali non gli consentono una sufficiente presa sul mondo; ma anche per il mondo esterno è più difficile stabilire un rapporto sintonico con un bambino con ritardo mentale, sia per la compromissione dei suoi strumenti interattivi ( ad es. la soglia di attivazione), sia per le complesse reazioni che il rapporto con un bambino ritardato induce in chi si prende cura di lui (ed in particolare nella madre). Ne consegue che la coerenza, l’attendibilità, la prevedibilità del mondo esterno può risultare in qualche modo ridotta; questo rappresenta un possibile attacco alle possibilità da parte del bambino di sperimentare la sua “presa cognitiva” sul mondo. I tre aspetti ricordati in precedenza rappresentano tre assi per la comprensione della specificità della struttura deficitaria; ma tale struttura si interseca con la dinamica dello sviluppo, venendone modificata, deformata, in rapporto ai diversi appuntamenti evolutivi. Si può parlare di strutture deficitarie che si susseguono ne tempo, sovrapponendosi in modo scarsamente organizzato, data la scarsa sincronia tra lo sviluppo cognitivo, pulsionale, sociale, ecc., realizzando una crescita per così dire di tipo neoplastico.

Psicopatologia della Sindrome di Down

Il quadro delineato rappresenta, a nostro avviso, una cornice interpretativa generale, all’interno della quale può essere inserita la psicopatologia della Sindrome di Down. Non sono tuttavia ancora ben chiari i termini di differenziazione tra bambini Down e bambini con uguale ritardo mentale, ma di diversa origine. Purtroppo gran parte dei lavori della letteratura sui soggetti Down hanno utilizzato campioni di controllo rappresentati da bambini normali pareggiati per età cronologica o mentale, e questo impedisce di valutare con certezza l’effetto specifico della Sindrome, sia in termini biologici (la cromosomopatia) che psicodinamici, a carico della famiglia del soggetto stesso. Appaiono peraltro particolarmente interessanti alcuni lavori del gruppo di ricerca coordinato da Dante Cicchetti, che mostrano come, a differenza di altri quadri di ritardo mentale, lo sviluppo cognitivo del bambino Down appare maggiormente coerente ed organizzato sia in termini trasversali che longitudinali, almeno nelle prime fasi evolutive peraltro sulla coerenza dello

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sviluppo successivo, e sui fattori (ambientali, emotivi, affettivi) che possono alterare tale coerenza. Maggiori incertezze restano. L’opinione corrente, ma anche i lavori più tradizionali sulla psicopatologia dei soggetti Down, sembrano essere dominati dalla concezione che alla eziologia comune ed alle analogie morfologiche esteriori debbano corrispondere analogie comportamentali e psicopatologiche. In realtà tale variabilità, affettiva e cognitiva, dei soggetti Down appare molto ampia, ed il disturbo cromosomico appare solo uno dei parametri in gioco, nonostante molti pensino che il soggetto Down si esaurisca nel cromosoma in più. Indubbiamente il livello cognitivo, ed in minor misura le capacità attentive, condizionano l’espressività comportamentale ed il temperamento dei bambini Down. La reattività nei confronti degli stimoli esterni, ma anche l’impatto emotivo da essi suscitato è legato alla possibilità di analizzare ed interpretare gli eventi, ed ai tempi che questa analisi richiede. E’ stata dimostrata una concordanza tra livello di sviluppo cognitivo, qualità del gioco simbolico ed espressione delle emozioni. Inoltre alcuni dati fanno pensare all’esistenza di specifiche difficoltà nella processazione visiva degli stimoli, che possono condizionare la reattività del bambino, ed anche la sua espressività emotiva (ad es. nel riconoscimento delle espressioni facciali delle figure di riferimento).

L’intervento precoce

Possiamo riconoscere alcuni momenti cronologicamente distinguibili ma necessariamente integrati l’un l’altro. Un primo intervento è orientato sulla coppia madre-bambino (o genitore-bambino). Esso pone al centro l’osservazione del bambino e della sua relazione con la madre; questo consente all’operatore di comprendere le modalità di funzionamento cognitivo e relazionale del bambino, per poi tradurre tali conoscenze alla madre e favorire in lei una visione più realistica del figlio, ampliando le sua capacità di lettura delle strategie interattive, per favorire, anche su un piano di realtà, un migliore incontro tra gli elementi della diade. Il coinvolgimento della famiglia, ed in particolare della madre, consente a quest’ultima di costruirsi un’immagine del figlio meno deformata dai fantasmi; la relazione può essere più diretta, attraverso la modulazione indotta da una terza persona. Lo scopo di questo coinvolgimento deve essere appunto la conoscenza sempre più accurata di un bambino difficile da conoscere e da capire. Questo significa mettere inizialmente in secondo piano lo scopo, l’obiettivo, la fantasia riparativa, che se è in grado di attenuare la ferita narcisistica, rischia di lenire la dimensione depressiva in un agire, volto ad ottenere più che a conoscere. L’operatore ha in questo caso una funzione delicatissima, che è quella di favorire un processo di attaccamento nella sua fase più critica, senza porsi come un’alternativa della figura materna.

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Un secondo livello di intervento può essere definito “ecologico-ambientale”, ed è rivolto a favorire nel bambino un investimento cognitivo. Esso è mirato a costruire quella sorta di fiducia di base nelle proprie capacità di comprendere il mondo. Questo viene perseguito ad es. attraverso situazioni che favoriscano nel bambino Down la possibilità di confrontarsi con situazioni sufficientemente stabili, anche ripetitive, che possano consentirgli un’inferenza, una previsione, che attivino un ricordo; in una parola situazioni attendibili, che incidano sull’atteggiamento intrinseco del bambino nei confronti dell’attività mentale. Questo implica una specifica attenzione alle condizioni ambientali, agli spazi, agli oggetti dell’intervento riabilitativo, in modo da creare una realtà prevedibile, sia cognitivamente che affettivamente; tali eventi possono essere vissuti insieme alla madre, la quale deve essere messa in grado di poter leggere i comportamenti del figlio, dar loro un significato. Questo intervento deve favorire una promozione e modulazione del focus attentivo, e della soglia di reattività, particolarmente nel bambino Down, ma deve anche fornire la possibilità di creare “entusiasmo”, partecipazione affettiva alle attività (qualità spesso carente nei giochi spontanei dei bambini Down). Un momento più specifico riguarda quegli interventi che possiamo definire “strutturali”, e che sono volti alla costruzione nella mente del bambino di strutture di pensiero più evolute. L’intervento riabilitativo cognitivo deve rispettare alcuni requisiti di ordine generale. L’alternativa tra apprendimenti meccanici ed automatici ed apprendimenti profondi è in realtà un falso problema: se apprendere significa elaborare attivamente un contenuto in modo da poterlo inserire in una rete di significati, il problema è quello di favorire la creazione di una rete anche nel soggetto Down, in rapporto alle caratteristiche ed al livello del suo funzionamento cognitivo. Un quarto intervento avviene invece prevalentemente in un contesto di piccolo gruppo, ed è volto a favorire un trasferimento ed un’applicazione in un contesto sociale di acquisizioni precedenti. Tale contesto appare vantaggioso rispetto ad un intervento individuale per la maggiore mobilità della situazione di trattamento, per le modificazioni ambientali attivate dagli altri bambini, per la minore tendenza dell’adulto a sostituirsi al bambino. Il gruppo si pone come applicazione e scambio dell’appreso, nel quale all’imitazione bruta viene associata l’identificazione. Si ritiene che, come per tutti gli altri bambini, la condivisione di uno spazio di attività, di un progetto di gioco, rappresenti un fattore stimolante e motivante, non soltanto sul piano strettamente affettivo e relazionale,,ma anche su quello cognitivo. Appare evidente come tale approccio si differenzi dal ricorso a tecniche martellanti di apprendimenti meccanici, settoriali, spesso scarsamente articolati tra loro, e quindi fortemente contestualizzati; il bambino Down, in virtù di meccanismi imitativi particolarmente sviluppati, sembra prestarsi a tali interventi meccanici, che da un lato possono limitare la sua partecipazione attiva e consapevole al trattamento, deprimendo l’investimento del suo strumento mentale, dall’altro possono dare al riabilitatore l’illusione di poter

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plasmare a suo volere il comportamento del bambino, negando la sua depressione, o addirittura canalizzando la sua aggressività.

Integrazione sociale extrascolastica ed extralavorativa L'espressione "integrazione sociale" nel suo significato più ampio comprende sia l'integrazione in famiglia che quella scolastica. In questa sezione ci limitiamo a considerare solo alcuni aspetti dell'integrazione sociale e cioè quelli che non si realizzano né in famiglia, né a scuola, né al lavoro. A partire soprattutto dagli anni attorno al 1970 i Comuni (in quantità sempre crescente) organizzano Centri estivi (in località dello stesso comune e con frequenza diurna) o Soggiorni climatici residenziali per tutti i minori, compresi quelli con disabilità. Per i ragazzi queste possono essere ottime occasioni di socializzazione. Fondamentale è la preparazione del personale. Ideale è la situazione in cui vi è anche la supervisione di operatori psicopedagogici o psicologi dello sviluppo e dell'educazione. Si tratta di una realtà così diffusa attualmente e acquisita da non aver bisogno di particolari commenti. Questa è una ottima occasione anche per i genitori. Vivere lontano dal proprio figlio può inizialmente creare un senso di vuoto (soprattutto nella madre), ma, con il passare del tempo, permette anche di "riprendere" gli aspetti della propria identità che in qualche modo erano stati offuscati dalla costante attenzione ai problemi del figlio e in qualche caso può aiutare a trovare uno spazio temporale e mentale in cui la coppia dei genitori può avere più tempo e disponibilità per sé e per il rapporto di coppia (e, se ci sono, per gli altri figli). L'articolo 23 della legge 104 del 5 febbraio 1992, "legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate", è dedicato alla "rimozione di ostacoli per l'esercizio di attività sportive, turistiche e ricreative". Notevoli sono stati i progressi anche in questo campo. Ad esempio è frequente trovare nelle piscine pubbliche o sui campi da sci delle persone con ritardo mentale. C'è da augurarsi che si diffondano sempre di più altre iniziative, ad esempio quelle relative alla pratica delle attività tipiche dell'atletica (corse veloci e di resistenza, salti, lanci ecc.) e di varie altre attività sportive individuali o di gruppo. L'utilità della pratica sportiva anche per i giovani con sindrome di Down è stata evidenziata anche in una ricerca condotta da Ruiz, Gil, Fernandez-Pastor, de Diego e Peran (2003) a Malaga. Lo studio ha valutato i benefici ottenuti nell'arco di quattro anni di attività sportiva. Già alla fine del primo anno è stata rilevata una opportuna perdita di peso grasso e un aumento di quello muscolare e osseo (in particolare nelle femmine). Ovviamente sono migliorate anche le prestazioni sportive rispetto a quelle di partenza (resistenza, velocità, salti, lanci ecc.). Effetti positivi vi sono stati anche relativamente all'autostima, all'autonomia, all'impegno, alla perseveranza e allo spirito di gruppo.

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12. LO SVILUPPO DELL’AUTONOMIA

Perché educare all’autonomia

Tutto lo sviluppo e la crescita del bambino può essere visto come un graduale passaggio dall’indipendenza verso l’autonomia che diviene completa quando il bambino diventa adulto e cittadino a tutti gli effetti, soggetto e oggetto dei diritti, capace di lavorare ed avere rapporti paritari con gli altri. Nella crescita verso l’autonomia, un bambino handicappato incontra due tipi di ostacoli: da una parte le difficoltà legate al suo deficit, dall’altra gli atteggiamenti di paura e le ambivalenze dell’ambiente che interferiscono con il suo grado di autonomia potenziale, raggiungibile pur nella situazione di svantaggio. Spesso i genitori, ma anche la gente in genere che il bambino con handicap incontra, talvolta gli stessi operatori e insegnanti, sviluppano nei suoi confronti un atteggiamento assistenziale e protettivo che ne limita l’acquisizione di indipendenza. Sembra quasi che si voglia compensare con maggiore effetto ed atteggiamenti più permissivi il disagio per il deficit, o che per esso, il bambino venga ritenuto complessivamente incapace e quindi bisognoso di assistenza e di qualcuno che operi al posto suo in ogni occasione. Tra coloro che si occupano di ritardo mentale si è fatta strada, in questi anni, la sempre più radicata convinzione dell’importanza dell’educazione all’autonomia per lo sviluppo di una persona con handicap mentale e per il suo inserimento sociale. Non sfugge a nessuno come sia più facile, già in scuola materna, inserire un bambino handicappato, se questi ha una propria autonomia nell’andare in bagno o nel mangiare, se sa rispettare delle regole e come spesso la conquista di queste abilità sia indipendente dalle difficoltà che egli ha su apprendimenti più didattici. E ancora come una buona autonomia personale sia poi, andando avanti, prerequisito fondamentale per l’inserimento sociale e lavorativo di giovani e adulti con handicap mentale. Spesso una persona tale ha potenzialmente le stesse capacità di autonomia di una persona normale, ma lo sviluppo di esse viene subordinato rispetto al raggiungimento di abilità didattiche o ritenuto poco importante. Per tutti questi motivi, nell’approccio con le famiglie, l’accento sull’educazione all’autonomia viene ormai posto molto precocemente, dal porre in mano il biscotto al bambino d pochi mesi al farlo giocare sul pavimento, all’inserimento precoce in strutture educative e poi via via dalla cura delle propria persona alle prime esperienze fuori casa senza la famiglia. Molte conquiste però, soprattutto nell’ambito dell’autonomia esterna, sono difficilmente raggiungibili in ambito familiare soprattutto quando tale problema viene posto in adolescenza, momento in cui i ragazzi handicappati,

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così come gli adolescenti normali, iniziano a manifestare desiderio di distacco dai genitori e mal sopportano le loro richieste. Al tempo stesso anche per i genitori riconoscere e accettare che i loro figli siano diventando grandi è spesso difficile e tale processo va in qualche modo sostenuto. Il tema quindi dell’educazione all’autonomia assume allora un particolare risalto nell’età adolescenziale.

Adolescenza e sviluppo in soggetti non Down

Adolescenza (dal latino adolesco) significa ‘crescita, sviluppo, espansione’; rappresenta dunque il momento in cui ciò che esisteva già prima si espande e si sviluppa. Il giovane adolescente alla ricerca di un proprio equilibrio psico-fisico viene a confrontarsi sostanzialmente con tre problematiche:

• La coscienza e l’identità del corpo, che riesce a raggiungere attraverso il passaggio dallo schema corporeo inconscio all’immagine del corpo operatoria e che è influenzata dai cambiamenti dovuti allo sviluppo del sistema genitale evidenti anche nella sfera affettivo-emotiva;

• Il riconoscimento delle proprie capacità senza il quale potrebbero

sussistere un potenziale rischio di insuccesso scolastico, difficoltà nell’affermazione di sé e senso di inadeguatezza;

• L’assunzione di un ruolo sociale.

Il sé, la società e l’amore diventano tre contesti che, da questo momento in poi, caratterizzeranno la sua vita. Il superamento del problema sociale avviene con minor problematicità se l’adolescente ha sviluppato, negli anni precedenti, un interesse verso gli altri. Il ruolo della famiglia in questo ambito è fondamentale: ogni bambino deve sentirsi membro della famiglia con gli stessi diritti e doveri degli altri componenti. E’ in questo modo di vivere che nascono spontaneamente le esperienze di collaborazione, fiducia e responsabilità, altruismo, aiuto e cooperazione. Le funzioni umane sono strutturate per legare l’individuo alla società e inserirlo nei rapporti interpersonali; spesso gli insuccessi, gli errori e i conflitti nelle relazioni con gli altri hanno la loro origine nella carenza del sentimento sociale. Adler sottolinea che, quando il sentimento sociale è insufficiente, l’individuo può subire disfunzioni che si ripercuotono in alcuni organi, soprattutto quelli che normalmente reagiscono con maggiore sensibilità alle tensioni psichiche. Le ghiandole endocrine ad esempio sono influenzate dal mondo esterno e rispondono alle impressioni psichiche connesse allo stile di vita dell’individuo.

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Il superamento del problema del sé e della propria identità viene favorito da una maggiore conoscenza e coscienza del proprio corpo e delle sue potenzialità. A proposito del sé, Damasio ha elaborato queste considerazioni:”Per ogni persona chi si conosce vi è un corpo,….. non si sono mai incontrate persone senza corpo,……. Ad ogni corpo si accompagna un solo sé”. Secondo questo studioso, dunque, sé e corpo sono aspetti inscindibili, potremmo dire ‘incorporati’; intervenendo sulla corporeità con ogni probabilità si genera armonia nel sé, favorendo l’unitarietà della persona. Inoltre, secondo R. May il sé rappresenta un centro di forza presente in ogni essere umano, dal quale attingere energia e valore: va consapevolizzato per giungere alla propria autorealizzazione. Il primo passo da compiere consiste nella presa di coscienza del proprio corpo: le scoperte relative alle sensazioni corporee sono elementi essenziali; è dal corpo che partono i primi suggerimenti alla psiche, pertanto è importante imparare ad ascoltarlo ed interpretarlo. Come giungere all’autorealizzazione? La risposta è contenuta nella visione umanistica di Carl Rogers, psicologo e psicoterapeuta americano appartenente alla corrente psicologica umanistico-esistenziale. Egli afferma che:”L’individuo rappresenta un centro vitale di aspirazioni allo sviluppo e alla realizzazione piena delle proprie potenzialità; esso è inoltre un campo di esperienza ed ospita nel sé il luogo del riconoscimento dell’esperienza come realmente vissuta dal soggetto che se ne appropria come parte integrante di se stesso”. L’espressione autentica del sé non va espressa ma sollecitata: questa è la sfida dell’uomo del terzo millennio chiamato ad attivare il proprio potenziale individuale in sintonia con l’ambiente esterno e nel rispetto degli altri. L’espressività corporea più spontanea ed autentica è quella del bambino che non è stato ancora sottoposto a condizionamenti e stereotipi; può rimanere tale solo se non viene “imbevuta” con eccessive intellettualizzazioni e complessualità. Riguardo all’amore è opportuno che l’adolescente impari, anzitutto, ad accettare ed amare se stesso, a partire dalla propria anima e dal proprio corpo per arrivare ad esprimersi facendo del corpo in veicolo più autentico di espressione della vita. L’adolescente costruisce progressivamente la personalità attraverso l’integrazione degli aspetti affettivo-relazionali con i processi cognitivi. La sua nuova identità si scontrerà con una realtà socio-culturale in cui dovrà trovare un’adeguata collocazione. Si ritiene che le scienze motorie e sportive siano le discipline che possono concorrere con più efficacia allo sviluppo dell’adolescente grazie alla forte motivazione che generano, alla ricchezza inesauribile di forme motorie di cui dispongono, alle forti implicazioni corporee che le contraddistinguono ed al senso sociale che ricreano nelle attività di gruppo. Tutte le attività espressive e sportivo-educative possono dunque essere proposte in questa fase dell’età evolutiva al fine di far vivere l’esperienza di una socialità di tipo affettivo che conduca il giovane alla cooperazione con l’altro e alla accettazione di sé.

