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Table of ContentsCoverIndicePrologoCapitolo 1Capitolo 2Capitolo 3Capitolo 4Capitolo 5Capitolo 6Capitolo 7Capitolo 8Capitolo 9Capitolo 10Capitolo 11Capitolo 12Capitolo 13Capitolo 14Capitolo 15Capitolo 16Capitolo 17Capitolo 18Capitolo 19Capitolo 20Capitolo 21Capitolo 22Capitolo 23Capitolo 24Capitolo 25Capitolo 26Capitolo 27Capitolo 28Capitolo 29Capitolo 30Capitolo 31Capitolo 32Capitolo 33Capitolo 34Capitolo 35Capitolo 36

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Capitolo 37Capitolo 38Capitolo 39Capitolo 40Capitolo 41Capitolo 42Capitolo 43Capitolo 44Capitolo 45Capitolo 46Capitolo 47Capitolo 48LA FINEI RINGRAZIAMENTIL'AUTOREIL BUIO DENTRO

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IndiceCoverPrologoCapitolo 1Capitolo 2Capitolo 3Capitolo 4Capitolo 5Capitolo 6Capitolo 7Capitolo 8Capitolo 9Capitolo 10Capitolo 11Capitolo 12Capitolo 13Capitolo 14Capitolo 15Capitolo 16Capitolo 17Capitolo 18Capitolo 19Capitolo 20Capitolo 21Capitolo 22Capitolo 23Capitolo 24Capitolo 25Capitolo 26Capitolo 27Capitolo 28Capitolo 29Capitolo 30Capitolo 31Capitolo 32Capitolo 33Capitolo 34Capitolo 35Capitolo 36Capitolo 37Capitolo 38Capitolo 39Capitolo 40Capitolo 41

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Capitolo 42Capitolo 43Capitolo 44Capitolo 45Capitolo 46Capitolo 47Capitolo 48LA FINEI RINGRAZIAMENTIL'AUTOREIL BUIO DENTRO

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ANTONIO LANZETTAI FIGLI

DEL MALE

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Non è morto ciò che in eterno può attendere,

e con il passare di strane ere anche la morte può morire.H.P. Lovecraft

Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro.

E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.

F. Nietzsche

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prologo

Il freddo le strisciava addosso come una cosa viva. Sulla pelle, lungo le braccia, avvinghiato alle gambe nude. Lacerava la carne, i muscoli, scavando solchi nelle ossa. Il freddo era consapevolezza. L’idea che, se anche avesse lottato, se lo avesse desiderato con tutte le forze, non sarebbe potuta tornare indietro.Indietro. Sì, ma dove?La ragazza tossì, inarcando la schiena sul tavolo d’acciaio. Si sentiva come un cadavere

nella sala di un obitorio, con solo un lenzuolo sporco sulla faccia e un cartellino appeso al piede. Forse era davvero morta. Proprio come aveva sperato tutte le volte che aveva sentito il rumore dei loro passi nel corridoio. Le voci attutite dal cemento. Voci che aveva imparato a odiare più della sua immagine riflessa in uno specchio. Lei era un giocattolo, nient’altro che un giocattolo di carne nelle loro mani.Morta.Poi il bambino si mosse. Una debole vibrazione dentro di lei a ricordarle che era ancora

viva, in un modo o nell’altro. Serrò le labbra spaccate e deglutì un grumo di saliva che le incendiò la gola. Tentò di allungare un braccio, quanto bastava per sfiorarsi l’addome, ma non ci riuscì. Si sentiva a pezzi, così debole che il semplice respirare le costava fatica. Quando le avevano detto che era incinta, aveva vomitato. Sapeva cosa sarebbe accaduto, lo

aveva visto fare alle altre e questo la terrorizzava. Il mostro era dentro di lei. Si contorceva nel suo addome, tentacoli appuntiti che le rovistavano la pancia, succhiandole il cibo, rubandole il sonno e la vita. Avrebbe voluto strapparselo via, se solo avesse potuto. Afferrare una forchetta e squartarsi la pancia. Ridurre la pelle a un foglio stracciato. Era l’unico modo per uscire da quella casa. Morta.Solo che loro non l’avrebbero lasciata morire, non finché avesse avuto quello che volevano.

La controllavano, non la lasciavano mai sola. Nemmeno quando dormiva. Un gemito.Provò a sollevare la testa, ma pesava come un blocco di cemento. La nuca rimbalzò sul

tavolo, il braccio disteso lungo il fianco. Non poteva muoversi. Era spossata, il cuore che le batteva all’impazzata e un ronzio costante nelle orecchie. Tossì, ancora una volta, e un conato di vomito le tolse il respiro. Si morse il labbro e piegò il capo di lato, distogliendo lo sguardo dalla chiazza di luce del neon che penzolava dal soffitto. Vide le croste di muffa che si arrampicavano sulla parete, l’intonaco gonfio e le sbarre davanti ai vetri luridi di una finestra.Sono nel seminterrato. Cercò di afferrare i ricordi sepolti da qualche parte nella sua testa. Era come se qualcuno

avesse premuto un tasto e resettato gli ultimi istanti della sua vita. Quando era stata

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portata in quella stanza? Rabbrividì, la pelle increspata dal gelo. Il freddo non le lasciava tregua.Si era svegliata nel cuore della notte con la sensazione di non essere più sola. C’era

qualcuno seduto ai piedi del letto. Un uomo che la stava fissando.L’albanese.Non lo vedeva da giorni e ritrovarselo lì, avvertirne l’odore e gli occhi neri e piccoli

addosso la fece sentire ancora più vulnerabile. Il pancione era stata la sua difesa. Avevano smesso di toccarla, lui e gli altri. Di entrare nella sua stanza ogni volta che ne avevano voglia. La gravidanza era stata una salvezza, e si era illusa che quella pace sarebbe durata ancora per un po’. L’aveva sperato, mentre fissava il vuoto, ignorando i pianti e i lamenti che venivano dalle altre stanze. L’albanese parve intuire i suoi pensieri e le sorrise.«Che c’è?» chiese, poi provò a toccarle la pancia che gonfiava la coperta.«Non farmi male.» La ragazza sollevò le ginocchia, schiacciò la schiena contro il cuscino e provò a ritrarsi

come se questo bastasse ad allontanare l’uomo, a mettere una distanza tra loro. Poi avvertì una fitta, un dolore così forte che la fece contorcere. Si portò le mani all’addome, strinse la pancia mentre l’albanese, la stanza e tutto il mondo intorno a lei cominciavano a girare.Il mostro.Avvertì una morsa alla gola, un cappio invisibile che le serrava il collo. Annaspò alla ricerca

d’aria, il corpo madido di sudore nonostante il freddo metallo del tavolo. Avrebbe voluto gridare, sputare fuori tutto l’odio che aveva nei polmoni, ma dalla sua bocca uscì solo un lamento. Il verso di un animale ferito.Un movimento.Le ombre nel seminterrato si agitarono come panni stesi al vento. Danzarono nel nero. La ragazza abbassò lo sguardo, si toccò la pancia sotto il lenzuolo. Qualcosa era cambiato. I

polpastrelli tastarono il vuoto, l’assenza, e si sentì pervadere da un senso profondo di privazione. Un’escrescenza di pelle e una linea di carne slabbrata. Un liquido tiepido e appiccicoso tra le dita. Sangue.Sollevò la mano davanti alla faccia e la osservò come se non fosse la sua. Poi il suo sguardo

incontrò quello dell’uomo. Occhi che si confondevano in mezzo a decine di altri, piccoli e inanimati. Occhi di bambole appese al soffitto con fili d’acciaio. L’uomo se ne stava lì, immobile nel suo completo scuro. «Che cosa mi avete…» farfugliò. La voce ridotta a un sibilo. «Il… bambino?»L’uomo parve non sentirla. Si sfilò il fazzoletto dal taschino, coprì la punta di un indice e

strofinò via qualcosa da una gamba di plastica che gli volteggiava davanti al naso.La ragazza si contorse, strinse il bordo del tavolo fino a sbiancarsi le nocche.Il dolore le straziò il corpo, le trapassò la testa come una pugnalata.«Che cosa mi avete fatto?» gridò prima di schizzare vomito sul pavimento.Lui fece un passo indietro. Si guardò la punta delle scarpe e arricciò il naso.

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«Adesso sei libera» disse, ma lei non gli prestò ascolto. Stava urlando. Collera e orrore. Poi le grida mutarono, divennero parole, pronunciate come una cantilena. Lui vede. Lui vede.L’uomo si voltò. Agitò il fazzoletto nell’aria e lo fece sparire nella giacca.

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1

OGGI

L’uomo con le cicatrici strinse il rasoio tra le dita. Il volto ricoperto dalla schiuma e lo sguardo fisso nello specchio. Studiò il suo petto nudo, il labirinto di segni che deturpava la pelle. Veterano di una guerra senza tempo. Per ogni taglio, c’era un ricordo. Un marchio di sangue, un legame che solo la morte poteva cancellare. I bambini che aveva aiutato se li portava addosso, uno a uno. Granelli di polvere sui vestiti,

l’odore della strada, asfalto bagnato dalla pioggia. I colleghi all’ASL dicevano che si faceva prendere troppo. Il lavoro doveva essere lavoro, era l’unica regola da seguire, se si voleva restare vivi. Ma che ne sapevano loro del buio? Della sensazione che si provava nel fissare l’oscurità in attesa che le pupille si adattassero? Cosa accadeva a quelli troppo piccoli per camminare senza luce? Nella storia di ogni suo paziente c’era stato il buio, e il buio non si curava con le medicine.

Lui lo sapeva. Aveva compreso a sue spese quello che non era scritto sui libri. Aveva osservato i bambini che arrancavano nella notte e fatto l’unica cosa che era in grado di fare. Tendere una mano, in attesa che dita minuscole si serrassero alle sue. Quel contatto valeva più di mille parole, più di ogni linguaggio. Era sufficiente a capire la vera natura del dolore e farsene carico fino a scoppiare.L’acqua scorreva nel lavandino schizzando il pavimento. Il rubinetto aperto al massimo e

lo scroscio faceva da sottofondo ai suoi pensieri. Sentì un formicolio dietro la nuca, la mascella che si intorpidiva. Non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione di impotenza che gli toglieva il respiro. L’uomo con le cicatrici provava pena. Per se stesso, per la sua inadeguatezza, per il fallimento verso cui aveva guidato la sua esistenza. Avvicinò la lama a uno zigomo e la mano prese a tremargli davanti alla faccia come quella

di un tossico in crisi d’astinenza. Simile a una linea d’inchiostro rosso, una piccola cicatrice correva sul palmo appena sotto il pollice. L’uomo deglutì e lasciò cadere il rasoio nel lavandino. Deterse la faccia dal sapone,

affondando il volto nelle mani chiuse a coppa e trattenendo il respiro come se questo bastasse a farlo sprofondare nei ricordi. Tornò a guardarsi allo specchio, gocce d’acqua impigliate alla barba screziata di grigio, poi abbassò gli occhi sulla mano e accarezzò quel vecchio taglio con un dito. Un movimento lento e cadenzato.Il primo, si disse. Il primo di tutto.

SALERNO, 1987

Cambiato il lato della cassetta nel walkman si rimise le cuffie, avvolte intorno al collo come una biscia di metallo, e schiacciò il tasto play. Dopo un debole fruscio, le note di And She

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Was dei Talking Heads gli riempirono la testa. Amava quella canzone, ogni volta che la ascoltava qualcosa nella sua pancia si destava e vibrava a tempo con la batteria. C’era una strana mescolanza di tristezza e di allegria in quella melodia che lo faceva pensare a casa sua, quella vera, e a tutto ciò che si era lasciato alle spalle. Si chiese sorridendo se l’ingegnere avesse inteso proprio questo quando gli aveva detto che ascoltare la musica lo avrebbe aiutato a stare meglio.«Ma sono le cassette di vostro figlio?» aveva chiesto lui, incredulo davanti a quella scatola

di scarpe piena di cassette. La donna aveva sorriso e guardato il marito.«A lui non servono più adesso, ma possono fare bene a te» gli aveva risposto l’ingegnere,

indicando con il mento il regalo. Il ragazzo si era sentito strano: era la prima volta che riceveva un regalo e aveva deciso che

se ne sarebbe preso cura come fosse un vecchio tesoro, come i libri di sua madre che si portava dietro in quel vecchio zaino, di casa in casa. Il figlio di quelle persone che lo avevano accolto era morto in un incidente. Era in sella alla moto rossa di cui aveva visto una foto in casa, quando un’auto era sbucata contromano da una strada. C’era tanta voglia di vivere ed emozioni in quella musica, e questo lui lo capiva.Attraversò il cortile della scuola senza ricambiare gli sguardi di un gruppo di ragazzine che

stazionavano vicino al cancello. Da quando si era trasferito a Salerno non aveva più amici, e questo gli andava bene. Non era interessato agli altri, tutto ciò che voleva era essere invisibile. Aveva sofferto già abbastanza per la perdita di tutti quelli che amava e non riusciva più ad attaccarsi alle persone. Era spaventato a morte dall’idea che potesse capitare qualcosa di brutto a chi gli stava intorno. Prima sua madre, poi il nonno e il suo amico Damiano, condannato a rimanere uno storpio a vita da una banda di ragazzi che lo odiavano, e infine Claudia. Si morse il labbro, cercò di non pensare a lei, a cosa le era capitato.And she was lying in the grass, and she could hear the highway breathing…Era una canzone meravigliosa, si disse. Guardò l’orologio. Prima di tornare a casa doveva

fermarsi a prendere il ragazzino all’uscita di scuola. Il lunedì aveva la sesta ora e le medie erano di strada. La moglie dell’ingegnere non sarebbe potuta passare e lo aveva supplicato di provare a essere un fratello maggiore. «Io non ho fratelli» aveva risposto seccato.«Lo so, ma Mattia ne sarebbe felice.» La donna aveva un sorriso gentile che lo aveva fatto

sentire in colpa.«È strano, io non lo capisco.»«Non è strano, ha solo paura… ricordi come ti sei sentito quando ti hanno affidato a tuo

nonno?»Certo che ricordo. Non sapevo nemmeno di avere un nonno fino al giorno in cui è morta

mamma. Mi hanno preso da Torino e sbattuto a Castellaccio come fossi un pacco di roba vecchia.Vide il cancello marrone della scuola e affondò le mani nelle tasche del bomber verde

militare.

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Mattia è spaventato, si ripeté. Era per questo che faceva quelle cose bizzarre o che coltivava le sue manie. Diceva di discendere dagli indiani d’America e si voleva rasare i capelli sulle tempie per fare una cresta. Lui era stato sul punto di afferrarlo per le spalle e trascinarlo davanti allo specchio per fargli notare che assomigliava a tutto tranne che a un Apache, ma aveva desistito. Chi era lui per rovinare le fantasie di un undicenne?Si sfilò le cuffie, scorgendo in mezzo a un gruppetto di ragazzini una chioma rosso fuoco.

Schiacciò un pulsante e fermò la musica quando vide un tipo più grande strattonare Mattia per il collo del giubbino, spingerlo contro un’auto e trascinarlo in un vicolo, seguito da un paio di coetanei. Affacciato al secondo piano della scuola, un bidello assisteva impassibile alla scena. L’uomo incrociò il suo sguardo un attimo prima di lanciare un mozzicone nel vuoto e chiudere le imposte. La strada sembrò svuotarsi all’improvviso, i clacson tacquero e l’unico suono che riuscì a sentire era il vocio dei ragazzi nel vicolo.Lui rimase sul marciapiede opposto. I bidoni della spazzatura gli impedivano di vedere

cosa stesse accadendo. Fece per attraversare la strada e continuare dritto.Se il bidello se ne è fregato di Mattia, perché dovrei impicciarmi proprio io?Poi si bloccò. Pensò a Castellaccio, a quello che aveva imparato in mezzo agli alberi e le

campagne battute dal sole. Pensò alla montagna, al suo amico Damiano e a quanto gli piacesse correre. Aveva vinto la campestre del Cilento proprio il giorno in cui quei ragazzi lo avevano investito con l’auto.«Che c’è?» disse una voce alle sue spalle. «Credi che con quei vestiti addosso puoi

dimenticarti chi sei?»Suo nonno, Don Mimì, se ne stava con un piede poggiato contro la vetrina di una banca e

una sigaretta stretta tra le labbra. Rivoli di sangue scorrevano sulla canottiera dai fori dei proiettili.«Tu non sei vero» disse. «Ti hanno sparato… loro ti hanno…»Il vecchio annuì e indicò con il mento la scuola. «Adesso lo mettono sotto.»Il ragazzo girò il capo verso il vicolo, si morse il labbro. Aveva promesso agli assistenti

sociali che dopo Castellaccio sarebbe stato diverso. L’ingegnere e sua moglie erano brave persone, gli avevano dato il walkman e le cassette, un tetto, una seconda opportunità. Gli piaceva stare con loro, non voleva rovinare tutto. Non poteva farlo.Prova a essere un fratello maggiore.Si fece largo a spallate in mezzo a un gruppo di ragazzi. Mattia si teneva la guancia. Era

stato inchiodato spalle al muro da un tipo più grande. Un ragazzo con i capelli neri e un giubbino di jeans ricoperto di toppe degli Iron Maiden.«Lo fai più? Ah?» Il tipo sollevò una mano, pronto a sferrare uno schiaffo a Mattia che

sembrava essere diventato più piccolo e fragile, schiacciato dalla mole del suo aggressore.Il bambino si voltò verso di lui, lo riconobbe in mezzo al gruppo di persone che assistevano

allo spettacolo.«Flavio!»C’era qualcosa nel modo in cui aveva pronunciato il suo nome. Qualcosa che sembrava

aver dimenticato e che si risvegliò in lui come un prurito. Aveva la sensazione che una

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colonna di formiche gli stesse risalendo lungo la colonna vertebrale, sotto il colletto del bomber. Avvertì una fitta a un lato della faccia, la guancia scossa da un fremito. Fece un passo avanti, poi qualcuno gli mise una mano sul petto per bloccarlo, ma era troppo tardi per tornare indietro. Troppo tardi per fermare la cosa che Flavio si portava dentro.Sentì lo schiocco del naso che si rompeva quando assestò una testata in pieno volto al

ragazzo che gli si era parato davanti.Il tipo con il giubbino degli Iron Maiden guardò l’amico che si contorceva a terra. Allentò la

presa su Mattia, ma non lo lasciò andare.«Questo ricchione ha baciato il mio cuginetto» disse il ragazzo, strattonando il bambino.Flavio si fece scivolare quelle parole addosso, non sembrò nemmeno aver sentito

quell’accusa. Non gli importava.Prova a essere un fratello maggiore.Divorò lo spazio che lo separava dall’avversario come un lupo affamato. Senza emettere un

suono, senza nemmeno respirare. Sferrò un calcio ai testicoli del ragazzo con tale forza che se fosse stato un Super Santos lo avrebbe sparato sopra il tetto della scuola. L’avversario emise un grido, lasciò andare il bambino e crollò sulle ginocchia. Le voci intorno a loro tacquero, sovrastate dal ronzio che gli riempiva la testa. Flavio sollevò le braccia pronto a colpire, poi intercettò con la coda degli occhi Mattia.«Flavio…» disse il piccolo, e lui vacillò. Fece un passo indietro, sbatté le palpebre.«Stai bene?» chiese, e il bambino fece un cenno d’assenso con il capo. Indicò lo zaino con

degli indiani disegnati sul lato e disse: «Prendilo, torniamo a casa.»Mise una mano sulla spalla di Mattia e uscirono insieme dal vicolo. I ragazzi li fissavano

come se avessero visto due marziani. Il tipo con il giubbetto degli Iron Maiden urlò minacce a cui non prestò la minima attenzione. Accarezzò il walkman attaccato alla cintura dei jeans e aggiustò il cavo delle cuffie.«Si è rotto?» chiese il bambino, scostando una ciocca di capelli rossi dalla fronte.«Andiamo.» Flavio scosse il capo, poi sorrise. «Torniamo a casa nostra.»

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2

LUGLIO, 1950

Tommaso doveva rientrare a casa, e in fretta. Aveva ancora una consegna da fare e sapeva come sarebbe andata a finire se suo padre, tornando dal paese, avesse trovato la stalla sporca e i lavori ancora da sbrigare. Era mercoledì, e il mercoledì Don Rosario andava a giocare al bar. Non era forte con le carte. Il suo vero talento era perdere soldi e bere, o bere e perdere soldi, senza un ordine preciso. Riusciva a bruciare quella miseria che ricavavano dal commercio del latte in un’oretta di gioco su un tavolo storto. E quando perdeva tornava a casa con quella luce negli occhi che faceva paura. Tommaso era diventato un vero esperto. Riusciva a capire l’umore di suo padre dal modo in cui portava il carretto sullo stradone. Se era felice, lo sentivi fischiettare fin dal limitare del loro terreno. Non capitava quasi mai, però.Tommaso guardò il sole deformarsi e poi accendersi di rosso in mezzo alle montagne, e

fece forza sulle braccia. La carriola era piena di bottiglie vuote. Il vetro tintinnava a ogni scossone. Il sentiero strisciava come un serpente dalle campagne ai piedi di Castellaccio fino alla riva del Sele. Lui cercava di evitare le buche ma i polpacci gli bruciavano e le braccia erano diventate rigide come pezzi di legno. Una ruota scheggiò un masso coperto da alcuni cespugli e il ragazzo rischiò di perdere il controllo. Avvertì una fiammata alla schiena quando controbilanciò il peso del trabiccolo di legno che usava per le consegne. Se avesse distrutto anche uno solo dei contenitori, gli sarebbe andata ancora peggio. L’ultima volta che Don Rosario gli aveva messo le mani addosso, c’era mancato poco che lo uccidesse. Se sua sorella Teresa non si fosse messa in mezzo, il vecchio gli avrebbe scarnificato la pancia a cinghiate. Portava ancora i segni di quella serata. Rivoli di sudore gli scorrevano sulle ferite, facendogli mordere il labbro per il dolore.Digrignò i denti e non rallentò l’andatura. Niente avrebbe potuto rovinargli la giornata. Era

saltato giù dal letto alle cinque, si era lavato la faccia nel catino ed era andato nella stalla mentre Teresa preparava la colazione. Si era affrettato a riempire le bottiglie prima che il gallo dei vicini cantasse. Era quello il momento che preferiva. L’aria fresca che pizzicava la pelle, la luna sopra la punta degli alberi, le nuvole che si tingevano di rosa. Aveva posizionato il ferro vecchio nel cortile ed era ritornato in cucina dove Teresa l’aspettava con un pezzo di pane riscaldato sul fuoco e un uovo che aveva tenuto nascosto per lui.«Tie’, mettilo in tasca e attento a non romperlo» gli aveva detto la sorella, infilandogli una

mano nei pantaloni. «Bevilo per strada e non ti fa’ vedere.»Don Rosario scambiava le uova al paese con sale e zucchero. Se Tommaso riusciva a

mangiare qualcosa che non fosse pane duro, carne di maiale e patate, era solo grazie alla sorella, più grande di lui di cinque anni, che lo trattava come un figlio. Sua madre era morta

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sotto le bombe durante lo sbarco degli Alleati. Lui non l’aveva mai conosciuta, se non in una foto spiegazzata delle nozze che la sorella conservava nel cassetto della biancheria. Quando ne aveva voglia, sgattaiolava al piano di sopra, apriva il tiretto e rovistava tra gli indumenti per guardare quella foto ingiallita. Sua madre era bellissima, molto più giovane di Don Rosario e con un sorriso innocente. Doveva essere poco più di una bambina quando il vecchio l’aveva presa in moglie. Si era chiesto più volte se lei lo avesse saputo, che razza di uomo era il marito. Teresa diceva che il papà era stato una persona diversa prima, ma lui non le credeva.Gli alberi formavano una cappa sopra la sua testa. Tommaso si mosse senza perdere di

vista la riva e le acque marroni che sbucavano tra un cespuglio e l’altro, infrangendosi su tronchi morti e rocce. L’aria si fece più umida e appiccicosa e le zanzare gli stavano divorando le braccia quando vide prima un camino e poi le tegole nere di un tetto. Il signor Guizzardo si stava rollando una sigaretta, seduto sopra il copertone sventrato di un furgone.«Ue’ Tommasì, hai fatto tardi oggi?» gli chiese il vecchio. La pelle abbronzata sembrava

cuoio indurito. «Mia moglie ha fatto la caponata. Ja’, vieni dentro. Mangiate ‘na cosa.»«No, grazie.» Il ragazzo stava boccheggiando. «Ecco a voi, Masto Guizza’.»Guizzardo tirò fuori dalla tasca un fazzoletto appallottolato in cui conservava i soldi. Passò

al ragazzo più di quanto previsto e disse: «Dalli a tua sorella.»«Grazie.» Tommaso arrossì.«Quel diavolo di tuo padre si comporta bene?»Il ragazzo si strinse nelle spalle. Cercò di riordinare i pensieri, di trovare la più credibile

delle scuse, poi colse un movimento alle spalle del vecchio e le parole gli morirono in un respiro.«Nonno?»La nipote di Guizzardo doveva avere uno o due anni più di lui. Scese i gradini del portico in

uno svolazzare di vesti, con aghi di luce che delineavano il profilo delle spalle filtrando attraverso i lunghi capelli castani. Tommaso deglutì. Non aveva visto molte femmine in giro, a parte sua sorella e le contadine

di Castellaccio. Quelle però non facevano testo, dato che erano vecchie e avevano i baffi. La scuola più vicina era ad Agropoli, e lui non poteva andarci. Dopo la guerra, molti dei giovani avevano lasciato il paese e si erano trasferiti altrove. Altri erano saliti su una nave e se ne erano andati in Venezuela, spedendo lettere che puzzavano di muffa e qualche soldo ai genitori rimasti a casa. I suoi coetanei si contavano sulle dita di una mano.«Elvira.» La voce di Guizzardo lo distolse dai suoi pensieri. «Vieni qua che ti faccio

conoscere questo bravo figlio.»La ragazza gli tese una mano e lui indugiò troppo prima di ricambiare la stretta. Si asciugò

il palmo su una coscia e all’improvviso si ricordò di non indossare la canottiera. Dove l’aveva messa? Sentiva il sudore che gli rigava le costole e il suo volto prese fuoco. Elvira sembrò accorgersene e gli sorrise.