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In adolescenza, ancor più che nel periodo precedente, il riconoscimento istituzionale delle proprie capacità passa dal rendimento scolastico. Il giovane consolida la sua identità anche attraverso le conferme che gli provengono dalla riuscita in ambito scolastico e dall’efficacia degli apprendimenti. Lo stile pedagogico attuale che fa corrispondere una ricompensa allo sforzo, abitua lo studente a finalizzare lo studio alla valutazione, non alla passione per la cultura e per la crescita personale. Da un punto di vista sociale questo fenomeno è svantaggioso perché spinge il giovane verso forti aspettative rispetto al mondo del lavoro, purtroppo non sempre supportate da certezze. La scuola necessita di operare dei cambiamenti al suo interno e di orientare il percorso educativo verso la formazione della persona e non verso l’istruzione fine a se stessa. Affinché ogni giovane scopra le sue propensioni e possa svilupparsi coerentemente con il proprio potenziale è necessario che si appassioni alla cultura, che si leghi affettivamente all’ambiente scolastico e al ‘fare’ all’interno della scuola. Oggi persistono ancora con buona diffusione modalità di insegnamento basate sul condizionamento che limitano il coinvolgimento delle competenze cognitive a quelle elementari “abbassando” conseguentemente il livello di intenzionalità e di coinvolgimento intellettivo superiore dello studente. L’intenzionalità è lo “starter” di tutti gli sforzi di apprendimento, determina l’avvio alla motivazione ad apprendere. Senza motivazione è impossibile apprendere efficacemente e senza intenzionalità non può attivarsi la motivazione. Scolasticamente parlando l’educazione fisica è la disciplina che più si addice a questo scopo grazie alla sua prerogativa di rivolgersi alla totalità della persona, alla possibilità di attivare funzioni operative e percettive ed alle sue svariate applicazioni in ambito sportivo ed espressivo. Lo sport educativo e le attività espressive rappresentano ottimi supporti per far vivere il gusto dello sforzo personale e il piacere del risultato. Lo sport consente all’adolescente di sperimentare sé stesso, valutare le proprie possibilità e conoscere i propri comportamenti imparando ad assumersi le proprie responsabilità. Il clima di cooperazione che si viene creando con i compagni di squadra, protagonisti nella realizzazione di un risultato comune completa il quadro fortemente educativo e socializzante di questa attività, naturale prolungamento del gioco infantile nel mondo adulto. L’espressività corporea che si origina dalla necessità interiore di comunicare messaggi personali per poi espandersi in armonia con le proprie caratteristiche, favorisce la percezione delle sensazioni personali. Questa avviene tramite la funzione di interiorizzazione che è rappresentata dal particolare momento di intimo contatto con il proprio sé corporeo e di attenzione verso la propria interiorità. Il vissuto emozionale si manifesta nel corpo attraverso il gioco di tensioni e rilasciamenti muscolari, atteggiamenti e posture. La possibilità che il giovane

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ha di prenderne coscienza e di modularli adeguatamente, conferisce al movimento ritmicità e fluidità ed educa alla gestione dell’energia. Attraverso l’attenzione centrata sul proprio corpo sia statico sia in movimento, l’adolescente scopre le proprie possibilità intenzionali sul piano operativo (sport) ed espressivo (espressione di emozioni); questo determina autonomia motoria e padronanza delle attitudini corporee. Secondo Rogers l’educazione deve agevolare l’apprendimento che va realizzato attraverso processi e mutamenti, non tramite conoscenze statiche. Solo in questo modo l’uomo può adattarsi a vivere in un contesto ambientale in continuo cambiamento, divenendo capace di giudicare criticamente e di operare nel mondo con intelligenza. La scuola deve dunque offrire agli allievi un apprendimento significativo che avvenga tramite il fare e che contempli la partecipazione del giovane sia sul piano razionale-conoscitivo che su quello emozionale-affettivo; l’individuo e il gruppo hanno un ruolo attivo nel percorso finalizzato all’assunzione di responsabilità. L’insegnamento quindi non è un processo fatto di imposizioni esterne ma si origina dai bisogni, dagli interessi e dalla curiosità dell’allievo e ne rispetta le modalità e i tempi di apprendimento. Avviene tramite il fare ed è quantificabile attraverso i cambiamenti del comportamento. Rogers esprime la sua profonda preoccupazione per l’educazione “dal collo in su”, per la conoscenza priva di sentimenti e concentrata solo sulle idee che pervade la concezione educativa attuale e genera nei giovani un senso di insoddisfazione e di vuoto. Da qui deriva l’esigenza di “imparare come persona totale”, cioè di partire da un’attenta analisi dei bisogni del giovane per progettare un tipo di apprendimento che lo coinvolga in tutti gli aspetti di sé; si tratta in questo caso di proporre un apprendimento che stimoli sia l’intelligenza cognitiva sia i sentimenti e la corporeità, coniugando in armonia l’esperienza con l’astrazione. Solo in questo modo sarà garantita l’autenticità della persona e l’educazione diventerà vero strumento facilitante l’espressione del proprio potenziale. Nell’affrontare l’ambito della conoscenza e del saper fare l’atteggiamento dell’adulto può assumere due direzioni differenti: essere di tipo istruttivo e quindi somministrare nozioni preconfezionate, oppure formativo quindi proporre apprendimenti che passano dall’attività e dall’esperienza del soggetto. Il giovane è dotato di sistemi di apprendimento e di capacità appropriate che se sollecitate adeguatamente dall’ambiente (famiglia, scuola, agenzie educative), consentono di realizzare acquisizioni durature e di vivere l’esperienza del successo. L’apprendimento può dunque realizzarsi attraverso una modalità di tipo “lineare” (condizionamento operante) nella quale il sapere viene acquisito secondo metodiche proprie ad ogni disciplina, o ad una modalità di tipo ‘mediazione’ in cui l’allievo è implicato totalmente nel processo di apprendimento e l’unitarietà della persona fa sì che i diversi saperi siano sempre in relazione tra loro e con il soggetto operante. Il sistema educativo dovrebbe aiutare l’adolescente a conquistare gli strumenti necessari per superare le naturali difficoltà e disarmonie evolutive

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consentendogli di strutturare a poco a poco la propria identità sulla base di esperienze e di vissuti che passano dalla corporeità, dall’azione e dall’espressione di sé attraverso il movimento. Attraverso il movimento nelle sue forme più disparate e nelle espressioni più diversificate, possiamo interagire sulla persona totale, far parlare il suo cuore, stimolare la sua intelligenza, far danzare il suo corpo, in una parola… far cantare la vita. Ed è proprio l’adolescenza il momento in cui questo “miracolo” può accadere, perché è adesso che si sente pulsare dal dentro e se si impara ad ascoltare, si impara anche a conoscersi e a crescere. L’espressività corporea rappresenta una preziosa attività, l’attività per eccellenza, quella che meglio si addice a questo fine coerentemente con l’unità della persona. Nell’espressività corporea si armonizzano le proprie emozioni con il corpo che si muove mentre l’intelligenza si diffonde in ogni cellula, si condividono sensazioni nel divenire parte di un gruppo ed il gruppo diventa parte di ogni individuo. La musica inonda ogni più piccolo gesto di piacevole suono e si vive veramente l’esperienza della gioia, dell’amore. Inoltre ci si può divertire con gli altri ad inventare e realizzare sequenze, coreografie, progetti avvalendosi di oggetti, strumenti musicali, della voce e del canto, si possono approcciare improvvisazioni, insomma divenire creativi. La partecipazione a queste esperienze di maschi e femmine insieme e la condivisione del percorso introducono alla conoscenza dell’altro, quella conoscenza vera, priva di finzioni e di messe in scena che fa essere veramente se stessi. Per i ragazzi sperimentare delle attività diverse dallo sport significa entrare in relazione con il proprio corpo in modo nuovo e completare la percezione dell’immagine di sé. Da un punto di vista prettamente motorio l’espressività corporea, attivando il sistema muscolare tonico-posturale, offre la possibilità di portare l’attenzione su di sé alimentando quella preziosa funzione che è quella di interiorizzazione troppo spesso ignorata dalla nostra cultura. Inoltre l’espressività dei gesti induce l’adolescente a gestire la propria energia, lo aiuta ad abituarsi a controllare la forza; questo rappresenta un elemento educativo molto importante soprattutto per quei ragazzi eccessivamente “prorompenti” il cui disagio è dovuto appunto alla difficoltà di controllare la propria energia. E, per concludere, l’espressività corporea è efficace anche per educare all’affettività: grazie alla sollecitazione motoria di tutte le parti del corpo nella più pura naturalezza consente ai maschi e alle femmine di vivere l’affettività con semplicità e spontaneità, “sdrammatizzando” finte paure, “vergogne” e schemi mentali e li conduce a vivere questo passaggio secondo natura. Per uno sviluppo equilibrato si ritiene utili sia l’educazione al “saper fare” sia quella al “saper essere” ed al “conoscere”. Saper fare e conoscenze rappresentano un insieme funzionale corrispondente alle funzioni mentali fondate su basi psicomotorie e aspetti affettivo-relazionali.

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Il tipo di apprendimento proposto è un apprendimento unitario, realizzato con l’intenzionalità del soggetto, attraverso lo sforzo personale di integrazione dei dati che si fonde con i saperi precedenti già memorizzati determinando una certa plasticità nella capacità di articolare le risposte. Talvolta accade che durante l’infanzia l’adulto si sostituisca ripetutamente al bambino nella soluzione di problemi pretendendo di insegnare a lui tutto, iper-proteggiondolo e negandogli l’opportunità di fare le esperienze utili al suo sviluppo funzionale. Questo errore educativo ricrea nell’adolescente dipendenza e passività, incapacità di essere protagonista e di cimentarsi in compiti personali particolarmente impegnativi; tratti che vanno ad impoverire il suo sistema energetico e a mantenere latenti le motivazioni all’agire in prima persona. Con l’avvento delle problematiche adolescenziali, i più deboli non sono in grado di sostenersi autonomamente e spesso demotivati, sono spinti verso la ricerca di soluzioni palliative e compensative (droghe, alcool, fumo, ecc.). Nutrire il proprio corpo e la propria psiche di emozioni piacevoli derivanti da attività ed esperienze personali scaturite dai propri sani e naturali bisogni, rappresenta un’ottima soluzione al senso di vuoto che pervade l’adolescente del terzo millennio. Crescere insieme al corpo e divenire attraverso il corpo è la sfida che l’essere umano deve affrontare se intende vivere realizzandosi e contribuendo all’evoluzione dell’umanità. Questi stili di vita non si possono improvvisare, hanno bisogno di solide basi che vanno poste già dalla prima infanzia. L’adolescente è capace di rappresentazione mentale, di percezione, comprensione e soluzione di situazione problematiche, di intuizione e creatività. Controlla la forza muscolare di differenti distretti corporei, può perfezionare le capacità coordinative, apprendere sport e tecniche di ogni genere. Per le nuove esigenze somato-funzionali deve però necessariamente rielaborare gli schemi motori già acquisiti; i cambiamenti fisiologici e morfologici in corso spesso soprattutto nel maschio, creano difficoltà coordinative e senso di estraneità del proprio corpo. Benché sottomesso ad una crisi psico-fisica che può protrarsi, l’adolescente ha i n sé tutti i requisiti necessari per esprimersi efficacemente e con creatività, disponendo di una motricità completa negli aspetti espressivi ed operativi. Dal punto di vista relazionale, della comunicazione e degli scambi con gli altri, abbiamo visto che l’adolescenza è caratterizzata dal bisogno di partecipazione al gruppo, dalla ricerca di socializzazione e spesso anche dalla nascita del primo amore. Sono pertanto molti e diversificati gli impulsi che il giovane percepisce dentro di sé, a partire dai messaggi del corpo che cambia, dalle spinte pulsionali, fino ai tumuli interiori dovuti all’affermazione della propria identità e alla scoperta del sé affettivo ed emotivo. Dai ragazzi più sensibili ogni minima difficoltà o cambiamento sono vissuti come un vero dramma e la fragilità interiore a volte prende il sopravvento.

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Si potrebbe definirlo come un periodo un po’ “bizzarro” che vede da una parte la forza della vita “sprizzare da tutti i pori” e dall’altro il dramma del dover crescere e la paura del nuovo, creando turbamento ed apprensione. E’ indubbiamente una fase dell’esistenza particolarmente delicata in cui la ‘disorganizzazione’ generalizzata e diffusa deve riequilibrarsi ed armonizzarsi punto di forza e carica vitale per il futuro adulto. Nonostante questo, il momento è propizio perché lo sviluppo funzionale è giunto a compimento, quindi l’adolescente può disporre di funzioni cognitive, motorie ed affettive predisposte e pronte ad evolvere per essere utilizzate in vista della crescita e della valorizzazione di sé. Questo quadro ci porta a valorizzare l’attività motoria come uno dei mezzi più adeguati a supportare il giovane nel superamento della delicata fase che sta attraversando.

Che cosa si intende per autonomia esterna in un soggetto Down

Per delineare un itinerario educativo nell’ambito dell’autonomia esterna e definire aree da esplorare e abilità da raggiungere è necessario rispondere alle domande “Quali sono le esperienze minime essenziali per cavarsela fuori casa da soli?” e ancora “Di che cosa ho bisogno per la mia vita quotidiana, per il lavoro, per il tempo libero?” Immediatamente ne scaturiscono una serie di risposte legate alla capacità di spostamento ed altre legate alle capacità di acquisto e di uso dei servizi in genere. Analizzando tali esigenze formative è possibile raccogliere in 5 aree educative gli obiettivi di tale itinerario:

• Comunicazione; • Orientamento; • Comportamento stradale; • Uso del denaro; • Uso dei negozi e più in generale dei servizi.

Comunicazione. Nell’analisi dei requisiti per una vita adulta autonoma emerge immediatamente come uno dei primi passi verso l’autonomia sia costituito dal possedere una buona capacità di comunicazione, la possibilità cioè di poter esprimere i propri bisogni, i propri desideri, i propri pensieri. Questo a volte può essere semplice in un ambiente di persone conosciute e che ci conoscono, ma può diventare una grossa difficoltà quando ci si muove all’esterno fra estranei. D’altra parte è essenziale sviluppare la capacità di chiedere informazioni, il poter spiegare che cosa si desidera nei negozi o negli uffici, il saper dare i propri dati personali, il saper usare i telefoni pubblici, sia come mezzo per raggiungere ciò che si desidera, sia per poter chiedere aiuto in caso di difficoltà. Il possesso quindi di queste abilità e delle eventuali strategie per aggirare le personali difficoltà di linguaggio sono quindi gli obiettivi da perseguire in quest’area.

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Orientamento. Spesso una persona handicappata è abituata ad essere guidata dai genitori o da altri accompagnatori per raggiungere qualsiasi luogo. Ciò determina una scarsissima attenzione rispetto al percorso da fare, ai punti di riferimento, ai nomi delle strade. Bisognerà allora aumentare la capacità di guardarsi intorno in modo consapevole: imparare a leggere e seguire indicazioni stradali, individuare punti di riferimento, riconoscere fermate di autobus, taxi, metropolitana,… Comportamento stradale. Fondamentale per l’autonomia all’esterno è l’assunzione di comportamenti adeguati che permettano di muoversi da soli prestandola dovuta attenzione alle macchine in arrivo e ai vari segnali pedonali. Uso del denaro. L’obiettivo è in questo ambito permettere ai ragazzi di utilizzare il denaro per poter fare acquisti autonomamente. Questo vuol dire passare per diverse fasi: capire quale sia il significato e l’uso del denaro come “oggetto di scambio”, riconoscere i diversi tagli di monete e banconote, conteggiarlo, conoscere a grandi linee il valore dei principali articoli di uso più consueto, leggere i prezzi, fornire il denaro richiesto, comprendere quando si deve ricevere il resto e conteggiarlo. Uso dei servizi. Bisognerà imparare a riconoscere ed utilizzare adeguatamente e con dimestichezza i negozi ed i servizi di uso più comune. Per quanto riguarda i negozi si tratterà di saper individuare i negozi utili all’acquisto dei vari prodotti nonché l’uso di mercati e supermercati. Tra gli altri servizi certamente interessante è la conoscenza e l’uso dei principali uffici pubblici come l’ufficio postale e dei trasporti e dei più comuni luoghi di divertimento come il bowling, il cinema, il luna-park, il fast-food, ecc. Il corso di educazione all’autonomia dell’Associazione Bambini Down

L’Associazione Bambini Down è composta da famiglie che si propongono come punto di riferimento per i genitori di bambini e adulti con la Sindrome di Down. La spinta verso l’autonomia, verso il mettere le persone in grado di farcela da sole anziché sostituirsi ad esse è un po’ lo spirito che anima all’interno dell’Associazione non solo questo progetto, ma più in generale le scelte politiche ed operative dell’Associazione che anche nei confronti delle famiglie punta ad esempio ad offrire servizi di consulenza più che di assistenza, ad informare i genitori dei loro diritti perché possano farli rispettare, a ridare in genere alle persone Down il ruolo di soggetti di diritti piuttosto che oggetti di assistenza. Il clima culturale quindi in cui si colloca questo progetto è particolarmente sensibile al tema autonomia. Affrontare io tema dell’autonomia vuol dire porsi, come operatori e come genitori, non solo l’obiettivo del raggiungimento di alcune competenze, ma il riconoscere e il favorire il cambiamento della condizione da bambino a quella

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di adolescente e di adulto. Vuol dire quindi creare un clima, un modo di rapportarsi, una mentalità di fiducia e di rispetto nei confronti del ragazzo. E’ in questo clima che egli può trovare maggiore motivazione ad imparare e può crescere più globalmente come persona. Il programma del corso ha tenuto presenti tali presupposti e ha sviluppato quindi al tempo stesso attività e attenzioni in tale direzione, sia nel rapporto con i ragazzi, sia nella riflessione con le famiglie. Struttura del corso: il corso di educazione all’autonomia si colloca nell’ambito del tempo libero e si struttura in una serie di incontri pomeridiani (3 ore circa). Ogni ragazzo si incontra un pomeriggio a settimana con un gruppo composto da 6-8 ragazzi Down e 3-4 operatori. Dopo un momento comune il gruppo si divide in sottogruppi di 2-3 ragazzi più un operatore e, dove possibile, un volontario o uno degli obiettori di coscienza in servizio presso l’ente; è all’interno del sottogruppo che vengono proposte la maggior parte delle attività. Le attività proposte sono incentrate sulle 5 aree individuate come fondamentali per un’educazione all’autonomia esterna, già menzionate. Un rapporto basato sulla “verità”. E’ stato dato un grosso peso sulla motivazione come stimolo per ogni apprendimento, nella convinzione che ciò possa essere un ottimo motore per un insegnamento che parte e si colloca nel concreto. Questo vuol dire ad esempio contare i soldi per andare a fare merenda al fast-food, usare l’amico per contattare l’amico assente, chiedere informazioni per raggiungere un luogo dove si vuole passare insieme il pomeriggio… Ciò è in evidente contrasto con un apprendimento basato sulla pura esercitazione ripetitiva come è talvolta quello scolastico o in genere con l’idea di chi crede che una persona con handicap mentale impari più facilmente in modo meccanico e ripetitivo. Ma è anche la scelta di motivazioni reali e non fittizie rispetto alle quali i ragazzi sono molto sensibili. Nessuno di loro va volentieri a comprare il latte se c’è già in frigorifero o se sa che comunque ci andrà la madre se lui non si muove. Allo stesso tempo questa modalità di rapporto rinforza nei ragazzi la convinzione di essere grandi e oggetto di fiducia da parte degli adulti. Coinvolgimento attivo nelle scelte e nelle gestione delle attività. Anche questa scelta punta ad una incentivazione dei ragazzi ad agire correttamente e da grandi, rendendoli sempre più protagonisti delle varie attività. Essa ha determinato, oltre ad una serie di piccole e grandi attenzioni nella cogestione coi ragazzi di scelte come cosa mangiare per merenda o come organizzare un week end fuori, anche la scelta di lavorare sempre in piccoli gruppi (6-8 ragazzi al giorno) con momenti di ulteriore suddivisione. Spesso nella vita di questi ragazzi, anche quando viene proposto loro un ruolo attivo, questo viene sempre presentato come una forma di aiuto (“Mi aiuti a cucinare,

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mi aiuti a fare la spesa”, ecc.) un po’ come si fa coi bambini con l’idea di renderli attivi, ma senza credere troppo nelle loro capacità. Essi avvertono questo e sono perciò spesso poco disponibili, “Perché devo farlo se ci sei tu ed io non sono necessario?”. La scelta del corso è di porre attenzione a che il loro ruolo nelle varie attività sia il più possibile di protagonisti. Anche per questo durante l’anno vengono inserite due attività particolarmente importanti, la prima è la redazione con i ragazzi di un “regolamento” del club: con loro, dopo un paio di mesi in cui hanno sperimentato piacere e difficoltà nella vita di gruppo, vengono definite le regole di comportamento che permettono di vivere bene insieme, il regolamento viene poi sottoscritto da tutti e ha la funzione di spostare il giudizio di buono o cattivo comportamento dalla figura adulta dell’educatore al gruppo e cioè agli stessi ragazzi. Inoltre dopo i primi mesi viene proposta ai ragazzi una “stella” di obiettivi personali molto concreti da raggiungere attraverso l’attività, quali portare il proprio gruppo al cinema, fare una telefonata, ecc. Il raggiungimento degli obiettivi è visualizzato per loro nel diventare “ragazzi in gamba”, cioè più grandi e più capaci, questo patto consapevole ed esplicito tra loro, gli operatori ed il gruppo è un ulteriore stimolo al loro impegnarsi e ribadisce la fiducia in loro da parte degli adulti. Strategie personalizzate. Per ogni ragazzo vengono individuate strategie per renderli autonomi che partano dalle loro risorse, ad es. se un ragazzo è capace di leggere viene stimolato a farlo nel riconoscimento dei prodotti nei negozi, se non lo è viene sollecitato a riconoscere l’immagine del prodotto o della scritta sulla scatola, se ha buone capacità di linguaggio è stimolato a farsi aiutare di più dagli altri attraverso il chiedere, ecc. Ogni abilità da acquisire viene vista, non in sé e per sé, ma sempre in relazione all’obiettivo finale “autonomia” e quindi scelta in funzione di esso e delle capacità o difficoltà del singolo ragazzo. La metodologia di lavoro è globalmente caratterizzata da un approccio progettuale in cui ogni proposta nasce sempre da un riferimento agli obiettivi, l’analisi della situazione (ambientale e personale) e delle risorse. Nello svolgimento delle attività vengono anche utilizzati “strumenti” che possono facilitare l’esecuzione di alcuni compiti e fungere da ausili per il raggiungimento degli obiettivi di autonomia scelti. I risultati. I ragazzi che hanno partecipato in questi anni al corso non hanno subito alcuna selezione in entrata, l’unico criterio di accesso è stata l’età, tra i 15 e 20 anni, e l’accettazione esplicita da parte delle famiglie degli obiettivi e le modalità di svolgimento dell’esperienza. A tutti è stato proposto, sia pur con un rinnovo di adesione anno per anno, un cammino articolato su tre anni di attività, dove il primo è generalmente di

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scoperta delle prime autonomie e dell’essere considerato grande, il secondo di maggiori acquisizioni, il terzo di consolidamento. Vengono fissati degli obiettivi generali per l’attività e obiettivi personali per il ragazzo; all’inizio del corso e poi, almeno due volte durante l’anno, vengono fatte delle valutazioni dei cambiamenti dei ragazzi utilizzando allo scopo delle griglie di osservazione strutturate, appositamente predisposte e compilate in situazione. I ragazzi che hanno partecipato ai corsi a Roma erano impegnati il mattino in attività diverse: scuola media inferiore e superiore, scuole speciali, corsi di formazione professionali speciali e integrati, cooperative di lavoro, coprendo l’intera gamma di possibilità scolastico-formative. Tale diversificazione negli impegni scolastici è indicativa anche della diversità dei ragazzi dal punto di vista delle competenze cognitive e didattiche di base. Anche nelle competenze di autonomia possedute all’inizio dell’esperienza si aveva una grossa variabilità che non appariva però correlata con il maggiore o minore livello scolastico raggiunto. Fin dai primi colloqui con i genitori ci si è resi conto che spesso l’assenza di abilità coincideva con la scarsa o totale assenza di occasioni offerte nel passato: i genitori rispondevano spesso alle nostre domande con espressioni tipo “non so, non ci ho mai provato”. E anche laddove esisteva qualche abilità esse erano presenti in modo scoordinato, frutto più della casualità dell’esperienza che di una precisa intenzionalità educativa. I genitori. Non è possibile pensare ad un progetto di educazione all’autonomia che non coinvolga le famiglie, tanto più se si tratta di un progetto situato all’interno del tempo libero e quindi con un investimento di tempo molto limitato. Durante l’esperienza del corso vengono utilizzate tre diverse modalità di rapporto con le famiglie: il colloquio individuale, la riunione di grande gruppo e quella di piccolo gruppo. Il colloquio individuale viene utilizzato all’inizio per una prima conoscenza del caso e poi per verifiche più puntuali promosse dallo staff con cadenza periodica o su specifici problemi e/o su richiesta della famiglia. La riunione viene utilizzata per comunicazioni relative al programma delle attività o per tematiche di interesse collettivo. L’incontro per piccoli gruppi è preposto due o tre volte durante l’anno, coinvolgendo i genitori i cui ragazzi escono nello stesso giorno (6-8 famiglie) e si rivela spesso il più ricco. Tale situazione infatti, oltre ad offrire la possibilità a tutti di esprimersi, offre ai genitori un’occasione di confronto molto stimolante e dà agli operatori l’opportunità di sottolineare alcuni atteggiamenti da tenere o da evitare con i ragazzi. Nel lavoro svolto con i genitori si utilizza una metodologia che, partendo dal racconto delle esperienze quotidiane, ne razionalizza le motivazioni e ne fa emergere le esigenze che i ragazzi esprimono, così da promuovere nei genitori una maggiore capacità di osservazione e di riflessione sulle conquiste dei figli verso l’autonomia. Il partire sempre dall’analisi dell’esperienza permette di entrare nel merito dei problemi in modo semplice e di individuare

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insieme ai genitori le strategie più adeguate nelle vita domestica, evitando regole generali e personalizzando sempre l’intervento. Durante le riunioni vengono utilizzati anche filmati sulle attività dei ragazzi da commentare insieme, che aiutano i familiari a costruirsi un’immagine più realistica e speso più positiva dei propri figli e li stimola nell’individuazione di nuove opportunità. Inoltre alla fine di ogni anno viene consegnata ai genitori una lettera-relazione sulle conquiste operate dal proprio ragazzo durante l’anno e alcuni suggerimenti su come aiutarne il mantenimento. Oltre a tali occasioni strutturate, durante l’anno gli operatori che hanno seguito i ragazzi, soprattutto nei primi tempi, colgono i momenti di incontro prima e dopo le attività per sottolineare in modo informale le abilità acquisite e osservare anche i più piccoli progressi, così da incoraggiare il genitore e stimolare la sua attenzione. Negli anni di corso fin qui realizzati abbiamo potuto notare, sia pur con le ovvie differenze e sensibilità tra i genitori, una generale crescita di capacità di osservazione e di attenzione nel dare spazi di autonomia ai ragazzi e una maggiore consapevolezza delle loro potenzialità e del loro essere grandi. Il corso è stato per tutti un momento di presa di coscienza dei propri atteggiamenti inadeguati e al tempo stesso occasione di valorizzazione delle competenze dei propri figli e di controllo della propria ansia. Il poter vedere, ad esempio, i figli capaciti tornare a casa con l’autobus, fruendo del successo del risultato, senza aver vissuto l’ansia della preparazione e della scelta è stato per molti fonte di incoraggiamento e di nuova motivazione. I risultati maggiori si sono ottenuti laddove i genitori si sono coinvolti a pieno nel clima del corso, hanno creduto nelle capacità dei figli e hanno dato continuità alle proposte nella vita quotidiana.

Conclusioni

In ultima analisi si può dire che dal punto di vista dell’analisi delle capacità di tali soggetti, mette in luce come possano essere esplorate ancora molte possibilità di sviluppo per essi, anche in età giovane e adulta, e come l’ambito dell’inserimento sociale offra stimoli e opportunità per una crescita continua. Dal punto di vista degli obiettivi di un progetto educativo per persone con ritardo mentale, si evidenzia come la crescita dell’autonomia sia un procedere nella prospettiva dell’integrazione, intesa come capacità di utilizzare ciò che si sa e non, esplorare le proprie e le altri risorse. Autonomia non è fare tutto da soli, è saper collaborare, domandare, mettere insieme. Per procedere in tale direzione è necessario valorizzare il singolo, affermare la sua dignità, riconoscere il suo diventare adulto. Dal punto di vista metodologico, l’esperienza presentata offre alcuni spunti per l’organizzazione di un intervento educativo che può trovare spazio in molti ambiti, la famiglia, la scuola, la formazione professionale, il tempo libero, il lavoro, ma la cui urgenza non può essere disattesa.

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13. ESPERIENZE DI INSERIMENTO NELLA SCUOLA DELL’OBBLIGO

Ci troviamo di fronte a due problemi. Il primo riguarda le critiche che sono state mosse all’integrazione scolastica e al suo svolgimento “normativo” attuato senza badare troppo alla qualità e quindi senza la capacità di organizzare diverse dorme di integrazione verificabile. Queste critiche utilizzano a volte l’espressione “integrazione selvaggia”, con un’implicazione semantica negativa che è quantomeno discutibile. Si potrebbe ribattere ricordando come il termine “selvaggio” sia all’origine della svolta storica dell’educazione degli handicappati (il sauvage de l’Aveyron) e come, interpretando questo stesso termine nel senso dell’improvvisazione, la scuola italiana dell’obbligo per la sua struttura a percorso unitario con fasce di continuità dell’insegnamento, non fosse del tutto interpretata ad assumere l’eterogeneità del gruppo-classe fra le sue caratteristiche qualificanti, e quindi non improvvisasse. Il primo problema, dunque, è di tipo critico, e comprende la constatazione che l’integrazione scolastica in generale, e quindi anche quella di bambini Down, è esaminata troppe volte attraverso esempi, racconti singoli, casi in qualche modo eccezionali, accanto ai quali vi sarebbe una serie di situazioni mal gestite, con false integrazioni, risultati scolastici dubbi e non verificabili; da questa maggioranza emergerebbero in negativo situazioni più nettamente drammatiche, tali da finire sui giornali. Mancherebbero dunque serie possibilità di valutazione. Questo primo problema va affrontato; si può intanto capire se è un problema vero o falso. Ad esso si collega lo stato delle strutture di ricerca che non è certo brillante. Una studiosa, Madeleine Natanson, nota come, in un passato tutt’altro che lontano, le reazioni di pietà potevano alternarsi con quelle di rifiuto e, in ogni modo, i “mongoloidi” si trovavano ridotti al loro sintomo e soprattutto alla loro apparenza fisica; nessuna prova di apprendimento poteva essere tentata, dato che, nell’etichettatura globale, le differenze individuali non potevano che essere negate. J.A. Rondal (1986) rileva come un numero crescente di bambini trisomici imparino ora a leggere, a scrivere e ad effettuare operazioni aritmetiche elementari; mentre si pensava, in un passato recente, che queste acquisizioni fossero, per definizione, fuori dalla portata dei bambini e delle persone con trisomia 21. Il secondo problema è dunque quello che propone Jean Grondeau (1980). Cosa è speciale: l’educazione o i bambini? E’ un problema che sta portando proprio nel quadro dell’educazione scolastica, a soluzioni non previste nel recente passato. Sembra che la risposta tenda a ridurre ed a riformulare la qualifica di “speciale”.

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La letteratura ha indicato, quasi all’unanimità, fino agli Sessanta, l’esistenza di un deficit dell’attenzione, caratterizzato da un riflesso di orientazione debole e dalla incapacità di mantenere l’attenzione. In seguito è stata presentata un’ipotesi che ha sempre maggiore consistenza di prove; gli handicappati mentali, come i bambini Down,avrebbero delle deficienze a livello dell’astrazione e del trattamento dell’informazione, piuttosto che nel riflesso di orientazione o in altri processi dell’attenzione in rapporto con lo stimolo sensoriale (Mainardi e Lambert, 1984). Questa svolta nelle ipotesi scientifiche è assai interessante e mette in seria discussione la credibilità di programmi speciali basati, ad esempio, sulla stimolazione sensoriale; sembra, invece, dare credibilità ad una prospettiva pedagogica capace di servirsi della strutturazione delle risorse del contesto reale. E’ in questo senso che si rivela l’importanza del pensiero simbolico nella regolazione dell’azione di un soggetto e la presa in considerazione dei processi autoregolatori, vale a dire le influenze create dal soggetto stesso.

Risultati di una ricerca

Da una ricerca svolta tra 1985 e il 1988 sono emersi i seguenti dati: la ricerca ha interessato 369 soggetti residenti in Emilia Romagna, vale a dire tutta la popolazione Down compresa fra 6 e 15 anni, ad eccezione della provincia di Ferrara. Il 60% era composto da maschi. La ricerca aveva come oggetto di indagine l’integrazione nella scuola dell’obbligo ed aveva come strumento privilegiato, l’intervista strutturata e la sua elaborazione attraverso la raccolta dei dati e la loro analisi. Sono stati intervistati 177 insegnanti di sostegno e 181 insegnanti di classe; ancora sono state effettuate 117 interviste ai genitori, con una campionatura casuale. La distribuzione dei bambini e delle bambine per età nelle classi dimostrava che non vi erano particolari problemi: la maggior parte dei bambini Down, il 62% nelle elementari e l’84% nelle medie, era inserita in una classe a tempo normale e a tale scelta era compiuta anche in presenza di altre possibilità. Ma nella scuola elementare, quando esisteva la possibilità di tempo pieno, il 60% dei bambini Down vi era inserito, ed anche la partecipazione alle attività integrative era più frequente nella scuola elementare. Le scuole medie apparivano più ricche di spazi attrezzati e di strumentazione. Gabriella Grandi rilevava: le modalità di lavoro che occupano quote rilevanti del tempo scolastico dei bambini Down sono 3, attività di classe con la presenza dell’insegnante di sostegno (circa il 27% del tempo totale), attività in classe senza l’insegnante di sostegno (29%), attività fuori della classe con insegnante di sostegno e senza altri compagni (22%).

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La ricerca ha rivelato una diffusa autonomia nelle operazioni di ingresso e di uscita dalla scuola, nella cura di sé e nelle funzioni igieniche. Per quanto riguarda le competenze matematiche generali di base (capacità di formare insiemi, contare, ecc.) è da considerarsi soddisfacente in relazione al fatto che il 23% del campione ha un’età pari o inferiore a 9 anni e svolge quindi attività scolastiche prevalentemente limitate alle sole competenze di base. Le valutazioni dei docenti, infatti, definiscono un 81-83% di alunni che sa contare, un 59-69% di alunni che conosce il denaro, e così via. La situazione peggiora man mano che le richieste di prestazione scolastica si fanno sempre più astratte e complesse: mentre il 75-76% del campione sa fare addizioni, solo il 18-20% sa fare le divisioni. In generale, i docenti di sostegno danno risposte tendenzialmente più ottimistiche sulle capacità degli alunni di quanto non facciano gli insegnanti di classe; questi ultimi totalizzano invece quote percentuali di risposte “non so”, spesso più alte. Per quanto riguarda le abilità linguistiche e comunicative è emerso che l’88% dei casi esaminati sa leggere, anche frasi complesse. Le competenze nella scrittura sono elevate, secondo quanto dichiarano gli insegnanti di sostegno, l’89% dei bambini è in grado di scrivere. Vi sono indicazioni di buone competenze grafico-pittoriche: il 94,3% degli alunni con Sindrome di Down sa disegnare e dipingere. Anche la lettura dell’immagine è considerata buona. Altri dati riguardano l’area psicomotoria: in particolare per la motricità fine e le mani, risulta che l’86% sa impugnare correttamente la penna. La conoscenza del proprio corpo e della spazialità appare buona.

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14. PRIME ESPERIENZE DI INSERIMENTO ALLA SCUOLA SUPERIORE

L’inserimento alla scuola superiore per i ragazzi Down si pone all’interno delle più vaste problematiche dell’adolescente e dell’inserimento sociale. Terminata la scuola dell’obbligo, per le famiglie si pone l’interrogativo sul che fare e sul che cosa offrire al ragazzo in alternativa ad una permanenza forzata nella terza media o ad un’attesa, spesso anche molto lunga, di occasioni formative e lavorative. La dismissione del ragazzo da forme di intervento riabilitativo non sempre viene compensata da parte dei servizi, con modalità di intervento diverse (ad es. il sostegno psicologico alla famiglia, l’individuazione di risorse di inserimento sociale per il ragazzo), che proseguono il processo educativo e riabilitativo condotto negli anni precedenti con il bambino e la famiglia. Ci si trova così di fronte a due tendenze che possono anche presentarsi in maniera contraddittoria: da una parte la spinta motivazionale del ragazzo a crescere ed acquisire una sua propria autonomia, dall’altra la ricerca da parte della famiglia di modalità di inserimento sociale che rispondano ai bisogni di autonomia del ragazzo e che, nello stesso tempo, abbiano valenza formativa per un eventuale inserimento lavorativo. La possibilità di iscrivere il ragazzo alla scuola superiore, prevista dalla C.M. 262/88, va in tale direzione; va ricordato che tale normativa va a collocarsi nel progetto più ampio della riforma della scuola superiore che prevede un innalzamento a 16 anni dell’età dell’obbligo scolastico. E’ stata garantita per i ragazzi portatori di handicap fisici, sensoriali e psichici la frequenza al biennio delle scuole medie superiori. Questa definisce un’indiscutibile occasione di crescita per tutti i ragazzi con handicap, che hanno così la possibilità di posticipare l’eventuale formazione professionale, considerate le scarse possibilità di inserimento a quest’età, nei corsi di formazione e/o nei tirocini di lavoro. Per rispondere ai bisogni degli adolescenti Down e delle loro famiglie, l’Associazione Bambini Down di Roma ha avviato nel 1990 un progetto di ricerca-intervento sulle problematiche emergenti dall’inserimento nelle scuole medie superiori. Il progetto, che poi è proseguito negli anni successivi, aveva come obiettivo prioritario quello di individuare strategie operative che potessero far superare alcune inevitabili difficoltà di inserimento, considerato che la scuola superiore per definizione è una scuola con obiettivi di formazione che possono anche porsi in contrasto con talune caratteristiche di apprendimento e socializzazione peculiari degli alunni con handicap.