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«È la figlia di Nicola. Stanno a Roma, lui fa il carabiniere lì. Me l’hanno mandata per l’estate» continuò il vecchio, sistemandosi il cappello sulla testa.Tommaso annuì. Forse avrebbe dovuto smettere di fissarla, dire qualcosa, presentarsi per

bene, ma era solo il figlio del lattaio. Una leggera brezza si sollevò, scuotendo i rami degli alberi.«Masto Guizza’, io adesso me ne vado.» Si mosse con la schiena rigida, come il

maggiordomo di quel film che avevano proiettato sulla facciata del municipio il mese prima. Il film era degli americani, così come il proiettore e le bobine che avevano lasciato al paese. Nessuno capiva la lingua degli americani, ma il sindaco si era inventato questa cosa del cinema sotto le stelle, e a lui piaceva.Girò intorno al carretto, i piedi sporchi di fango ben calzati nei sandali, fece forza sulle

braccia e puntò il trabiccolo verso il sentiero da cui era venuto.«Ci vediamo domani, Tommasino?» chiese il vecchio.«Sì, domani.»Il ragazzo si dimenticò in un attimo di Elvira, della sua pelle liscia e dell’odore di sapone

emanato dai suoi capelli. Corse più veloce che poteva, sollevando zolle di terreno dietro i talloni. Lasciava quasi sempre Guizzardo per ultimo nel giro di consegne, perché viveva non distante da casa sua.Tommaso sentiva il cuore che gli scoppiava nel petto, il sangue che gli ronzava nelle

orecchie confondendosi con lo scroscio del fiume. Arrivò al bivio che dava sullo stradone. Da lì avrebbe fatto prima a tornare a casa, ma correva il rischio di incontrare suo padre e il carro con il mulo, e allora giù botte. Non capiva come avesse fatto a fare così tardi. Se non si fosse fermato a mangiare un

tegamino di cavatelli da quella vecchia giù al quadrivio, adesso sarebbe stato già nel capanno a bollire le bottiglie per il carico del giorno dopo. Scosse il capo e lasciò perdere la via principale. Decise che era meglio muoversi in mezzo agli alberi, seguendo la riva del fiume. Era più scomodo e avrebbe dovuto rallentare, ma sarebbe sbucato dietro la stalla. Gli sembrava una buona idea, nonostante i rametti che gli sferzavano le braccia. Osservò il corso d’acqua stringersi e sorrise, convinto di aver riconosciuto il punto in cui si trovava. Vide dei vecchi tronchi spezzati sull’altra sponda e ricordò d’essere stato lì a pescare con quel pazzo di Mimì, almeno un paio di volte.La luce in mezzo agli alberi cambiò. Le ombre si confusero, allungandosi e assumendo

forme di cose che non esistevano. Il tracciato divenne nero come una colata di catrame e dal terreno sbucarono massi ricoperti di muschio che gli impedivano d’andare avanti. Le braccia gli bruciavano, gli sembrava di avere spilli conficcati ovunque. Si rassegnò. Se Don Rosario avesse deciso di batterlo con la cintura, quella sera, lui non

avrebbe sentito dolore. Il suo corpo era così ammaccato che i muscoli e le ossa si tenevano insieme solo grazie alla forza di volontà. La forza di volontà però non bastava per far andare bene le cose.Tommaso capì che un sandalo si stava rompendo un attimo prima che accadesse. Uno

strappo nelle cuciture e subito inciampò. Rovinò in mezzo ai sassi, sbucciandosi le

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ginocchia, tagliandosi il petto e picchiando uno zigomo contro qualcosa di duro. Mentre cadeva, non riuscì a distogliere lo sguardo dal carretto. Lo vide mentre schizzava via dalle sue mani e andava a sbattere contro una radice sporgente. Ci fu un cozzare di bottiglie vuote, lo stridio del vetro che strusciava contro altro vetro, poi il carretto si ribaltò. Assistette alla sua vita che andava in pezzi, come se il suo fantasma si fosse staccato dal corpo e avesse iniziato a guardarsi intorno.Tommaso gridò e si prese a schiaffi davanti ai cocci rotti.Le bottiglie erano preziose, quasi più della sua vita.Con che cosa avrebbe consegnato il latte, l’indomani?In quel momento gli venne in mente Teresa. Immaginò la delusione sul suo volto, le

lacrime per quello che la sua disattenzione aveva causato.Il ragazzo si mise a sedere su un masso. Le tempie pulsavano, il sangue gli scorreva giù dal

naso, ma non se ne curò. Stava guardando le acque scure del fiume, sperando di trovare nella corrente una soluzione ai suoi problemi.Dico che mi hanno derubato?Scartò subito l’ipotesi. Nessuno avrebbe mai rapinato un pezzente che consegnava il latte.

E per cosa, poi? Per quattro bottiglie vuote e un carretto scassato?Tommaso digrignò i denti e provò ad alzarsi, ma perse ancora l’equilibrio e cadde

all’indietro, sbattendo contro una roccia. Una fitta gli risalì lungo la spina dorsale. Girò gli occhi e fu allora che vide quella cosa.Un agnello, o ciò che ne restava, era impigliato in mezzo ai rami, a pochi metri da lui. La

pelle era livida, la pancia gonfia come un palloncino da circo. Odore di marcio, di carne andata a male.Tommaso si rimise in piedi, si pulì la faccia con un polso. Provò a camminare, una mano

premuta contro il naso per difendersi da quella puzza che gli faceva mancare l’aria. Avanzò, un piede davanti all’altro, verso la riva, verso quei rami che si ostinavano a trattenere il corpo controcorrente.Ora poteva vedere meglio la cosa che affiorava a pelo d’acqua. C’erano dei tagli su quel

corpo, la pelle dilaniata e la carne esposta. Ferite che sembravano inferte da un lupo o da un cane rabbioso. Una volta aveva visto il polpaccio di un tipo che era stato sbranato dai cani dei tedeschi. Le cicatrici erano esattamente così, irregolari, e la carne era ricresciuta nel modo sbagliato su quella gamba maciullata.Un momento.Tommaso si fermò di colpo, il naso che gli pulsava e le ferite che bruciavano. Possibile che

l’agnello fosse stato tosato? Un mulinello agitò il fiume proprio vicino alla riva. L’acqua si sollevò e poi si abbassò per un istante. Torbida, sporca di sangue. La cosa che galleggiava si voltò. Occhi vuoti e neri incontrarono i suoi.«Oh, mamma mia…»Il ragazzo fece un passo indietro. Poggiò il tallone su qualcosa di viscido e il respiro gli

morì in gola. Agitò le braccia alla ricerca di un appiglio. Tutto inutile. Le rocce gli sferzarono la schiena nuda come le cinghiate di suo padre. Grugnì e si morse un labbro, contorcendosi

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per il dolore, lo sguardo rivolto verso gli alberi. Rimase immobile a fissarsi i piedi, uno dei quali calzava ancora il sandalo. «Devo chiamare qualcuno… devo chiamare…»Tommaso arrancò sulle pietre. Mani vuote che afferravano l’aria. Si rialzò, zoppicò, poi

prese a correre. Puntò dritto verso i cespugli. Subito dietro c’era la strada. Si lasciò alle spalle il fiume, i rami secchi e il bambino morto che galleggiava tra le rocce.

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3

OGGI

Damiano Valente affondò la punta del bastone nella terra umida. Sotto i suoi piedi, le foglie morte scricchiolavano. La gamba cattiva gli pulsava come se gli avessero piantato dei chiodi arrugginiti fino all’osso. In una mano stringeva la ventiquattrore di suo padre, con i bordi di pelle mangiucchiati dal tempo. Era troppo pesante per lui e si sentiva esausto. Aveva trascinato con sé quel carico lungo un sentiero stretto nella morsa di rocce e alberi. Era salito sulla sommità della montagna. Era lì che lei lo stava aspettando. La valigetta conteneva qualcosa di importante per entrambi.Lei doveva vedere. Doveva ricordare quello che erano stati. Si fece forza e provò a regolare il respiro, sicuro d’essere quasi arrivato a destinazione. Le

bambole impiccate ai rami lo fissavano con occhi vuoti. Parvero riconoscerlo e presero a danzare nel buio del bosco, arti informi mossi da un sospiro, come avevano fatto tante altre volte.È un buon segno.Da qualche parte in mezzo agli alberi arrivava il riverbero dell’acqua. Avvertiva il lamento

della cascata che si infrangeva sulle rocce. Mise un piede in avanti ma il bastone si spezzò in uno schianto. Il legno esplose, sputando schegge ricoperte di vermi bianchi e lucidi.Damiano li sentì che gli strisciavano addosso, si insinuavano nelle pieghe degli indumenti

solleticandogli la pelle. Grugnì e sputò saliva nera nel tentativo di rimettersi in piedi. Il rumore dell’acqua mutò, divenne all’improvviso lento e cadenzato. Un ticchettio, qualcosa di viscido e appiccicoso che sgocciolava sulla sua testa. Sollevò il capo e vide i piedi che penzolavano nel vuoto. Le gambe livide e striate di sangue. La ragazza era nuda, il corpo appeso ai rami con del filo spinato che le scarnificava i polsi. Spostò lo sguardo dal collo, ridotto a un’escrescenza di carne, fino alle radici di quel

vecchio salice bianco. La testa giaceva a terra come un mezzobusto incompleto, una statua in decomposizione. Gli occhi aperti e fissi nei suoi.«L’ho portata.» Damiano si asciugò un occhio con la manica dell’impermeabile. «Vuoi

vederla?»Le labbra spaccate della ragazza non si mossero. Lui spinse la borsa in avanti,

strusciandola sul terreno, e la aprì con uno scatto. Al suo interno, solo una foto sbiadita. Damiano la prese e la sollevò perché lei riuscisse a vederla.«Siamo noi, Claudia.» Schiacciò un dito sulla fotografia, indicando quattro ragazzini stretti

in un abbraccio. «Questo sono io e qui ci sei tu, Stefano e Flavio… sì, c’è anche Flavio. Abbiamo messo le cose a posto. Lo abbiamo fatto noi… tutto da soli. Non devi più preoccuparti.» Sorrise. «Ricordi quando ce l’hanno scattata?»

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Claudia però non ricordava. Non poteva farlo. Le sue palpebre calarono fino a chiudersi, e la foto si sciolse. Divenne liquida, un grumo di sangue tra le dita di Damiano.

* * *

Lo Sciacallo si svegliò in un lago di sudore e con un sapore amaro in bocca. Aveva la sensazione d’aver masticato terra. Si pizzicò il petto, scollando il pigiama dalla pelle, e guardò verso la finestra. Il sole stava sorgendo oltre i vetri della casa. Dalle imposte socchiuse, una luce esangue rovinava sul pavimento. Schiacciò i gomiti sul materasso e si mise a sedere, ignorando la fitta che gli squarciò l’addome. Tastò il comodino alla ricerca dell’orologio smuovendo una pila di libri, e uno di essi cadde in un fruscio di pagine. Girò il capo verso il corridoio. La porta del bagno era aperta e la lampada a led accesa.

Rimase in ascolto: gli era parso d’aver sentito dei singhiozzi. Un lamento soffocato. Scosse piano il capo, liberò le gambe dal piumone e calzò le pantofole. Il bastone era poggiato contro il muro, dove lo aveva lasciato, ma non lo prese. Si mise in piedi, una mano che sfiorava la parete, e uscì dalla stanza. La sua camera era vicina a quella degli ospiti. La porta era aperta e si fermò solo un istante per osservare il letto intatto e la valigia aperta sul pavimento. Sapeva di non doversi preoccupare, ormai era abituato a quel tipo di risveglio, ma quella mattina tutto sembrava diverso. I singhiozzi. Non l’ho mai sentito piangere.Damiano si diresse verso la sala da pranzo, il battito cardiaco accelerato.Flavio sedeva sul divano foderato di velluto, con i braccioli consumati. Gli occhi chiusi e la

canna della pistola infilata in bocca quasi fino a strozzarsi. Era a torso nudo. Il petto, le braccia e le spalle erano segnate da una moltitudine di vecchie cicatrici. Sembrava che qualcuno lo avesse legato a un tavolo e si fosse divertito a incidergli il corpo con un bisturi.Lo Sciacallo trattenne l’orrore, poggiò una spalla contro uno stipite e inalò l’odore della

moquette. La sua casa era impregnata di ricordi. In quella stanza, in un’altra vita, lui e Flavio erano stati due adolescenti che mangiavano gelato e parlavano d’amore. L’amico, trasferitosi a Castellaccio da Torino, gli aveva confessato proprio lì la sua cotta per Claudia. Prima che tutto cambiasse. Prima che il loro mondo cadesse a pezzi.«Allora?» chiese, cercando di controllare il tono della voce. Non voleva che l’amico

avvertisse la sua paura. «Che hai deciso di fare questa mattina? Ti spari oppure no?»Flavio sbatté le palpebre come se fosse stato appena destato da un cattivo sogno, spostò un

occhio su di lui ma tenne l’arma tra i denti.«Non sei stanco di questo teatrino?» Lo Sciacallo si asciugò lo zigomo con il polso. «Forza!

Sparati!»Flavio sembrò riflettere, il dito incollato sul grilletto. Poi lo sollevò, si sfilò la pistola dalla

bocca e mise la sicura. «Scusa.»Scusa? Ma che hai, dodici anni?Lo Sciacallo stava per esplodere. Avrebbe voluto avvicinarsi all’amico, zoppicando, e

prenderlo a schiaffi, ma si morse il labbro e disse: «Sono sei mesi che minacci di farti saltare

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la testa. Almeno vallo a fare in giardino, così non dovrò staccare pezzi del tuo cervello dalla carta da parati.»Damiano trascinò la gamba cattiva fino alla finestra. Scostò la tenda e indugiò con lo

sguardo sul cortile innevato. Riprese a respirare. Le spalle gli si sciolsero, e si sentì bene quasi come se avesse ancora quindici anni e non fosse storpio. Osservò i rami ghiacciati degli alberi, i vasi rotti e la terra nera come sangue rappreso sul lastricato. Il cane sbucò dal vecchio capanno del giardiniere, la coda nera che frustava l’aria, e trottò fino alla finestra, senza abbaiare. Si sollevò sulle zampe posteriori, spingendo il muso contro l’infisso. Un alone si allargò sul vetro. Lui grattò con un dito nel punto in cui l’animale stava strusciando il naso, trattenne un sorriso, poi si voltò verso il centro della stanza.«Visto che ci sei, spara un colpo anche al tuo cane, che lascia merda ovunque.»Flavio ripose la pistola su un tavolino di vetro posto davanti al divano. Gli occhi bassi.«Stai meglio adesso?» chiese Damiano, con un tono più dolce.«Credo di sì.»«Bene. Allora va’ a lavoro, che fai tardi.»

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4

LUGLIO, 1950

In casa di Tommaso non c’era mai silenzio, nemmeno di notte. Le pareti erano sottili, così sottili che sembravano fatte di cartone.«Tu, al figlio di De Luccia te lo devi sposare.» Uno schianto, il rumore di una mano sbattuta

sul tavolo. Steso sul pavimento della sua stanza, il ragazzo riconobbe quel suono. Se chiudeva gli occhi e si concentrava poteva riconoscerne le pieghe sul palmo, i calli, i polpastrelli spaccati. Gli bruciava ancora la faccia, nel punto dove era arrivato lo schiaffo. Il padre se l’era presa prima con lui, e adesso toccava a Teresa.«Non me lo prendo a quello.» Al paese dicevano che la sorella fosse identica a sua mamma, l’unica femmina capace di

raddrizzare Don Rosario il Lattaio.Tommaso schiacciò un orecchio sul pavimento. Sperava che Teresa la smettesse di

rispondere. Non voleva che andasse a finire male. La storia del bambino al fiume aveva causato problemi all’attività. Prima di tutto, quando era caduto con il carretto aveva rotto le bottiglie. Il vetro costava, e non potevano permettersi di perderlo. Poi c’erano le guardie. Il maresciallo dei Carabinieri gli aveva fatto tante di quelle domande che a lui era venuta la nausea. Hai visto qualcuno? Chi c’era con te nel bosco? Perché hai fatto quella strada? Ci vai spesso sulla riva? Porti il latte tutti i giorni? Il ragazzo odiava le domande. Non era bravo con le parole. Pensava una cosa ma poi non

era in grado di dirla e i suoi silenzi non venivano visti di buon occhio dalle persone. Credevano che fosse un fesso tipo Gennaro, il figlio del postino. In realtà lui sapeva cosa dire, ma non voleva farlo. Vedeva quel corpo gonfio, la pelle livida come un pollo messo a mollo in una bacinella. Le ferite aperte, la carne dilaniata dai morsi.Tommaso si prese la faccia tra le mani.Era stanco di origliare. Si sollevò a fatica e andò a stendersi sul letto. Le molle cigolarono

quando si lasciò cadere di peso, le braccia incrociate dietro la nuca. Girò il capo verso la finestra aperta. Un soffio d’aria gonfiò la tenda riempiendo la sua stanzetta del canto delle cicale. Tommaso sentì un brivido. Afferrò il lenzuolo appallottolato ai suoi piedi e si coprì fino al mento.Era sulla sponda del fiume. Sassi neri, muschio, rumore d’acqua che si infrangeva contro i

tronchi. Radici che sbucavano dal fango, e in mezzo alle radici un bambino. Si aggrappava ai rami. Le dita minuscole lottavano per non perdere la presa. Le schegge gli infilzavano i polpastrelli, gli scivolavano sotto le unghie. Il bambino aveva le labbra spalancate. Un grido soffocato dall’acqua.Tommaso allungò una mano. Poteva prenderlo, lui era forte.

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Chi c’era con te nel bosco?La voce del maresciallo Pironti echeggiò sopra il gorgoglio delle acque. Rimbalzò contro la

corteccia striata dalla resina.Tommaso avvertì un movimento. Un refolo di vento sulla nuca. Si voltò. Vide l’uomo nascosto in mezzo alle foglie, gli occhi che scintillavano nella

penombra. Gli occhi di un animale.Si risvegliò con un sussulto in una pozza di sudore, la canotta incollata al petto. Sbatté le

palpebre, mise a fuoco l’armadio marcio ai piedi del letto.Cosa aveva detto suo padre quando aveva tirato fuori il corpo del bambino dal fiume?

Tommaso si sforzò di ricordare, ma sentiva che i pensieri si scontravano tra loro come biglie impazzite. Mise i piedi nudi sul pavimento e andò verso la finestra. Osservò lo spiazzo davanti alla tenuta. Il tetto di lamiera della struttura in cui stavano le mucche. Il recinto di legno, così vecchio e malandato che rischiava di cadere al primo soffio di vento. In bilico, come tutto il resto, in quella casa.

* * *

«Mi stai raccontando una fesseria?» Le guance corrose dal vino di Don Rosario si contrassero in una smorfia, scoprendo le gengive nere mentre lo afferrava per le spalle e lo scuoteva con forza. Tommaso sentì le vertebre che schioccavano, sollevò le braccia per difendersi. Stavolta non meritava di esser preso a pugni, non aveva fatto nulla di male. Lui aveva visto il bambino.«Vi giuro che ci sta!»«Dove hai lasciato il carretto, mongoloide?» Il padre lo lasciò andare e sbatté le mani

nell’aria, come se volesse schiacciare una zanzara che gli si librava davanti al naso. «Maledetta tua madre che ti ha fatto così scemo! E le bottiglie? Dove le hai messe?»«Stanno al fiume, ve l’ho detto.»«Al fiume?» Don Rosario strinse le palpebre, la camicia sbottonata e la schiuma all’angolo

della bocca. Tommaso conosceva quello sguardo. Fece un passo indietro e incassò la testa tra le spalle, il volto rigato dalle lacrime. Forse era pure scemo, ma non si sarebbe fatto menare. Non questa volta. Lui non se lo meritava.La porta della zanzariera rimbalzò contro il battente.«Ma che facit’?» Teresa li raggiunse tenendo per un lembo la gonna del vestito verde che le

aveva dato una paesana dove andava a fare le pulizie. Le stava grande, ma lei se l’era fatto bastare. I capelli sciolti le rimbalzavano su una spalla.«Non lo sentite che sta dicendo?» La ragazza tirò il padre per un braccio e lui rischiò di

perdere l’equilibrio. «C’è nu criatur’ muort’ ind’ all’acqua e voi pensate alle bottiglie? Andate a vedere!»Don Rosario la guardò come se la vedesse per la prima volta, con il torace che si gonfiava

per l’affanno. Teneva ancora un braccio alzato, la mano chiusa e pronta a colpire. Poi lo

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abbassò, il respiro si fece calmo e un istante dopo Tommaso si ritrovò seduto sul carro, il culo che strusciava sulle assi di legno e sobbalzava a ogni scossone.«Maronna Santa.» Il padre si diede una manata sulla fronte quando vide il bambino. Il buio

cominciava ad ammantare il bosco, tingendo di nero il fiume. Tommaso aveva legato il cavallo a un albero e camminava tra i sassi sulla riva, mentre Don Rosario era entrato nel fiume, l’acqua fino alle ginocchia, e aveva sollevato il corpo. Il ragazzo lo osservò mentre teneva tra le braccia quel bimbo come se fosse appena nato. Sembrava quasi che volesse cullarlo, e questa cosa lo colpì. Il padre non aveva mai mostrato dolcezza, almeno non nei suoi confronti. C’era dell’umanità nascosta dietro la scorza dell’ubriacone. Un’umanità cancellata dalle ferite della perdita. Qualunque cosa Tommaso pensasse in quel momento venne cancellata da una frase.«Che fai lì fermo?» Negli occhi lucidi del padre non c’era altro che rancore. «Prendi la

cerata sul calesse, muoviti.»Tommaso si morse un labbro e tornò indietro. I pugni stretti, le unghie conficcate nei

palmi. Afferrò la cerata e la trascinò fino alla sponda, i rami degli alberi che gli graffiavano le braccia. Come aveva potuto pensare a quelle scemenze? Si era chiesto come sarebbe stato ricevere una carezza, essere preso tra le braccia come quel bambino. Lui non aveva mai provato niente di simile, perché l’unica persona che avrebbe potuto farlo non c’era più.Mamma.Don Rosario gli venne incontro portando con sé il tanfo della morte. Solo adesso Tommaso

si rese conto di quanto puzzasse il cadavere. Gli mancava un pezzo della faccia, la guancia era stata strappata via e poteva vedere le gengive. I denti.«Sai di chi è figlio?» Il padre depositò il bambino al centro del telo di plastica, e lo

avvolsero meglio che potevano. Tommaso girò la faccia dall’altro lato. Sentiva quel corpo freddo sotto le dita ma non voleva vederlo. Non più.«Deve essere figlio di qualcuno in paese» disse ancora l’uomo, pulendosi le mani sui

pantaloni.Chissà se la mamma lo sta cercando…Tommaso non poteva sapere cosa si provasse a perdere un figlio. A Don Guizzardo ne era

morto uno durante la guerra. L’avevano ucciso gli inglesi in Africa.«Non c’è niente…» gli aveva detto il vecchio mentre pescavano insieme. «Te lo giuro,

niente di peggio di un padre che sopravvive al figlio. Dovevo morire io, non lui.»Lanciò un’occhiata a Don Rosario. Si chiese come si sarebbe sentito suo padre se a sparire

per sempre fosse stato lui. Avrebbe pianto la sua scomparsa? Di certo no, ma che importava? C’era il corpo di un bambino, avvolto in quella cerata. Aveva tutta la vita davanti, e invece era morto.«Dobbiamo andare dai Carabinieri.» Il padre emise un grugnito nel muoversi in mezzo alle

rocce, con il fagotto stretto tra le braccia. «Un animale… se lo sono mangiati gli animali.»Tommaso avvertì un ticchettio, come il battito di un vecchio orologio appeso al muro, e

solo allora si accorse che era la sua mascella. Stava tremando. Una paura che non aveva mai provato prima e che sentiva crescere nella pancia. Era come se avesse ingoiato un pugno di

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vermi vivi e questi gli stessero risalendo fino alla bocca. Vomitò. Un fiotto caldo e acido che gli riempì la gola. Cadde in ginocchio, come gli era già successo quel giorno stesso sulla riva del fiume, il corpo scosso dagli spasmi.«Ma che stai facendo?» La voce di Don Rosario giunse da un punto in mezzo agli alberi e

sopra il sentiero. Tommaso sentì il fruscio del fogliame e fece uno sforzo per rimettersi in piedi. Respirò a pieni polmoni. L’aria era pesante, viscida, un liquido nero che gli impregnava le narici, la bocca. Se lo sono mangiato gli animali…Si guardò intorno. All’improvviso tutto taceva, anche il fiume. Era troppo buio per restare

lì. Gli animali però non avevano paura del buio. Tommaso poteva sentirlo. Il peso dei loro occhi addosso.