Fasi del progetto

Il progetto è arrivato ad avere una forma definitiva nell’anno scolastico 1992/1993, anno a cui faremo riferimento per una descrizione delle varie fasi dell’intervento.

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I fase. Ricognizione degli alunni Down iscritti alle scuole superiori di Roma e provincia, individuazione dei casi conosciuti dall’Associazione per i quali attuare un intervento; II fase. Valutazione comprensiva dei bisogni dell’adolescente Down e delle loro famiglie; III fase. Collaborazione con la scuola per affrontare le problematiche emergenti dall’inserimento; IV fase. Valutazione degli aspetti organizzativi dell’inserimento e degli effetti di questo sul ragazzo e sulla famiglia. Ricognizione degli alunni: nel territorio di Roma e provincia il fenomeno dell’inserimento dei ragazzi Down nelle scuole superiori ha avuto un considerevole incremento negli ultimi 3 anni. Due possono essere i fattori legati a tale mutamento: prima di tutto una diminuzione dell’atteggiamento restrittivo rispetto all’inserimento nella scuola superiore da parte della scuola media. All’inizio, quando fu promulgata la C.M. 262/88, gli insegnanti della scuola dell’obbligo nutrivano probabilmente più perplessità in proposito. Attualmente essi offrono invece una maggiore informazione alle famiglie sulla possibilità di continuare l’inserimento oltre l’obbligo e si dimostrano anche più attenti al problema dell’orientamento per gli alunni portatori di handicap. Un altro motivo è riconducibile alle diverse aspettative di vita sociale che l’inserimento alle scuole superiori ha determinato nei genitori. Questa opportunità viene infatti percepita come la giusta continuazione di un iter scolastico normale, per il quale essi stessi si sono adoperati negli precedenti. Nell’anno scolastico 1992/1993 a tutte le scuole cui erano inseriti casi conosciuti dall’Associazione, è stata offerta la possibilità di usufruire di un intervento specifico sulle problematiche dell’inserimento. La distribuzione dei 31 casi nelle varie tipologie di scuola media superiore rispecchia la distribuzione che emerge anche nei dati del Provveditorato. Prevalgono le scuole professionali, a conferma del fatto, abbastanza ovvio, che gli altri tipi di scuola risultano essere per contenuti ed attività proposte, sicuramente più difficoltosi per dei ragazzi che hanno un handicap mentale quale la Sindrome di Down. All’opportunità offerta dall’Associazione hanno risposto positivamente 24 scuole, pari ad altrettanti ragazzi Down, di età compresa tra i 15 e 21 anni. Valutazione degli alunni Down. Per i 24 casi conosciuti dall’Associazione e le cui scuole hanno aderito all’iniziativa, si è proceduto alla realizzazione della seconda fase del progetto, e cioè la valutazione comprensiva dei bisogni dei ragazzi Down e delle loro famiglie. Abbastanza omogenea è la distribuzione tra le diverse classi frequentate a conferma dell’ipotesi che gli operatori avevano formulato all’inizio del progetto, e cioè che il gruppo dei Down che arriva alle scuole superiori è selezionato in

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merito al livello di apprendimento scolastico raggiunto nelle scuole medie dell’obbligo. Altrettanto buone sono le competenze in merito all’autonomia personale, espressa attraverso la capacità di vestirsi, lavarsi, mangiare e accudire sé stessi; unito alle abilità sociali, espresse attraverso la capacità di usare il telefono, usare il denaro, comportarsi adeguatamente in un luogo pubblico, spostarsi in maniera autonoma fuori dall’ambiente domestico. Collaborazione con la scuola. Le modalità di intervento attuate dagli operatori dell’Associazione, sempre su richiesta dei genitori o della scuola, sono state diversificate a seconda dell’obiettivo cui erano finalizzate:

• Partecipazione ai GLH operativi di Istituto, per dare un contributo ai fini della stesura del profilo dinamico funzionale e del piano educativo individualizzato, soprattutto ove il ragazzo non fosse conosciuto dal Servizio (quasi sempre l’Usl di appartenenza della scuola superiore non è la stessa della scuola media né della residenza della famiglia);

• Partecipazione ai consigli di classe. Tale intervento è finalizzato a fornire

informazioni sulla Sindrome di Down in generale e sul caso particolare, confrontare e chiarire in merito a problematiche emerse, per lo più di socializzazione, mediare per una migliore comunicazione e collaborazione scuola-famiglia, e mettere a punto strategie educative adeguate ed efficaci;

• Intervento per una informazione di base sulla Sindrome di Down,

nell’ambito di corsi di aggiornamento organizzate dalle scuole ai fini di una sensibilizzazione dell’intero contesto educativo;

• Intervento nella classe: discussione con i compagni di classe del ragazzo

inserito su problemi relazionali e di comunicazione col ragazzo stesso. L’insegnante di sostegno è presente per 9 ore settimanali per quasi tutti i ragazzi del gruppo e svolge le attività con l’alunno Down sempre in classe per 19 casi; i restanti 5 casi svolgono parte delle attività in classe e parte fuori. L’assegnazione del monte-ore, molto condizionata dalle restrizioni imposte via via dalla legge finanziaria, non è stata ben regolamentata. La funzione dell’insegnante di sostegno, quale coordinatore tra i vari insegnanti e insegnamenti, si esplica in classe come mediatore e raccordo tra l’alunno e l’attività didattica in corso, mentre fuori della classe diventa supporto individualizzato per l’ulteriore sviluppo delle competenze scolastiche di base e per la rielaborazione e il consolidamento dei contenuti proposti nelle lezioni collettive.

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Conclusioni

Non è ancora possibile offrire, in base ai dati rilevati, una valutazione sugli effetti che l’inserimento nelle scuole medie superiori ha avuto sui ragazzi Down. Si può però dire che certamente la frequenza della scuola superiore apre interessanti spazi di socializzazione e di apprendimento per loro, se è attuata con tutte le condizioni previste dalla legge a garanzia dell’effettivo diritto allo studio. In tal caso essa offre la possibilità di un rafforzamento di alcune acquisizioni, di una maturazione globale, di una maggiore autonomia sociale ed affettiva. Non si ritiene però valido un inserimento nella scuola superiore finalizzato solo alla socializzazione: l’area sociale diventa progressivamente più problematica passando da un ordine di scuola al successivo. Anche un ragazzo Down ben integrato nella scuola elementare e media trova minore disponibilità, attenzione e sensibilità tra i suoi coetanei di scuola superiore, e cioè tra ragazzi che si muovono, non meno del ragazzo Down, in mezzo a problematiche adolescenziali alla ricerca della propria identità. Se il contesto è attento, positivo, non protettivo ma neanche indifferente, il ragazzo Down ha l’opportunità di crescere nell’autonomia, nell’identità, nell’autostima e nelle competenze comunicative. Ma altresì importanti sono gli spazi di apprendimento: per chiarire sempre più le proprie potenzialità, per acquisire nuove competenze, per consolidare gli apprendimenti di base attraverso nuovi contenuti proposti dalla scuola. Bisogna organizzare l’attività didattica con estrema flessibilità e articolazione (sia dell’orario che delle materie), prevedere collaborazione tra insegnante di sostegno e quella di classe. Alcuni aspetti strutturali dell’inserimento nella scuola superiore rimangono problematici e andranno in futuro migliorati. La scuola superiore ha, per sua struttura, finalità di formazione e preparazione professionale specifica e rilascia diplomi aventi valore legale, alcuni dei quali spendibili nelle attività in cui abilitano (ossia di quelli delle scuole professionali). E’ per questo che gli insegnanti pongono continuamente il problema del programma da svolgere con gli altri ragazzi, dimostrandosi non sempre disponibili e capaci di predisporre programmi differenziati nelle proprie materie. D’altro canto va riconosciuto come sia difficile e complesso gestire e perseguire contemporaneamente obiettivi formativo-professionali per gli altri ragazzi. E’ importante che ciascun ragazzo venga orientato, nella scelta dell’indirizzo scolastico da perseguire, considerando una serie di fattori che vanno dal suo livello di competenze scolastiche di base, al livello di maturità sociale ed affettiva, alle sue competenze comunicative e relazionali, alla tipologia della scuola prescelta, alla collocazione di questa nel territorio. Valutare quindi l’idoneità o meno dell’inserimento nella scuola superiore. Contemporaneamente andrebbero potenziati altri canali formativi dopo la terza media, quali la formazione professionale e i tirocini di lavoro.

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15. I CORSI PRELAVORATIVI

Riferimenti essenziali per un corretto orientamento post-obbligo

Troppo spesso la persona con handicap intellettivo, qualunque sia l’entità del deficit e la sua capacità lavorativa, viene identificata con la figura di un assistito a vita, non è considerato cittadino e non diventa mai protagonista. Il Csa, Coordinamento Sanità e Assistenza, da molti anni impegnato nel settore, si è posto come obiettivo l’integrazione lavorativa per tutte le persone handicappate, in grado di svolgere un’attività lavorativa a partire dai seguenti punti di riferimento:

1. gli handicappati, come tutti gli altri cittadini, hanno il diritto e il dovere di partecipare allo sviluppo della società. Pertanto hanno anche diritto di inserirsi nell’attività lavorativa scelta;

2. il collocamento obbligatorio al lavoro deve riguardare sia gli

handicappati con piena capacità lavorativa, sia quelli con ridotta capacità lavorativa;

3. la prosecuzione agli studi dopo la scuola dell’obbligo e la frequenza di

corsi professionale o prelavorativa sono strumenti di fondamentale importanza per un idoneo inserimento lavorativo; il settore dell’assistenza sociale deve intervenire solo nei confronti degli handicappati che non sono in grado di svolgere attività lavorativa proficua o per fornire interventi diretti a compensare specifiche carenze di autonomia (ad es. assistenza domiciliare).

Il diritto-dovere al lavoro non riguarda solo coloro che hanno un rendimento lavorativo corrispondente alla media degli occupati, ma anche coloro che hanno una ridotta capacità lavorativa come è il caso degli handicappati intellettivi. Tuttavia, come per tutte le persone, a maggior ragione per questi soggetti che presentano oggettive limitazioni di apprendimento, non è ragionevole parlare di inserimento lavorativo senza affrontare il capitolo che concerne la preparazione al lavoro.

Limiti della situazione esistente

Per il ragazzo ultraquindicenne insufficiente intellettivo, non grave (dotato cioè di autonomia e capacità sufficiente per poter svolgere un’attività lavorativa) e rientrano in questo gruppo la maggior parte dei ragazzi Down, sono previsti in genere i seguenti sbocchi dopo la scuola dell’obbligo:

a) l’inserimento in strutture assistenziali (i centri diurni), che sono però idonei per i soggetti con handicap lievi. Le attività di carattere hobbistico o ludico, che in questi centri si svolgono in maniera

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prevalente, portano purtroppo ad una conseguente diminuzione o riduzione delle capacità precedentemente acquisite. Inoltre tale condizione non aiuta la maturazione del ragazzo e non può quindi essere considerata come risposta idonea per tutti quei ragazzi che potenzialmente possono avere anche una minima possibilità di inserimento lavorativo. Il centro diurno dovrebbe quindi essere ricondotto alla sua funzione di assistenza specializzata, con elevato grado di socializzazione, nei confronti di quei soggetti ultraquattordicenni, che a causa delle loro condizioni fisiche e psichiche, siano privi di potenzialità lavorative;

b) l’inserimento nei centri speciali di formazione professionale, che non

rappresentano ugualmente una soluzione sempre accettabile perché:

• non rispondono spesso alle importanti esigenze di socializzazione dei ragazzi; la struttura stessa li isola dal resto dell’ambiente e li priva delle sollecitazioni e degli stimoli che sono dati proprio dal contatto con le situazioni di normalità in quanto accolgono persone solo handicappate, spesso senza alcuna distinzione tra chi non ha la possibilità alcuna di poter essere inserito al lavoro, a causa della gravità delle proprie condizioni fisiche e/o psichiche e chi, al contrario, possiede almeno potenzialmente, capacità lavorative, anche se ridotte;

• tendono a preparare per attività lavorative specifiche che però non trovano quasi mai un riscontro lavorativo reale o perché trattasi di mansioni non adatte per i soggetti a cui sono riferiti, o perché non rispondenti alle richieste del mercato del lavoro;

• l’attività didattica non è finalizzata a sbocchi lavorativi reali; per quanto si debba riconoscere il patrimonio di esperienze maturato dagli insegnanti dei corsi speciali, per la preparazione professionale specifica e per la specializzazione acquisita nel rapporto continuo con il soggetto handicappato, tuttavia va rilevato che la loro competenza non è impiegata in direzione di una preparazione che permetta al ragazzo handicappato intellettivo di acquisire capacità finalizzate all’inserimento lavorativo. Di fatto si assiste spesso ad un “parcheggio” in questi centri, più che ad un’attività di formazione: l’orientamento è più volto a svolgere attività tese ad occupare il soggetto, piuttosto che a prepararlo in funzione di uno sbocco lavorativo successivo.

Non sempre l’inserimento nelle classi normali dei corsi di formazione professionale è la risposta più corretta. Il corso prelavorativo viene proposto come attività del Centro di formazione professionale; dopo un’attenta valutazione gli stessi insegnanti hanno concluso che non era un’esperienza positiva l’integrazione realizzata nelle classi normali degli handicappati intellettivi.

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Il giovane con handicap intellettivo, con buone capacità lavorative potenziali, inserito all’interno dei corsi normali di formazione professionale raggiungeva anche un buon grado di socializzazione con i propri compagni, ma presentava grossi limiti per quanto riguardava l’apprendimento finalizzato alla preparazione al lavoro. Inoltre, mentre nella scuola dell’obbligo l’insegnante non rappresenta, almeno solitamente, un elemento di disagio per il giovane allievo, nella scuola superiore diventata motivo evidente di indifferenziazione. Appare come una conferma del fatto che “io da solo non sono capace, sono diverso dagli altri”. E infine per gli allievi con handicap intellettivo che presentavano maggiori difficoltà, e di conseguenza seguivano un cammino separato dagli altri allievi, l’integrazione era davvero fittizia e il ragazzo sentiva di non appartenere a nessuno. A giudizio, quindi, degli insegnanti del Centro di formazione professionale, questa situazione non aveva nulla a che vedere con quanto viene inteso comunemente per integrazione e programmazione educativa mirata. La specializzazione dei corsi (corso per meccanici, corso per elettricisti…) era un limite oggettivo alla formazione pratica del giovane handicappato intellettivo. Non sempre le capacità manuali erano pienamente attivate e sviluppate: egli doveva, al contrario, continuamente adeguarsi alla parte teorica del corso e ai programmi della classe di appartenenza; anche se questi potevano a volte essere ridimensionati, non erano però mai totalmente accessibili. L’allievo con handicap vedeva i compagni progredire e sentiva la sua inadeguatezza crescente culminare con l’esclusione dagli esami e, quindi, dalla qualifica finale. Gli allievi sperimentavano situazioni simulate di ambienti di lavoro, all’interno dei laboratori del centro; ma questo non era sufficiente per i giovani con handicap intellettivo: il tempo era troppo breve per permettere di instaurare con l’azienda quel rapporto di collaborazione e sensibilizzazione che può favorire la messa in luce delle potenzialità lavorative che effettivamente possiedono. Infatti negli anni non si sono mai verificate situazioni di assunzione.

Considerazioni conclusive

Cinque anni di esperienza hanno dimostrato che i corsi prelavoratvi svolgono una funzione molto positiva sia nell’orientare i soggetti ultraquindicenni, con handicap intellettivo, sia nel valorizzare le loro conoscenza e favorire la loro maturazione. Anche se resta cruciale il nodo dell’inserimento lavorativo, dopo la formazione prelavorativa, inserimento che dipende sia da un problema più generale di riforma di collocamento al lavoro degli handicappati, che da una decisa azione rivendicativa dei sindacati e delle associazioni di tutela

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dell’utenza, tuttavia è comprovato che, con il corso prelavorativo si aumentano le possibilità di occupazione degli handicappati intellettivi in quanto sono sensibilizzati ed investiti del problema:

� gli handicappati intellettivi stessi, in primo luogo; � la famiglia che modifica l’immagine del figlio, dato l’aumento delle sue

capacità; � i colleghi di lavoro, che maturano un atteggiamento più positivo nei

confronti delle persone con handicap; � l’ambiente sindacale, che non può prendere atto del loro bisogno di

lavorare; � i datori di lavoro, che ammettono il loro “saper fare” e la resa

produttiva; � gli Enti locali, che investono risorse che permettono di eliminare dal

circuito assistenziale un numero sempre più elevato di persone in grado di raggiungere un’autonomia e una dipendenza economica.

Ci si è impegnati lungamente in questi vent’anni appena trascorsi per la realizzazione del diritto alla frequenza della scuola di tutti. Anche qui si è combattuto soprattutto con categorie di pensiero per un verso o per l’altro ostili all’inserimento degli handicappati nelle classi comuni: alcuni perché preoccupati per la loro incolumità, della mancanza di assistenza adeguata; altri perché più egoisticamente preoccupati di ritardi eventuali nell’insegnamento, di disturbo delle lezioni, di fastidio che semplicemente potevano causare ai propri figli normali; altri solo perché ritengono gli handicappati cittadini di serie “b”. L’intuizione “profetica” di chi si è lanciato in questa sfida ha avuto ragione ed è stata premiata con risultati, anche se non bisogna essere trionfalistici a tutti i costi: molto resta ancora da fare, ma ciò che conta è che la strada ormai è segnata. Ma cosa capita a quei ragazzi di 14-15 anni che riescono a percorrerla fino in fondo? Dopo la scuola dell’obbligo, che cosa viene offerto dalla società, quali percorsi, quali prospettive di vita si configurano per loro? Parliamo naturalmente dei soggetti che hanno capacità lavorative piene o anche ridotte. Di fatto, si tratta di persone che devono, come gli altri, al termine della scuola media, pensare al loro futuro: scuola, formazione, mestiere, lavoro. Certo è che, se non si riescono a realizzare completamente queste sequenze di vita, che vedono la logica conclusione nell’inserimento lavorativo della persona, anche handicappata, si fallisce l’obiettivo. Non ha senso l’intervento, sono sprecate le potenzialità raggiunte, i risultati ottenuti in anni di sforzo dalla persona handicappata,ma sono anche uno spreco inutile delle risorse finanziarie e dell’impegno degli educatori.

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16. IL LAVORO E LA CONQUISTA DELL’IDENTITA’

L’Associazione Bambini Down che si occupa dell’integrazione lavorativa, è abituata a mediare tra i bisogni delle persone che presentano un handicap mentale e le richieste del mondo produttivo normale. Il compito degli operatori del centro studi per l’integrazione lavorativa di giovani handicappati psichici, è quello di rendere possibile l’incontro tra queste due realtà. E’ importante individuare in che tempi, in quali spazi e con quali modalità queste esigenze si possano felicemente coniugare. Quando per la prima volta si incontra una persona Down, il fatto che appartenga ad una categoria speciale di handicappati mentali, non aiuta ad avere risposte preconfezionate e tanto meno a sapere già quello che si deve fare. E’ necessario porsi di fronte al soggetto con un atteggiamento di attesa e di ascolto, che permetta di intuirne e comprenderne le possibilità evolutive. Bisogna capire le sue capacità reali e, attraverso una serie di tirocini formativi in azienda, svilupparle e renderle stabili. Solo così sarà possibile immaginare e permettere il suo cammino nel mondo della lavoro e della vita. Il Centro studi della Usl 3 di Genova ha inserito con diversi progetti, nel tessuto produttivo normale 50 soggetti Down. Dopo un anno di Borsa di lavoro 6 sono stati assunti in aziende cittadine, 30 sono in Borsa a tempo indeterminato e lavorano in enti pubblici ed associazioni. Questo progetto assistenziale può permettere anche a coloro che non raggiungono la piena produttività di rimanere nel circuito lavorativo. Qui di seguito viene riportato un esempio di un soggetto inserito in ambito lavorativo: Claudia, una giovane di 18 anni, è stata presentata al Centro 3 anni fa, con la richiesta di verificare la sua idoneità ad un percorso lavorativo. Nel volto orientaleggiante è scritta la sua appartenenza alla categoria Down; ha un handicap mentale di grado medio grave, il suo deficit intellettivo è stato stimato e computato, comparandolo ad una serie di classificazioni che descrivono lo sviluppo mentale tipico e le sue varie tappe di progressione. E’ emerso che il suo deficit intellettivo non le permette di unificare la realtà in rappresentazioni intellettuali. Attorno a lei il mondo è semplice, fatto di vividi particolari e di concretezza, un mondo di cui può cogliere le profondità espressive ed emozionali o in cui può perdersi in una frammentarietà di significati senza senso. Claudia non sa destreggiarsi tra le sottrazioni e le moltiplicazioni, non conosce teoremi o i principi generali delle scienze. Il mondo concreto intorno a lei è, però, integro e in questa realtà può orientarsi, compiere azioni, viverci. E’ capace di svolgere tutta una serie di azioni quotidiane, che fanno parte della vita di tutti. Nella scuola elementare, dove è inserita con una Borsa a tempo indeterminato, si occupa, con senso di responsabilità, del refettorio e della pulizia delle classi. Senza poter filtrare il mondo con le idee astratte, Claudia si esprime con un linguaggio ed un pensiero ricco di immagini e carico di emozioni. Per chi è

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abituato a vivere nella formalità e nell’apparenza, la semplice capacità comunicativa può apparire sconcertante. Considerando l’insufficienza mentale un elemento che fortemente invalida la vita di questi soggetti, li custodiamo e li accompagniamo costantemente, lasciandoli vivere in una sorta di mondo irreale e felice. Sono trattati come eterni bambini a cui non è permesso crescere; forse è più semplice e meno perturbante relegarli per sempre nell’infanzia che pensarli uomini, capaci di avere una loro autonomia di vita, una loro sessualità. Il lavoro, quindi, è una tappa fondamentale; come una sorta di iniziazione sociale,crea il confine tra il mondo dell’infanzia, dell’adolescenza e quello degli adulti, segna il passaggio dallo spazio dei giochi, dove, custoditi e tutelati, possono vivere in una situazione di dipendenza e lo spazio dei doveri e delle responsabilità. Non c’è possibilità di un’identità reale adulta senza l’assegnazione di ruoli sociali attivi. Quando Claudia si è presentata al centro, le sue modalità relazionali erano marcatamente infantili: voleva essere presa per mano, lodata, vezzeggiata. Trattata da bambina si comportava come tale. I genitori, infatti, pensavano a tutto, sostituendosi a lei; la vestivano, la pettinavano, ne definivano ogni attimo della giornata. Nella costante opera di cura e di tutela, non avevano più momenti da dedicare a se stessi. Il tempo era scandito e condizionato dalla presenza di Claudia. Il ruolo che la figlia aveva, all’interno del nucleo familiare, era caratterizzato dalla passività; erano i genitori a svegliarla al mattino, a prepararle la colazione, a rifarle il letto, a riordinare la camera. Forse per evitarle frustrazioni, le era permesso di vivere in una realtà finta ed ovattata, in un mondo senza regole né richieste. Molto spesso anche le risposte sociali colludono con l’atteggiamento dei genitori. Si costituiscono, per il benessere degli handicappati, strutture che hanno un compito generico di accoglienza e di custodia. Ancora in molti paesi europei, questi soggetti hanno percorsi differenziati, lontani dai circuiti normali di vita. Continuando a trattare gli handicappati mentali come bambini, anche quando sono adolescenti o uomini, li lasceremo vivere in una dimensione astorica ed irreale, non saranno più in grado di dare uno scopo ed un significato alla loro esistenza, alla quale gli adulti stessi ne negano un senso. Per poter essere nel mondo del lavoro Claudia, doveva modificare le sue modalità relazionali. Per chi presenta, come lei, una fragilità relazionale o un “io” poco strutturato, può provare, nei confronti di specifiche richieste, sentimenti di abbandono e di profonda insicurezza. Claudia richiedeva, nel rapporto con l’altro, una funzione ancora fortemente contenitiva. Consapevoli che, in casi come questo, il percorso lavorativo non può bastare a risolvere al soggetto il problema identificatorio, sono stati coinvolti i genitori di Claudia nel progetto.

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Per esserle davvero utili, non erano necessarie battaglie sociali, dovevano provare a distanziarsi un po’ da lei, darle fiducia, affidarle e richiederle compiti precisi, tollerandone gli errori e le lentezze. E’ stato proposto a Claudia di fare un’esperienza lavorativa semplice, con la frequenza di poche ore settimanali, individuando gruppi di lavoro che fossero sufficientemente accoglienti. Inizialmente per lei il lavoro era una sorta di tempo occupato, che le riempiva le ore della giornata, confuso nella sua testa tra le tante attività ricreative e riabilitative che svolgeva. Il progetto, gli obiettivi, il significato dell’esperienza non le appartenevano. Erano nella mente e nel pensiero degli adulti a cui lei docilmente si affidava. L’ingresso nel mondo del lavoro ha permesso a Claudia di sperimentare, al di fuori della sfera familiare, un altro modo di essere nella relazione. Quando, per noia o per stanchezza, interrompeva il lavoro iniziato, le colleghe la riportavano, con calda fermezza, alle sue mansioni. In questo modo si può mantenere la giusta distanza e stabilire un rapporto su di un piano di realtà; i compagni accoglieranno il Down e lo accetteranno per quello che è realmente, richiedendo, nel rispetto delle sue capacità e possibilità, dei compiti che sarà tenuto a svolgere. Nel percorso lavorativo, attraverso l’assegnazione del ruolo e delle mansioni, Claudia ha iniziato lentamente a riconoscersi come persona capace di fare. Stimata ed apprezzata dalle colleghe, è stato possibile per lei dare un senso e un valore al proprio operato. Nel percorso di integrazione lavorativa è necessario capire come il soggetto handicappato mentale utilizza e sviluppa le proprie abilità e potenzialità, e con quali modalità relazionali si pone nel confronto con gli altri. Claudia presenta ancora tratti infantili ed immaturi, le lentezze sono, in parte, rimaste. Ma il senso di responsabilità con cui affronta il lavoro e le sue effettive capacità, le hanno permesso di avere nel mondo un proprio spazio, in cui si muove non come soggetto Down, ma come bidella di una scuola elementare.

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17. ANALISI DI ESPERIENZE LAVORATIVE DI ADULTI CON SINDROME DI DOWN

L’idea di svolgere un’indagine sull’inserimento lavorativo delle persone Down in Italia, è nata dalla consapevolezza della centralità del tema del lavoro e dall’esigenza di affermare con forza il diritto delle persone Down ad esso. Oggi il tema del lavoro assume particolare importanza, non solo perché sancisce il diritto-dovere di essere cittadini lavoratori a tutti gli effetti per quegli invalidi che hanno residua capacità lavorativa, ma anche perché l’evoluzione delle persone Down e l’aumento di tale popolazione adulta sollecita un investimento di attenzione e di risorse della società in tale direzione. Era necessario supportare tale affermazione di diritto con una documentazione che ne dimostrasse la fattibilità e offrisse elementi di riflessione a quanti, famiglie, operatori, strutture politiche e amministrative, sono chiamati ad intervenire. Mancava inoltre un’analisi sia quantitativa che qualitativa delle esperienze comunque presenti sul territorio. L’obiettivo della ricerca è stato quindi la raccolta del maggior numero possibile di casi di lavoratori con Sindrome di Down. Su di essi si è poi avviata un’analisi qualitativa che permettesse di conoscere, attraverso la storia con cui si era arrivati agli inserimenti, le modalità di formazione e collocamento, le caratteristiche dei lavoratori Down e l’organizzazione del lavoro, i fattori di successo e di riproducibilità di tali esperienze.

Le aziende

Le aziende in cui sono stati inseriti i lavoratori con Sindrome di Down sono per la maggior parte enti pubblici (25 su 34); 9 persone sono inserite nelle scuole (asili nido, scuole materne ed elementari), 6 lavorano presso strutture comunali, 3 nei ministeri (dell’Interno e delle Finanze), 3 negli ospedali, una presso l’amministrazione della Provincia, una presso le Ferrovie dello Stato, una alla Rai e una presso gli uffici di un’Unità sanitaria locale, un altro lavoratore Down è inserito in un’azienda municipalizzata. Come è evidente, il settore del terziario riveste una grossa importanza nell’ambito dell’indagine, mentre i restanti settori risultano essere distribuiti in ugual misura. Contrariamente a chi vede le persone con handicap mentale più portate ad un lavoro di tipo artistico-artigianale, i settori del terziario e dell’industria insieme assorbono la maggioranza dei lavoratori, circa l’88%, mentre solo una piccola parte lavora nel campo dell’agricoltura e dell’artigianato.

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Modalità di collocamento

Analizzando le modalità attraverso cui sono state collocate al lavoro, dalle risposte fornite dagli operatori e dalle famiglie, risulta che pochi sono stati inseriti tramite Ufficio di collocamento ordinario o tramite il Collocamento obbligatorio, mentre sono molto frequenti quei casi in cui l’assunzione è la conclusione di un tirocinio professionale nella stessa azienda. Oltre all’importanza del tirocinio va sottolineato il ruolo delle famiglie, non solo per quei casi in cui hanno determinato l’individuazione del posto di lavoro, ma anche per l’azione di pressione sociale esercitata da esse e citata in commento nei questionari dagli operatori. Relativamente all’anzianità di collocamento, un dato importante è che dei 34 lavoratori Down presi in esame, ben 5 lavorano da più di nove anni e altri 4 da più di sei anni. Questi dati confermano l’ipotesi della ricerca e cioè che l’inserimento al lavoro di persone con handicap mentale è effettivamente possibile e non è necessariamente un’esperienza a tempo determinato. Il ruolo di lavoratore, una volta conquistato, rimane fisso nel tempo conferendo al disabile e alla sua famiglia maggiore tranquillità rispetto al futuro. Tale affermazione assume maggior forza se consideriamo i tipi di contratto con i quali sono stati assunti i lavoratori Down: di essi infatti il 76% ha un contratto a tempo indeterminato.

Scelta della mansioni

Relativamente ai criteri di scelta delle mansioni da affidare ai lavoratori Down, le aziende hanno utilizzato modalità diverse. Una buona parte dei lavoratori (il 41%), al momento dell’assunzione aveva già degli incarichi stabiliti durante il tirocinio svolto precedentemente nella stessa azienda. Per altri lavoratori Down (30%) la modalità prevalente utilizzata è stata quella di analizzare da una parte le abilità tecniche necessarie per svolgere una data mansione e dall’altra verificare la rispondenza con le effettive capacità lavorative. E’ significativo che nella scelta delle mansioni siano state quasi sempre prese in considerazione le capacità delle persone Down. Tale attenzione è condizione necessaria per fornire ai disabili l’effettiva possibilità di svolgere il loro lavoro. La maggior parte dei lavoratori Down ha avuto una figura di riferimento come supporto nell’apprendimento delle mansioni. Il ruolo di “istruttore” è stato affidato nel 68% dei casi a colleghi. Riportiamo qui di seguito qualche commento su alcuni lavoratori Down tratti dalle interviste ai colleghi.

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Andrea ha 20 anni, lavora presso una Unità Sanitaria Locale ed è stato assunto come commesso: smista la posta, esegue fotocopie, ecc. Dicono di lui sul posto di lavoro:”L’esperienza lavorativa è molto positiva; il ragazzo ha acquistato sicurezza nello svolgimento delle mansioni assegnateli, anche se permane ancora il rifiuto di alcuni incarichi (come ad es. rispondere al telefono). Ha un rapporto confidenziale con tutti i colleghi, ma ricerca e ha bisogno di alcune persone di riferimento per parlare di sé e talvolta delle sue paure. Complessivamente si mostra sereno, la sua presenza è comunque puntuale, segue i turni ed è attento all’orario; mostra anche gioia ed interesse nel lavoro”. In alcuni casi i colleghi si interrogano sulla qualità degli inserimenti e su come si potrebbero modificare. Come nel caso di Stefano, 21 anni, che lavora in una fabbrica di cosmetici nel reparto di confezionamento:”Il fatto di non avere appoggi esterni quali operatori che seguono da vicino il lavoratore Down pesa molto. Gli si fa svolgere solo lavori semplici e ripetitivi, ma probabilmente Stefano sarebbe in grado di fare anche cose più complesse. I colleghi si sono mostrati disponibili e comunque Stefano dimostra di tenere molto al suo lavoro”. A conferma del fatto che la maggior parte dei lavoratori Down ha trovato una collocazione adeguata, le aziende affermano che il 74% di essi non ha cambiato mansione dall’assunzione ad oggi. Quelli che hanno cambiato mansione lo hanno fatto per motivi diversi non necessariamente legati a difficoltà di apprendimento del lavoro. Al contrario tre lavoratori, dimostrando di essere in grado di progredire e di poter svolgere un lavoro più impegnativo rispetto a quello inizialmente affidatogli.

Presenza in azienda

Rispetto alla presenza sul posto di lavoro, il 93% si presenta regolarmente; dalle interviste ai colleghi ed alle famiglie emerge l’attaccamento al posto di lavoro. Un padre racconta:”In questi giorni Paola è ancora più felice perché ha avuto l’opportunità di essere applicata al centralino telefonico con il compito di smistare le telefonate alle varie stanze; una sua collega mi ha assicurato che svolge bene anche questo servizio e lei, naturalmente è oltremodo felice. Da quando è entrata a lavorare sembra un’altra persona, più seria e più spigliata in quanto si sente realizzata. Al mattino si alza prima delle sette anche senza essere chiamata; non ha mai ritardato un giorno”. L’82% dei lavoratori presi in esame rispetta l’orario di lavoro; il 41% del gruppo inserito nella ricerca deve utilizzare quotidianamente macchine e attrezzi di vario genere e di diverse difficoltà di utilizzazione. Alcuni di essi lavorano ormai da molti anni; tuttavia non si sono verificati infortuni. Questo si contrappone all’idea che le persone con ritardo mentale risultino, per la loro condizione, difficilmente consapevoli della pericolosità di ambienti e macchine e siano per questo fonte di problemi per l’azienda.

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Cambiamenti nelle persone Down

E’ inevitabile che un rapporto di lavoro, in quanto regolato da norme e orari, porti la persona ad adattarsi a nuove modalità di comportamento, determinando necessariamente un modo di essere più adulto e responsabile. Per la maggior parte dei lavoratori è cambiato non solo il modo di relazionarsi con gli altri e di gestire i propri spazi, ma anche il modo di giudicare se stessi e di sentirsi adulti. L’esperienza del lavoro ha favorito l’acquisizione di alcune competenze e ha rafforzato le abilità già esistenti. Ad esempio per quanto riguarda gli spostamenti, il 73% raggiunge in modo autonomo il posto di lavoro (a piedi, con gli autobus, due persone con il motorino)

Conclusioni

Lavorare è possibile anche per una persona Down; i lavoratori Down conosciuti non sono persone speciali, non hanno un particolare livello intellettivo né economico, anzi molti di loro avendo un’età superiore ai 25 anni non hanno potuto usufruire di una serie di stimoli e opportunità, sia di tipo riabilitativo che educativo a disposizione dei bambini Down di oggi. Quello di cui hanno però potuto usufruire è stato un iter formativo-professionale e una modalità di collocamento mirati. Dai dati delle aziende, essi sono dei lavoratori a tutti gli effetti, con ruoli produttivi, sia pure dimensionati alle loro effettive capacità. Lavorare è importante, il lavoro è un valore che contribuisce a realizzare la persona umana, oltre che a fornire la possibilità di sostentamento. In ogni persona che diviene adulta e inizia a lavorare, crescono sicurezza, autostima e spirito di iniziativa. Attraverso questa indagine non si è potuto trovare il posto di lavoro ideale per una persona Down, che garantisse il successo dell’inserimento, ma si sono incontrate tante situazioni reali e diverse tra loro. Alcune caratteristiche erano comuni alle varie esperienze: la semplicità delle mansioni e la scelta di un posto adeguato o adeguabile alle singole persone Down. Questa considerazione mette in luce due aspetti: l’unicità di ogni storia e la necessità di confrontare i posti disponibili con i lavoratori possibili. Sarà allora possibile inserire una persona Down in molti ambienti di lavoro purchè si rispettino le caratteristiche sopra evidenziate e, un po’ come per tutti, si troveranno più operai Down in aree industriali e più commessi di ufficio in aree dove prevale il terziario.