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5

OGGI

Massimo chiuse la portiera, inserì la chiave nel quadro ma non mise in moto. Gli tremavano le mani. Era così teso che sentiva le vertebre del collo bloccate come cardini incrostati dalla ruggine. Crediamo molto in lei, dottor Citarella. Detta così sembrava una gran presa per il culo. Aveva accettato l’incarico come

responsabile di filiale da tre settimane, e già se ne era pentito. Quando il tizio delle risorse umane gli aveva proposto l’avanzamento di carriera, lui non se l’era sentita di tirarsi indietro. Che cazzo ne sapevano loro dei sacrifici. Massimo aveva dedicato tutta la sua vita alla banca. Aveva cominciato dalla cassa. Era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo a uscire, anche quando per raggiungere l’ufficio era costretto a scendere di casa all’alba. Già, perché gli altri colleghi erano stati tutti sistemati in posti comodi, mentre a lui toccavano i paesini sperduti. Chilometri su chilometri. Autostrada, caselli, strade statali. Traffico, lo stomaco sfondato dai panini mangiati a pranzo, una patina di forfora sul colletto della giacca. In dodici anni di servizio aveva cambiato tre autovetture. Usato garantito un cazzo.«Dotto’, ma che ci fate voi alle macchine?» gli aveva chiesto ridendo il meccanico l’ultima

volta che era stato in officina per far riparare la frizione.Massimo aveva sorriso e abbassato lo sguardo, come faceva quando non sapeva cosa

rispondere. Raccomandati di merda.Quelle tre parole erano diventate il suo mantra.Tre parole sputate tra i denti ingialliti dal fumo. Sedeva dietro di loro, ogni volta che

c’erano le riunioni commerciali. Schierati nelle prime file, i raccomandati non sbagliavano mai. Annuivano al momento giusto, ridevano quando era il caso di ridere. Stretti nei loro completi eleganti, con i pantaloni che cadevano perfetti sopra le scarpe lucide, muovevano le teste all’unisono, simili a pinguini ammaestrati. Massimo li studiava e si chiedeva quante insalate e cibi dietetici avrebbe dovuto ingollare per infilarsi in uno di quegli abiti su misura. Era grasso e flaccido, e serviva a poco che la madre lo esortasse ad andare in palestra, a mangiare di meno, perché altrimenti non avrebbe mai trovato una fidanzata. Ciò che voleva non era una fidanzata, ma più tempo per vivere, per respirare, per comportarsi come una persona normale.Mise in moto, innestò la retromarcia e uscì dal parcheggio.La filiale si trovava nei pressi di un centro commerciale di nuova costruzione. Uno di quei

palazzoni che odoravano di pittura fresca, dove i paesani vagavano come zombie, spingendo carrelli quasi vuoti davanti alle vetrine piene di merce in saldo.

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L’insegna luminosa sopra la porta indicava Banca del Mezzogiorno, ma era sbagliata. Quel buco si sarebbe dovuto chiamare Lavanderia del Sud. Massimo non aveva mai visto così tanto denaro in contanti. Nemmeno quando aveva lavorato a Marcianise c’era un giro di riciclaggio così grosso. Quando gli avevano detto di Castellaccio lui aveva sorriso, senza sapere dove si trovasse quel posto. Uscito dalla stanza, si era fermato in corridoio e aveva fatto scorrere un dito sullo schermo dello smartphone. Cilento.Un posto tranquillo, aveva tagliato corto il padre, sollevando la faccia dal brodo di pollo e

dandogli una pacca sulla spalla. Era questo il suo modo di incoraggiarlo e chiudere la conversazione. Una pacca sulla spalla. Due cassieri prossimi alla pensione, una consulente per gli investimenti esperta in pause

caffè infinite, e un branco di imprenditori che sembravano usciti da un film di camorra. Era questo l’avanzamento di carriera che avevano in mente per lui? Avanzare verso cosa? Massimo aveva la sensazione di camminare sul cornicione di un palazzo di dieci piani, e con il vento contro. Se fosse caduto da un’altezza simile, considerato il suo peso, avrebbe scavato una voragine nel terreno e sarebbe sbucato in Nuova Zelanda.Si ritrovò a scendere da quella montagna che aveva imparato a odiare, la strada viscida a

causa della neve sciolta, come ogni sera alle diciannove. Sarebbe ritornato a casa, a Nola, in tempo per mangiare un boccone, fingersi allegro davanti a sua madre e rintanarsi nella sua stanza per farsi una sega in streaming al pc. A quasi trentotto anni, questa era la sua massima aspettativa di vita.Sistemò lo specchietto retrovisore, vide le abitazioni di Castellaccio, un labirinto di case

aggrappate alla roccia, che rimpicciolivano mentre raggiungeva la statale. Scostò una ciocca di capelli unti dalla fronte. Sua madre aveva ragione, non avrebbe mai trovato una ragazza. Si grattò la guancia. I segni dell’acne gli prudevano sempre quando era nervoso. Non ricordava più l’ultima volta che aveva toccato una donna senza dover pagare. Chissà se i raccomandati dovevano sborsare un po’ di soldi, per farsi una scopata.L’unica cosa positiva del ritorno a casa da Castellaccio era la statale.Passò davanti alle mura della città greca, lanciò uno sguardo indifferente ai templi di

Paestum mentre azionava la leva della freccia. Prese lo svincolo per la litoranea e nella sua mente affiorò la domanda che si poneva ogni sera sulla via di ritorno. Che cazzo di gusto c’è a guardare due pietre vecchie? La gente era stupida. Aveva bisogno di rifugiarsi in cose futili, per sentirsi importante.

Voleva per forza dimostrare ad amici e conoscenti di essere migliore. Doveva trascorrere le vacanze alla scoperta dell’arte e della storia per sentirsi alternativa. Illudersi che visitare monumenti migliorasse in qualche modo la sua vita. Le vedeva in banca ogni giorno, quel tipo di persone. Facevano i debiti per poter viaggiare e poi non arrivavano nemmeno a fine mese. Massimo imboccò una rotatoria e osservò il profilo nero degli alberi. La pineta era un

muro di resina e fogliame che si estendeva da Capaccio fin quasi a Salerno. Passare per la litoranea allungava il suo tragitto, ma non gli importava: era la parte del viaggio che preferiva.

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Le ragazze stazionavano su uno schifo di pista ciclabile. Bionde, more, nere. Romene, moldave, nigeriane. Divise in gruppetti, strette intorno a

piccoli fuochi. Lingue arancioni che sbucavano da bidoni arrugginiti. Con il suo stipendio da impiegato di quarto livello, Massimo avrebbe potuto permettersi una scopata più tranquilla. Per cento euro si sarebbe regalato trenta minuti con una escort brasiliana in qualche hotel di Battipaglia, ma in strada era diverso. In strada sentiva salire la tensione. E poi, i genitori gli avevano insegnato che i soldi andavano rispettati. Meglio una cosa così, veloce ed economica. Guardò l’orologio e scalò la marcia.Era in perfetto orario. Strinse le mani sul volante e le labbra si tesero in una smorfia. Si

sentiva come uno di quei giocatori di poker che non hanno ancora imparato a riconoscere il momento giusto per passare la mano. Adocchiò una biondina che parlava al telefono. Se ne stava in disparte, staccata dalle altre. Lanciò uno sguardo allo specchietto retrovisore, vide dei fari in lontananza e decelerò. Le ruote schiacciarono una bottiglia di plastica.La biondina gesticolava e parlava in una lingua che a Massimo sembrò slava. Si voltò verso

di lui, sbattendo le palpebre infastidita dai fari, e interruppe la chiamata. Poggiò lo schermo dello smartphone su un lato del collo e gli andò incontro. Massimo contrasse le chiappe nei pantaloni sformati, serrando l’ano in una fessura nella

quale non avrebbe potuto infilare nemmeno uno spillo. Abbassò il finestrino e un refolo d’aria gelida gli sfiorò la faccia. Lei gli sorrise, un sorriso per nulla sincero, poi si piegò in avanti il tanto che bastava per mostrargli la scollatura. La lampo del cappotto era aperta, le tette strette una all’altra sotto una canotta nera. Gli sarebbe bastato allungare una mano per tirargliene fuori una.Avrà i capezzoli piccoli?Girò il capo di scatto e schiacciò l’acceleratore. Le ruote stridettero sull’asfalto. «Che cazzo fai?» gridò, rivolto alla sua faccia brufolosa nello specchio retrovisore.Stupido. Stupido. Stupido.Si era ripromesso che avrebbe smesso. La cosa gli stava sfuggendo di mano, lo sapeva. Se

non si fosse fermato adesso, non l’avrebbe più fatto. Doveva trovare un modo, qualcosa che lo distraesse. Accese lo stereo e cercò la stazione giusta. In quella zona non c’era molta copertura e, a parte Radio Maria, la ricerca automatica lo portò su Radio24 e i commenti sull’andamento dei mercati finanziari.«No!» Staccò lo stereo dal cruscotto e lo scagliò sul sedile alle sue spalle.Stava sudando, la fronte lucida e i segni dell’acne che pulsavano. Chiuse per un attimo le

palpebre. L’auto lanciata a tutta velocità sulla litoranea. Sarebbe tornato a casa senza deviare. Avrebbe inchiodato gli occhi sul parabrezza e tutto sarebbe andato per il verso giusto. L’indomani avrebbe preso la statale. Si sarebbe fatto il traffico di Eboli e poi l’autostrada.La spia della benzina si accese.Lui diede una manata sul volante. Aveva dimenticato di fare il pieno.

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La pineta scivolava sui vetri e sulla carrozzeria come gocce d’acqua piovana. Massimo percorse in pochi minuti i chilometri che lo separavano da una stazione di servizio. Non c’era il benzinaio e dovette scendere per inserire una banconota da cinquanta euro nella colonnina del self service. Selezionò un pulsante e si avvicinò all’erogatore. Aveva la camicia fuori dai pantaloni, la solita ciocca ribelle incollata alla fronte dal sudore e una tale stanchezza addosso che aveva voglia di svenire. Le spalle erano rigide come se, all’improvviso, i suoi pensieri gli fossero piombati addosso tutti insieme. Si sentiva inadeguato e insoddisfatto. Così insoddisfatto che avrebbe voluto lasciare la macchina in quella stazione e far perdere le sue tracce.Impugnò la pistola dell’erogatore e strattonò il tubo nero camminando all’indietro fino al

serbatoio della sua auto. Rimosse il tappo, premette il grilletto e sparò dentro il liquido.«Ciao.»Massimo si girò di scatto. La voce era giunta da dietro le sue spalle, cogliendolo di

sorpresa. Lasciò andare la mano dalla pompa e il liquido schizzò sulla fiancata della macchina, bagnandogli i pantaloni.Ma cazzo…La ragazza teneva le mani nelle tasche di un giubbino troppo sottile per difenderla dal

freddo. Aveva la testa incassata tra le spalle e una cascata di capelli neri che si confondevano con lo sfondo buio della notte.Massimo spostò lo sguardo dalla punta delle sue scarpe sporche di benzina alle gambe

della giovane. Vide le calze rovinate, la minigonna nera, le braccia strette al petto. Lei gli sorrise appena, mostrando un anello all’angolo della bocca. La pelle bianca come il latte.«Ti ho spaventato?» gli chiese. C’era qualcosa nel tono di voce che a Massimo piaceva. Un senso di familiarità, di timida

confidenza.Il bancario si schiarì la gola e scosse il capo. Tentò di parlare, di dire qualcosa di sensato,

ma dalle labbra non gli uscì altro che un respiro strozzato. Si affrettò a completare il rifornimento, avvitò il tappo e rimise a posto la pompa. La ragazza rimase immobile, illuminata dalle luci lattiginose della stazione di servizio. Sembrava un fantasma in mezzo a tutto quel bianco. Un fantasma che non gli toglieva gli occhi di dosso.Però, sei carina… e pure italiana. Che ci fai da queste parti? Oh Dio, non mi dire che…Massimo si affrettò ad aprire la portiera e si tuffò dentro l’auto. Fece appello alla parte

razionale, a quel briciolo d’intelligenza che era convinto d’avere. Poteva farcela, doveva farcela.«Aspetta, puoi darmi un passaggio?» La ragazza si mosse, fece il giro intorno alla macchina.

Rumore di tacchi sull’asfalto, la voce ovattata dal vetro. «Per favore, ho freddo.»Massimo si voltò verso il sedile del passeggero. Lei lo fissava attraverso il finestrino, con

un’espressione smarrita negli occhi neri. Lui trattenne il respiro, si guardò i palmi delle mani, come se ci fosse stato scritto qualcosa che il sudore aveva cancellato. Stava per dirle di no, poi strinse le labbra.

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Una ragazza così carina nel mezzo del nulla. Posso vedere la forma delle tue tette, sotto quel giubbino.Annuì. Le fece cenno di salire a bordo.«Grazie!» Lei scivolò sul sedile. Allungò un braccio per chiudere la portiera, ma era troppo

tardi. Il freddo l’aveva seguita nell’abitacolo.«Dove ti porto?» chiese Massimo.Lei sorrise. Un sorriso gelido.«Dove lui non può vederci.»

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6

OGGI

«Hai preso il caffè?» La dottoressa Nardi puntò dritta verso il distributore incastrato in un angolo della sala del personale. Affondò una mano nel taschino del camice e rovistò in un tintinnare di monete e chiavi. «Già fatto. Grazie.» Flavio si grattò il mento. Odiava il caffè. Perfino l’odore della moka gli dava la nausea, ma

non voleva che lei lo sapesse. La collega faceva sempre troppe domande e se c’era una cosa che non sopportava, quasi più del caffè, era parlare di sé. La riservatezza era il muro dietro cui aveva imparato a nascondersi. Raccontava di sé solo lo stretto necessario. Più la gente sapeva e più voleva sapere, e questo non era un bene. «Novanta centesimi? E da quando hanno aumentato il prezzo?» La donna studiò le

monetine che aveva nel pugno, strizzando gli occhi dietro le lenti da vista. Si fece scivolare un pezzo da un euro tra l’indice e il pollice, lo spinse dentro la macchina e schiacciò un tasto. Il liquido scivolò in un bicchierino di plastica. La Nardi prese la bevanda e si sistemò gli occhiali sul naso, con un gesto della mano che le aveva visto fare decine di volte da quando lavorava a La Quiete. Flavio aveva mollato la strada, il lavoro come psichiatra infantile dell’ASL, ed era ritornato

a Castellaccio. La sua vita era lì, tra quelle montagne dove aveva lasciato Claudia. Dove aveva iniziato a capire chi fosse.«Sei un pazzo furioso. Nessuno lascia un posto statale» gli aveva detto l’amico Stefano

quando gli aveva confidato le sue intenzioni. «Che fai se non ti trovi bene? Vieni a spaccarti la schiena nei cantieri con me?»L’impiego a La Quiete, eccellenza del Cilento nella psichiatria femminile, era l’occasione

che cercava. Essere un medico e basta, si ripeté mentre si massaggiava il palmo della mano.«Che ti sei fatto lì?» gli chiese la Nardi indicando la sua cicatrice vicino al pollice.«Una ferita adolescenziale.»«Ah, a chi lo dici.» La dottoressa si accarezzò il mento. «Questo me lo sono fatto a sedici

anni. E pensare che i miei mi avevano vietato di andare sul motorino. Le cicatrici che ti fai a quell’età restano per sempre.»Flavio abbassò lo sguardo sul dito.«Già» disse. «È proprio così.»

SALERNO, 1987

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In istituto aveva imparato a leggere con la luce spenta, ma a casa dell’ingegnere era tutta un’altra storia. Quella sera diede una mano a sparecchiare e corse in camera a tuffarsi sul letto. La professoressa di italiano gli aveva assegnato La coscienza di Zeno, di Italo Svevo.«Cazzo, che palle» aveva detto tra i denti il compagno di banco, ma a Flavio non dispiaceva

quel compito. I tentativi di Zeno di sottrarsi alla sua malattia psicologica lo facevano sorridere. Anche se diverso dalle letture a cui era stato abituato da sua madre, quel romanzo gli piaceva e aveva scelto anche la colonna sonora giusta per leggerlo. Dalla scatola con le cassette aveva preso per il suo walkman una registrazione con le canzoni degli Smiths. The Charming Man era il sottofondo perfetto per godersi la lettura. Era così coinvolto dalla storia del matrimonio di Zeno che non si accorse nemmeno di Mattia seduto ai piedi del letto.Si tolse di colpo le cuffie e disse: «Chi ti ha detto di entrare?»«La porta era aperta» rispose il bambino. Indossava un pigiama con volti di indiani a

cavallo e cowboy armati di fucile.«Cosa vuoi?»«Volevo dirti grazie.»«Lo hai già fatto.» Flavio spense il walkman e si mise a sedere. «È vero? Dico, quello che ha

detto di te… è vero?»«Gli hai dato un calcio fortissimo, come hai fatto? Dove hai imparato quella mossa di

karate?»«Rispondi alla mia domanda. È vero? Hai baciato il cugino di quello stronzo?»Le orecchie di Mattia divennero fucsia.«Lo dirai alla mamma?» gli chiese.«Lei non è la tua mamma.» Il bambino fece un cenno d’assenso con il capo.«Perché lo hai fatto? Non devi andartene in giro a baciare i tuoi compagni di classe.»«Non lo so… gli voglio bene. È sbagliato? Adesso non saremo più fratelli, io e te, dico… non

siamo più fratelli? Ti faccio schifo perché bacio i maschi?»Flavio mise il segno e posò il libro sul comodino.«Noi non siamo fratelli» disse. Vide lo sguardo di Mattia che si incupiva e si grattò il mento.

«Ascoltami, noi non siamo fratelli ma tu non mi fai schifo. Puoi baciare chi vuoi, per me. Ma le persone devono provare la stessa cosa. Lo devono volere anche loro, capisci? Chi ti credi di essere? Cupido?»Il bambino si mise a ridere. «Flavio.»«Che c’è?»«Hai mai baciato qualcuno?»Lui sorrise. «Sì.»«È stato un bel bacio?»«Sì, molto. Adesso vattene però. Devo leggere.»«Flavio?»«Dimmi…»

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«Posso dormire con te questa notte?»«Non ci pensare nemmeno, e chiudi la porta quando esci.»

OGGI

«Come si fa a bere questo schifo?» gli chiese la Nardi dopo aver mandato giù un sorso e gettato il bicchiere macchiato di rossetto in un cestino. «Mi stai ascoltando? Mi sembri altrove, questa mattina.»Flavio sollevò le spalle e si limitò a camminarle al fianco nel corridoio. Un inserviente

rivolse loro un saluto e lui rispose con un cenno del capo. L’odore di disinfettante per i pavimenti gli penetrava nelle narici. Sulle pareti tinte di viola c’erano i disegni realizzati dalle ospiti della Quiete durante il laboratorio d’arte-terapia. Il suo preferito si trovava in fondo, lì dove la luce del neon era più debole, affisso vicino alla porta dell’ascensore. Il tratto era infantile, poteva cogliere le singole linee di pastello, i solchi nel foglio lasciati dalla punta. C’era una famiglia che si teneva per mano. Padre, madre e figlia. Una casa storta con un camino fumante nonostante il sole alto sopra il tetto. Un sole che sorrideva, con gli occhi spalancati come quelli di un bambino. E poi, in un angolo, la firma.Maria.Flavio si chiedeva se quella giornata all’aperto insieme ai suoi genitori fosse l’unico ricordo

felice che Maria aveva della sua infanzia. Il momento che antecedeva il black-out, quando suo padre aveva smesso di essere un papà ed era diventato qualcosa di diverso. Quando il sole aveva cessato di sorridere ed era stato inghiottito dalla notte. Lui parlava ogni giorno con Maria da quando aveva iniziato a lavorare per la clinica. Le portava la cioccolata di nascosto: non quella che si trovava alla mensa, ma le tavolette che comprava alla Decò di Castellaccio mentre andava al lavoro. Fondenti, come piacevano a lei.«Cosa hai lì?» La voce della dottoressa Nardi lo strappò ai suoi pensieri. Flavio la guardò senza capire a cosa si riferisse. Poi lei inarcò un sopracciglio, i capelli

raccolti in una coda, e indicò la cartella che lui teneva in una mano. «Ah.» Flavio abbozzò un sorriso. «Una paziente di De Nicola. Lui è ancora in convalescenza,

e l’ha passata a me.»«Si è rotto una gamba, vero? Come ha fatto?»«A calcio.» Flavio attese che le porte dell’ascensore si aprissero, invitò la collega a entrare

per prima, poi schiacciò il tasto per salire al terzo piano.«La partitella del mercoledì?»«Già. Medici contro infermieri, giù a Capaccio.»«E tu non giochi?» La Nardi gli sorrise.«Non mi piace il calcio. Mio nonno diceva che solo gli stupidi corrono dietro a un pallone.»«Davvero? Dovrei farti conoscere il mio ex, allora… E a te che sport piacciono?»Flavio fu sul punto di rispondere ma questo avrebbe significato parlare di sé. Si morse un

labbro, poi la porta dell’ascensore venne in suo aiuto spalancandosi sul piano.«Sono arrivato» disse. «Ci vediamo per pranzo?»

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«Va bene, De Martino» rispose la collega, premendo un pollice sulla consolle dell’ascensore.Flavio si ritrovò in una sala circondata da ampie finestre senza tende. Il sole filtrava

attraverso grate metalliche, tracciando quadrati bianchi sulle mattonelle.«Buongiorno.» Rita, l’infermiera che gestiva la sala comune, spingeva una ragazza seduta

su una carrozzina. Gli sorrise. Flavio sollevò la cartella e lei indicò un punto alle sue spalle. Intorno a dei tavoli al centro

della stanza, sedevano le ospiti de La Quiete. Due ragazze stavano guardando un programma alla televisione appesa alla parete, altre si

stavano preparando per una partita a Monopoli. Un volontario, un giovane di cui non ricordava il nome, gli fece l’occhiolino mentre distribuiva soldi finti. «Non vale!» Una paziente con la corporatura massiccia avvolta in una vestaglia di flanella

rosa assestò una manata sul tavolo. «Questa ne ha più di me!» disse, cercando di prendere le banconote della vicina, che si curvò sul tabellone per proteggere il suo gruzzoletto.«Fa’ la buona. I soldi sono uguali per tutte. Dai, iniziamo?» Il volontario sbottonò le

maniche della camicia, spinse con la lingua il piercing all’angolo della bocca. Il vuoto.Flavio vedeva le labbra muoversi, ma non sentiva più le parole. Era come se i suoni della

stanza si fossero fusi in un’unica bolla di silenzio. Lasciò che lo sguardo penetrasse quei corpi, scivolasse sul pavimento, in mezzo a gambe e braccia. Percepì i pensieri, le emozioni, le paure. Il male di vivere. E poi la vide.La ragazza se ne stava seduta in un angolo. Indossava una tuta blu, le spalle curve e il viso

nascosto da ciocche stoppose di capelli neri. Teneva gli occhi inchiodati alla finestra. Lui le si avvicinò il tanto che bastava per coglierne il riflesso del volto sul vetro. C’era qualcosa nei suoi occhi che gli tolse il respiro. Erano di un verde intensissimo, abissi di smeraldo in cui avrebbe potuto perdersi se non avesse saputo quello che lo aspettava.«Ciao» disse. Prese una sedia e la trascinò fino a sé. «Posso sedermi?»La paziente non rispose. Sembrava che non si fosse neppure accorta di lui.

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7

LUGLIO, 1950

Tommaso chiuse la porta del capanno e corse a lavarsi. La luna declinava verso la punta degli alberi mentre l’aria odorava ancora della notte. Aveva spalato il letame, pulito i recinti con le vacche e svolto le sue mansioni nella stalla prima del solito, quella mattina. La notte era scivolata via in fretta, senza che lui se ne accorgesse. Con tutte le cose che aveva in testa, era stato impossibile addormentarsi. Aveva chiuso gli occhi solo per un’ora o due. Continuava a rivedere la faccia di quel bambino che affiorava dall’acqua. La carne ridotta a brandelli, il sangue che aveva tinto i sassi di nero. Più ci pensava e più gli venivano in mente dettagli. La posizione dei lividi, il segno dei morsi.È stato un animale.Così aveva detto suo padre, ma lui non ne era convinto. Aveva visto qualcuno in mezzo agli

alberi. Era stata una sensazione strana, l’idea di essere spiato. Come quando andavi a tuffarti nel fiume, dove non toccavi il fondo con i piedi, e quando uscivi dall’acqua ti accorgevi che i tuoi vestiti erano spariti, e allora ti coprivi il pisello con le mani e ti giravi in ogni direzione senza capire chi ti avesse giocato quello scherzo.No, non è stato un animale a fare quella cosa.Tommaso rivide gli occhi di quell’uomo in mezzo agli alberi. Erano rossi come il fuoco.

Rossi come il sangue. Doveva dirlo al maresciallo Pironti. Forse la persona che aveva ucciso il bambino era ancora in giro. Un pazzo. Magari era un tedesco. Un soldato che si era nascosto nei boschi e mangiava le persone per vivere. Forse avrebbe potuto uccidere ancora.E se si era sbagliato? Se aveva avuto un’allucinazione? Cosa avrebbero detto di lui? Un

pazzo. Avrebbero detto che era pazzo. Si grattò la fronte. Non ci capiva più niente. Poggiò il forcone contro la parete della stalla, si spazzolò le braccia dal fieno e corse verso il retro della casa. Dietro il deposito, in mezzo agli alberi, c’era una vecchia canaletta di pietra fatta costruire dal nonno per portare acqua corrente alla sua famiglia. Un barattolo ammaccato pendeva con del filo di ferro dai rami di un albero. Tommaso vi infilò dentro una mano e prese un pezzo di sapone. Si lavò quasi a secco, l’acqua era troppo fredda e il contatto con la pelle lo faceva stare male. Oggi non avrebbe fatto le consegne, toccava a suo padre. Il maresciallo Pironti aveva attaccato Don Rosario proprio davanti a lui e Teresa.«Villani, tu vai a ubriacarti e i tuoi figli devono fare il lavoro per te?» aveva detto, e

Tommaso aveva fatto un passo indietro, schiacciando le spalle contro il muro della cucina. Temeva che il cuore gli smettesse di battere da un momento all’altro. Nessuno parlava in quel modo a Don Rosario. I paesani temevano le sue reazioni.

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«Marescia’, i figli sono i miei e li educo come voglio.»«Ah sì? E che educazione dai a questi guaglioni? Sentiamo! Villani, sei un uomo di merda.