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PARTE SECONDA

18. ANALISI DI UN CASO ATTRAVERSO L’ARTETERAPIA

L’utilità dell’arteterapia

L'Arte Terapia è un trattamento psicologico che compare nella seconda metà del XX secolo a seguito delle sperimentazioni di psicoterapia dinamica derivate dalla Psicoanalisi anche se in alcuni campi, quali la musicoterapia e il teatroterapia, vanta origini più antiche. Si conoscono infatti vere e proprie pratiche di musicoterapia passiva (somministrazione di brani musicali con scopo ansiolitico) nei Manicomi arabi già dal 800 d.c. e con Pinel la terapia morale comincia proprio come pratica teatrale nei Manicomi europei. Ma è dal 1950 che si conferma come terapia individuale per poi espandersi sempre di più al gruppo e sempre di più in contesti rigorosi di espressione non verbale. Il setting delle arti terapie è un laboratorio dotato di materiali informi a basso costo e di spazi ampi e sicuri per consentire la libertà dei movimenti,che sono del corpo espressione non verbale. Per questa ragione alcuni esercizi preliminari di significato psicomotorio possono precedere le sedute di espressione figurativa o musicale o quant'altro. Generalmente il terapista non fa consegne particolari, nè suggerisce il tema:ma dà la consegna di non usare la parola,la voce sì,ma la parola no. L'abbigliamento deve essere informale e deve potersi sporcare,le scarpe si devono poter togliere con facilità e si deve poter camminare scalzi senza preoccupazioni. Tutto il setting è volto a favorire la libertà dell'espressione non verbale purchè spontanea. Il tema, fondamentalmente libero, può essere stimolato da alcune consegne che facilitino l'attivazione di meccanismi proiettivi: quale quegli stimoli basilari che indicano la costruzione di una maschera o di una scatola. Entrambi questi suggerimenti portano nella dimensione del Self e della sua rappresentazione, che comunque non deve avere la benchè minima preoccupazione estetica. Costruire una scatola è dare forma al contenitore, che poi si riempie di contenuti, così che diventa la rappresentazione del Self e la sua presentazione all'esterno. Analogamente la maschera è il personaggio che si rappresenta. Tratto saliente alla base dell'Arte Terapia, che si estrinseca in tutte le discipline artistiche, è l'evidenza che esiste una comunicazione non verbale che passa nella relazione in modo più efficace e più diretto. La situazione di un setting Arte terapico è un contesto che passa dalla confusione magmatica e caotica, spesso chiassosa, al silenzio percettivo. Il silenzio verbale non è il silenzio del corpo e il movimento è sempre perciò consentito senza limitazione alcuna. Quando un'Arte Terapia è prevalentemente centrata sul linguaggio del

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corpo, movimenti ritmici o non ritmici, aggressivi o dolci, in ogni modo spontanei si definisce danza terapia.

L'Arte Terapia condivide con l'Arte solo il primo presupposto che è quello d'essere mezzo efficace di comunicazione valido però nei limiti del qui e ora e di chi lo produce: cioè soggettivo come tutto il processo psicoanalitico. Medesime riflessioni si devono porre tra l'Arte Astratta o informale e le macchie di colore che l'Arte Terapia produce in modo esperenziale: nel primo caso il messaggio e la comunicazione appartengono ad un ordine logico che, anche se non immediatamente percettibile in senso figurativo, comunque esiste nelle scelte d'accostamenti di linee e colori, mentre in Arte Terapia quest'ordine logico non è richiesto e le licenze fantastiche hanno significato solo soggettivo ed in ultima analisi meramente espressivo per evocare una comunicazione attraverso l'emozione che dalle macchie può trasparire per essere letta da chi ne ha interesse esclusivamente nell'ambito della relazione trasferale.

Fermo restando quindi che occorre sempre distinguere se un proposta d'Arte Terapia è invero proposta occupazionale o proposta psicoterapica integrata o semplicemente un trattamento a sé, è indubbio che, in senso autentico, l'Arte Terapia non produce Arte, ma trae un valore terapeutico dalla messa in atto di un processo creativo che consente di sperimentare una strutturazione delle funzioni dell'IO attraverso una regressione caotica che ripropone il caos pre-creativo. Nel prodotto si ricompongono le parti scisse e si va ad indurre un cambiamento, anche se non consapevole, nel senso di una migliore integrazione del Self che può corrispondere al miglioramento sintomatologico. Poiché la sperimentazione del caos creativo è fenomeno naturale lo sviluppo di un trattamento d'Arte Terapia appare più rapido e meno artificioso di un trattamento psicoterapico dinamico.

Il ruolo della musica

Il ruolo della musica in Arte Terapia è un altro aspetto molto importante: essa può essere definita come l’arte di comporre i suoni. La musica e l’organizzazione dei suoni più in generale sono per l’uomo un’invariante antropologica: da sempre, in ogni popolo egli ha suonato, ha fatto musica. Tomatis sostiene che “ovunque sulla terra la musica è parte integrante del patrimonio culturale, e la si può considerare come il riflesso della diversità delle etnie. Corrisponde davvero alle differenze linguistiche che si osservano nel mondo”. Noi occidentali siamo soliti riferirci al nostro linguaggio musicale, ma è bene sapere che nel mondo esistono molti altri sistemi musicali così come esistono moltissime tipologie di espressioni musicali. Secondo gli etnomusicologi, gli studiosi delle origini del fenomeno musicale, all’origine della musica ci fu un linguaggio che utilizzava i suoni come codice comunicativo; musica e linguaggio nacquero insieme; solo in un secondo momento presero direzioni differenti.

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L’essere umano è ritmicità, la sua voce risuona nel corpo che per stare bene deve tendere ad un equilibrio generale basato su un’armonizzazione dei ritmi fisiologici interni con quelli dell’ambiente. Il bisogno e ricerca di armonia sono alla base del senso di benessere. Il concetto di armonia è sinonimo ed espressione di proporzione e di accordo. Anche nei luoghi comuni si è soliti dire che ci si sente in armonia quando si va d’accordo o, ancora, si giudica armonioso un oggetto quando le sue parti sono ben proporzionate tra loro. Quando la musica incontra il piacere di chi la ascolta e risuona piacevolmente in tutto il nostro corpo, genera armonia conducendoci verso una condizione di appagamento personale. La psicologia esistenziale afferma da sempre che “l’intenzionalità primordiale è armonia, ritmo, equilibrio e che la musicalità naturale insita nell’uomo proviene dalla musicalità, dall’armonia dell’universo”. L’azione benefica della musica sull’uomo è risaputa; quando ottiene l’effetto di farci entrare in armonia con noi stessi e con l’ambiente è positiva. In alcune situazioni può addirittura aiutarci a prendere coscienza di alcuni aspetti interiori inconsci facendoci conoscere parti del corpo ancora sconosciute. La musica a predominanza ritmica stimola ad una motricità in accordo con il ritmo attraverso movimenti ben precisi, coordinati con le accentuazioni sequenziali. Il ritmo infatti, segue le medesime leggi do organizzazione temporale della contrazione muscolare: quando si ascolta una musica o ci si muove in accordo, la sua ritmicità ci “pervade” all’istante senza gli interventi del pensiero e della riflessione. La regolazione temporale dell’attività muscolare influenzata dalla ritmicità della musica avviene prevalentemente a livello sottocorticale. Ogni intervento cognitivo potrebbe causare la perdita dell’espressività ritmico-gestuale spontanea, riducendo lo svolgersi dell’attività a mera riproduzione di codici programmati mentalmente. Quando la predominanza della musica è melodica, stimola ad una motricità caratterizzata da un alternarsi di tensioni e detensioni muscolari corrispondente al “crescere” e “decrescere” della musica, cioè all’intensità e alla frequenza delle note. Questo fenomeno invita alla produzione di movimenti armonici e rotondi che avvengono alla massima escursione articolare coinvolgendo l’intera corporeità. E’ inoltre connesso con le sensazioni emotive che la qualità della musica produce. Ciò accade perché siamo visceralmente molto sensibili alle vibrazioni acustiche, anzi il nostro corpo “risuona al suono” prodotto dalla musica. Alcuni tipi di musiche e di suoni, soprattutto le vibrazioni prodotte dal tamburo, hanno effetti diretti ed immediati sul nostro corpo attraverso la risonanza del diaframma. “All’inizio era il tamburo” è una famosa frase di Sachs, il più grande ricercatore dell’origine degli strumenti musicali. Il tamburo infatti è considerato l’archetipo di ogni strumento, è il suono della terra, il ritmo dl cuore, è fatto con la pelle di animale (in origine considerato sacro) e risuona nella pancia. E’ inoltre lo strumento musicale più diffuso e presente in ogni cultura e

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rappresenta la dimensione corporea del sentire grazie alle sue vibrazioni che risuonano nel nostro diaframma. Il diaframma infatti, oltre ad assolvere alle funzioni comunemente note come la respirazione e il sostegno ai vari organi interni, è in grado di vibrare in sintonia con le vibrazioni prodotte dalla pelle dal tamburo ed è anche particolarmente sensibile alle variazioni emotive della persona. Recepisce i messaggi emozionali provenienti sia dall’ambiente esterno che dall’interiorità e reagisce vibrando con modalità differenti a seconda del tipo di emozione. Questo avviene secondo il principio del sincronismo delle vibrazioni, cioè della possibilità che uno strumento vibrando ha, di far risuonare altri corpi se incontra in questi la medesima tonalità. Il diaframma viscero-tonico possiede una vasta scala di tonalità e risuona proprio come una scala di note musicali. I suoni prodotti dagli strumenti a percussione rinforzano il sistema energetico della persona grazie alla qualità vibratoria, all’alternanza di accentuazioni e pause e alla ritmicità quasi “pulsativa” che li caratterizza. Il sistema muscolare dell’uomo nei suoi aspetti tonico-affettivo-posturali inoltre, è particolarmente sensibile alle emozioni e reagisce attraverso una sorta di tensione e/o detensione che può anche cronicizzarsi. Esiste con certezza una sorta di catena cinetica che collega le vibrazioni dei suoni con le emozioni che vanno ad influenzare l’attività della formazione reticolare ed il tono di base. I suoni accentuati, tipici delle percussioni aumentano il livello del tono muscolare articolare e degli arti, le musiche melodiche invece abbassano il tono muscolare ed hanno un effetto calmante. Nelle attività espressive lo stimolare la motricità attraverso il supporto musicale consente dunque di “incontrare” l’interezza della persona favorendo l’aggiustamento dei ritmi personali con quelli esterni e rinforzando la dimensione emozionale del sé grazie alla ricchezza di melodie di cui la musica dispone.

Non dimentichiamo dell’importanza sia degli interessi degli allievi sia degli obiettivi funzionali. Se l’uso che verrà fatto della musica sarà “vantaggioso” per la crescita di ciascuno, quindi se l’educatore sarà capace di “sentire” le vibrazioni della musica e scegliere quelle più adeguate e più consone allo sviluppo degli allievi, tale percorso rivelerà con il tempo effetti positivi sulla crescita globale della personalità.

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Presentazione di un caso con relativo intervento

Quest’anno il tirocinio è rivolto a L., un ragazzo di 16 anni affetto dalla Sindrome di Down accompagnata da un lieve ritardo mentale.

Durante la fase di osservazione ho potuto notare che viene sempre accompagnato dalla madre, che segue con attenzione ciò che L. compie durante le attività. Frequenta una scuola per soggetti con disabilità e ritardo mentale, qui oltre a svolgere attività volte all’apprendimento, segue vari laboratori in cui vengono esercitate diverse attività manuali, in particolare quello artigianale.

Attraverso due incontri di presentazione ho potuto osservare e notare alcune caratteristiche fisiche e comportamentali: la sua corporatura è esile, per certi tratti quasi fragile; le spalle sporgenti protendono in avanti accentuando una postura sbilanciata. Le gambe minute si muovono con disinvoltura nello spazio circostante, evidenziando una notevole padronanza e conoscenza di alcuni movimenti corporei.

Nonostante alcune limitazioni di movimento dovute ad una difficoltà di appoggio dei piedi, L. ha un buon contatto col suolo e si muove liberamente manifestando grande entusiasmo e partecipazione.

Dietro gli occhiali compaiono due occhietti azzurrini che sono sempre vigili, seguono lo sguardo dell’insegnante in ogni suo movimento, pronti per assimilarli e poterli ripetere. Di fronte a qualche difficoltà non perde la sua espressione serena, ma si impegna cercando di superarle; quando ci riesce ecco che un sorriso illumina il suo visino.

Gli piace muoversi usando tutto il corpo e manifesta un buon orientamento nello spazio. Sembra trovarsi a suo agio e segue sempre con attenzione le direttive dell’insegnante.

L’espressione verbale è carente, pronuncia poche parole e si esprime con una certa difficoltà, dovuta anche alla presenza di balbuzie minime. Il tono di voce è piuttosto basso, ma quando esprime la sua gioia, emette grida di esultazione.

Contenuti: sulla base di quanto ho potuto osservare il progetto è impostato sfruttando ed evidenziando la spiccata qualità di espressione corporea, attraverso il gioco, il colore, la musica.

Verranno utilizzati vari strumenti come fogli, stoffe colorate,palloncini, ecc. tutto ciò al fine di stimolare l’immaginazione attraverso le percezioni

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sensoriali, stabilire un contatto acquisendo fiducia e favorendo lo sviluppo di una relazione spazio-corpo.

Successivamente verranno fissati i seguenti obiettivi:

Potenziamento dell’espressione corporea;

Sviluppo del Sé corporeo;

Miglioramento dell’equilibrio;

Potenziamento dell’attività creativa attraverso la realizzazione di un oggetto.

Setting: gli incontri si svolgono presso la Fashion Dance School Ballet in via XX settembre, 8 a Busto Arsizio e avvengono il sabato della durata di un’ora o poco più.

Il locale a disposizione è molto confortevole ed ampio: le pareti dipinte di giallo-arancio creano un’atmosfera rilassante, quasi familiare; al centro vi è una colonna che ostacola il percorso dell’intera stanza, ma al tempo stesso crea una sorta di “campo immaginario” dove essa può diventare e simboleggiare qualunque cosa.

SVOLGIMENTO DEGLI INCONTRI

1 ^INCONTRO (27 gennaio): Come in ogni primo incontro che si rispetti la tensione e mille dubbi sull’esito del primo contatto hanno invaso mente e corpo, facendo in modo da sentirmi abbastanza agitata. La mia paura maggiore era quella di non riuscire ad interessare L. con le mie proposte, ma ogni incertezza e paura sono svanite nel momento in cui si è seduto di fronte a me: appare tranquillo, rilassato e per nulla preoccupato della nostra presenza. Introduco una breve presentazione degli incontri che faremo insieme, facendo anche delle domande relative ai gusti musicali ed altri interessi. A questo punto ho distribuito sul pavimento dei cartoncini colorati e gli ho chiesto di scegliere il suo colore preferito: ha scelto il rosso; a turno noi abbiamo indicato i nostri motivandone la scelta (in alcuni incontri ha collaborato una mia compagna con il ruolo di osservatrice), così ha fatto anche lui rispondendo che il rosso gli ricorda la Ferrari, poi ha sottolineato che comunque gli piacciono un po’ tutti i colori. Nella scelta del colore si mette in

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posa di riflessione col dito poggiato sulla tempia, si concede qualche minuto e poi risponde. Ora distribuisco i ritagli colorati dalle diverse forme e propongo di posizionarli su di un foglio bianco a piacimento. Durante questa operazione ( fatta a turno anche da noi) rivolgo alcune domande a L. relative alle sue preferenze sportive o altro genere, egli mi guarda e risponde con aria abbastanza sicura, è molto attento a tutto ciò che avviene e se qualcuno di noi dimentica di scegliere un cartoncino, interviene prontamente dicendo:”Tocca a te!”; sa aspettare il suo turno e quando giunge il suo momento assume una posizione fiera e compare un sorriso di soddisfazione. Una volta riempito il foglio gli chiedo se è soddisfatto del risultato o se preferisce continuare ad inserire le ultime forme rimaste: non si preoccupa di sovrapporre più colori e si diverte ad usare tutti i cartoncini. A questo punto gli chiedo di osservare la composizione e dare un parere al risultato ottenuto, ma non riuscendo ad esprimere nulla, gli propongo di guardarlo provando a girare il foglio, questa volta focalizzando l’attenzione su di un particolare. Con l’aiuto di Stefania da una forma è riuscito a trovare un’associazione appropriata: un palloncino. Durante l’esercizio è passato da una posizione seduta con le gambe incrociate ad una sdraiata con i gomiti poggiati sul pavimento, il viso disteso e interessato al gioco. Ora gli propongo da fare il contrario, ossia togliere gli elementi in eccesso in modo da creare una sorta di “ordine”, per giungere poi al passaggio successivo di realizzare un disegno ben definito; sceglie un quadrato giallo e lo posiziona al centro del foglio, quest’ ultimo messo in posizione verticale; con l’aggiunta di un triangolo rosso è diventata una casa, poi ha fatto l’albero, un prato, dei fiori. A lavoro ultimato gli chiedo se gli piace o se vuole cambiare qualcosa, ma è soddisfatto così e quindi gli propongo di incollare i pezzi in modo da poter ammirare l’opera realizzata; accetta volentieri e incolla i ritagli partendo dal basso del disegno. Al termine dell’operazione ammira compiaciuto il suo lavoro e con aria soddisfatta lo mostra alla sua mamma. Come primo incontro mi sono sentita molto tranquilla e rilassata nel vedere che era molto interessato ad ogni proposta che facevo; si è creato subito un clima disteso e ciò ha favorito ad un buon svolgimento dell’incontro.

Anche il livello di intesa con Stefania è stato buono, ha trovato subito il suo ruolo e ha interagito molto bene sia con L. che con me; bastava uno sguardo tra di noi per intenderci.

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2^ INCONTRO (17 febbraio): Ho portato dei palloncini, dopo che L. ha scelto il colore che preferiva, rosso, li ho gonfiati. Ci siamo sdraiati a terra e gli ho spiegato come tenere il palloncino poggiato sull’addome per vedere cosa succede quando respira. Non riusciva a calibrare il peso delle mani che comprimevano il palloncino, allora ho suggerito di tenerlo solo con due dita e così il contatto è stato più leggero. Gli ho spiegato brevemente come funziona la respirazione, prendendo come esempio il palloncino; dopodichè l’attenzione si è rivolta al resto del corpo: mani, braccia, testa, gambe e piedi hanno avvertito il contatto col palloncino. Gradualmente ci siamo alzati e abbiamo iniziato a giocare lanciandolo in alto, poi provando a farlo passare da una mano all’altra e poi ancora a calciarlo. Ora ci muoviamo nello spazio lanciandolo di qua e di là; L. è divertito ed interessato, soprattutto quando si è avvicinato alla colonna della stanza e il palloncino è rimasto sospeso senza scendere, era sorpreso e continuava a ridere del misterioso avvenimento; poi, dopo averlo mosso si è ripresa l’attività questa volta provando a correre mentre si lancia il palloncino: ci sono state alcune difficoltà nel riuscire a compiere due azioni contemporaneamente, ma ciò nonostante ha continuato a divertirsi ugualmente. Suggerisco di danzare col palloncino, facendo movimenti leggeri e fluidi: in questo caso dimostra una buona capacità e scioltezza nei movimenti. Il gioco prosegue in gruppo passandoci il palloncino a vicenda; ancora una volta conferma il rispetto del turno e la totale disponibilità a renderci partecipi, ma soprattutto compagne di gioco. Per ravvivare un po’ l’attività propongo di lanciare in alto il palloncino quasi a toccare il soffitto facendo dei salti; ogni qualvolta riesce nell’impresa un enorme sorriso si accende sul suo viso e ci guarda compiaciuto, noi ricambiamo complimentandoci. Ora per rilassarci propongo di sdraiarci nuovamente e sentire com’è il respiro dopo quell’attività, cos’è cambiato nel corpo: guidandolo con alcune domande ha preso coscienza del suo corpo, ha sentito il battito del cuore accelerato, le gambe e le braccia molli. Gli chiedo di chiudere gli occhi e di sentire cos’altro succede nel corpo e se una parte di esso che sente di più; ha difficoltà a chiudere gli occhi, li riapre subito e dice di sentire solo la musica in sottofondo. Sempre guidandolo gli chiedo quale parte del corpo ha sentito di più, mi risponde dicendo i muscoli; allora gli propongo di provare a disegnarli su di un foglio bianco utilizzando dei pastelli a cera: sono molto piccoli, ora li colora e poi sperimenta il colore punteggiato, si diverte e prosegue in questo modo. Al termine dell’attività gli chiedo se si è divertito a giocare col palloncino e mi risponde affermativamente mentre nel disegnare mi ha confermato che non gli è piaciuto molto e ciò lo si intuiva dalla sua espressione poco convinta.

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3^ INCONTRO (12 maggio): dopo una breve chiacchierata sullo stato di salute di L., ci siamo seduti in mezzo alla stanza e ho proposto di fare alcuni esercizi di estensione e allungamento delle braccia, delle mani, delle gambe, prima seduti e poi in piedi. Ci muoviamo nello spazio guardandolo come se fosse la prima volta che lo vediamo, quindi tocchiamo ogni superficie per appropriarci dei limiti e delle possibilità di movimento. L. appare divertito ed interessato, segue con attenzione e precisione le diverse attività. Ora camminiamo guardando per terra come se dovessimo cercare qualcosa che abbiamo perso…… per terra appaiano dei punti colorati e noi li seguiamo camminando nella direzione che essi indicano. Anche in questo caso non ha alcuna difficoltà a svolgere l’esercizio, i suoi movimenti sono armonici e fluidi. Ci troviamo nel centro del setting e gli chiedo di fare una passeggiata nello spazio a disposizione e di fermarsi in un punto che preferisce: sceglie uno spazio proprio all’estremità del muro, ma presto scopro che in realtà è stato attirato da due pesi che erano lì; allora gli propongo di scegliere uno spazio lontano da ostacoli e oggetti pericolosi, così si è diretto verso un altro punto della stanza ma sempre verso la parte esterna, evitando notevolmente il centro. In questo punto ci sediamo e gli mostro un foglio grande bianco da riempire con vario materiale che ho portato: acquerelli, gessetti, pastelli a cera, una spugna bagnata, cartoncini colorati, ecc.. Gli propongo di riempire quello spazio bianco come se fosse la sua camera segreta, piena di giochi, dove ha

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la libertà di fare ciò che gli piace; accetta di buon grado ma appare impacciato ed impaurito nel cominciare, così iniziamo tutti insieme: è stata una buona soluzione perché è apparso subito più tranquillo. Col blu ha cominciato a dipingere la parte bassa del foglio e, dopo un paio di pennellate, ha liberamente detto che gli sembrava il mare; poi ha scelto il giallo ma si è divertito a mischiarlo col blu, facendo comparire un verdastro. Ad ogni colore che aggiungevo lo mescolava con gli altri e si divertiva a sperimentare il risultato di quel miscuglio. Dopo un po’ introduco il collage con alcune forme di cartoncino colorato: le incollo qua e là e poi lo fa anche lui. Ora uso la spugna immergendola nel colore, gli chiedo se la vuole provare ma risponde che non gli piace sporcarsi le mani, così preferisce utilizzare pastelli a cera piuttosto che i gessetti. Dopo aver guardato il lavoro gli chiedo se vuole aggiungere qualcosa, ci pensa un po’ e poi prende altre forme di cartone e le incolla; ora si sente soddisfatto.

4^ INCONTRO (19 maggio) L’incontro di oggi è stato impostato al fine di dar libero sfogo al movimento e stabilire un contatto col proprio corpo; ciò di cui infatti necessita L. poiché recentemente ha subito un intervento chirurgico che lo ha costretto all’assoluto riposo per un determinato periodo. Già durante il colloquio precedente ha manifestato in più occasioni il bisogno di potersi muovere in totale libertà. Così l’ho assecondato iniziando in questo modo l’incontro: con una musica rilassante ci siamo sdraiati e abbiamo fatto il risveglio del corpo, ossia fare alcuni movimenti tipici del risveglio, al mattino, dopo un lungo sonno; dopodichè abbiamo cominciato a muovere solo alcune parti del corpo: prima i piedi, poi le gambe, la schiena e così via fino a muovere tutto il corpo anche in posizione verticale. Con una musica molto allegra danziamo e ci muoviamo liberamente in tutto lo spazio: è molto divertito e si muove con una tale energia e scioltezza da sembrare una piccola libellula. Ora gli propongo di seguire i movimenti che faccio e ripeterli insieme come una sorta di specchio: non ha alcuna difficoltà, ma piuttosto appare sicuro e disinvolto, anche perché questo esercizio solitamente lo svolge in altre attività. A questo punto gli chiedo se vuole provare a fare dei movimenti che io ripeterò: con un timido sorriso accetta; inizialmente i suoi movimenti sono lenti e semplici, poi divertito dalla situazione comincia a compiere movimenti sempre più completi e rapidi, fino a giungere quasi ad una piccola coreografia (probabilmente sarà un ricordo delle lezioni di danza che segue) che a fatica riesco ad eseguire; per non farlo affaticare troppo decido di cambiare esercizio: uno di fronte all’altro camminiamo insieme sincronizzando i nostri passi, mi accorgo che segue con qualche difficoltà e allora gli prendo le mani e questa volta si lascia guidare liberamente mantenendo il ritmo. Ora si invertono i ruoli, è Loris a condurmi nello spazio circostante; ad un certo

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punto aumenta la velocità, si diverte molto e si sente capace. Sempre più divertito comincia a fare un girotondo che sembra non finire mai, infatti devo essere io a chiedergli di smettere prima che venga un capogiro. Torniamo al centro della stanza e facciamo dei lunghi respiri. Prendo dei fogli di giornale e gli spiego a cosa servono: normalmente il giornale viene usato per la lettura ed è un oggetto utilizzato per lo più da gente adulta, ma questa volta per noi diventa uno strumento per giocare insieme. Un gioco è attraverso le stagioni: immaginiamo di essere in inverno, fa freddo e per ripararci ci copriamo con i fogli di giornale; man mano sentiamo che un po’ di calore giunge dall’esterno e così lentamente cominciamo a togliere i fogli che ci ricoprono (è bravissimo nell’eseguire l’esercizio poiché effettua dei movimenti molto rallentati). Ora possiamo alzarci e ammirare l’arrivo della primavera: prendiamo due fogli e li muoviamo come se fossero degli uccellini che volano; ci muoviamo qua e là occupando tutto lo spazio. Giunge l’estate e sugli alberi compaiono dei magnifici frutti che realizziamo accartocciando alcuni fogli di giornale dandogli una forma tondeggiante; li prendiamo e dopo averli maneggiati un po’ li lanciamo in alto: L. si scatena a tirare più forte che può fino a far toccare il soffitto; mi chiede di fare altrettanto e mi fa un complimento dopo aver lanciato contro il soffitto la palla. Dopo averlo fatto divertire un po’, il racconto prosegue giungendo l’autunno: cadono le foglie, soffia un vento freddo e compare la pioggia. Per fare questi effetti strappiamo in tanti piccoli pezzi dei fogli; è divertito e nello stesso tempo incuriosito da questa insolita attività. Dopo averne fatti a sufficienza li raccogliamo e li lanciamo in aria, così da creare una leggera pioggerella d’autunno. Naturalmente i lanci sono molto graditi da L., che si diverte ad osservare la direzione che seguono i pezzetti. Per dare l’effetto del vento prendiamo dei fogli interi ed effettuiamo dei lanci, ma più ci sforziamo di farli andare lontano più rimangono vicini, suscitando in L. tanto divertimento. Ora anziché volare in alto “le foglie” vengono trascinate per terra dal vento; quindi stavolta usiamo i piedi e cerchiamo di sollevare e spostare i fogli. Concludiamo il ciclo delle stagioni ritornando all’inverno, dove una candida neve si è posata a terra, quindi stendiamo i fogli aperti tutti vicini e ci camminiamo sopra. Da qui prendo lo spunto e cerco di creare un piccolo percorso da seguire, facendo attenzione a posare i piedi solo sui fogli che ho disposto un po’ sparsi qua e là. Ancora una volta L. dimostra agilità e abilità nell’eseguire l’esercizio, si sposta da un foglio ad un altro con estrema facilità e appare sempre molto molto divertito.

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5^ INCONTRO (9 giugno): ho distribuito per terra dei rotoli di tessuto tagliati a strisce lunghe; lascio che L. incuriosito dagli strani oggetti, li esamini toccandoli, per scoprirne la loro utilità; infatti poco dopo comincia a srotolarne uno. Propongo di scegliere il tessuto in base al colore e L. prende quello arancione; ognuno di noi comincia a srotolare il tessuto legando l’estremità in un punto a scelta della stanza ( ma tutti e tre sono più o meno vicini) e portando il rotolo a spasso con noi occupando tutto lo spazio: la concentrazione più alta si trova intorno ad una colonna situata proprio nel centro del locale. Alla fine ci fermiamo a guardare il risultato ottenuto: un insieme di linee colorate che si incrociano e si disperdono per tutto lo spazio. Scegliamo una linea da seguire e vediamo dove ci conduce. A questo punto propongo il percorso al contrario, cioè arrotolare il tessuto fino a giungere alla parte legata, impresa per nulla semplice poiché dall’incontro di più linee si sono formati vari nodi da sciogliere, ma L. non si è mai perso d’animo e ha proseguito il suo lavoro fino a portarlo a conclusione. Chiedo di scegliere nuovamente un rotolo e questa volta portarlo in giro senza legarlo, occupando tutto lo spazio possibile. Ora confluiscono attorno al nostro corpo, una volta legati proviamo a muoverci ma i movimenti risultano più difficili, bloccati, ma L. non sembra affatto preoccupato ma piuttosto divertito. Ci si libera dal tessuto che viene messo da parte; ora immaginiamo una linea nel corpo, la prendiamo e la portiamo al di fuori disegnandola nello spazio circostante. La linea si concretizza su di un foglio bianco; ognuno ha il proprio e sceglie un pastello colorato per tracciare la linea. Le linee si confondono con altri colori fino a riempire tutto il foglio: L. traccia delle linee che seguono tutte uno stesso andamento circolare, come a formare un cerchio.

Scegliamo una linea da seguire col dito; anche in questa circostanza L. esegue senza alcuna difficoltà l’esercizio, mostrando una particolare attenzione. Nuovamente la linea torna nello spazio, una volta in basso, una volta in alto, intorno a noi e poi lontano.

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Ho appeso su alcune pareti dei fogli bianchi, ognuno sceglie un colore e un foglio e comincia a tracciare delle linee, al mio stop si cambia posto e si va in quello di un altro tracciando ancora delle linee e così via finchè tutti i fogli non si sono riempiti completamente. A lavoro ultimato ci fermiamo a guardare il lavoro ottenuto: un groviglio di linee impazzite! Anche L. appare divertito dalla confusione di quelle linee e stavolta non compaiono più forme circolari. Riprendiamo i tessuti e ci muoviamo con loro, ma questa volta le nostre linee si incontrano con altre, giocano insieme e si incrociano, fino a legarci tutti insieme… Ridiamo divertiti dalla situazione e lentamente ci liberiamo. Sul pavimento ho disposto un foglio grande da riempire sempre con le linee, ma questa volta operiamo insieme: inizialmente ognuno cerca di non invadere lo spazio altrui ma poi cominciano delle piccole sfide; il gioco diventa per L. interessante e si prosegue. Stefania e L. hanno intrapreso una gara di velocità e ostacoli mentre io faccio il “giudice”; L. si diverte tantissimo, ride di gusto e si rivolge verso la mamma per condividere il suo entusiasmo. 6^ INCONTRO (23 giugno): l’incontro di oggi è impostato su movimenti ad occhi aperti e ad occhi chiusi, al fine di verificare il suo orientamento ed equilibrio nello spazio. Propongo a L. di camminare liberamente, ora provare a farlo ad occhi chiusi; sperimentiamo varie direzioni ma noto che ha difficoltà e credo anche un certo timore a tenere gli occhi chiusi. Così gli propongo cautamente se vuole provare a bendarsi, è un po’ titubante ma accetta; per rassicurarlo gli tengo le mani e lo conduco in giro, lentamente ci teniamo solo con una mano e i movimenti diventano più distesi e fluidi. Ora il conduttore è lui e io mi lascio guidare dalle sue mani che mi conducono nello spazio intorno. L. è divertito da questa situazione e si sente importante e capace. Nuovamente bendato, ora che ha acquisito più sicurezza gli chiedo di provare a danzare compiendo dei piccoli movimenti, prima tenendolo per mano e poi senza: naturalmente gli faccio sentire la mia presenza e con movimenti leggeri e delicati prova a danzare. Ora la danza diventa liberatoria, infatti tolta la benda si può sfogare compiendo salti, giri in modo libero, senza costrizioni; i suoi movimenti sono sempre armonici ed energici. Ci sediamo per terra e gli chiedo di disegnare su di un foglio un oggetto, assume la solita posa dell’indeciso,col dito poggiato sulla tempia, ci pensa un po’ e poi disegna un pallone; faccio un disegno anch’io. Ora gli chiedo di provare a fare lo stesso disegno chiudendo gli occhi, esercizio che svolgiamo entrambi; ridiamo insieme dei nostri disegni che hanno assunto altre forme e ci consoliamo per il risultato ottenuto in quanto non era un’impresa al quanto facile.

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Preparo un piccolo percorso composto da vario materiale che L. proverà ad indovinare: una grossa spugna, foglie, del riso avvolto in una pellicola, ecc. Una volta bendato lo conduco alla scoperta del percorso: i suoi piedi nudi toccano materiali che non conosce e il suo viso esprime incertezza; poi giunge alla spugna che la riconosce e fa un sorriso; riconosce anche alcuni odori e si diverte nell’esplorare alcune sensazioni. Dopo avergli fatto ripetere un po’ di volte il percorso bendato, ora può scoprire tutti gli elementi che ha toccato e, con sua meraviglia li guarda con attenzione. Infine gli propongo il gioco della scatola magica, ossia indovinare degli oggetti semplicemente toccandoli con la mano: ci sono oggetti semplici ed altri un po’ complicati, ma di uso comune. L. ne indovina diversi e ogni volta fa un sorriso di compiacimento. Come premio gli faccio scegliere un oggetto che può tenere: sceglie un anello motivandone la scelta, lo avrebbe regalato alla sua fidanzata. Ecco quindi come compaiono atteggiamenti adolescenziali mescolati con quelli più infantili. 7^ INCONTRO (30 giugno): abbiamo cominciato facendo un po’ di riscaldamento poiché L. ha esordito manifestando la sua voglia di ballare, ha portato un suo cd e il ballo è iniziato: movimenti energici,briosi e pieni di vitalità, il suo viso appare più luminoso ed esprime un’immensa gioia. Dopodichè abbiamo fatto alcuni esercizi di equilibrio, sollevando una gamba, prima piegata e poi tesa, in avanti e indietro, inizialmente col supporto della sbarra sulla quale ci si reggeva e successivamente senza alcun appoggio: in questo caso si sono manifestate alcune ovvie difficoltà a mantenere l’equilibrio, ma ciò nonostante ha mantenuto inalterato il suo umore particolarmente gioioso. Ho proposto di camminare molto lentamente come se fossimo una lumaca, poi veloce e poi ancora ad andatura normale. Ora a piccoli passi come una formica e poi passi da gigante, pesanti come un elefante e leggeri come un uccellino; in quest’ultimo esercizio L. si è divertito molto a sprigionare la sua forza scaricandola sulle gambe e notare il contrasto pesante-leggero. Ora sperimentiamo la corsa, in un primo momento molto leggera, quasi saltellata, poi un po’ più rapida ed infine una corsa vera e propria. Anche qui non è mancato il divertimento, ogni occasione di sfogo è un momento di grande entusiasmo. A questo punto ci riposiamo respirando profondamente e continuando a camminare.

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Adesso gli chiedo di continuare sempre a camminare ma facendo attenzione alle direttive: si procede in avanti, quando vi è un ostacolo si cammina all’indietro e poi di lato; L. è accanto a me e segue ogni mio spostamento senza alcuna difficoltà; ora il ritmo si fa più sostenuto e i comandi più rapidi, quindi occorre maggior attenzione, ma L. non si fa cogliere impreparato e segue perfettamente tutte le indicazioni, orientandosi molto bene nello spazio. Il gioco si conclude camminando in cerchio per tutto lo spazio. Ci sdraiamo su alcuni materassini e cominciamo a muoverci come se stessimo nuotando, aprendo e chiudendo braccia e gambe; qui commetto una leggerezza dando per scontato che l’esercizio sia semplice da eseguire e invece presenta una certa difficoltà di coordinazione. L. infatti non riesce a muovere contemporaneamente braccia e gambe; così muoviamo prima solo le gambe e poi solo le braccia, dopo essersi assicurato propongo di muovere entrambe le parti e questa volta l’esercizio ha buon esito. Ora i movimenti sono liberi, usando varie parti del corpo, finchè non cominciamo a rotolare da una parte e poi dall’altra. Adesso proviamo a strisciare lungo i materassini: L. è molto agile, si muove destreggiandosi molto bene manifestando curiosità ed interesse. Prima di passare ad un gioco successivo vuole mostrare la sua bravura compiendo una serie di movimenti di una certa difficoltà che realizza con precisione. Con l’aiuto di Stefania posso proporre il gioco della statuina, cioè quando si interrompe la musica ci si deve fermare assumendo una posa da statua. Così io e L. cominciamo a muoverci stando attenti alla musica mentre Stefania si prepara ad interrompere. L’ascolto e l’attenzione sono molto presenti, L. si ferma rispettando le pause ed assumendo varie pose. Riprendendo l’esercizio dei vari passi di alcuni animali, propongo di scegliere quelli che si addicono alla musica; aiutandolo nella scelta esegue movimenti leggeri e delicati quando la musica lo richiede, ritmati e sostenuti in altri momenti. 8^INCONTRO (14 luglio): Ho ripreso in parte alcuni esercizi della volta precedente… tra cui camminare come un animale a scelta, seguendo però il ritmo della musica. L. mi segue sempre, un po’ al mio fianco e un po’ rimanendo indietro, ripetendo gli stessi movimenti miei: prima leggeri come quelli di un uccellino, poi veloci e poi ancora pesanti come quelli di un elefante; in questo caso si diverte molto, in quanto può impiegare e sprigionare tutta l’energia. Ora invece non c’è più il vincolo della musica, la proposta è di camminare liberamente nel setting e di immaginare di essere in una foresta dove si incontrano degli animali; l’intento era quello di fargli proporre dei movimenti di animali, ma non gli veniva in mente niente e così, ancora una volta, ero io a scegliere i movimenti da seguire.