Questo lo so io e lo sai pure tu.»«Non vi permetto di parlarmi così. Ho portato pure io la divisa, che vi credete… io ho fatto

la guerra.»«Sì, lo sappiamo come hai fatto la guerra tu, Villa’. Fammi ricordare… pulivi le latrine dei

fascisti?» Il carabiniere che accompagnava il maresciallo aveva sorriso. Tommaso si era voltato a

guardare suo padre e l’aveva visto per quello che era. Un uomo piccolo e dai capelli unti, i pantaloni più grandi di una taglia. La faccia rossa e il naso gonfio, i capillari come ragnatele rosse sopra le narici. Suo padre era un bugiardo e un fallito.Non sarò mai come te. Se lo ripeté anche ora, mentre rientrava in casa. Trovò Teresa in cucina.«Ho messo il latte sul fuoco, prendi il pane» gli disse con voce stanca. Si voltò per indicare

con il mento un cesto al centro del tavolo. Aveva gli occhi gonfi di chi aveva passato tutta la notte a piangere. Tommaso conosceva sua sorella più di quanto conoscesse se stesso, e quello che leggeva

sul suo viso non gli piaceva. Don Rosario l’aveva promessa in sposa a un tizio di Giungano, un pecoraio di nome Mario De Luccia. Tommaso l’aveva incontrato solo una volta e gli era bastato. Non gli piaceva quel tipo. Si diceva che fosse pieno di soldi e che possedesse diversi ettari di terreno, ma questo non gli importava. Non ne capiva niente d’amore, però Teresa era sua sorella e meritava d’essere felice.Mario De Luccia non l’avrebbe mai fatta felice.Il ragazzo si sedette, prese un pezzo di pane duro e scrutò la sorella mentre gli piazzava

una ciotola di latte sotto il naso. Le sorrise e lei ricambiò appena. Il modo in cui camminava, in cui parlava, il suo odore. Tommaso si chiese se fosse lo stesso di sua madre. Don Guizzardo gli aveva detto che si somigliavano, loro due, e lui era certo che la gente non si sbagliasse.«Vuoi che vada a dirlo a Mimì?» disse d’impulso, pentendosi subito d’aver aperto bocca.Teresa si voltò di scatto e gli lanciò una rapida occhiata, poi prese delle uova da un mobile

e le mise a bollire.«E che vorresti andare a dirgli, sentiamo.»«La verità.» Tommaso affondò un pezzo di pane nel latte, lo spezzò e diede un morso alla

metà che aveva nella mano sinistra. «Vado a dirgli che se ti ama anche lui, allora deve muoversi.»Il volto di Teresa si illuminò. Era bella, la ragazza più bella che avesse mai visto. A pensarci

bene, anche Elvira, la nipote di Guizzardo, era bella, ma Teresa lo era di più. Lei rappresentava la parte migliore della sua famiglia. Doveva aiutarla, impedire che il padre la desse in sposa a quel pecoraio.Mo’ sistemo io le cose.Divorò il pane e vuotò la ciotola in un sorso.

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«Do’ vai, Tommasì?» si sentì chiedere da sua sorella mentre correva fuori di casa.Aveva dei sandali nuovi e una canottiera pulita sopra i pantaloni rattoppati. Se avesse fatto

in fretta, avrebbe raggiunto Mimì prima che andasse a fare i suoi servizi a Salerno.A Castellaccio avevano quasi tutti paura di Domenico De Martino. Una volta aveva sentito

dire che da ragazzino aveva tagliato la gola con un pezzo di vetro a un cliente della mamma, ma lui non ci credeva. La donna faceva la puttana, prima che una brutta malattia uccidesse lei e le tre sorelline di Mimì. Si diceva che fosse la femmina più bella del Cilento e che avesse la fila davanti alla porta. Un capitano tedesco era impazzito per lei, voleva sposarsela e portarla in Germania, ma prima che arrivassero gli americani un contadino aveva ritrovato il suo corpo in un fosso. Anche a lui avevano tagliato la gola.Teresa non aveva paura di Mimì, anzi, lo amava. Tommaso lo aveva capito da quella volta

alla fermata della corriera. Se ne stava con la sorella sotto il sole ad aspettare il mezzo che li portasse fino in paese quando era passato lui con un trattore. Li aveva visti da lontano, si era fermato e li aveva fatti salire a bordo. A Tommaso era toccato sedersi sul rimorchio, ma sempre meglio che restare a squagliarsi sulla strada.«Tommasì, e che ci fai tu qua? Non ti ho mica chiesto il latte.» Mimì stava lucidando la

moto, una sigaretta infilata in un angolo della bocca e gli occhi di un azzurro così intenso che sembravano scavargli dentro ogni volta che gli si posavano addosso.Il ragazzo si deterse il sudore dalla fronte con un braccio. La casa dei De Martino era fuori

dal bosco, vicino alla stradina che portava alla statale. C’erano ancora i solchi dei carri armati sul tracciato, e buche profonde come pozzi nei campi, dove erano cadute le bombe. I tedeschi avevano un avamposto proprio in mezzo a quelle terre. Era la linea di difesa più vicina alla spiaggia. Una volta superata, si poteva arrivare al paese. Eppure gli scontri non erano durati a lungo. Guizzardo gli aveva raccontato che, dopo le prime esplosioni, i nazisti si erano spostati per difendere punti più importanti. Alla fine, a nessuno importava davvero di Castellaccio.«Hai saputo cosa ho trovato al fiume?»Mimì smise di pulire la carrozzeria della moto e si tolse la sigaretta dalla bocca. Fece

cadere la cenere e studiò Tommaso, manco avesse qualcosa scritto addosso.«Ho sentito qualcosa. Era il figlio di Filomena, vero?»Il ragazzo corrugò la fronte. Filomena? La sua vicina?«Non ti hanno detto niente?» Mimì scrollò le spalle e si concentrò sul fanalino. Avvicinò la

faccia a un punto in cui gli sembrava di aver individuato una macchia, e ci passò lo straccio. La moto era nera, con il sedile di pelle marrone e la marmitta che sembrava un cannone saldato a lato della ruota posteriore. Prima non era così bella. Gli americani l’avevano lasciata nei campi. Un pezzo di ferraglia arrugginito che Domenico aveva sistemato con il tempo, procurandosi i pezzi da amici suoi di Salerno. Era uno spettacolo, e Tommaso avrebbe voluto tanto farci un giro sopra. Sbatté le palpebre cercando di allontanare quei pensieri dalla testa. Come poteva pensare a una cosa così stupida quando aveva appena saputo che il bambino morto al fiume era il figlio di Filomena?

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Nunzio.Tommaso lo aveva visto spesso gattonare nel cortile di casa. Il latte che portava era per lui,

la sua prima consegna giornaliera. Come era possibile? Gli girava la testa, la terra sotto i piedi sembrò muoversi. Il piccolo Nunzio.Ripensò al rumore del fiume. All’acqua che sbatteva contro i tronchi incastrati tra le rocce,

che si alzava e abbassava trasportando foglie e detriti. Poi rivide il cadavere, ancora una volta. Il corpicino incastrato in mezzo ai rami. Le rocce sporche di sangue. Il sangue, tutto quel sangue.«Stai bene?» chiese Mimì, ma lui non fece in tempo a rispondere. La colazione finì tutta sul selciato in un fiotto rancido. Tommaso vacillò, perse l’equilibrio e

andò a sbattere contro una fioriera vuota. La puzza del vomito gli riempiva le narici.«Vieni qui, siediti.» Mimì gettò via la sigaretta e si avvicinò a lui. Gli mise una mano sotto

un’ascella e lo sorresse, guidandolo fino a un grosso mattone poggiato al centro del cortile.«Non te l’avevano detto, eh?» chiese l’amico.«La sua faccia…» Tommaso tirò su con il naso, la vista appannata dalle lacrime. Si sentiva

stupido, avrebbe voluto smettere di piangere ma non ci riusciva. Sollevò una mano davanti al viso, indicando il punto in cui a Nunzio era stato dato un morso.«È venuto il maresciallo a casa tua?» domandò Mimì.Lui annuì. «Come è successo? Lo sai, tu?»«Mena stava stendendo i panni.» si asciugò il sudore dalla fronte con un braccio. «Il figlio

stava giocando ad acchiappare le galline. Un momento era lì, e quello dopo non c’era più.»«Era pieno di morsi.» Il ragazzo sputò un grumo biancastro e poi disse: «Una bestia… l’ha

sbranato una bestia.»«No.» L’amico scosse il capo, gli mise una mano sulla spalla. «Niente animali, Tommasì. È

stato un uomo a mangiarsi ‘o criaturo.»

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8

OGGI

Nessuna identità per gli ospiti della clinica. Tra quelle mura spesse e tinte di bianco, dietro le sbarre saldate ai davanzali delle finestre, dietro le porte chiuse a chiave dall’esterno, nomi e cognomi erano sfumati nel tempo fino a diventare numeri.Paziente 68.C’era scritto questo sulla cartella che Flavio teneva in mano. La sessantottesima anima

ricoverata in quel posto, eccellenza del sud Italia nelle cure psichiatriche.Depressione. Autolesionismo. Disturbi dissociativi. Fuga psicogena.C’era scritto anche questo nel fascicolo che aveva davanti agli occhi.Flavio girò il capo prima da un lato, poi dall’altro. Fece schioccare le vertebre e affondò la

schiena nella sedia di pelle logora. Il suo collega, De Nicola, aveva fatto un ottimo lavoro. Pagine e pagine di appunti in cui veniva delineato il profilo clinico della paziente. Nulla da eccepire.Stabilire un contatto con quella ragazza non era facile. Lei era lì e altrove. Da quando gli

avevano passato l’incarico, Flavio aveva trascorso con lei tutto il tempo che aveva a disposizione, trattenendosi anche dopo il turno. Sotto quella massa spettinata di capelli neri c’era una persona. Una persona che aveva sofferto: perciò, per quanto si sforzasse, non riusciva a chiamarla con il numero che le avevano assegnato. Per lui non esisteva nessuna paziente 68. Lei era Roberta.«Che cosa non ti convince?» Seduta all’altra estremità del tavolo, la dottoressa Nardi

sollevò il capo dai moduli che stava compilando. Gli occhiali le erano scivolati sul naso, rivelando un lieve strabismo dell’occhio sinistro, lo stesso con il quale lo stava fissando.Flavio emise un profondo respiro e si lisciò la barba. Aveva promesso al primario che

l’avrebbe tagliata, invece era ancora lì.«De Martino, il suo aspetto spaventa le pazienti» gli aveva detto un giorno a mensa, ma lui

non aveva ancora trovato il coraggio di tagliarla.«Tutti abbiamo bisogno di qualcosa dietro cui nasconderci, dottore» aveva risposto,

sperando che questo chiudesse l’argomento.La collega picchiettò con la penna sul tavolo, riportandolo alla realtà. Negli occhi scuri

della Nardi c’era qualcosa che lo intrigava. Simpatia? Curiosità? Non era in grado di spiegarselo. «Lavoriamo insieme da sei mesi» disse la donna. «Ho imparato a capire che ti passa

qualcosa per la testa, quando fai quella faccia.» «La terapia farmacologica per stabilizzare l’umore va bene, ma…»«Oh Dio, non ricominciare con la tua crociata contro le medicine.»

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«Non faccio crociate. Credo che i dosaggi di litio siano esagerati.» «Esagerati? La sessantotto ha provato a tagliarsi le vene con un vetro, due settimane fa.»«Roberta.» Lui scosse piano il capo. «Non sessantotto. Lei si chiama Roberta, e poi credo

che le probabilità di suicidio in un individuo affetto da una così evidente dissociazione siano basse. Ci siamo chiesti perché ha provato a farsi del male?»«Andiamo, tu hai lavorato troppo in strada, Flavio. La psicologia clinica è diversa dal

servizio sociale…»Lui continuò il ragionamento, senza ascoltare le obiezioni della collega.«Io me lo sono chiesto. Non vuole essere toccata, non dagli uomini, almeno. Due settimane

fa era seduta davanti alla finestra. La stessa finestra dove passa le sue giornate. Di turno come infermiere c’era Augusto Cioffi. Sono andato a parlargli ieri e mi ha raccontato come sono andate le cose. Lei non voleva alzarsi. Le aveva chiesto di seguirlo, di venire via da quell’angolo perché era ora di cena, ma lei non si muoveva. Era in uno stato catatonico. Quando è così, può venire giù anche il mondo… lei non se ne accorge. È smarrita. Persa chissà dove. Sai allora cosa ha fatto il nostro Augusto?»«Flavio…»«Le ha sfiorato il braccio. È bastato un solo tocco a innescare un processo di

autodistruzione che era già in atto.» Adesso lo sentiva, il prurito dietro la nuca. Il collo della camicia era diventato all’improvviso stretto. Avvertì un formicolio alla mascella, il labbro inferiore che tirava verso sinistra. Calmati.«Cosa sappiamo di lei? Il nome e basta.» Flavio cercò di rallentare il respiro. «E non perché

sia in grado di ricordarlo, ma perché era scritto sullo zaino che aveva in spalla. Per quanto mi riguarda, è possibile che la borsa non sia nemmeno sua, che l’abbia presa da qualche parte prima che la polizia la trovasse in quella fabbrica dismessa a Capaccio. La dissociazione è un’arma. Forse l’unica che quella ragazza ha per difendersi. Quindi te lo chiedo un’altra volta: cosa conosciamo di lei? Non scomodarti a rispondere, lo faccio io. Niente.»«La stiamo trattando.»Flavio annuì. «Certo, e a che cosa serve? Hai visto dei miglioramenti? Il nostro compito non

è trattare. Il nostro dovere è aiutare.»«Singolare interpretazione del giuramento di Ippocrate, e comunque ho letto anche io il

DSM-IV.» La Nardi raddrizzò la schiena e si spinse gli occhiali contro la fronte con la punta di un dito. «L’amnesia psicogena di Roberta è solo la punta di un iceberg, questo è evidente. Ho visto quella ragazza, in certi momenti sembra un vegetale…»Flavio fece una smorfia. «Se conosci il Manuale Diagnostico e Statistico dell’Associazione

degli Psichiatri Americani, allora sai meglio di me che alla base della perdita della continuità di memoria e coscienza c’è sempre un trauma molto forte, una violenza.» Frugò in mezzo ai documenti contenuti nel fascicolo e trovò la fotografia. La sollevò in modo che la collega potesse vederla e lei abbassò lo sguardo. «A giudicare da come sta messa, Roberta deve averne subite abbastanza, di violenze. Non trovi?»

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Flavio mosse le dita, lasciò cadere la foto sul tavolo. «L’infermiere non doveva toccarla.»La dottoressa Nardi non replicò. Si rimise a compilare le schede che aveva sotto il naso, lo

sguardo concentrato sulle scartoffie. Poi sbuffò, allungò una mano e prese la fotografia. La studiò come un libro di testo, si tolse gli occhiali e si massaggiò le palpebre. Flavio non disse nulla, rimase lì a osservarla per tutto il tempo. Anche lei doveva vedere quello che vedeva lui. Solo così avrebbe capito.«Cristo, che cosa vuoi fare?» gli chiese.«Roberta è stata marchiata.» Flavio sentì la voce uscirgli dalle viscere, profonda, cupa. Non

era il dottor De Martino, che stava parlando. Nel 1985, l’estate dell’85, lui aveva ucciso. Un ragazzo. Generoso.La sua prima volta. Ancora oggi poteva sentire gli schizzi di sangue sulla faccia, la lama

viscida del coltello che gli scivolava dalle dita. L’eco dei grugniti in uno scantinato umido. Le urla, il tanfo della paura, il freddo tocco della Morte. Dita scheletriche che si stringevano sulla sua spalla. Un’investitura. Generoso aveva preso di mira Damiano, voleva punirlo, fargliela pagare per qualcosa che Flavio non riusciva a capire. Da dove veniva tutta quella cattiveria? La Morte però aveva scelto lui, sussurrandogli la verità all’orecchio. Il sangue chiamava altro sangue. Don Mimì l’aveva messo sulla giusta strada. Gli aveva insegnato che quella cosa che si portava dentro era un dono. Lui era stato scelto. C’era una prima volta per tutto. I ricordi dell’adolescenza erano i più importanti. Una gita

scolastica, le risate, la prima volta che baciavi una ragazza. Immagini e sensazioni che ti tenevano in vita. Flavio non aveva nulla di tutto questo. Non portava niente con sé, tranne il dolore e il buio. La parte più nera della sua anima era viva e si nascondeva nel suo stomaco, sotto pelle e muscoli. Sotto le cicatrici.«Guardo quella foto tutti i giorni» proseguì. «Appena arrivo, dopo aver timbrato il

cartellino, e poco prima di andare via. Se potessi, me la porterei anche a casa, ma so che non servirebbe a nulla. Quei tagli, i segni delle bruciature sui seni, sull’addome, io non li dimenticherò mai.»«Chi le ha fatto questo?» La Nardi si tolse una ciocca di capelli dal viso, poi fece scivolare la

fotografia sul tavolo. «Non sappiamo nulla di questa ragazza. La polizia sta ancora cercando di identificarla, e quante settimane sono passate da quando ce l’hanno portata? Solo lei sa cosa le è capitato.»«Solo lei può saperlo.» Flavio raccolse la foto e la mise a posto nella cartella, insieme agli

altri documenti. Sistemò tutto con precisione, rispettando l’ordine. Paziente 68.«Che intenzioni hai, De Martino?»Lui sfiorò la copertina del fascicolo con il dorso della mano, poi fissò la collega.«Voglio riportarla indietro.»

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9

OGGI

Damiano Valente accostò l’auto sul ciglio della strada, fece un respiro profondo e spense il motore. Le mani sul volante tremavano. L’occhio gli prudeva, la scia lasciata dalla lacrima era una colata di lava sulla faccia. Si grattò la guancia con la manica del cappotto. Se avesse potuto, se la sarebbe strappata. Pelle, tessuti, cicatrici. Avrebbe preso un foglio di carta vetrata e avrebbe grattato fino a raschiare l’osso. «Signore, non può stare qui.»Il poliziotto lo osservava attraverso il parabrezza schizzato dalla pioggia, con il capo

piegato di lato e un’espressione a metà tra la commiserazione e il disappunto. Lo Sciacallo aveva imparato a capire quello che pensavano le persone dal modo in cui lo

fissavano. Non era un bello spettacolo, doveva ammetterlo. Una volta un compagno all’Università gli aveva chiesto se fosse nato così. Una malformazione del feto o una complicazione durante il parto? Una malattia? Forse non sarebbe dovuto venire al mondo, se era questo quello che gli spettava.«Lascialo passare!» Le luci blu delle volanti parcheggiate sulla carreggiata squarciarono la penombra nella

pineta, delineando la figura massiccia di De Vivo. Il commissario frugò nella tasca del giubbino, prese un pacchetto di sigarette e se ne infilò una in bocca. Damiano si portò due dita al sopracciglio e gli rivolse un saluto militare. Adesso veniva il difficile, la parte che odiava più di tutte.Si fece coraggio e aprì la portiera. Mise la gamba buona fuori dall’auto, fece pressione sul

piede, arpionò il tettuccio con una mano e si spinse fuori dall’abitacolo. Una fitta gli dilaniò l’addome. Damiano digrignò i denti e resse l’urto, contrastò l’ondata di dolore che voleva sbatterlo a terra. Richiuse lo sportello e infilò una mano nella tasca interna del cappotto. Le dita sfiorarono il bastone. Un cilindro di metallo, freddo come il calcio di una pistola. Era nuovo, un regalo di Stefano per Natale che non aveva ancora utilizzato, prima di quel maledetto incubo. L’idea di cadere lì, davanti a tutti, lo terrorizzava più dei vermi bianchi che strisciavano sul legno.Questo non si spezza. Poco ma sicuro.Damiano premette un pulsante e il bastone si allungò in uno scatto. Appoggiò la punta sul

terreno e spinse per essere certo che lo reggesse. Poi guardò il poliziotto, in piedi vicino alla sua auto, e gli rivolse un ghigno che aveva la presunzione d’essere un sorriso.«Allora, che vuoi fare? Vieni o devo mandare una carrozza a prenderti?» De Vivo sputò un

grumo di saliva sulla strada e si tastò i pantaloni. Pescò l’accendino dai jeans, lo sollevò

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davanti alla bocca e il bagliore della fiamma illuminò la barba dura di chi non si radeva da almeno tre giorni.«Hai ripreso a fumare?»«Secondo te?» De Vivo fece un tiro, poi indicò una stradina in terra battuta che tagliava in

due la pineta. «Da questa parte.»

* * *

«La spiaggia è curata dai volontari di Legambiente.» Il commissario si tirò il cappuccio sulla testa. Il vento scuoteva i nastri della scientifica che delimitavano il parcheggio di un lido abbandonato. L’auto era nascosta dietro una duna di terra smossa. «C’erano puttane ovunque» continuò De Vivo, indicando gli alberi con un gesto del braccio.

La sigaretta descrisse una scia rossa nell’aria. «Sono scappate nella pineta appena siamo arrivati. De Lauso e gli altri hanno dovuto rincorrerle, e per farci dire cosa? Un cazzo. Nessuna ha visto o sentito niente.»«E figurati se vengono a dirlo a te.» Damiano sollevò un piede e scalciò in avanti. Aveva

sabbia dappertutto, perfino nelle pieghe dei pantaloni. Sentiva i granelli incollarsi ai calzini e avrebbe voluto togliersi la scarpa e pulire lo spazio tra le dita. «Hanno paura che le rimandiate a casa.»«Manco avessero i documenti per poterle identificare. Quei cazzo di slavi è la prima cosa

che gli tolgono, appena le mettono sulla strada.»Damiano sollevò il colletto del soprabito per ripararsi dal gelo. Le tute bianche della

scientifica si muovevano silenziose intorno alla macchina come spettri in una zona in quarantena. Aveva visto una scena simile in un film di fantascienza, la sera prima. La storia di un virus che sfuggiva al controllo di un laboratorio militare da qualche parte in Russia, e sterminava tre quarti della popolazione mondiale. Non gli era sembrata una storia originale, eppure si era chiesto se ci fosse un messaggio subliminale nascosto nelle scene del film. Qualcosa che preparasse l’umanità all’inevitabile. Lui aveva imparato a conoscere la vera natura dell’uomo, sapeva cosa erano capaci di fare le persone. L’aveva visto, ogni giorno. L’aveva sentito scorrere sulla sua pelle, infettandogli il sangue come il virus in quel film. Il Male era vivo e si respirava con la polvere che riempiva l’aria. Forse, si era detto mentre sorseggiava il suo tè, era quello il senso ultimo. Il Male, alla fine, li avrebbe uccisi tutti.«Questa volta sono arrivata prima di lei, Valente.» La dottoressa Malangone era in mezzo a

un gruppo di uomini che si voltarono a guardarlo come se avessero visto un morto che camminava. Di morto però su quella spiaggia ce ne era solo uno, e non era lui.«Non si vince niente in questa gara, dottoressa.» Damiano si strinse nelle spalle e indicò la

portiera spalancata. Un flash illuminò l’abitacolo dell’auto. C’era qualcosa che penzolava dallo specchietto retrovisore. Un santino?La Malangone puntò gli occhi nei suoi e annuì. Aveva un berretto di lana calato fin quasi

sopra il naso, e non si era truccata prima di uscire di casa. Sotto la giacca a vento sbucavano

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i pantaloni di una tuta e le scarpe da ginnastica. L’avevano tirata giù dal letto quella mattina, proprio come avevano fatto con lui.«Posso avvicinarmi?» chiese lo Sciacallo spostando il peso del corpo sulla gamba buona.De Vivo guardò il procuratore e lei sbatté le palpebre.«Accomodati» disse il poliziotto.Damiano contrasse le narici. L’odore del sangue si faceva più forte a ogni passo. Si

mescolava alla salsedine, come ferro arrugginito sputato sulla spiaggia dal mare. Si curvò in avanti, trattenendo un gemito quando sentì una fitta alla gamba. Sapeva che lo stavano fissando, e non voleva dare soddisfazione a nessuno. Sbirciò dentro la macchina, osservò il cruscotto, poi il sedile posteriore, e abbassò lo sguardo.La testa dell’uomo era reclinata all’indietro in modo innaturale. Qualcuno gli aveva

disegnato una nuova bocca poco sopra il pomo d’Adamo. Il nodo della cravatta era allentato, la camicia sbottonata sopra l’addome e ricoperta di sangue. Schizzi rossi sulle mani, sul sedile, contro i vetri.Damiano si voltò.«Che c’è?» De Vivo si era avvicinato allo sportello e guardava all’interno del veicolo.«Lo conosco.»«Cosa?»«Lavora alla banca del mio paese.»«È il direttore, per l’esattezza.» Una folata di vento frustò la Malangone. La donna sembrò

sul punto di cadere. Camminava sulla sabbia come se stesse attraversando un campo minato. «Si chiamava Massimo Citarella. È stato trovato dai pescatori questa mattina. Lei gli ha mai parlato?» Lo Sciacallo ignorò la domanda. La osservò scavalcare il solco degli pneumatici nella

sabbia, poi disse: «Cosa avete per me?» Fissò De Vivo, quindi il procuratore. Lei corrugò la fronte in un modo che gli diede fastidio.

Odiava i giochetti. Volevano fargli perdere tempo, e lui non ne aveva da sprecare. Strinse l’impugnatura del bastone, asciugando la lacrima sullo zigomo.«Gli hanno tagliato la gola come a un maiale. È questo che volevate farmi vedere?»

Damiano batté la punta del bastone sul terreno e fece un passo nella direzione da cui era venuto. Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire il rumore dell’acqua. Non il mare d’inverno che si infrangeva sulla spiaggia, non quel genere di rumore, ma il fruscio della cascata. Un gorgoglio antico, attutito dalle pareti della caverna che portava fino al cuore della montagna di Castellaccio. Lui c’era stato. Era entrato nella bocca dell’oscurità, ne aveva sentito il respiro, un refolo rarefatto sulla faccia. Lui, Stefano e Flavio. Tre amici con un conto in sospeso da trenta anni. L’Uomo del salice li aveva aspettati per tutto quel tempo. Si era preso Claudia, ma loro avevano messo le cose a posto. Lo Sciacallo lo sapeva, eppure questa consapevolezza non bastava a farlo stare bene. Aveva smesso di scrivere, si era rintanato nelle vecchie mura della sua casa, sperando che questo bastasse per aiutarlo a dimenticare.