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Riuscire a farlo parlare è molto difficile, la principale forma di espressione è quella corporea; per quanto riguarda la comunicazione verbale, si limita a dare risposte monosillabiche o comunque ridotte all’essenziale. Raramente esprime qualcosa di sua iniziativa, solo in occasioni di particolare gioia. Introduco nuovamente l’ascolto della musica attraverso il gioco delle statuine, solo che questa volta si trova ad essere solo ad eseguire il gioco, in quanto io ho il compito dell’interruzione della musica; gli chiedo se vuole provare e mi dice di sì: anche senza imitare riesce molto bene a seguire la musica e a fermarsi quasi subito; per quanto riguarda le posizioni, varia poco e per lo più usando le braccia e le mani. Ora la musica assume un colore e una forma, attraverso l’uso di alcuni fogli colorati. Chiedo a L. di scegliere un colore che preferisce e seguire il ritmo della musica, disegnando con i pastelli a cera ciò che vuole o semplicemente disegnare ciò che si ascolta. Ovviamente l’esercizio l’abbiamo svolto insieme, in modo da fornirgli gli spunti per l’esecuzione; sebbene si limitasse a seguire ciò che facevo, era perfettamente in grado di seguire il ritmo, evidenziando con un segno più marcato l’uso (in quel momento) di strumenti musicali dal suono grave, relativamente al brano che si stava ascoltando (brano di musica classica).

Si è passati infine all’utilizzo di elastici dalle varie forme e colori; ognuno di noi ne ha preso uno e lo ha sperimentato su alcune parti del corpo: in alcuni momenti era da supporto al movimento, in altri creava un impedimento. Prima seduti eseguendo vari allungamenti con le braccia e con le gambe, poi in piedi provando anche a camminare attraverso l’elastico. Inizialmente L. non sembrava trovarsi molto a suo agio con l’elastico, pareva non gradirlo, ma poi, lentamente, dopo averlo sperimentato più volte e in molti modi, si è divertito ad eseguire movimenti nuovi che un po’ lo facilitavano e un po’ ne limitavano il movimento.

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A questo punto l’elastico è diventato un “compagno” di gioco col quale poter danzare, prima lontano dal corpo (tenendolo solo con le dita) e poi sul corpo stesso. Infine, per la gioia di L., è stata la volta dei lanci: utilizzando più elastici, si lanciavano in alto e si guardava la direzione che seguivano e se cadevano vicini oppure no. Ogni qualvolta si compie un lancio, con qualsiasi strumento, per L. è un momento di puro divertimento; probabilmente poiché questo gesto è liberatorio, tutte le energie vengono canalizzate e pronte per essere espulse, per poi essere nuovamente recuperate. Dall’altro potrebbe essere un gesto simbolico: solitamente si getta, si butta via ciò che non piace, che non è gradito e quindi ci si ne libera, lasciando un senso di giovamento. 9^INCONTRO (16 settembre): il tema principale del giorno è la parola “incontro”, sviluppata attraverso vari stimoli; dopo un breve riscaldamento, ma soprattutto sfogo per sprigionare tutte le energie raccolte, ho introdotto il tema del giorno:prima camminiamo per la palestra in fila (chi sta davanti è il conduttore e decide che movimenti fare con le braccia mentre si cammina, e in quale direzione andare); come già sottolineato più volte, non ha nessuna difficoltà nell’imitare i movimenti, ma anche quando è stata la volta di condurre non ha trovato nessun ostacolo, dimostrando di avere delle indiscusse capacità e padronanza di movimento: ha proposto esercizi con le braccia di sua iniziativa, senza utilizzare quelli proposti da me. Si sentiva fiero di fare il conduttore, aveva un ruolo importante e gli riusciva bene; il suo entusiasmo è stato tale da richiamare l’attenzione della madre per farle notare la sua bravura. Ora ognuno cammina liberamente seguendo una propria direzione, ogni qualvolta ci si incontra nella stessa direzione, ci si saluta; ora invece si compie un gesto usando varie parti del corpo (alzare una gamba, portare indietro un braccio, piegarsi con la schiena, ecc.); L. segue sempre con attenzione, imitando in modo preciso i miei movimenti. Poi è stata la volta di alcuni oggetti dalla forma conica: li ho disposti sparsi qua e là nella palestra. La consegna data è quella di camminare nella direzione che si vuole, ogni qualvolta si “incontra” nel percorso un oggetto, lo si raccoglie e si crea una breve danza oppure un gioco. L. inizialmente li scansava come se fossero degli ostacoli da evitare (la forma ne era un richiamo forte), poi è tornato indietro, li ha raccolti ed ha eseguito correttamente la richiesta.

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A questo punto ho introdotto l’uso del colore; ho preparato tutto l’occorrente e ho spiegato brevemente l’esercizio: nella parte bassa del foglio si dipinge col blu, fino a giungere più o meno alla metà del foglio; dall’alto si usa il giallo che pian piano avanza verso il blu fino a giungere all’”incontro”. Da qui si genera il verde, ricco di sfumature, dal chiaro allo scuro. Nell’esecuzione L. si è rilassato molto assumendo una posizione da sdraiato con i gomiti poggiati a terra; appare interessato e concentrato nel dipingere. Usa molto colore e lo stende a piccole pennellate; di tanto in tanto si ferma per chiedere la mia approvazione e poi prosegue fiducioso. Per certi aspetti sembra temere o non volere occupare tutto lo spazio, come se quello usato fosse già troppo. Gradisce molto la mia vicinanza e se assumo le sue stesse posizioni (come a volte accade) sorride compiaciuto.

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10^INCONTRO (29 settembre): l’incontro di oggi ha visto protagonisti ancora una volta il movimento e la forma. L. evidenzia sempre più il bisogno e la voglia di muoversi, appena arriva si toglie subito le scarpe e comincia a correre e a muoversi, come se fosse alla ricerca di conferme. Quindi ecco che comincia un po’ di riscaldamento fatto di corsette, movimenti liberi e di danze. Si sente appagato e sorride felice di poter esprimere il suo potenziale. Ora introduco dei bastoni di legno (per intenderci simili ai manici delle scope) ed eseguiamo insieme esercizi di manipolazione, con due mani e poi anche con una. Sembra padroneggiarla bene e addirittura propone esercizi nuovi (probabilmente si ricorda di averlo già usato in altre attività, come le lezioni di danza) che esegue con sicurezza e disinvoltura. In queste circostanze il livello di autostima aumenta vertiginosamente e manifesta il suo entusiasmo richiedendo anche l’attenzione della madre. Per quanto riguarda gli esercizi di equilibrio, c’è stata qualche difficoltà e anche l’esecuzione ne ha risentito poiché non riusciva a seguire l’ordine dei movimenti.

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Senza insistere più del dovuto, siamo passati all’uso della palla di spugna, prima sempre con esercizi di manipolazione usando le mani e poi coinvolgendo anche il resto del corpo fino ai piedi. Ora abbiamo ripreso alcuni esercizi che avevamo svolto con i bastoni (coordinazione, equilibrio) notando la differenza fra i due strumenti: i movimenti erano più sciolti e sicuri con la palla, proprio per le sue caratteristiche intrinseche (rotondità, morbidezza, richiamo del sostegno quando ci si appoggia,…). Dopo averci giocato un po’ lanciandola in aria e facendola rotolare qua e là, ho proposto di passare ad un’altra attività: ho preso un foglio bianco da disegno e l’ho bagnato con una spugna in modo da rendere il colore più scorrevole e il contatto del pennello sul foglio più “morbido” e più libero. Infatti L. non ha avuto nessuna esitazione nell’iniziare l’attività pittorica, come, invece, era accaduto in altre occasioni. La consegna data era quella di stendere del colore a scelta sul foglio e poi aggiungerne gradualmente altri a piacimento, creando delle forme geometriche o simili. L’idea iniziale era quella di creare una sorta di “base” sul quale poter modellare e modificare forme e colori; ma in realtà questo passaggio non è stato possibile in quanto L. usava molto colore riuscendo a renderlo scuro, nonostante fosse diluito con acqua. Si concentrava su piccole parti del foglio, prima delineava il confine e poi passava a riempirlo; i colori si sono concentrati nella parte bassa del foglio e le forme sono risultate facili e immediate da realizzare, ha scelto colori scuri, partendo dal nero al marrone e poi passando ad altri più vivaci come il rosso e l’azzurro.

Dopo poco, però, si è stancato di dipingere e così ho introdotto dei cartoncini colorati già ritagliati con delle forme geometriche e di altro genere, da collocare a piacimento e riempire gli spazi vuoti. Dopodichè ho chiesto di delimitarne il contorno con il pennello; ci siamo poi divertiti a togliere qualche cartoncino e vedere come la forma rimasta intatta sul colore.

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A lavoro ultimato gli ho chiesto di osservare il lavoro per vedere se volesse aggiungere qualcos’altro, ma era soddisfatto così.

Allora abbiamo ripreso la palla e ne abbiamo delineato la forma seguendola con le mani; la palla rotolava nello spazio circostante e ciò scaturiva divertimento in L. Infine abbiamo “disegnato” con la palla, nell’aria, varie forme geometriche: un cerchio, un quadrato, un triangolo. L’intento era quello di creare un collegamento tra il movimento e le forme.

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CONSIDERAZIONI

Inizialmente ero tesa e spaventata dal pensiero di operare su di un soggetto affetto da Sindrome di Down, era la prima volta in assoluto che mi dovevo confrontare con un paziente non normo-dotato. Infatti anche nei precedenti tirocini ho lavorato con bambini e ragazzi che non presentavano limiti fisici o psichici. Ancor prima di conoscerlo temevo di non riuscire a conquistare la sua fiducia, di non essere in grado di instaurare una relazione proficua e di conseguenza non suscitargli alcun interesse verso le attività proposte. Durante la fase dell’osservazione ho realizzato che in realtà è un ragazzo molto disponibile, curioso ed interessato e lo ha dimostrato in tutti gli incontri. Le difficoltà maggiori che ho riscontrato fanno riferimento alla gestione ed organizzazione del primo incontro, nel senso che dovevo trovare un modo giusto ed equilibrato per attirare la sua attenzione senza però risultare invasivo. Per questo ho optato per una situazione di tranquillità e rilassatezza attraverso il gioco con i cartoncini colorati. Un’altra difficoltà è inerente all’età: 16 anni, età critica adolescenziale, per cui è strettamente necessario valutare molto attentamente tutte le attività da proporre e cercare di trovare un giusto equilibrio fra l’infantile e l’adolescenziale. Tutto ciò reso ancora più difficile dal suo , se pur lieve, ritardo mentale: ne sapevo poco, o meglio, non avevo idea della sua condizione, quindi mi risultava difficoltoso impostare varie attività senza sapere fin dove potermi spingere; così molti sono stati tentativi a volte ben riusciti altre ho dovuto optare in favore di esercizi nuovi impostati in modo più adeguato, come per esempio quelli di coordinazione, oppure altri in cui si richiedeva la sua libera iniziativa. Necessitava della continua guida e a volte si innescavano dei meccanismi di imitazione che non potevo evitare. Credo che questa circostanza sia dovuta anche al fatto che segue delle lezioni di danza per cui si rende giusto e necessario guardare ed imitare ciò che l’insegnante fa. Ciò nonostante ci sono stati comunque vari momenti in cui si sentiva pienamente libero di esprimersi attraverso i movimenti che preferiva e questo si è verificato in particolare durante i recenti incontri. Un altro meccanismo che si era innescato era quello di ricercare continuamente lo specchio, sempre collegato al discorso della danza, in cui esso era un punto di riferimento fondamentale per lo svolgimento delle lezioni. Solitamente siamo abituate a coprire gli specchi per conseguire l’obiettivo di percepirsi non vedendosi; quindi durante i primi due incontri ho coperto gli specchi, ma data l’ampiezza ne ho lasciato scoperti una parte. Ho notato che L. ricercava la sua immagine riflessa per fare propri i movimenti, sembrava infastidito e disturbato da quei giornali che coprivano gli specchi e questo mi ha fatto molto riflettere: ho capito che per lui era troppo contraddittorio non

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usare lo specchio quando fino all’ora precedente esso rappresentava la sua guida. Mi sembrava ingiusto porgli quel limite; in questo modo, compiendo una forzatura avrei ottenuto solo il contrario. Così ho deciso di non coprire più gli specchi e di stare a vedere come si sarebbe comportato…. E’ stata una saggia decisione perché i risultati si sono notati subito negli incontri successivi: non ricercava più in modo assiduo la sua immagine, quando voleva mostrare le sue doti di ballerino si rivolgeva a me e non allo specchio, non più considerato un punto di riferimento. Purtroppo c’è stata una sospensione degli incontri di circa due mesi a causa di un intervento chirurgico che ha dovuto affrontare al cuore, piccola disfunzione probabilmente connessa alla sua malattia. Riprendere gli incontri significava cominciare dal principio, riconquistare quell’iniziale fiducia che si stava instaurando e fare in modo che L. potesse riappropriarsi dei suoi vissuti corporei, tenendo ben presente che reduce da un’operazione. Ma ancora una volta ha stravolto le mie aspettative: avevo di fronte a me un ragazzino pieno di energie, di voglia di fare, di muoversi e dimostrare tutte le sue qualità; manifestava sempre più il bisogno di usare il corpo come forma di espressione, di potersi muovere e dare sfogo alle sue energie. Ho notato che la sua era una vera e propria esigenza: era rimasto per un lungo periodo fermo e ora era pronto per esplodere come un vulcano. Per questo ho basato gli incontri in considerazione di questa sua necessità più che desiderio; ogni qualvolta che saltava, correva, ballava era un momento di gioia, un rigenerarsi e riappropriarsi del suo corpo usandolo nel modo in cui meglio riusciva. E’ davvero meraviglioso vederlo in quello stato di benessere, trasmette una gioia ed una vitalità contagiose, i suoi occhi si illuminano e un enorme sorriso compare magicamente. Adora i complimenti, ne è molto gratificato e quando riesce bene in qualche impresa fa un gesto di esultazione. Un’altra considerazione da fare è relativa all’intervento di tipo individuale: ho sempre pensato che era l’ideale per instaurare una relazione empatica e per cogliere al meglio ogni esigenza e difficoltà del paziente; credevo fosse un intervento migliore rispetto a quello di gruppo, poiché, come ho potuto verificare nei precedenti tirocini, non si riescono ad osservare in maniera precisa le dinamiche che avvengono all’interno del gruppo. Devo però ammettere che in realtà può essere limitante, non ci sono confronti né spunti per instaurare altre relazioni e di conseguenza non si possono innescare determinati meccanismi. Quindi questo tirocinio ma ha dato l’opportunità di sperimentare quella che è sempre stata solo un’idea e che nella pratica presenta i suoi limiti. Ciò su cui ho fatto leva per la realizzazione del progetto è la capacità e il desiderio di movimento di L.: sin dalle prime osservazioni è emerso questo aspetto assolutamente da considerare come un’importante risorsa da coltivare e nutrire.

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Ho cercato di fornirgli diversi stimoli per accrescere e migliorare i suoi vissuti corporei, attraverso l’utilizzo di semplici strumenti quali un giornale, matite colorate, ma soprattutto l’uso del corpo in modo armonioso e liberatorio. Contemporaneamente ho fatto in modo di stimolare anche la sua creatività, fornendogli spunti per ampliarli e sperimentarli anche a casa. Non posso dire cosa possa aver recepito da questi incontri, se gli stimoli sono bastati e se qualcuno è giunto a destinazione; non c’è stato il tempo necessario per approfondire bene e per verificarne il risultato, ma posso invece dire che il ragazzo che ora vedo è più sciolto e disinibito dei primi incontri, è diventato più affettuoso e premuroso, si sente più sicuro ed esegue dei movimenti autonomamente in modo armonioso e fluido; gestisce l’uso dello spazio in maniera appropriata e non si ferma più ai bordi come faceva inizialmente, ma occupa tutto lo spazio. Ciò che è rimasto invariato è la sua completa disponibilità, la curiosità e soprattutto la voglia di fare; tutte queste sue caratteristiche hanno contribuito notevolmente alla realizzazione del progetto e mi hanno dato motivo di farmi sentire tranquilla, completamente a mio agio e divertirmi insieme a lui condividendo le varie situazioni. Un altro punto di forza rilevante è la sua mamma, figura sempre presente negli incontri. Si è subito interessata allo svolgimento degli interventi e si è mostrata attenta e disponibile. Man mano anche il rapporto di fiducia con lei è cresciuto e negli ultimi incontri si assentava per poi ricomparire al termine. Mi ha fornito diverse informazioni relative allo stato di salute del figlio, rendendomi partecipe anche delle relazioni in famiglia e di alcuni atteggiamenti in casa e a scuola. Mi ha infatti reso partecipe delle sue preoccupazioni in merito ai comportamenti di L. in varie situazioni, sul graduale livello di autonomia che vorrebbe egli potesse raggiungere, incoraggiandolo e stimolandolo costantemente. Inoltre mi ha parlato del rapporto particolare che L. ha con suo fratello maggiore: esegue tutto ciò che gli chiede di fare, temendo qualche rimprovero, mentre, nonostante vari solleciti, non sempre ascolta la mamma. Tutti questi elementi hanno reso davvero speciale e unico questo tirocinio. Sono molto contenta di avere conosciuto una persona come L., che mi ha trasmesso coraggio attraverso la sua tranquillità e totale disponibilità. Mi ha colpito molto la sua determinazione, in particolare quando trovava delle difficoltà nello svolgimento di alcuni esercizi, non si scoraggiava affatto ma insisteva fino a che non si sentiva soddisfatto. Ad accompagnare ciò c’era anche una buona dose di testardaggine che difficilmente riuscivo a contrastare: se decideva che era giunto il momento di

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sfogarsi e ballare un po’ non c’era verso di fargli cambiare idea; però dopo averlo assecondato, seguiva tutte le direttive senza mai opporsi. Mi ha trasmesso molto e ho avuto modo di accrescere le mie conoscenze e avere spunti per fare diverse riflessioni. Devo dire che mi dispiace un po’ dover concludere il tirocinio con lui, ma sono davvero contenta di aver fatto un’esperienza costruttiva, con la consapevolezza che in qualche modo abbiamo interagito e ci siamo scambiati emozioni e sensazioni reciproche. Si è instaurato un rapporto basato sulla fiducia e complicità; ho cercato di pormi come una compagna di giochi con la quale condividere esperienze e situazioni nuove, cimentandomi con lui nelle varie attività. Questo intento è ben riuscito poiché L. mi chiedeva di partecipare ai vari giochi o si esibiva in particolari danze, sicuro del fatto che avrei gradito molto la sua esecuzione e che poteva riporre fiducia in me.

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Bibliografia Anna Contardi e Stefano Vicari, Le persone Down – Aspetti neuropsicologici, educativi e sociali, Franco Angeli. Francesco Casolo Stefania Melica, Il corpo che parla, V&P 2005. B.C.J. Lievegoed, Le età evolutive dall’infanzia alla maggiore età, Natura & Cultura Editrice. Franco Nanetti, I segreti del corpo, Armando Editore. Articoli internet: http://digilander.libero.it/faqdown, Faq sulla Sindrome di Down. http://it.wikipedia.org/wiki, Sindrome di Down. http://www.siblings.it/dasapere, Medico e genitori di Az. Federica Cantaluppi- Laboratorio III- Espressività dei linguaggi. Memo – Disabilità intellettive – Ritardo mentale,Integrazione e trattamento. PSYCHOMEDIA – Anna Maria Meoni, Arteterapia.