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«Dovevo vedere un uomo sgozzato?» ripeté, ricambiando con disprezzo gli sguardi dei poliziotti dietro le transenne.«Aspetta, Damia’!» Lo Sciacallo sentì passi pesanti alle sue spalle. «Non è per questo, e lo

sai. Cosa hai visto? Forza, dimmelo!»Valente si fermò. Girò appena il capo e i suoi occhi si fissarono in quelli del commissario.Volete giocare? E facciamolo, ‘sto cazzo di gioco.«La sua borsa da lavoro è sul sedile posteriore. Chiusa e poggiata con cura, come faceva

ogni volta quando usciva dall’ufficio ed entrava in auto. Ci teneva, a quella ventiquattrore, si vede.» Damiano sbuffò. Il dolore gli lacerò i muscoli rattrappiti e lui si sforzò di non svenire. Era stanco. «Non pensateci nemmeno, alla storia della rapina. Su questa spiaggia le prostitute portano i clienti. Ma se si fosse appartato con una di loro e le cose fossero andate come state immaginando, lei avrebbe sparso il contenuto della borsa. Avrebbe aperto il vano porta oggetti. Gli avrebbe rivoltato le tasche, e invece non ci sono segni di tutto ciò. Non ha nemmeno preso il frontalino dello stereo.»De Vivo corrugò la fronte e Damiano indicò il sedile posteriore. «Sembra che l’abbiano estratto dall’autoradio e gettato dietro. La chiavetta USB è finita sul

tappetino, la vedete? Quindi, niente furto. Citarella è stato ferito a morte, come vi avrà confermato quel genio del medico legale. Ah, a proposito, buongiorno, dottor Rizzo!»Il coroner, nascosto in mezzo agli agenti che assistevano alla scena, sobbalzò non appena

sentì il suo nome.Damiano riprese fiato. «Quindi ripeto la domanda: cosa avete per me?»De Vivo sollevò l’angolo della bocca in un sorriso. Si voltò verso la Malangone, e lei annuì.«Aveva un pezzo di carta infilato in gola.»«Un pezzo di carta?» Lo Sciacallo si grattò il collo. Sentiva la sabbia anche sotto la camicia.

«Che pezzo di carta? Posso vederlo?»«Non adesso» intervenne il procuratore. «Ha ragione, non sembra una rapina… questo

però non è il luogo giusto per discuterne. Non trova?»«Ah!» Damiano fece una smorfia. «La sua fissazione per la task force contro i crimini

violenti. Lei vede troppe fiction, dottoressa. Mi spieghi la storia del pezzo di carta, invece.»«C’è scritto qualcosa sopra, Damia’.» De Vivo si fece serio in volto, la pelle scura come

cuoio. «Era pieno di sangue e non si legge bene, ma crediamo d’aver capito.»Lo Sciacallo sentì il cuore martellargli nel petto. Era come se la forza di gravità lo stesse

trattenendo sulla spiaggia, in mezzo a quelle persone, lontano da casa e dal suo studio. Nel suo studio non c’era nulla di cui preoccuparsi. Chiudeva la porta, spegneva la luce e tutto passava. Anche il dolore.Lascia stare, non ti riguarda. Prendi la macchina e vattene.«Cosa c’è su quel foglio?» Damiano ascoltò la propria voce giungere da lontano, da un

posto che sembrava aver dimenticato. Un suono cupo, ruvido, come di due pietre strusciate tra loro.De Vivo dischiuse le labbra e disse: «Lui vede.»

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10

LUGLIO, 1950

Tommaso aveva ancora gli occhi chiusi quando Mimì spense il motore. Il muco colato da una narice gli si era attaccato ai baffetti. Poggiò un piede a terra, la mano stretta sul bicipite dell’amico, in equilibrio precario. Gli tremavano le gambe, aveva i capelli spettinati dal vento, eppure non riusciva a smettere di sorridere. Non aveva mai immaginato che gli sarebbe bastato fare una corsa in moto per essere felice.

Dopo tanto tempo, quella era la prima volta che si sentiva così bene.«Ti piace?» Mimì abbassò il cavalletto e girò il manubrio.«Sicuro! A quanto siamo andati?»«Abbastanza veloci per far incazzare il maresciallo Pironti.» Mimì prese il pacchetto di

sigarette dal taschino della camicia e ne sfilò una. «Chi è questo che vuole sposare Teresa? Me lo dici adesso?»«Uno di Giungano.» Tommaso si sistemò la riga di lato, lisciandosi i capelli con una mano.

«Mario De Luccia.»«Il pecoraio?» Mimì serrò le palpebre, poi prese un cerino e si accese la sigaretta.«Sì, il pecoraio… ma Teresa non vuole.»«Ci credo che non vuole, cosa ha da offrirle quello?»«Le pecore?»Mimì sorrise e Tommaso fece lo stesso. Il sorriso però gli morì sulla faccia quando si voltò a guardare gli alberi. In mezzo ai rami,

nella penombra del bosco, riusciva a scorgere il fiume. Le acque verdi come vetro sporco, il rumore simile al brusio di una nube d’insetti.«Vuoi tornare indietro?» chiese Mimì in una boccata di fumo. Il ragazzo scosse il capo. Era troppo tardi per cambiare idea.«Andiamo, allora, fammi vedere.»Tommaso individuò il punto nella boscaglia da cui era sceso con il carretto.«Io venivo da lì. Avevo pensato di correre vicino al fiume per non farmi vedere da mio

padre.»«Perché non doveva vederti?»«Stava tramontando il sole, avevo fatto tardi con le consegne.»«E quindi?» Mimì gli piazzò quei suoi occhi strani addosso. Erano di un azzurro così

intenso che sembravano trasparenti.«Il mercoledì lui va al paese a giocare e a bere. Se faccio tardi con il lavoro si arrabbia…»

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«Ti fai picchiare da lui?» domandò l’amico, spostando un ramo con una mano. Tommaso abbassò il capo e non rispose. La terra era nera, e poté cogliere la scia delle ruote del carretto.«Quanti anni hai?» chiese Mimì.«Quattordici.»«Quattordici? E non sei stanco di farti mettere le mani addosso?»«Sì, è solo che io… ecco, io… lui è mio padre, che devo fare?»Mimì parve non sentirlo. Si guardò intorno, poi si avvicinò alla riva e fissò le pietre. Il sole

si specchiava sul fiume, l’aria era umida e Tommaso pizzicò la canottiera per staccarsela dal petto. Riconobbe i rami che avevano avvolto il piccolo Nunzio in un ultimo abbraccio. Alcuni erano stati spezzati, forse dai carabinieri quando erano scesi al fiume. Le rocce sulla sponda avevano cambiato colore. La patina di muschio che le ricopriva non era più verde, ma nera.«C’è sangue dappertutto.» Le parole gli uscirono di bocca senza che se ne accorgesse.«Non era morto, quando l’hanno portato qui.»«Ma il maresciallo ha detto che il corpo è stato trascinato dall’acqua e si è fermato qui.»Mimì arricciò il naso. «Coglioni.»«Come fai a dire che si sbagliano?»«Guarda qui, e qui.» Indicò dei segni di sangue secco sulle pietre. Sembrava vernice

sgocciolata da un pennello appena intinto in un secchio. «Devono averlo trascinato sulle rocce.»Mimì si mosse lungo la riva. Seguì le chiazze di sangue, con la sigaretta stretta tra le labbra,

nella direzione opposta a quella da cui erano venuti. Tommaso gli andò dietro. Avvertiva un peso allo stomaco, una sensazione confusa a metà tra eccitazione e paura.«Il dottore del paese ha detto che i morsi sul corpo non sono di un animale» disse l’amico.

Si voltò e gettò la sigaretta nel fiume. «Le impronte dei denti sono le stesse di un uomo.»«Come, le stesse?»«Non lo so, io non sono dottore e non ero lì, ma Peppino il benzinaio ha sentito e me l’ha

detto. Lui non racconta stronzate, e se il medico dice così, allora vuol dire che a sbranare quella creatura è stata una persona, non un cazzo di animale.»Tutto d’un tratto, Tommaso ebbe freddo. Ripensò alla sensazione che aveva provato

all’idea che qualcuno lo stesse osservando, anche lì, e in quel preciso istante. Si voltò, la fronte bagnata dal sudore. Cercò un movimento, un rumore, qualsiasi cosa che potesse confermargli che non si stava sbagliando. Lui non era pazzo.Boccheggiò. L’aria era umida e appiccicosa. Un moscerino gli sfiorò un orecchio, facendolo

sussultare. Aveva il cuore in gola, il battito che gli rimbombava nella testa.«Deve averlo colpito con questa.» Mimì si sedette sui talloni e osservò un sasso.Il ragazzo andò a vedere, il passo incerto. In mezzo all’erba che sbucava dal terreno, c’era

una pietra a forma di pera. L’estremità appuntita era ricoperta da una crosta scura.«Come hanno fatto a non vederla?» grugnì Mimì.«Me lo sono chiesto anche io. Incredibile, non è vero?»

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Tommaso si girò di scatto. La voce era giunta da un punto in mezzo alla boscaglia. Mimì voltò appena il capo, senza scomporsi, ma dal modo in cui guardava quell’uomo nemmeno lui l’aveva sentito arrivare.«Vi ho spaventati?»«No, Barone.» Mimì si alzò, si pulì una mano sui pantaloni e la tese verso quell’individuo. Il

Barone calzava delle scarpe lucide, di quelle costose che Tommaso aveva visto agli attori americani nei film. Indossava una camicia bianca a maniche corte, infilata in pantaloni di lino che si gonfiavano a ogni passo. Aveva baffi sottili e appuntiti, i capelli pettinati con una precisa riga al centro. Stringeva in una mano un bastone con la testa bianca, eppure non sembrava ne avesse bisogno per camminare.Il Barone Gioia.Tommaso ne aveva sentito parlare, in paese. Di lui si diceva che fosse stato amico intimo di

Mussolini prima della guerra, un consigliere. Poi però non aveva accettato l’alleanza con Hitler ed era sparito, scappando in Venezuela prima dell’arrivo dei tedeschi. Viveva in una tenuta dall’altra parte del fiume. Una vecchia casa immersa nel bosco. Il ragazzo l’aveva vista solo da lontano, lungo la strada che portava a Castellaccio. I nazisti non l’avevano requisita durante l’occupazione perché era troppo difficile arrivarci. Era stata costruita in quel modo per difendersi dai briganti, ma una volta Don Rosario aveva detto che non era quello il motivo. I Gioia erano ricchi e la gente andava in continuazione a chiedere la carità: per questo avevano fatto piantare lungo il sentiero così tanti alberi che i paesani avevano iniziato a perdersi nel bosco e a sparire.«Chi è questo giovanotto?» L’uomo lo indicò con il mento.«Tommaso» rispose, raddrizzando le spalle. Vide se stesso, con i sandali ai piedi, i

pantaloncini logori e una canottiera sudata, e si sentì come un pezzente a confronto del Barone.«Tommaso?» Gioia si lisciò la punta di un baffo.«Il figlio di Don Rosario il lattaio» si intromise Mimì.«Ah, quel Tommaso.» Il Barone sorrise. «Dimmi un po’, giovanotto. Hai trovato tu il

bambino?»Lui annuì.E mo’ che vuole questo da me?«Come ti senti adesso?»Tommaso guardò Mimì, che sollevò le spalle e fissò il Barone.Il ragazzo deglutì. «Male. Non riesco a smettere di pensare a lui.»«È per questo che sei venuto qui? Per capire cosa è successo?»«Forse.»«Forse.» Gioia annuì e la pelle sotto al mento si mosse come gelatina. «Lo sai che faccio per

vivere, io?»«Il Barone?»«Eh già, il nobile… Ma essere di buona famiglia non mi è mai bastato. Ho studiato molto e

ho girato il mondo. Allora, non lo sai proprio cosa faccio?»

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Tommaso era a disagio. Non gli piaceva il modo in cui quell’uomo si rivolgeva a lui. Aveva la sensazione che lo guardasse come si guardano gli stupidi, e questo lo faceva agitare. Avvertì un calore improvviso alla faccia, le orecchie gli divennero roventi. Mise insieme i pensieri, cercò di riordinare le voci che aveva sentito sul conto del Barone Gioia sperando che fossero chiacchiere di contadini. Era il figlio del lattaio, ma non un cretino.«Voi eravate amico del duce… il suo uomo di fiducia…»«Amico del duce? Io ero il suo dottore. Psichiatra, per la precisione. Lo sai che cosa è uno

psichiatra? Te lo dico io, giovanotto. Quelli come me aggiustano la testa delle persone. Tu hai vissuto un’esperienza traumatica. Trovare un bambino ucciso in quel modo così barbaro. Hai bisogno di gestire questo trauma in modo clinico, e non di giocare a fare lo Sherlock Holmes del Cilento. Capisci cosa intendo?»«Credo di sì.»«Bene, figliolo.» Il Barone spostò l’attenzione su Mimì. «Cosa pensate di fare con quella

pietra sporca di sangue? Intendete dirlo ai carabinieri?»«Io non parlo con le guardie.» De Martino sputò a terra e sostenne lo sguardo del Barone.«Ah, nemmeno io, potete starne certi.» Gioia guardò verso l’alto. «Inizia a fare troppo

caldo, è ora di interrompere la mia passeggiata mattutina. È stato un piacere conoscerti, Tommaso. Ricorda quello che ti ho detto. Se vuoi parlare, io posso aiutarti.»Il Barone puntò il bastone verso gli alberi che stringevano il fiume in una morsa, poi iniziò

a camminare.«Che roba è uno Sherlock Holmes?» domandò Tommaso.Mimì si accese una sigaretta. «E io che cazzo ne so.»

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11

OGGI

«Dotto’, l’avete abituata troppo bene a ‘sta guagliuncella.» La signora Rita spinse il carrello tra i tavoli vuoti della sala mensa. Prese un piatto, gettò gli avanzi in un cestino per l’umido e fece l’occhiolino a Flavio. Erano rimasti soli, come tutte le sere dell’ultima settimana. «Adesso che torna il collega vostro dalla malattia, questa non mangia più.»Lui sorrise e avvicinò il cucchiaio alla bocca della paziente 68. «Questo è l’ultimo. Brava, così.»Attese che lei mandasse giù il boccone, poi passò il piatto e le posate sporche

all’inserviente, che osservava incuriosita la scena. «Roberta, vuoi pulirti il muso da sola, adesso?» Flavio le porse un fazzoletto. Lei abbassò lo sguardo, fissò la sua mano ma non si mosse. Le

labbra serrate, per non far sfuggire le parole. I capelli le coprivano gli zigomi e i segni delle bruciature sul collo. Il neo all’angolo della bocca era coperto da una chiazza di sugo.«Dai.» Lui abbassò il tono della voce, piegò il capo e i loro sguardi si incrociarono. Negli occhi di Roberta, Flavio colse l’ombra della paura, dello smarrimento, della

rassegnazione, ma anche qualcosa di più. Un sentimento diverso che emergeva ogni giorno, a fatica. La coscienza che scalava a mani nude le pareti di una voragine, spaccandosi le unghie e scarnificandosi i polpastrelli nella lotta per venire alla luce. Roberta stava combattendo, e questo gli dava speranza.La ragazza sbatté le palpebre, le spalle scosse da un fremito. Sollevò una mano e sfiorò il

fazzoletto. Lo studiò come se non ne avesse mai visto uno in vita sua. Flavio non aveva fretta. Allentò appena la presa, lasciando che il tovagliolo scivolasse nella mano di Roberta come attratto da un campo magnetico. Lei si ritrasse e iniziò a pulirsi, spiandolo attraverso una ciocca di capelli.«Queste cose non le avete imparate sui libri, eh, Dotto’?» La signora Rita si rimise al lavoro.

Le ruote del carrello che cigolavano e le ciabatte che strusciavano sul pavimento.Qualcosa nel modo in cui la ragazza si puliva le labbra fece rabbrividire Flavio. Un pezzo di

carta stretto tra dita ossute, i gesti lenti di chi sapeva che la vita gli stava sfuggendo e non poteva fare nulla per fermarla. Sentì la bocca dello stomaco che si attorcigliava, la lingua che gli si incollava al palato. Sbatté le palpebre, vide il crocifisso appeso al muro alle spalle di Roberta. L’odore del disinfettante per lavare i pavimenti gli pizzicava le narici. Un odore che conosceva bene. Pensò a Torino, al giorno del suo quindicesimo compleanno. L’ultimo prima di trasferirsi a

Castellaccio, l’ultimo prima della morte di sua madre. Non voleva festeggiare, ma le infermiere avevano insistito.

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«Tua mamma se lo merita» gli aveva detto la caposala. «Non toglierle questa gioia.»Flavio aveva soffiato una candelina conficcata in una fetta di dolce. Sua madre sorrideva, il

corpo esile che sprofondava nei cuscini. Sembrava una vecchia, le guance scavate e i capelli radi. Lui non riusciva a guardarla, odiava vederla in quello stato. Se avesse potuto, l’avrebbe stretta a sé. Le avrebbe afferrato il braccio e tirato con tutte le forze. Non voleva lasciarla andare. Era inutile, tutto inutile, e allora la cosa più sensata da fare era distogliere lo sguardo. Osservare quel vecchio crocifisso appeso al muro, poco sopra la spalliera del letto, e chiedersi perché le persone si ostinassero a pregare Dio, quando forse a Dio non importava niente di loro.«La signora Rita deve pulire.» Flavio tirò su con il naso. Si alzò in piedi, fece un giro intorno

al tavolo e sganciò il freno della sedia a rotelle. «Ti riporto nella tua camera.»Spinse la carrozzina fuori dalla mensa, sotto i coni di luce gialla che illuminavano il

corridoio. Digrignò la mascella, l’umore gli era diventato nero. Era da tanto che non pensava alla madre, e questo lo faceva sentire in colpa. Spinse il pulsante dell’ascensore e attese che le porte si aprissero. Fece impennare la carrozzina per farla entrare, scelse il piano e fissò la nuca di Roberta come se sotto la massa di capelli ci fosse una risposta alle sue domande.Quanti morti ti sei lasciato dietro?Troppi. Dopo sua madre c’era stato Don Mimì, il nonno. La cosa più vicina a un padre che

avesse mai avuto. L’unico a comprendere la sua vera natura e a metterlo sulla strada giusta. Il tempo che avevano trascorso insieme non era stato sufficiente. Il vecchio sarebbe dovuto essere al suo fianco mentre affrontava la vita. E poi Claudia, la sola che avesse mai amato, se il sentimento che aveva provato per lei poteva considerarsi amore. Si stuzzicò con un’unghia la cicatrice alla base del pollice. Non riusciva a smettere di

toccarla.

SALERNO, 1987

«Ma che roba è questa musica?» Mattia strillò, le mani premute sulle orecchie come il partecipante a un quiz televisivo. «Fa schifo!»Flavio schiacciò il tasto stop del walkman e riprese a leggere, i piedi che penzolavano nel

vuoto. I due ragazzi erano seduti su un masso che affacciava su una radura, giù a valle.«Perché lo hai fatto?» chiese il bambino, togliendosi le cuffie. «Cosa ho detto di male?»«Nessuno può dire che i Cure fanno schifo, nemmeno tu.»«Ma è una lagna! Sembra che il cantante stia piangendo.»«Ridammi il walkman e non seccarmi.» Posò il libro sulla staccionata e allungò una mano.Alle loro spalle si sentì un fischio. Flavio si voltò, vide l’ingegnere in pantaloncini e

maglietta sul patio della baita. Faceva loro segno di tornare indietro. Finita la scuola, tutta la famiglia si era spostata sulle Dolomiti per le vacanze estive.«Che ne dici, Flavio? Ti piacciono queste montagne?» gli aveva chiesto l’uomo, e lui aveva

annuito solo per non dargli un dispiacere. In realtà odiava la montagna e tutto ciò che essa rappresentava.

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Dopo pranzo Mattia andò in paese accompagnato dall’ingegnere e sua moglie. Il bambino aveva insistito con la madre adottiva per tagliarsi i capelli.«Li voglio pettinare come Flavio» aveva detto. «Voglio mettere il gel.»«E che ne sarà della tua acconciatura da indiano? Non vuoi più farti la cresta?»«Mi prenderebbero tutti in giro, mamma. A Flavio no, nessuno si permette di sfotterlo.»Sentire quella discussione gli aveva strappato un sorriso. L’arrivo dell’estate gli portava

sempre una profonda tristezza. Ne aveva parlato anche con lo psicologo, e lui gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene, che doveva darsi tempo, ma Flavio capiva che non sarebbe mai passata. Non si sarebbe mai tolto di dosso quello che gli era capitato due anni prima.«Stai bene con quel taglio» gridò a Mattia, quando lo vide arrivare di corsa verso di lui. Il

ragazzino teneva le mani nascoste dietro la schiena.«Ti ho preso un regalo» disse.«A me?» Flavio saltò giù dalla roccia che era diventata il suo angolo personale.«Tieni.» Mattia gli allungò un pacchetto rosso. «Mi mancavano cinquemila lire e me le ha

date papà.»«Che cosa è?»«Se te lo dico, che sorpresa è?»Strappò la carta con un colpo secco, poi lesse la scritta sulla copertina della cassetta e si

bloccò.Kiss me Kiss me Kiss me dei Cure.«Questa non ce l’hai.» Mattia sorrise. «Ho ascoltato tutta la musica della tua scatola e non

c’era.»Flavio rimase a bocca aperta. Non sapeva cosa dire, si sentiva uno stupido.«Perché lo hai fatto?» farfugliò.«Siamo fratelli e ti voglio bene» rispose Mattia. «Volevo solo farti un regalo. Non ti piace?»«Io… no, no. Credo che sia un regalo bellissimo. Il più bello di sempre. Però noi non siamo

fratelli.»Il sorriso morì sul viso di Mattia. Curvò il busto in avanti, come se qualcuno gli avesse

caricato un peso sulle spalle.«No» ribadì Flavio. «Noi non siamo fratelli, ma possiamo diventarlo. Sai come si fa?»Il ragazzino scosse il capo.«Discendi dagli Apache, dovresti saperlo. Allora? Che ne dici?»Mattia si affrettò ad annuire. «Facciamolo!»«Va bene.» Flavio infilò una mano nella tasca dei jeans e afferrò il coltello svizzero da

campeggio che gli aveva regalato l’ingegnere. «Però ti avverto, farà male.»«Non fa niente.»«Ok, vieni qui. Non facciamoci vedere.»I due girarono intorno alla roccia e si infilarono in mezzo agli alberi. Flavio posò il regalo

nella tasca posteriore dei jeans ed estrasse la lama. Prese una mano di Mattia e gli fece un

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piccolo taglio nel palmo. Non aveva affondato la punta del coltello, ma il sangue iniziò a scorrere subito e si sorprese nel constatare che il ragazzino non si era messo a gridare.«Tutto bene?» chiese, e l’altro annuì, gli occhi lucidi per le lacrime.Poi Flavio si incise la pelle, scavando un segno poco sotto il pollice. Guardò le gocce rosse

che gli scorrevano lungo il polso e disse: «Dammi la mano.»Le loro dita si serrarono in una morsa viscida.«Siamo fratelli adesso?»Flavio annuì. «Fratelli di sangue.»

OGGI

Le porte dell’ascensore si aprirono sul piano che ospitava le pazienti. Un’infermiera nella guardiola non distolse lo sguardo dal televisore quando lui e Roberta le passarono davanti. Sentiva le voci delle ragazze provenire dalle stanze, dalle porte aperte. Alcune dividevano gli alloggi, ma la numero 68 no. Lei condivideva la notte solo con i suoi incubi. Così silenziosa di giorno, così attiva quando si spegnevano le luci. Il personale della clinica gli aveva raccontato delle grida. La settimana precedente avevano dovuto sedarla. Più volte Roberta si era svegliata iniziando subito a urlare. Frasi sconnesse, parole prive di significato. La Nardi aveva ragione, la terapia farmacologica era necessaria per contrastare lo stato in cui era precipitata, ma per Flavio non era sufficiente. Aveva notato dei deboli miglioramenti. Lui continuava a sollecitarla, a cercare qualcosa nella sua mente, un ricordo da afferrare per aiutarla a uscire dal tunnel. Roberta aveva scelto il silenzio, ma lui non si sarebbe arreso fino a quando non ne avesse compreso il motivo.Il neon delle lampade tremolò.Un istante, e il buio calò sul corridoio come uno stormo di corvi. Flavio si fermò di colpo,

sbatté le palpebre. Sentì le urla delle pazienti, la voce dell’infermiera alle sue spalle che diceva a qualcuna di tornare subito nella stanza. Poi un lampo dilaniò l’oscurità, illuminando le mattonelle e la carrozzina vuota tra le sue mani.«Roberta?» Flavio si guardò intorno, le pupille che si abituavano all’oscurità. Fece un passo

di lato. Un’ombra gli piombò addosso, dita scheletriche si serrarono intorno al suo braccio. «Roberta?» ripeté, ma la ragazza che gli era andata a sbattere contro non era la sua

paziente. Si liberò con delicatezza dalla presa e la spostò di lato. Il corridoio era un groviglio di corpi che si scontravano. Le luci di emergenza si accesero. Uomini con la tenuta blu della clinica, ragazze in pigiama. Al centro, in mezzo al caos, una donna volteggiava come una ballerina di danza classica. Flavio sbatté le palpebre, sentì un ronzio elettrico nell’aria e la corrente ritornò in un boato.La numero 68 si era rannicchiata in un angolo.Si teneva la testa tra le mani, la faccia premuta sulle ginocchia, e si dondolava sui talloni.

Corse verso di lei, la sentì piangere. Mentre la raggiungeva pensò che era la prima volta che la vedeva reagire in quel modo. Era la prima volta che la trovava in quello stato. Era

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successo tutto così in fretta che non riuscì a controllarsi. Violò una delle sue regole, mai toccare una paziente, e infilò un braccio sotto le ginocchia di Roberta. La sollevò senza sforzo, accorgendosi di quello che aveva fatto quando ormai era troppo tardi. Si morse la lingua, convinto che il suo sbaglio gli avrebbe fatto fare un salto indietro. Temeva di perdere quel minimo di empatia che era riuscito a instaurare con la ragazza. Lei però non gridò, non fece resistenza. Si aggrappò al suo collo e gli affondò la faccia nel petto.Flavio attraversò il corridoio stringendola a sé, ignorando gli sguardi di pazienti e

infermieri. La ragazza era così piccola e fragile, una bambola di vetro che qualcuno aveva fatto a pezzi. Adesso toccava a lui riattaccare i cocci. La riportò nella sua stanza, chiuse la porta con un piede e le voci e i rumori della clinica divennero un’eco lontana. Un suono che sbatteva contro le mura della camera. La posò con delicatezza sul letto, le tolse le scarpe, poi prese una sedia accostata al muro e

si sedette. Lei lo fissava, non come le altre volte in cui le iridi verdi lo avevano attraversato per poi perdersi nel vuoto. Lo stava guardando con la consapevolezza che lui esisteva.Flavio prese il libro di sua madre che aveva lasciato sul comodino. I bordi di pelle

mangiucchiati, le pagine ingiallite che odoravano di vita e di bellezza. Accarezzò il dorso, le lettere sbiadite del titolo e deglutì.«Anna Karenina era uno dei personaggi preferiti di mia mamma» disse. «Credo che lei

abbia sempre sognato di trovare un uomo come Vronskij, ma non è stata fortunata, in amore.»Inumidì un polpastrello con la lingua e cercò il punto in cui aveva interrotto la lettura la

sera precedente. Lesse per lei, cullandola con il suono roco della sua voce. La ragazza scivolò sul cuscino, piegò il capo di lato e chiuse gli occhi. Flavio continuò a leggere anche quando lei si fu addormentata. Finì il capitolo, mise il segno e chiuse il libro. La osservò respirare, un’espressione rilassata sul viso. Adesso era tranquilla.Cosa stai sognando, Roberta?Flavio pensò al corridoio inghiottito dall’oscurità, alla ragazza nascosta in un angolo.

Quanto accaduto era un messaggio, il tentativo della paziente di comunicare. Si era alzata dalla sedia ed era scappata a cercare un riparo. Si aspettava che qualcuno le facesse del male, e quando lui era andato a prenderla non aveva opposto resistenza. Non aveva gridato come quando gli altri avevano provato a toccarla. Si era lasciata prendere da lui. Aveva cercato la sua protezione.Flavio posò il libro sul comodino. Tese la mano e il camice si impigliò alla sedia, scoprendo

l’avambraccio. Le cicatrici erano vermi di carne che strisciavano sulla pelle. Lui arrotolò la manica e si toccò come un tossico alla ricerca di un punto dove farsi il buco quotidiano. Strinse le dita a pugno, piegò il polso e i tendini si accavallarono. Vide qualcosa proprio lì, in mezzo alle cicatrici.Poco sotto il pollice, vicino al segno lasciato da un temperino in un pomeriggio d’estate

sulle Dolomiti.C’è ancora spazio per un’altra.Sorrise. Aveva capito quello che doveva fare.

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12

LUGLIO, 1950

Tommaso aveva appena finito di spalare il letame delle vacche quando vide suo padre sulla porta della stalla. Aveva la camicia aperta sul petto e i capelli spettinati.«Sai che penso?» disse Don Rosario, abbottonandosi la cintura dei pantaloni. «Penso che

non me ne frega niente di quello che dice il maresciallo Pironti. Tu sei mio figlio e decido io cosa devi fare. Finisci nella stalla e va’ a fare le consegne.»«Va bene.»Il padre annuì soddisfatto e sparì nel cortile. Tommaso si sentiva sollevato. Portare il latte

a casa delle persone era una buona scusa per tenere la mente impegnata. Trascorrere le giornate a fare i lavori alla tenuta gli dava tempo di pensare al fiume, al bambino e a quello che aveva visto. Negli ultimi giorni i carabinieri erano tornati per fargli altre domande, e lui aveva seguito il consiglio di Mimì.«Ripetigli quello che vogliono sentire» gli aveva raccomandato l’amico. «Volevi fare prima

e pensavi di tagliare per il fiume. Era una scorciatoia. Sei caduto e hai visto il corpo. Non aggiungere niente e non avrai problemi.» Non aggiungere niente.Tommaso avrebbe voluto fare il contrario, invece. Aprire la bocca e sputare fuori la verità.

Si sarebbe sentito meglio, ne era certo, se avesse detto di aver visto un uomo nascosto in mezzo agli alberi, quella sera al fiume. Forse con la sua testimonianza avrebbe aiutato i carabinieri a catturare quel pazzo che aveva massacrato il piccolo Nunzio. Magari avrebbero potuto dargli una medaglia, premiarlo nella piazza del paese durante la festa patronale. Sarebbe stato una specie d’eroe, un ragazzo buono che la gente doveva rispettare, proprio come facevano con Mimì. Magari anche suo padre lo avrebbe rispettato.Mise a posto il forcone e corse fuori dalla stalla. Teresa era già in cortile e stava caricando

le bottiglie di latte nel carretto. Don Rosario aveva riattaccato la ruota rotta nei giorni precedenti, e il carro sembrava pronto per svolgere i suoi compiti. Tutto pareva essere ritornato alla normalità, tranne per il piccolo Nunzio.Lui era morto, e su questo non si poteva tornare indietro.«Devi andare da Guizzardo» gli disse Teresa, schermandosi dal sole con una mano.«Da Masto Guizzardo?» Tommaso impallidì. «Che c’è? Hai paura di incontrare la nipote?» La sorella sorrise. «Come si chiama? Elsa?»«Elvira! Non ti dico più niente, se poi mi devi sfottere.»«Uh, come sei pesante… e poi, che c’è di male? Vedi che le femmine non mordono.»Mordere.

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Tommaso strinse le mani sull’impugnatura del carretto, incassò la testa tra le spalle e puntò verso il cancello aperto. «Ue’, ma ti sei offeso?» gli chiese Teresa mentre lui si allontanava.«No, vado che faccio tardi.» Il ragazzo imboccò la strada con un solo pensiero in testa: raccontare quello che aveva

visto al fiume. Era giusto, doveva farlo per Nunzio. Come si sarebbe sentito se quell’uomo avesse ucciso altri bambini? Se il giorno dopo al fiume, sulle montagne di Castellaccio o in un qualsiasi bosco della zona avessero trovato un altro corpo? Scosse il capo e rivide i segni dei morsi, la carne viva esposta alla luce del tramonto. Sentì il ronzio delle mosche, l’odore del sangue sulle rocce. Doveva andare in caserma, sedersi alla scrivania del maresciallo e descrivere la faccia che aveva visto in mezzo agli alberi. Aveva provato anche a disegnarla, nel tentativo di non dimenticare, ma l’unica cosa che riusciva bene erano gli occhi. La sua stanza era piena di fogli e bigliettini su cui aveva riprodotto quegli occhi. Rossi come fiamme tra i rami.Tommaso si morse la lingua. Mimì aveva ragione. Ecco perché non poteva dire niente a

nessuno, nemmeno a Teresa. Non esistevano uomini con gli occhi rossi. Era tutto nella sua mente, si era sbagliato. Se avesse raccontato quella storia, il maresciallo l’avrebbe mandato a Salerno, in quella casa dove mettevano i pazzi. Gli avrebbero rasato la testa e tolto i vestiti, per poi metterlo in una camerata con altri come lui, a invecchiare e morire mangiato dalle zecche.Le bottiglie tintinnarono nel carretto. Che cosa doveva farci Guizzardo con tutto quel latte?

Tommaso si muoveva sul margine della strada, cercando di rubare un po’ d’ombra agli alberi. Il sole scottava sulla pelle, faceva troppo caldo. Vide in lontananza la corriera che scendeva dal paese. Immaginò il carico di ragazzi che andavano a Paestum per fare un tuffo in mare. Non sapeva nuotare, ma con quel caldo non sarebbe stato un problema. Si sarebbe messo a mollo, seduto a riva, e sarebbe uscito dall’acqua solo al momento di tornare a casa. Non invidiava per nulla gli uomini che lavoravano nei campi sull’altro lato della strada. Schiene curve e fazzoletti arrotolati sul capo. Una donna conficcò una zappa nel terreno e si fermò a riprendere fiato. Si accorse di lui e lo salutò con una mano. Tommaso rispose con un cenno del capo e accelerò il passo. Le persone erano strane, non facevano altro che fermarlo per chiedergli cose.Hai trovato tu il figlio di Filomena? Gli hanno mangiato la faccia? Imboccò il sentiero che portava alla proprietà di Guizzardo come un serpente di terra che

strisciava in mezzo agli alberi. I rami si incastravano sopra la sua testa, respingendo i raggi del sole e concedendogli una tregua dal caldo.«Sei venuto a portare il latte alla nonna?»Elvira sedeva sull’erba, le spalle contro un tronco e un libro sulle gambe. Tommaso fermò

il carretto e la guardò.«Come?» rispose.Stupido. Stupido. Stupido.La nipote di Guizzardo sorrise e indicò le bottiglie.

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«Ah, il latte. Sì, io sono il figlio di Don Rosario.»«Lo so a chi sei figlio. Hai anche un nome tuo, vero?»Il volto del ragazzo prese fuoco. Gocce di sudore gli scivolarono lungo la schiena bagnando

l’elastico delle mutande.«Mi chiamo Tommaso.»Elvira chiuse il libro, si alzò e venne verso di lui.«Va bene, Tommaso» disse. «Ti accompagno a casa di nonno.»Lui deglutì, in affanno. Era il suo quell’odore nell’aria?Puzzo di sudore.Ricordò le parole di Teresa a proposito delle femmine. Si chiese come si sarebbe

comportato Mimì in quella situazione. Raddrizzò la schiena e tenne il mento alto.Cammina come lui.«Cosa leggi?» chiese.«Zanna Bianca. Lo conosci?»Tommaso scosse il capo. Non aveva mai letto un libro in vita sua.«L’ha scritto Jack London. Me l’hanno segnato a scuola per le vacanze.» Elvira sfiorò con la

mano un rametto, e le foglie tremarono. «Pensavo che leggere fosse noioso, e invece l’ho quasi finito. Zanna Bianca è un lupo, o meglio, un lupo con del sangue di cane. Vedi le cose attraverso i suoi occhi. Ti sembra davvero di pensare, vivere e respirare come un animale.» Sorrise. «Se lo finisco in tempo posso prestartelo, se vuoi, ma devi ridarmelo prima che parta, altrimenti chi la sente la bibliotecaria?»Tommaso pendeva dalle labbra di Elvira. Era così intelligente e bella che gli facevano male

gli occhi a guardarla. Era convinto che il cuore gli sarebbe scoppiato da un momento all’altro, se non si fosse dato una calmata.«Non lo so, io… io…»Don Rosario non voleva che andasse a scuola. Era una perdita di tempo e non c’erano soldi,

ripeteva a Teresa ogni volta che lei provava a fargli cambiare idea.«Almeno Tommasino deve studiare» aveva detto la sorella.«A che gli serve? Per mungere le mucche non serve la licenza media. E poi guardalo,

sembra un mezzo deficiente.»Questo era quello che si meritava. Mungere mucche per tutta la vita.«Come sarebbe, che non lo sai?» lo incalzò Elvira. «Devi rispondere di sì o di no, che

significa non lo so? Tu sai leggere, vero?»«Certo che so leggere.» Tommaso si bloccò. Poteva farlo di notte, quando il padre era

troppo ubriaco per venire a controllare. «E sono curioso di leggere questo Frank London.»«Jack London» sorrise la ragazza. «Sai, ho letto sull’enciclopedia a scuola che quello non

era il suo vero nome. Adesso però non ricordo quale fosse.»«Perché usava un nome falso?»«Gli artisti fanno così. Ho letto che lui ha fatto moltissimi lavori, prima di diventare uno

scrittore famoso. Deve essere stato un tipo molto avventuroso. Sono convinta che Zanna Bianca ti piacerà.»

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Guizzardo e la moglie erano sul portico. Il vecchio indossava occhiali dai vetri spessi come il culo di una bottiglia, ed era intento ad aggiustare una canna da pesca. Quando li vide arrivare, si alzò e andò loro incontro.«Tommasì, come stai?» chiese, togliendosi gli occhiali e accarezzandogli il mento con le

dita callose.«Bene, Masto Guizzardo.» Il ragazzo si sforzò di sorridere, rivolse lo sguardo verso la

nonna di Elvira. «Buongiorno, signora Maria. Vi ho portato il latte.»«Grazie, figlio bello.» La donna zoppicava. Si era rotta un ginocchio per scappare dalle

bombe ed era rimasta così. «Ti vedo sciupato… le vuoi assaggiare due melanzane sott’olio?»«Nonna!» Elvira sorrise. «Non farci caso, Tommy. Lei vede tutti deperiti… passa le giornate

a costringermi a mangiare. Vuole farmi diventare un maialino.»Tommy. Nessuno l’aveva mai chiamato così. Si sentiva diverso, con quel nome. Non come

uno di Castellaccio, ma magari come un ragazzo di Roma, vestito bene e istruito. Si guardò le mani piene di vesciche e sorrise amaro.Certo, come no.La signora Maria assestò una gomitata al marito, che si frugò nella tasca e prese i soldi.

Tommaso accettò il denaro senza contarlo. Stava per voltarsi e andare via quando Guizzardo disse: «Stasera saliamo al paese. È venerdì e voglio portare Elvira al cinema. Perché non vieni pure tu? Ti farebbe bene.»Prima che Tommaso potesse replicare, Elvira si intromise e disse: «Sì! Sarebbe fantastico.

Nonna mi ha detto che proiettano i film in piazza. La scorsa settimana ho visto le luci e ho sentito l’eco degli altoparlanti. Deve essere stupendo guardare un film sotto le stelle, non l’ho mai fatto. Devi venire anche tu!»Tommaso non sapeva cosa rispondere. Era con la testa in un altro mondo. Gli tremavano le

gambe, aveva la lingua incollata al palato. Il modo in cui quella ragazza lo guardava lo faceva sentire come un deficiente. Pensò al lavoro, al fatto che avrebbe dovuto alzarsi presto la mattina seguente, e fu sul punto di rispondere di no. Cosa avrebbe detto a suo padre? Poi ricordò la domanda di Mimì.Ti fai picchiare ancora da lui?Era arrivato il momento di provare a cambiare le cose. Non era un bambino.«Mi farebbe molto piacere.» Le parole gli uscirono di bocca in un respiro solo. Si sentiva

leggero, come se si fosse liberato da un peso legato alla cintura.«Bravo guaglione, ci vediamo alle sette.» Il vecchio gli diede una pacca sulla spalla.Tommaso non si voltò, ma era sicuro che, al suo fianco, Elvira stesse sorridendo.

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13

OGGI

Riccardo Gentile spense il computer e andò a lavarsi i denti con una sola idea in testa. Era eccitato. Gettò lo spazzolino nel bicchiere sulla mensola e chiuse lo sportello del mobiletto. La sua pelle allo specchio era liscia, quasi glabra. Le guance arrossate, manco avesse fatto le scale del palazzo di corsa, e i capelli senza nemmeno un filo grigio. A scuola i compagni lo chiamavano faccia di culo. Negli anni novanta i ragazzi non vedevano l’ora di sfoggiare pizzetti radi e basette alla Dylan di Beverly Hills 90210, e a lui invece erano cresciuti a stento i peli sul cazzo. Era un ragazzino gracile, basso, con le spalle sempre curve e il torace stretto come una gabbia per canarini. Un ragazzino gracile che odiava l’estate. Aveva osservato la vita attraverso i vetri della sua stanza. I coetanei in spiaggia, il suono

delle risate, il brusio di voci confuso dallo sciabordio del mare. Giugno, luglio, agosto, per lui non c’era differenza. Preferiva restare dentro, leggere i fumetti e aspettare che tutto passasse. Eppure ci aveva provato a essere come gli altri, una volta sola. Riccardo ricordava quel giorno come se fosse stato ieri.Si era fatto convincere dalla madre e aveva infilato uno dei costumi di suo fratello. A

Salerno bastava uscire dal portone di casa e attraversare la strada per sentire il calore della sabbia sotto i piedi. Si era mosso in mezzo ai corpi stesi al sole, schivando gli ombrelloni con la goffaggine di uno sciatore principiante. Cercava di non dare nell’occhio, con le goccioline di sudore sulla fronte e la maglietta che cominciava ad attaccarsi alla pelle. Alcuni compagni del liceo avevano formato un cerchio nell’acqua e giocavano a pallavolo. Schiaccia sette. «Uno!» Sentì gridare da un tipo della Terza B. Il pallone volò da una parte all’altra del

cerchio, toccato da manate e palleggi maldestri, poi una ragazza congiunse le mani e si piegò sulle ginocchia per respingerlo in bagher, verso l’alto. Troppo forte perché qualcuno potesse schiacciare. Riccardo aveva contato i passaggi. Era il numero sette.Il Super Santos rimbalzò sulla spiaggia, mancò una signora che dormiva su una sdraio e si

fermò a pochi metri dai suoi piedi. Avrebbe voluto voltarsi, girare le spalle e allontanarsi, nascondersi dietro le persone prima che i ragazzi lo vedessero, ma era troppo tardi. Lo riconobbero subito, era difficile non farlo.«Faccia di culo!»«Ue’ Faccia di culo, che fai?»«Lo tiri ‘sto pallone o cosa?»Le voci gli riempirono la testa fino ad ammutolire i pensieri. Il capo divenne pesante, le

vertebre sussultarono mentre schiacciava il collo in mezzo alle spalle. Il sole gli bruciava le

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braccia, il sudore gli scorreva lungo le gambe. Riccardo vide farfalle bianche davanti agli occhi, i profili degli ombrelloni e delle persone che sfumavano, chiazze di colore confuse.Il pallone.Lasciò cadere il telo, fece un passo indietro, barcollando nel tentativo di prendere la

rincorsa. Trattenne il respiro e calciò. La punta del piede sferzò il vuoto, il pallone rimase lì dove era e l’unica cosa che vide volare verso i ragazzi fu la ciabatta, un attimo prima di cadere con la schiena sulla sabbia. Riccardo scosse il capo e si morse un labbro. Ricordava d’aver ripreso i sensi al Pronto

Soccorso. Un calo di pressione, aveva detto il dottore ai genitori, e lui non era più uscito di casa per tutta l’estate. Adesso però la situazione era cambiata. Era diventato un uomo, ed era inverno. La stagione dei lupi, e con il freddo i lupi andavano a caccia.Aprì lo sportello dell’auto e si mise al volante con un sorriso stampato sulla faccia. Era la

prima volta che riusciva a ottenere un incontro dopo nemmeno un’ora di chat. La ragazza gli aveva mandato solo due foto. Riccardo sapeva che non bastavano, era una delle regole dei lupi. Studiare la preda, essere certi di non correre rischi. La polizia aveva imparato a giocare e alcuni dei suoi compagni erano stati presi nonostante le cautele. Lei però era troppo carina, diceva d’avere diciassette anni, e lui non poteva farsela scappare.Doveva correre il pericolo.Amava le ragazzine perché lo facevano sentire diverso. Con loro il tempo sembrava

tornare indietro. Una volta aveva raccontato cosa provava a un collega e lui l’aveva guardato schifato. «Ti rendi conto?» gli aveva detto. «Potrebbe essere tua figlia.»Riccardo sapeva di non essere un pedofilo, o almeno di non pensarla come gli altri lupi che

aveva conosciuto in rete. Lui era molto selettivo, anche nelle amicizie. Si era allontanato da quelli che si scambiavano foto di violenze o che andavano con prede troppo piccole. A lui non piacevano i bambini, non poteva averli come desiderava, e poi era sempre attento a come muoversi, scrupoloso fin nei minimi dettagli. Aveva sbagliato solo una volta. L’eccitazione l’aveva reso cieco ed era andato a cercarsi una di quelle ragazzine delle case popolari. Un gigante con gli occhi da pazzo l’aveva costretto a uscire dall’auto e lo aveva pestato così forte che aveva temuto di morire. Si era dovuto far rimettere i denti e aveva avuto paura d’uscire di casa per mesi. Quel tipo gli aveva tolto i documenti, aveva detto che sarebbe tornato a cercarlo. Riccardo non riusciva a biasimarlo. Sapeva di sbagliare, ma non riusciva a farne a meno. Era la sua natura. Potevi guarire da un raffreddore ma non da quella cosa.Tamburellò con le dita sul volante mentre era fermo al semaforo. Squadre di operai

stavano smontando le luci natalizie che avevano dominato la città durante le feste. Attese che si facesse verde e ripartì, attraversando Corso Garibaldi. Superò il palazzo della Provincia e poi via Roma. Davanti ai locali chiusi, le sedie erano sollevate sui tavoli. Era lunedì sera, il giorno della settimana in cui la movida era spenta. Con quel freddo e il vento

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che scuoteva i rami giravano pochi passanti. Riccardo pensò alla ragazza che lo stava aspettando alla fermata dell’autobus di fronte al Teatro Verdi, e sorrise.Ti riscaldo io, bimba.Guidò fino al luogo dell’appuntamento. L’auto in doppia fila e gli occhi fissi sulla fermata

del bus. Un gruppo di persone era in attesa sotto la pensilina. Un uomo con il cappuccio del parka tirato sulla testa, due donne bionde e corpulente che avevano tutta l’aria d’essere badanti ucraine e una figura minuta, seduta sulla panca. Riccardo la vide schiacciare le spalle contro il plexiglass, sollevare il colletto di un giubbino troppo leggero per quel clima. Piegò il capo di lato, cercò di guardarle il viso ma era nascosto da lunghe ciocche di capelli neri. Si morse il labbro. Non era certo che fosse lei, sentiva che qualcosa non andava.Lo sapevo, due foto sono troppo poche.Sfiorò la chiave infilata nel quadro, schiacciò il piede sulla frizione e stava per mettere in

moto e andarsene quando vide i fari del bus nello specchietto retrovisore. Due enormi dischi gialli, poi la fiancata arancione, i pannelli pubblicitari che scivolavano sui finestrini della sua auto. Gli stop che si accendevano in un bagliore rosso.Riccardo sentì lo sbuffo delle porte che si aprivano, osservò il flusso dei corpi. I passeggeri

che scendevano si mischiavano a quelli che salivano a bordo. Le due straniere furono le prime a essere inghiottite dal veicolo, seguite a ruota dall’uomo con il cappuccio. Quando il bus ripartì, la ragazza era ancora al suo posto, la testa incassata tra le spalle. Sembrava stesse tremando. Lui deglutì e mise in moto. Raggiunse la fermata quasi a passo d’uomo. Abbassò il

finestrino e la fissò. Avrebbe voluto dire qualcosa per rassicurarla, qualcosa che servisse a rompere il ghiaccio, ma non era bravo con le parole. In chat era diverso. Bastava nascondersi dietro un monitor, fingere di essere un’altra persona. Le prede cercavano un padre, un amico, una persona a cui raccontare sé stesse come non riuscivano a fare con gli altri. Lui conosceva quella sensazione, l’aveva provata migliaia di volte, e per questo sapeva ascoltare, sapeva dire le parole giuste al momento giusto.La ragazza alzò gli occhi e Riccardo vi colse dentro qualcosa che lo fece rabbrividire. Le

iridi erano pozzi neri, inespressivi. Per un istante ebbe la sensazione di cogliere in quello sguardo una sorta di disappunto. Disprezzo?Scelse di concentrarsi sulle gocce di pioggia che punteggiavano il parabrezza. Si sentì

afflosciare nel sedile, l’entusiasmo che abbandonava il suo corpo a ogni respiro, lasciando spazio al vuoto e alla consapevolezza di essere un perdente. Sbatté le palpebre e tirò su con il naso. Non era un lupo, ma solo un bugiardo con la faccia da bambino.Aveva appena sfiorato l’acceleratore quando sentì bussare al finestrino. La ragazza era in piedi vicino allo sportello. I capelli le scendevano fino al petto e la pelle

era così bianca che sembrava morta. Adesso che la guardava da vicino, Riccardo si rese conto che era più grande di quanto sembrasse in foto. Era diversa. Lei sorrise e, prima che lui potesse dire o fare qualcosa, aprì la portiera e si lasciò scivolare sul sedile del passeggero.

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«Fa freddo» disse. La voce era diversa da come lui l’aveva immaginata. Sapeva di metallo e di stanze buie. L’eco in una cantina abbandonata. «Chi… chi ti ha detto… di salire?»«Andiamo» disse lei, allacciando la cintura di sicurezza.Riccardo tornò a guardare la strada, le mani che tremavano sul volante.La pioggia aveva ricoperto Salerno di un manto viscido.

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14

LUGLIO, 1950

Tommaso aveva messo la camicia buona. Bianca e a maniche corte. Non era nuova, il colletto era ingiallito, ma gli andava bene. Lui non comprava vestiti, e le cose che aveva gli erano state regalate da Elsa, la vedova che viveva nella casa di fronte a quella di Mimì. Gli abiti erano del figlio, ucciso dai tedeschi insieme ad altri paesani che facevano il contrabbando. Ogni volta che Tommaso andava a portarle il latte, Elsa lo invitava con una scusa a entrare in casa, lo faceva sedere a tavola e gli dava qualcosa da mangiare. Non sapeva chi fosse il marito. Una volta suo padre gli aveva detto che Elsa non si era mai sposata e che faceva la puttana. Lui però non gli aveva creduto.«Il mio Nicola non se le può mettere più ‘ste cose» gli aveva detto sedendosi vicino a lui e

tenendosi il pancione. «Pigliatele tu. Prova un attimo la camicia… aspetta, ti aggiusto i bottoni. Fatti guardare quant’ si bell’. La metti per il matrimonio di Teresina, sì? A proposito, quando si sposa?»Tommaso avvertiva una stretta allo stomaco ogni volta che gli facevano quella domanda.

Negli ultimi giorni, Don Rosario se ne era andato in giro per Castellaccio a dire a tutti che aveva promesso la figlia a De Luccia di Giungano. Se pensava alla sorella sull’altare insieme a quel pecoraio, stava male. Voleva che Teresa fosse felice, lei era la sua famiglia. Ma non era solo questo a preoccuparlo. La ragazza non era come lui, non si sarebbe piegata. Fino a quel momento Don Rosario non aveva mai alzato le mani su di lei, nemmeno quando tornava a casa ubriaco e nervoso per una mano sbagliata alle carte. Il padre vedeva in De Luccia un affare, il sistema per fare soldi senza sforzo. La famiglia di Mario aveva molte proprietà, e lui si era convinto che ne avrebbe potuto ricevere qualche beneficio. Tommaso temeva che Teresa potesse farsi male.Se succede, che faccio? Come ti difendo?E poi, Giungano era lontana. Se Teresa fosse andata via, lui sarebbe rimasto solo a casa con

Don Rosario. Senza la sorella si sarebbe sentito perso.No, meglio Mimì. Lui è un uomo migliore per lei, e poi vive a Castellaccio. Forse, se gli sto

simpatico, potrò andare a vivere con loro. La sua casa è grande, ci possiamo stare in tre.«Si può sapere a che pensi?» La voce di Elvira lo riportò alla realtà.Tommaso ebbe un fremito, si sentì come quando sognava di precipitare da un’altura e

atterrava sul materasso. Si grattò la tempia e ci mise qualche secondo per ricordare che era seduto sul retro del carro di Masto Guizzardo, insieme alla nipote.Il cinema. Ecco perché ho messo la camicia buona. Stiamo andando al cinema. «S-scusa» balbettò.«Allora? Mi sai rispondere oppure no?» lo incalzò la ragazza.

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Tommaso abbassò lo sguardo. Sperava che le assi del carro si aprissero sotto le sue chiappe, lasciandolo precipitare in una voragine.«Puoi ripetere, per piacere?» chiese a voce bassa. Le orecchie che bruciavano per la

vergogna.Elvira lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, gli occhi ridotti a fessure. Pensò di

averla offesa. Se si escludeva Teresa, non era esperto di donne. Gli amici di Don Rosario al Bar Sport dicevano sempre qualcosa a proposito delle mogli e dei sacerdoti.Se erano buone, le femmine se le tenevano i preti.Tommaso, però, non ci aveva mai capito un granché. Che c’entravano i preti? «Lo stai facendo ancora.» Elvira si allungò verso di lui, gli mollò un pizzico su un braccio.«Ahi.» Tommaso si massaggiò il gomito.«Sei un maleducato!» disse la ragazza. «I tuoi occhi guardano verso il basso quando pensi.

A cosa? Me lo vuoi dire?»«A niente.»«Va bene, ricomincio da capo.» Elvira indicò verso la vallata. «Chi ci vive in quella casa? È

enorme!»Tommaso guardò oltre il parapetto. La strada che portava a Castellaccio si arrampicava

sulle rocce, sovrastando boschi e campagne. Da qualche parte, in mezzo a tutti quegli alberi, c’era il fiume, e un po’ più in là, verso il mare, casa sua, la casa di Mimì e quella dove viveva il piccolo Nunzio prima che l’ammazzassero.«È la tenuta del Barone Gioia» disse Guizzardo, spronando i cavalli lungo la salita. Il

carretto oscillò prima da un lato e poi dall’altro, come una zattera sulle onde.Il Barone Gioia.La vecchia casa sembrava un bastione, una macchia nera in mezzo agli alberi. Anche da

lontano, Tommaso poteva cogliere il tramonto che si specchiava sui vetri dell’edificio. C’era dello spazio davanti a un portico, forse un giardino. Il ragazzo pensò all’uomo che aveva incontrato sulla riva del fiume. Pensò ai suoi baffi strani e al modo in cui lo fissava. Gli occhi sembravano scavargli dentro, rovistargli l’anima per scoprire i suoi segreti.Vieni da me se hai voglia di parlare.Per dire cosa? Tommaso non aveva segreti. Era solo il figlio del lattaio.«È stata chiusa per tanti anni, dopo la guerra» aggiunse la signora Maria, seduta al fianco

del marito. La donna si voltò, gli occhi nocciola infossati nelle pieghe del volto. «Nemmeno i tedeschi ci sono mai entrati… che peccato, una casa tanto grande. Adesso però il Barone è tornato.»Lo so che è tornato. Vuole vedermi. Io però non ho niente da dire.Le ruote presero a rimbalzare sul lastricato non appena il carretto entrò nel centro storico.

La strada era stretta nella morsa delle case dall’intonaco grezzo e dei balconi sbrecciati. Il sole declinava dietro le montagne, proiettando ombre contorte sui muri vecchi di Castellaccio. Guizzardo condusse il cavallo fino a uno spiazzo dietro al municipio e lo legò a una

staccionata. Tommaso saltò giù, la camicia fuori dai pantaloni, e tese le mani per aiutare

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Elvira a scendere. La ragazza indossava un vestito verde con delle margherite stampate. I capelli erano raccolti in una coda, scoprendo un neo nell’incavo del collo. Lei guardò le sue mani, esitò un attimo prima di accettare l’aiuto. Le loro dita si sfiorarono.Tommaso sentì il tocco della pelle, morbida e umida contro i suoi calli, e strinse piano.

Anche se si era lavato e strofinato con il sapone per quasi un’ora alla canaletta, temeva di sporcarla. Elvira era una cosa preziosa, bella come quelle dee greche dei ruderi di Paestum. Era semplice, ogni minuto in più che trascorreva vicino a lei accresceva questa sensazione. Una voce nella testa gli diceva di smetterla di correre. Dopo l’estate lei sarebbe tornata a casa, dalla famiglia. Avrebbe ripreso la sua vita, dimenticandosi di lui e di Castellaccio. Non aveva speranze: quelle come Elvira non si mettevano con il figlio del lattaio. La nipote di Guizzardo mise un piede a terra. La gonna si sollevò scoprendo una striscia di

pelle sopra il ginocchio. Accadde tutto in fretta. La ragazza barcollò, perse l’equilibrio ma riuscì ad aggrapparsi a Tommaso. Gli afferrò il colletto della camicia buona e questa si strappò, i bottoni che tintinnavano sul lastricato. La camicia bianca, quella che gli aveva dato Elsa e che avrebbe dovuto indossare al matrimonio di Teresa. Rotta, ma non importava. Elvira era tra le sue braccia. I loro volti così vicini che le punte

dei nasi si sfiorarono. Tommaso inalò il profumo dell’amica, un odore di camomilla che gli riempì le narici, e poi i seni piccoli e duri, premuti contro il suo petto. Era paralizzato, la bocca asciutta. Qualcosa nei suoi pantaloni si mosse, poco sotto la cintura. Un rivolo di sudore gelido gli solleticò una guancia.«Adesso puoi lasciarmi andare» disse Elvira, rompendo l’incantesimo.Tommaso scattò all’indietro come una molla. Tossì, agitato. Guardò verso Masto Guizzardo

per capire se lui o la signora Maria avessero assistito alla scena, ma l’uomo era di spalle, intento a chiacchierare con una coppia di paesani.«Mi hai salvato la vita.» La ragazza si sistemò la veste. «Scusa per la camicia… non volevo

romperla.»Tommaso si toccò il colletto strappato. «Non fa niente.»Masto Guizzardo diede il braccio alla moglie. Si voltò per vedere se i ragazzi li stessero

seguendo e fece loro l’occhiolino.«Andiamo?» Elvira prese a camminargli a fianco. «Raccontami di questo cinema all’aperto,

ci sei già stato?»«Sì, un paio di volte. Non so se è un vero cinema, però. Spengono le luci in piazza e mettono

i film sul muro del municipio con un vecchio proiettore che hanno lasciato i soldati. La gente non capisce niente dei film, sono in americano… ma se guardi le immagini alla trama ci arrivi un po’ da solo.»«Sono in inglese.»«Come?»«I film sono in inglese. In America si parla l’inglese.»«Ah…» Tommaso avrebbe voluto dire qualcosa per giustificarsi, ma il brusio della piazza

coprì i suoi pensieri. Un gruppo di bambini si rincorreva intorno alla fontana. Ezio, il proprietario del Bar Sport, fumava con un piede poggiato sulla fioriera e la camicia aperta

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sul petto. Gli anziani avevano preso posto in prima fila. Molte persone si erano portate le sedie da casa, altre si stavano sistemando ai lati della gradinata del palazzo comunale. Mimì se ne stava seduto sulla motocicletta in fondo alla piazza. Tommaso si voltò e vide la fiamma di un cerino illuminare il volto dell’amico. Lo salutò con

una mano, e quello gli fece segno di avvicinarsi.«Prendi posto, arrivo subito.» Tommaso non attese che Elvira rispondesse. Si mosse a

passo veloce, le mani nelle tasche. «Che fai?» chiese a Mimì.«Aspetto che inizi il film.» L’amico fece un tiro, soffiò via il fumo e indicò verso il municipio. La piazza si stava

riempiendo. «Che hai fatto alla camicia?»Il ragazzo toccò il colletto strappato. «Un incidente.»Mimì si grattò un angolo della bocca con il pollice, la sigaretta stretta tra le dita. Piegò il

capo di lato e guardò verso la piazza.«Chi è?»Tommaso si voltò. Elvira era lì dove l’aveva lasciata, gli occhi che lo fissavano. Si sentì in

colpa per essersi allontanato in quel modo. Era stato scortese da parte sua, ma Mimì gli piaceva, e poi doveva convincerlo a sposare Teresa.«La nipote di Masto Guizzardo. È venuta da Roma per le vacanze.»«Ti piace?»«Come?» Tommaso arrossì. «No, che dici. È un’amica.»Mimì fece una smorfia. «Ho capito. Quindi adesso ti vai a sedere e guardi il film?»Il ragazzo annuì. Le luci dei lampioni si spensero, il tono delle voci si abbassò. Da qualche

parte alle sue spalle un bambino stava piangendo.«Vado, allora. Ci vediamo?»«Ci vediamo.» L’amico gli fece l’occhiolino.Tommaso si girò. Un’immagine bianca apparve sulla facciata del municipio.«Shhhh.» Una voce si levò dalla fila di persone sedute.«Tommasì» disse Mimì. «Ti va di venire con me da una parte?»Il ragazzo si bloccò, cercò Elvira con lo sguardo ma non la vide. Quella doveva essere la sua

serata. L’occasione per provare a essere felice, per smettere di essere il figlio del lattaio e sentirsi un po’ uguale agli altri. Almeno per un paio d’ore.Si morse il labbro. Non oggi.«Allora?» Mimì tolse il cavalletto con un piede e girò la chiave nel quadro.La moto ruggì e le teste dei paesani si girarono all’unisono. Tommaso sentì gli occhi di tutti

addosso mentre saltava in sella. Lo sguardo di Elvira che gli bucava la nuca. La moto sgommò sul lastricato. Il ragazzo serrò le palpebre e si tenne a Mimì. Fumo e polvere nei vicoli di Castellaccio.

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15

OGGI

Pensava meglio quando si trovava nel suo studio. In mezzo alle pile di libri ammassate sul pavimento, ai mobili ricoperti da un velo di polvere, di notte, con il solo monitor a fare luce nella stanza. Era il suo mondo. La tana dello Sciacallo. Diede un morso al panino che si era preparato per cena e fissò lo schermo. Era da dieci

minuti che aggiornava la casella di posta elettronica. Aspettava una mail da De Vivo con il rapporto della scientifica, le foto e tutto il materiale sull’omicidio Citarella. La dottoressa Malangone aveva insistito. Voleva che lui si facesse un’idea sulla morte del bancario.Damiano si asciugò la guancia con il tovagliolo del panino. Era la prima volta che

recuperava informazioni riservate su un caso senza corrompere poliziotti.Massimo Citarella.Lo Sciacallo aveva parlato con la vittima. La settimana precedente il direttore gli aveva

telefonato per invitarlo in filiale. C’era un prodotto che voleva proporgli, aveva detto. Una polizza assicurativa sulla vita che avrebbe fatto al caso suo. Damiano odiava quando provavano a vendergli qualcosa, eppure era andato all’appuntamento. Si era messo in auto e aveva raggiunto la banca. L’asfalto era ghiacciato e aveva rischiato di scivolare quando era sceso dal veicolo. Si era trascinato fino alla bussola e vi era rimasto dentro, nonostante una voce elettronica l’avesse invitato a posare gli oggetti metallici.«Signore, può uscire e utilizzare le cassette di sicurezza, per favore?» gli aveva chiesto una

cassiera.«Vorrei poterla accontentare.» Damiano aveva fatto un ghigno e si era dato un colpetto

sulla gamba cattiva. «Ma gli oggetti metallici sono tutti qui, signora. Che facciamo? La tagliamo?»Citarella doveva aver assistito alla scena attraverso l’impianto video di sicurezza, perché

era arrivato di corsa dietro le casse e aveva schiacciato un dito sulla consolle.«Mi scusi, dottor Valente» gli aveva detto, i segni dell’acne rossi per l’imbarazzo. Damiano

aveva notato qualcosa sul suo volto: non avrebbe saputo dire cosa, di preciso, ma aveva provato pena.Il computer emise un suono di notifica. Nella posta in arrivo c’era un nuovo elemento.

Diede un altro morso al panino e fece doppio click. Le immagini di Citarella esplosero sul monitor in una cascata di orrore. I pantaloni sbottonati, la camicia sporca di sangue, la gola tagliata e quell’espressione del viso così simile al giorno in cui si erano visti in banca. Vergogna. Mortificazione. Dispiacere.

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Osservò le fotografie, pietrificato, quasi sedotto dalla morte. Una poltiglia di cibo tra i denti e una cicatrice sulla guancia che gli prudeva. Sbatté le palpebre e distolse lo sguardo, spezzando quell’incantesimo nero. Reggeva ancora il panino in una mano, una fetta di prosciutto che penzolava nel vuoto. Gli si era chiuso lo stomaco.«Hai fame?» chiese al buio davanti a sé. Qualcosa si mosse. Occhi gialli, unghie che grattavano il pavimento. Damiano allungò un

braccio, sfiorò con un dito il pulsante della lampada e un bagliore ambrato dissipò le ombre.Jack sbatté le palpebre, le pupille che si adattavano alla luce. Si era seduto sulle zampe

posteriori, vicino alla scrivania. La testa enorme e il pelo nero. Una cicatrice sul muso gli tirava un lembo di pelle verso l’alto, scoprendo zanne e gengive. Flavio gli aveva raccontato d’averlo trovato in strada. Era mezzo morto, tra i rifiuti di una discarica a cielo aperto nella zona orientale di Salerno. Forse il cane aveva perso un incontro, una di quelle lotte clandestine tra animali dove umani stupidi sbraitavano e scommettevano. A guardarlo da vicino, gli ricordava il Jack della sua infanzia, quello strano randagio che viveva nei boschi intorno alla casa di Don Mimì. «Tieni.» Damiano lasciò cadere la sua cena sul pavimento. Grattò il collo muscoloso

dell’animale mentre mangiava. «Secondo me li hai vinti tutti, i tuoi incontri.»Aveva sempre desiderato un cane, solo che suo padre non gli aveva permesso di

prenderne uno.Guardò la ventiquattrore di pelle sul pavimento, infilata tra la libreria e il muro. Se si

sforzava, poteva ancora scorgere l’alone degli schizzi di sangue sulla tenda. Aveva quasi sedici anni, e riusciva a fare le scale senza stampelle. Voleva mostrarlo al padre, che ne sarebbe stato fiero. Damiano era entrato in casa e aveva zoppicato fino allo studio. La porta non era chiusa a chiave come al solito, ma non si era chiesto il perché. Aveva girato la maniglia ed era entrato. Il sorriso storto gli si era spento sulla faccia. Il professore Valente era seduto dietro la scrivania. Le braccia abbandonate lungo i fianchi

e la pistola ancora stretta in una mano. Guardava verso di lui, suo padre, come se lo stesse aspettando. Come se avesse pensato, prima di spararsi, che lui sarebbe entrato da quella porta. Il volto, distrutto dalla pallottola, sembrava volergli dire qualcosa.Sembrava volesse chiedere scusa.Massimo Citarella. «Ecco dove ho visto quella faccia.» Erano stati i tentativi maldestri di Flavio a fargli

rivivere quel ricordo. Volevi spararti in casa mia?Damiano fece scorrere il cursore del mouse sulle immagini, ritornò indietro e ingrandì un

primo piano della vittima. Negli occhi del bancario c’era la stessa luce che aveva intravisto nello sguardo morto di suo padre.Aprì un cassetto della scrivania, prese la sua Moleskine, gonfia di post-it gialli e di pagine

vergate in una grafia microscopica, e scrisse degli appunti.Gola tagliata. Arma? Pantaloni abbassati. Atto sessuale?

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Stampò il referto del medico legale e lo divorò. Lesse con foga, ignorando il dolore che gli risaliva dalla gamba. Una pugnalata al fianco lo piegò in due. Strizzò il setto nasale tra l’indice e il pollice, chiuse per un attimo le palpebre ed espirò. Da quanto tempo era seduto? Aveva preso le medicine? Si collegò a internet, cercò il profilo del bancario sui social. Citarella non aveva come immagine di profilo su Facebook una sua foto, ma quella di un supereroe dei fumetti. La bacheca era pubblica. Nei post, non faceva altro che condividere trailer di videogiochi in uscita e altre cose senza senso per una persona della sua età. Sotto un post c’era il commento di un uomo in giacca e cravatta.Citare’, giochi ai pokemon come i miei figli :-) Damiano fece una smorfia.L’auto era ferma in mezzo agli alberi della Spineta, a pochi metri dal mare e dalla riviera

sabbiosa. Una zona di confine nel golfo di Salerno, la litoranea che da Battipaglia arrivava fino alle porte del Cilento, a Paestum e al crocevia della prostituzione. Un mercato a cielo aperto di carne umana.Controllò gli esami della scientifica. Non erano state trovate tracce di sperma sugli

indumenti o in auto. A parte lo squarcio alla gola, non c’erano segni di colluttazione.«Non ha fatto in tempo» disse rivolgendosi al cane. Jack aveva finito il panino e, si era

accucciato vicino ai suoi piedi. Sollevò l’orecchio e aprì un occhio. «Si è appartato, voleva attenzioni, sesso… ma non ha fatto in tempo.»Citarella si era caricato qualcuno a bordo. Una persona che aveva lasciato impronte

ovunque, dalla maniglia della portiera al vano portaoggetti del cruscotto. Prove, prove dappertutto. C’era una cosa però che meritava attenzione. Un dettaglio che aveva colpito De Vivo e la Malangone, qualcosa che non faceva pensare a un omicidio d’impeto.Lo Sciacallo riprese a scorrere le foto. Il cliccare frenetico del mouse spezzava il silenzio

nello studio. Trovò quello che cercava e si allungò sulla scrivania. Avvicinò la faccia allo schermo, quasi volesse entrarci. Il biglietto era stato piegato e infilato nella gola. Era così sporco di sangue che si faceva

fatica a leggere. La grafia incerta, il tratto tremolante, quasi infantile.Lui vede.Che cosa significava? Si prese la fronte tra le mani. Non riusciva a pensare, era da tempo

che non si concentrava su un caso. L’Uomo del salice era stato l’ultimo. L’inizio e la fine.Che cosa sto facendo?Aveva promesso a se stesso che non si sarebbe fatto trascinare in una nuova indagine, non

più. Niente più libri, niente più morte. Il commissario però era suo amico, e Damiano gli doveva un favore. Era riuscito a mettere le cose a posto anche grazie a lui. Se chiudeva gli occhi, poteva sentire il telefono squillare, il rumore dei suoi passi, i piedi

strusciati sul pavimento, il peso della cornetta tra le dita e poi la voce di De Vivo. Un suono roco dall’altra parte del filo a ricordargli che ce ne era stata un’altra. Il corpo di una ragazza appeso ai rami di un vecchio salice bianco sulle montagne di Castellaccio. Per Damiano quella semplice telefonata era stata come una chiamata alle armi, un invito a destarsi dal torpore, a liberarsi della maschera che copriva le cicatrici del suo volto.

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Lo Sciacallo.Si era nascosto dietro uno pseudonimo per cercare quella verità che forse aveva sempre

conosciuto. Nel sangue degli altri, aveva visto quello di Claudia. Era come se tutti i libri che aveva scritto fossero serviti solo a uno scopo. Tornare nel 1985, quando la notte aveva inghiottito la sua migliore amica. Damiano era uscito dal suo studio, dal suo mondo, come non aveva mai fatto prima. Voleva cambiare la storia, il romanzo più nero che avesse mai potuto concepire. L’Uomo del salice aveva un nome che lui non riusciva a pronunciare. Se solo se ne fosse accorto prima, se avesse saputo guardare, forse ad altre ragazze non sarebbe toccata la sorte di Claudia.Lui vede.Damiano si massaggiò il collo. Era sicuro di aver già letto quella frase. Per quanto si

sforzasse, però, non riusciva a ricordare dove. Sentiva che gli mancava qualcosa, uno stimolo ad aprire la mente. Doveva liberare la testa dai pensieri, dalle catene che lo trattenevano.Abbassò lo sguardo. Aveva lasciato il cassetto aperto. In mezzo a fogli di appunti che non

ricordava d’aver scritto, a un carica batterie per laptop e a una manciata di penne scariche, c’era una scatola di latta. Un vecchio contenitore per mentine comprato durante un viaggio a Londra. Credeva d’averlo buttato via. Si immobilizzò, una mano bloccata a mezz’aria. Indeciso se afferrare quella scatola oppure

chiudere il tiretto sul passato. Il dolore iniziava a essere insopportabile, le fitte così forti che gli mancava il respiro. Stava sudando nonostante fuori dalla finestra tutto fosse ricoperto da una patina di ghiaccio. Poi Jack si mosse. Scattò come una molla, fece il giro intorno alla scrivania e si fermò sulla soglia. Damiano sentì un rumore di chiavi, la serratura della porta che scattava. Era così preso che

non si era accorto dell’auto che parcheggiava davanti casa. Una luce si accese nel corridoio, seguita da un rumore di passi. Lo Sciacallo irrigidì le spalle, chiuse il cassetto e si sforzò di rallentare il respiro.Le mani di Flavio accarezzarono il muso di Jack.«L’hai fatto entrare?» chiese, gli occhi blu infossati nella faccia.«Certo che l’ho fatto entrare. Volevi che morisse di freddo?»L’amico abbozzò un sorriso. «Se ha sporcato in giro, pulisco io.»«Lascia stare. Dovresti passare più tempo con lui, piuttosto.»«Potresti farlo tu.» Flavio prese una sedia e si accomodò davanti a lui. Lanciò un’occhiata ai

fogli sparsi sulla scrivania e disse: «Hai ripreso a lavorare?»«Cosa? Ah, no… non direi.» Damiano fece sparire velocemente il rapporto della scientifica e

il taccuino con gli appunti.«Stai bene?» Flavio gli sfiorò il braccio, le dita nodose e le nocche dure da pugile.«Sto bene. Non giocare al dottore con me, non sei il mio tipo» scherzò lo Sciacallo nel

tentativo di cambiare argomento, ma Flavio non era un tipo dalla risata facile.

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«Ho bisogno del tuo aiuto» gli disse. Metà volto illuminata dalla lampada, l’altra metà immersa nell’oscurità.Damiano si contorse sulla sedia, non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine dell’amico

seduto nel suo salotto. La pistola in bocca, il petto ricoperto dalle cicatrici. Non fece in tempo a rispondere che Flavio strattonò la zip della felpa, vi infilò una mano dentro ed estrasse un fascicolo arrotolato.«Mi serve aiuto con questo» ripeté, poi lanciò la cartellina sul tavolo.Sulla copertina, nient’altro che un numero. Sessantotto.

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16

LUGLIO, 1950

«Che siamo venuti a fare qui?» Tommaso scese dalla moto, guardò la grossa auto nera parcheggiata nel cortile. Sembrava una di quelle macchine dei tedeschi, con la carrozzeria lucida e i cerchioni argentati. «Lo sai chi ci vive lì dentro, giusto?» Mimì mise il cavalletto e si accese una sigaretta.«Certo che lo so.»Le mura della casa odoravano di pittura fresca e di fiori nei vasi sui davanzali delle

finestre. C’era una luce accesa al secondo piano. Il ragazzo notò una sagoma, il movimento di una tenda. Poi la luce si spostò da una stanza all’altra, scese al primo piano e si fermò all’ingresso. Rumore di chiavi, uno scatto.«Che andate trovando?» La faccia di Nello Santese era rigata dal sudore. I capelli, tirati

all’indietro, si sollevavano al centro della testa facendolo assomigliare a un gallo. La canottiera troppo stretta scopriva l’addome poco sopra la cintura.«Tommasì.» Mimì fece un tiro e soffiò una nuvola di fumo verso Santese. «La sai la

differenza tra un uomo di merda e uno buono?»Il ragazzo deglutì. Non sapeva dove l’amico volesse andare a parare, ma aveva paura di

chiederlo. Si guardò intorno. Da Capaccio fino a Sapri, tutti conoscevano Nello Santese. Si era fatto i soldi con i fascisti. Il duce l’aveva nominato ministro o maresciallo di qualcosa, Tommaso non avrebbe saputo dirlo. I vecchi al paese dicevano che Santese aveva venduto l’anima al diavolo. Era un passo avanti a tutti. I nazisti avevano preso il posto dei fascisti ma nessuno lo aveva toccato. Gli ufficiali tedeschi amavano il vino e le belle donne, e lui poteva fornire entrambe le cose. Un camaleonte, fedele al Reich fino a quando era stato utile e necessario. Se i partigiani avessero potuto mettergli le mani addosso, l’avrebbero legato dietro un cavallo e trascinato fin sopra la punta della montagna. Ma nessuno lo aveva fatto, nemmeno dopo la partenza degli americani. Se morivi di fame e cercavi soldi o un lavoro, c’era una sola persona a cui potevi rivolgerti.Nello Santese.«La casa nuova, la macchina nuova.» Mimì fece un passo avanti, la scia della sigaretta che

danzava nell’aria. «E la gente per bene che mangia pane duro e cipolle. Vedi, Tomma’… quello che hai davanti è un uomo di merda.»«Uaglio’, vacci piano con le parole.» Santese sollevò il mento in segno di sfida ma non si

mosse, parte del corpo nascosta dalla porta. «Conoscevo tua madre» sorrise. «Eravamo amici… intimi, come tanti altri in paese, ma questo non ti autorizza a venire sotto casa mia a offendere. Fa’ il bravo e tornatene al tuo pollaio, che spaventi mia moglie e i criaturi.»

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Tommaso si morse il labbro. Mimì non sopportava sentir parlare male di sua madre. Se le voci erano vere, aveva ucciso per difenderne il nome. Adesso tira fuori il coltello e lo ammazza.L’amico però non si scompose, il volto ridotto a una maschera inespressiva.«È questo quello che fai, quindi?» disse Mimì, gettando la cicca contro il finestrino dell’auto

nera parcheggiata. Fece un passo in avanti, si avvicinò al padrone di casa. «Prendi quello che vuoi, quando vuoi e te ne fotti delle conseguenze? Metti moglie e figli davanti per difenderti? Non preoccuparti per la tua famiglia. Nessuno vuole fare loro del male, e poi sono al municipio a guardare il film. Li ho appena visti.»Il sorriso di Nello si spense in un batter d’occhio. Tommaso colse un bagliore nei suoi

occhi. L’arroganza aveva lasciato il posto a qualcosa di diverso. Vuoto e paura.«Io…» l’uomo storse il muso, si lisciò i capelli e scosse il capo. Solo adesso sembrava aver

compreso il reale motivo della visita. «Era lei che veniva dietro a me» disse come per giustificarsi.Mimì colpì con tale rapidità che Tommaso non vide partire il pugno. Silenzioso come un

lupo che bracca la preda. Nello grugnì, la nuca schizzò all’indietro come se fosse stata tirata da un cappio. Barcollò, un taglio rosso tra il setto nasale e uno zigomo.«Andiamo dentro, fammi vedere casa!» Mimì arpionò la porta, spalancandola, sollevò un

ginocchio e si diede la spinta. Affondò la scarpa nella pancia di Santese, che venne scagliato sul pavimento. Un tonfo, rumore di mobili rovesciati, di legno spezzato, poi un gemito.Tommaso si portò una mano alla bocca, il cuore che batteva all’impazzata.«Dove sono i soldi? Ah?» sentì gridare. La voce di Mimì era fredda come il metallo. «Se non

glieli dai tu, lo faccio io.»Il ragazzo vide dei fari sulla strada, oltre i campi.Respira, è solo un’auto di passaggio.Mimì uscì dalla casa pochi minuti dopo. Aveva qualcosa in una mano, anelli d’acciaio sulle

dita. Un tirapugni. Sfilò l’arma e la fece sparire in una tasca, poi saltò in sella e mise in moto.«Andiamocene.»Tommaso non se lo fece ripetere. Montò dietro di lui e si tenne forte. Non si girò a

guardare la casa di Santese. Non riusciva a farlo.

* * *

Mimì fermò la motocicletta in mezzo alla polvere. Avevano imboccato una stradina dissestata che costeggiava la montagna fino a terminare la sua corsa in una chiazza di terra dura e pietrisco. Un capanno era premuto contro la parete rocciosa. Le mura erano fatte di pietre grezze incastrate le une sopra le altre, il tetto così storto e bombato che dava la sensazione di poter crollare su se stesso da un momento all’altro.«Che c’è?» gli chiese l’amico, ma Tommaso non rispose. Mimì aveva derubato un uomo e

lui era complice. Si vergognava per quello che aveva fatto, e poi non riusciva a smettere di pensare a Elvira. Era andato via dal paese senza dare spiegazioni. Quella doveva essere la loro serata, un’occasione che non si sarebbe più ripetuta. Guardò la luna. Forse faceva

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ancora in tempo, forse il film non era ancora finito. Doveva tornare indietro e chiederle scusa, ma non si mosse. Una vecchia aprì la porta.La donna spostò gli occhi da Mimì a lui. La pelle della faccia era rattrappita, le guance

scavate da solchi e i capelli come fili di stoppa attaccati alla testa. Mosse le dita e fece loro segno di entrare. L’aria all’interno del capanno era rarefatta, le ombre proiettate sul pavimento dal bagliore di alcune candele.La ragazza era distesa sopra una brandina, una veste incollata alla pelle dal sudore. Era

così magra e minuta che il ventre rigonfio sembrava sproporzionato. Sorrise nel vedere Mimì, e si accarezzò la pancia.«Manca poco» disse.Mimì annuì. «Come ti senti, Stella?»«Non lo so come sto.» La ragazza fece per sedersi ma la vecchia, che si era avvicinata al

letto, le poggiò una mano sulla spalla e la tenne giù, senza dire una parola. «Se non era per Concetta, l’avrei fatto nascere in mezzo alla strada questo bambino. Chi è il tuo amico?»«Tommaso.» Il ragazzino scattò. «Mi chiamo Tommaso.»Chinò il capo e fissò il pavimento. Non riusciva a guardare Stella e poi la vecchia lo

inquietava. Sentiva il peso dei suoi occhi addosso. C’era qualcosa di strano in lei, qualcosa che non gli piaceva.«C’è un posto per te sulla nave.» Mimì si schiarì la voce. «Ho parlato con un amico di

Palinuro.» Infilò una mano sotto la camicia, ne tirò fuori un malloppo di banconote e le poggiò su un comodino. Soldi sporchi di sangue. «Questi copriranno le spese del viaggio e ti faranno mangiare per un po’ al tuo arrivo.»Stella tirò su con il naso. «Grazie di quello che fai per me. Il Venezuela è lontano, troppo

lontano, ma qui non c’è più niente. Sono marchiata, per mio padre sono morta e mamma passa le giornate in chiesa a pregare che Dio tolga la vergogna dalla nostra famiglia. Non è vero quello che dicono in giro, non sono una puttana. Io volevo solo lavorare, Santese è venuto nei campi… e… mi ha sbattuta a terra…»«Lo so.» Il tono di Mimì era basso. Tommaso ebbe la sensazione di sentire le corde vocali

dell’uomo che grattavano come un pugnale sulla cote. «Tu non hai colpe, e nemmeno la criatura che tieni in corpo. Ci vediamo appena nasce. C’è tempo, la nave parte a fine mese.»Stella si asciugò una lacrima e sorrise. Poi Mimì si voltò, afferrò la maniglia e aprì la porta.

Tommaso salutò con un cenno del capo e fece per seguirlo ma qualcosa lo trattenne. Una morsa. Abbassò lo sguardo sul suo braccio e vide le dita di uno scheletro che gli scavavano il polso. No, non di uno scheletro. Le dita di Concetta.La vecchia strinse con una forza che lo sorprese. Il ragazzo sollevò il capo e incontrò gli

occhi della donna, neri e profondi. Lo fissava, le narici che si contraevano come se lo stesse annusando. Provò a liberarsi ma la donna non allentò la morsa. Non disse una parola. Forse non poteva, pensò lui. Forse è muta. Un istante dopo lo lasciò andare, e Tommaso schizzò indietro come sparato da una fionda. Rischiò di incespicare, un piede che sbatteva contro

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l’altro. Barcollò fuori dal capanno, si accorse d’aver ripreso a respirare solo dopo essersi chiuso la porta alle spalle.Mimì lo fissò, la figura slanciata sotto il cielo stellato.«Allora, hai capito che cosa è un uomo di merda?»Tommaso annuì. Aveva compreso la lezione.

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17

OGGI

«Buongiorno Agostino.» Flavio salutò l’addetto al banco accettazione de La Quiete. Gli porse un bicchierino con il caffè e un sacchetto con il cornetto, e un sorriso si allargò sul volto paonazzo dell’uomo.«Oh, dottore! È per me?»«Marmellata, giusto?»«Sì, grazie… grazie.» Agostino girò il caffè con una palettina di plastica e lo mandò giù in un

sorso. Scartò la confezione e diede un morso. «Dotto’, sarei a dieta… si vede?»Si accarezzò la pancia che affiorava da sotto la divisa verde.Flavio abbozzò un sorriso imbarazzato. «Posso chiederti una cosa?»«Anche due, dotto’.»«Ti dice niente il ricovero di una ragazza in stato confusionale, con amnesie…

l’accettazione segna il dodici febbraio come data d’ingresso.»L’uomo sollevò gli occhi verso l’alto, la mente che frugava tra i ricordi.«No, niente, ma non ero di servizio.» «Ne sei sicuro?»«Certo! Era il compleanno di mio figlio piccolo e mi sono preso la giornata per portarlo al

canile. C’ha messo un anno per convincere la mamma a fargli prendere un cucciolo. Dovevate vedere come era contento, dotto’. E chi se la scorda la faccia che ha fatto.»«Hai fatto bene, Agostino. I bambini devono crescere con gli animali.» Flavio si grattò la

barba. «Senti, ritornando alla mia domanda… se non c’eri tu, allora chi ha compilato questa scheda?»Flavio infilò una mano nella tasca dei jeans, prese il documento che aveva sottratto alla

cartella clinica di Roberta e lo lanciò sul tavolo. Agostino diede un altro morso al cornetto, lo poggiò sulla tastiera e prese il foglio piegato in quattro. Gli diede un’occhiata.«Qua dice che l’accettazione è stata fatta direttamente dal medico di turno, il dottor De

Nicola. C’è la sua firma.» «Ho notato. Mi chiedevo come sia possibile che un medico abbia accesso a questa

procedura. Non è competenza tua e dei tuoi colleghi?»«In effetti, sì. Forse chi era di servizio è dovuto andare al bagno… voi lo sapete a De Nicola,

no? Quello va sempre di fretta. Però adesso che mi ci fate pensare, c’è ‘na cosa strana.»Agostino raddrizzò la schiena, liberò la tastiera dal cornetto e digitò alcuni tasti.«Venite qui… guardate pure voi.» L’unghia ticchettò sullo schermo.Flavio guardò il monitor. Vide i parametri di ricerca impostati dall’uomo e il risultato.Dato invalido.

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«Che significa?»Agostino sollevò il foglio e lesse ad alta voce. «Questo è il protocollo di ricovero, 79451.

Soggetto sconosciuto, età non specificata. Tutto ok, però se vado a cercare questo numero sul programma, dice che non c’è.»«Come è possibile?»«Non saprei.» Agostino si mise un dito davanti alla bocca, guardò oltre il vetro protettivo

del bancone. «Forse il dottore non ha salvato il dato. Vi faccio vedere.» Doppio click del mouse, dita che battevano sui tasti. «Mettiamo che io adesso volessi registrare un ingresso alla clinica. Scrivo i dati, aspetto che esce il numero di protocollo, stampo e poi premo qui.»Salva e invia.«Mi stai dicendo che De Nicola non ha memorizzato l’ingresso della paziente nel database

della clinica?»«Esatto. Praticamente ‘sta guagliona non esiste, per La Quiete. Non risulta nemmeno il

posto letto. A che piano avete detto che l’hanno messa?»«Terzo piano, stanza dodici.» «Sì, che ce lo diciamo a fare.» Agostino diede un’occhiata al monitor, poi appallottolò la

busta del cornetto e fece canestro nel cestino vicino la porta. «Il computer dice che la camera è vuota.»Flavio si leccò le labbra screpolate. Si sentiva strano, un ronzio fisso nell’orecchio. Le

cicatrici gli prudevano. Petto e braccia. Avrebbe voluto spogliarsi lì, davanti ad Agostino, e grattare la pelle fino a raschiarla via. E se si fosse immaginato tutto? Forse Roberta non era reale. Forse esisteva solo nella sua testa. Scosse il capo.No, non è possibile.«Dottor De Martino? Avete sentito che ho detto?»Sbatté le palpebre. Agostino lo stava fissando.«Volete che faccia una segnalazione alla direzione?» chiese l’uomo. «Se devo creare una

scheda di ricovero, mi serve l’autorizzazione. Ah, mannaggia la capa di De Nicola…»«No, grazie. Lo faccio io.» Flavio riprese il foglio di ricovero, lo ripiegò e se lo fece scivolare

nella tasca posteriore. «Un’ultima cosa. Abbi pazienza, sono nuovo… chi autorizza l’accesso ai reparti? Chi ha dato la stanza alla ragazza?»«Il medico responsabile del piano o l’infermiere caposala. Avete detto terzo? Lì comanda la

Nardi.»«Capisco.» Flavio diede una pacca sulla spalla di Agostino. «Grazie, e mi raccomando con la

dieta.»«Ci provo, dotto’. Ci provo.»Damiano aveva ragione. Se voleva aiutare Roberta, doveva cominciare dall’inizio.

* * *

Non c’erano finestre nel seminterrato. Un labirinto di schedari, armadi ammassati alle pareti e scatole che vomitavano documenti. L’aria aveva un odore dolciastro, sapeva di polvere e tabacco.

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«A lei non piace mettere il camice, eh? Dottore?» L’addetta all’archiviazione de La Quiete fece cadere la cenere sul pavimento. Alle sue spalle, inchiodato a una trave, il cartello parlava chiaro. Vietato fumare.Flavio scrollò le spalle. La signora Cappetta era un groviglio di nervi e ossa coperto da un

maglione a collo alto e una gonna di lana. Gli rivolse un’occhiata e ritornò al monitor del suo computer.«Conserviamo qui le cartelle delle pazienti?» «Secondo lei cosa si può conservare in un archivio di una clinica psichiatrica?» La donna

soffiò una nuvoletta di fumo da un angolo della bocca. Flavio spostò il peso del corpo da una gamba all’altra.«Vorrei vedere i fascicoli compilati da De Nicola, se possibile.»«Ah sì? E per quale motivo, se posso chiedere?»«Il dottor De Nicola è malato, sto seguendo una sua paziente colpita da una forma di fuga

dissociativa. Mi hanno detto che il collega ha già trattato tali patologie e vorrei confrontarmi con le terapie che ha applicato.»Spostò un faldone poggiato su una sedia e si accomodò. Prese i documenti di Roberta e

porse alla donna il foglio dell’accettazione.«E non può fargli un colpo di telefono?» La signora Cappetta lo fissò con occhi di rapace.«Non ci faccio una bella figura, a disturbarlo.»«Certo, come no.» La donna spinse con le mani sul bordo della scrivania e i piedi della

sedia strusciarono sul pavimento. Si alzò e parlò attraverso una nube di fumo. «Mi segua, da questa parte.»Pochi minuti dopo Flavio si ritrovò in uno stanzino, in mezzo agli scaffali. Aspettò che la

donna ritornasse al suo posto e cominciò a consultare i fascicoli delle pazienti di De Nicola. Guardò i fogli, le terapie e le annotazioni a penna del collega. Sfogliò il materiale che aveva sotto il naso e lo confrontò con la sigla apposta sul documento di ricovero. Non ci voleva un perito calligrafico per capire che quella sul documento di Roberta non era la firma del collega.Il telefono gli vibrò nella tasca.Damiano conosceva tutti, in Questura. Era preso da un caso, roba nuova, non gli aveva

detto molto, però aveva promesso che avrebbe fatto un paio di telefonate. Se Roberta era stata recuperata dalla polizia, come era scritto nel fascicolo, allora doveva esserci un’indagine in corso per scoprire la sua identità. Forse i familiari ne avevano denunciato la scomparsa. «Sì?» Flavio rispose alla chiamata.«Ascolta.» La voce roca di Damiano fece vibrare l’amplificatore del cellulare. «Quando hai

detto che l’hanno ritrovata ‘sta ragazza? Dieci giorni fa?»Flavio rimase in silenzio. Il telefono tremava vicino all’orecchio, non riusciva a parlare. Le

ombre nell’archivio sembravano avere occhi e bocche spalancate. Riusciva a vedere le zanne che grondavano bava. Zanne di bestie che volevano sbranarlo da quando era un ragazzino.

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Demoni. I suoi demoni.«De Vivo ha fatto un paio di domande ai colleghi delle volanti» continuò Damiano. «Nei

verbali non c’è niente. Sta verificando le denunce di scomparsa e magari viene fuori qualcosa da lì. Ci sei?»«Sono qui.»«Sei sicuro che è stata portata in clinica dalla polizia? Te lo chiedo perché a Salerno non c’è

niente. Se vuoi sento il comando provinciale dei carabinieri…»«No, grazie. Hai fatto già troppo.»«Ue’… stai bene, vero? Perché non ti prendi qualche giorno e vai a casa di Mimì a

controllare come stanno venendo i lavori? Che ne dici? Quel cazzone di Stefano ha bisogno di avere il tuo fiato sul collo, altrimenti non te la consegnerà mai, ‘sta casa.»«Hai ragione.» Flavio chiuse la chiamata, abbassò il cellulare e fissò i documenti aperti

sullo scaffale. Senza muoversi, mentre il tempo gli scivolava sulla pelle come gocce di sudore freddo. Parole, lettere, numeri. Bugie, una dopo l’altra. Dita invisibili gli pizzicarono la nuca. «Farò così» ripeté a bassa voce. Sostenne gli sguardi delle ombre, a testa alta, fino a

quando tutte quelle facce si dissolsero in pulviscoli di polvere. «Farò proprio così.»

SALERNO, 1992

Bugie. L’ingegnere gli aveva detto solo bugie. Era l’unica cosa a cui riusciva a pensare, mentre fissava le venature nel mogano della bara.

Le persone entravano e uscivano dalla sala mortuaria. Gli stringevano la mano, gli baciavano le guance. Uomini e donne senza volto. Spettri davanti a suoi occhi. Non sapeva che farsene delle loro condoglianze. Desiderava solo che si togliessero dai piedi. Il prima possibile.«Dovevate dirmelo» sussurrò, e la moglie dell’ingegnere si aggrappò al suo braccio come

se fosse in bilico sul ciglio di un burrone. Strinse forte, il corpo sottile scosso da un fremito.«Ce lo ha impedito. Tuo padre voleva chiamarti, ma lui si è opposto… sai come è fatto, si

vergognava. Non voleva che tornassi dall’Inghilterra per lui. Non voleva che lo vedessi stare male.»«Non dovevate dargli ascolto.» La voce di Flavio tuonò sopra il brusio. Alcune teste si

voltarono a guardarlo e lui scattò in piedi, le vene che pulsavano nel colletto della camicia. «Allora? Che fate ancora qui dentro? Via!» Indicò la porta con una mano. «Ho detto via, fuori! Toglietevi dal cazzo!»Alle sue spalle, la donna era una creatura minuscola che piangeva, stretta in un vestito

nero. L’ingegnere emerse dal flusso di persone che abbandonava la sala. Un’espressione desolata sulla faccia e le braccia spalancate in segno di resa.«Perché fai questo?» disse l’uomo, gli occhi arrossati dal pianto.«È tutta colpa tua» ringhiò il ragazzo, piantando un dito nel petto del padre adottivo con

tale forza che lui fece un passo indietro. «Hai insistito perché andassi via… a studiare. Se

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fossi rimasto qui, tutto questo non sarebbe accaduto. Lui non sarebbe chiuso in quella cosa, adesso.»«Non potevi farci niente… nessuno poteva, Mattia aveva scelto… lui…»«Zitto!» Flavio ricacciò indietro un conato di vomito. All’improvviso le sue gambe

divennero molli, la stanza prese a girargli intorno. «Voglio vederlo… io devo vederlo.»Barcollò fino alla bara in cui giaceva Mattia. Fece scorrere le mani sudate sul legno.«Come si apre questo affare?»«No!» La donna scattò in piedi, corse verso di lui e l’afferrò per le spalle. Flavio se la scrollò

di dosso come se fosse un granello di polvere sulla giacca, e lei cadde sul pavimento. Guardò la madre adottiva in ginocchio, vulnerabile, distrutta e iniziò a tremare.«Che cosa ho fatto? S-scusa… io, che cosa…» Si lasciò scivolare fino a sedersi sul marmo

gelido, la nuca premuta contro la cassa mortuaria. Gli sembrava di sentire ancora il battito del cuore di Mattia soffocato dagli strati di legno e velluto.«Non c’è rimasto più niente, di lui.» La voce dell’ingegnere era un sussurro. Gli accarezzò la

testa e lui lo lasciò fare. «Niente! Quel treno se lo è portato via… lo abbiamo perso.»«Stava male, il nostro bambino è sempre stato male.» La donna si guardava le mani come

se fossero sporche di qualcosa che solo lei riusciva a vedere. «Non è colpa tua, Flavio. Non è colpa tua.»«È per quello che gli hanno fatto da bambino? In quell’istituto?» chiese, la voce rotta dal

pianto. Le lacrime come acido muriatico sulla faccia.«Tu lo sapevi?»«Me l’ha raccontato a Natale, due anni fa.»«Noi ci abbiamo provato.» L’ingegnere scosse il capo, mortificato. «Credevo che il nostro

amore bastasse. Lo credevo davvero. Abbiamo fatto di tutto perché lui dimenticasse, ma certe cose non si scordano.»Flavio annuì.Il passato non si dimenticava. Mai.

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18

LUGLIO, 1950

Tommaso poggiò il forcone contro il muro e si asciugò la fronte dal sudore. Era a pezzi, la notte precedente non aveva chiuso occhio. Dopo essere stato in giro con Mimì era rientrato tardi, passando dalla finestra della cucina. Teresa aveva promesso di lasciarla aperta. Una volta dentro si era tolto le scarpe ed era salito al piano di sopra. Il silenzio della casa era rotto solo dal respiro pesante di Don Rosario. Il padre russava, disteso sul divano con le molle mezze rotte, in sala da pranzo.«È più comodo del materasso» diceva sempre, ma il ragazzo sapeva che era una fesseria.

Don Rosario si lasciava cadere tra i cuscini consumati senza nemmeno togliersi le scarpe. Troppo ubriaco per fare le scale, troppo ubriaco per tutto. Tommaso si trascinò fino alla canaletta. Unì le mani a coppa e le immerse nell’acqua. Gli

schizzi gelidi gli spezzarono il respiro. «A che ora sei tornato ieri? Non ti ho sentito.» La voce di Teresa lo colse alla sprovvista. Si voltò di scatto, il cuore che gli martellava in petto. La sorella lo guardò con la coda

dell’occhio, poggiò la cesta con i vestiti sporchi sull’erba, poi prese una camicia e la sollevò davanti alla faccia. Tommaso incontrò il suo sguardo attraverso lo strappo nel tessuto.«Come l’hai rotta?» chiese.«Sono caduto.»«Al paese? Quando guardavi il film?» chiese, scrutando le sue gambe e le sue braccia in

cerca di abrasioni. Il ragazzo se ne accorse e disse: «Non mi sono fatto nulla, si è impigliata vicino al carro di

Guizzardo mentre scendevo. La puoi cucire?»«Non lo so, vedo.»«Dove devo portare il latte, oggi?»«Da nessuna parte: va lui.» Teresa fece segno con la testa verso la casa. «Dice che dopo

deve andare a Capaccio a parlare con uno che vuole comprarsi la terra.»«La terra? Casa nostra?» Tommaso strinse le palpebre. «E perché?»«Tiene troppi debiti. Ieri è tornato come un diavolo, ti cercava. Meno male che non c’eri. Te

le avrebbe date, e pure forte. A me non mette le mani addosso, ha paura che mi lascia i segni e poi il pecoraio non mi prende.»Il ragazzo si tirò un lembo di canottiera fino al mento e si asciugò la faccia. La sensazione di

benessere che aveva provato dopo essersi lavato era passata in un battito di ciglia. Aveva la nausea, gli faceva male la testa. Odiava suo padre, odiava il modo in cui lo costringeva a vivere. Mimì aveva ragione, non doveva farsi mettere più le mani addosso. Se lo avesse

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affrontato una volta, Don Rosario non ci avrebbe più provato. Ne era certo. Era un codardo, l’aveva capito il giorno in cui era venuto il maresciallo Pironti. Il carabiniere aveva alzato la voce, non si era fatto intimorire e il padre era diventato minuscolo. Si era mostrato per quello che era. Un uomo di merda. Proprio come Nello Santese. Ripensò alla notte con Mimì, al sangue che sgocciolava dal tirapugni. Con gli uomini di

merda si poteva trattare solo in un modo, adesso lo sapeva.«Questa è la casa di mamma, non la può vendere.» Tommaso sentì le lacrime riempirgli gli

occhi. «È stato nonno a costruire la stalla, non lui.»«Si è mangiato tutto con le carte.» Teresa gli accarezzò la guancia, dita ruvide sulla pelle.«Che facciamo noi, se ci toglie tutto? Dove andiamo?»«Lo sai già, a me che succede…»«Io non vado via.» Tommaso si ritrasse. «Non vado da nessuna parte.»Si voltò e iniziò a correre. Corse verso il bosco, corse fino a quando la gola gli divenne

secca e l’aria gli bruciò nel petto. Teresa gridava il suo nome, ma lui non si fermò.Continuò a correre, fino a quando la voce della sorella non si confuse con il rumore del

fiume.

* * *

Elvira era seduta vicino all’albero, nel punto dove l’aveva trovata la volta precedente. Chiuse il libro di scatto quando lo vide arrivare, e si alzò.«Non ci voglio parlare con te» disse, puntando dritta verso casa del nonno.«Aspetta.» Tommaso la raggiunse, il fiato corto e le gambe indolenzite per la corsa.«Sei un cafone, te ne sei andato senza dirmi nulla.» Lui le mise una mano sulla spalla ma lei

si divincolò.«Hai ragione, scusa. Ti prego, fammi spiegare.» La ragazzina si girò, le guance scottate dal sole e i capelli castani raccolti in una coda dietro

la nuca. Tommaso trattenne il respiro, cercò di mettere ordine nei pensieri più in fretta che poté.Pensa a qualcosa di buono per chiederle scusa. Pensa, stupido, pensa…«Sei mai stata al mulino?» Si morse la lingua, le parole gli erano venute fuori senza che lui

potesse controllarle.Elvira corrugò la fronte. Il disappunto sulla faccia si trasformò in curiosità.«C’è un vecchio mulino.» Tommaso prese coraggio. «Se seguiamo il fiume fino a sud, non ci

vuole molto. Ti va di andarci insieme?»«Cosa ti dice che voglio vedere un vecchio mulino?»«Fa caldo, è estate e tu te ne stai tutto il tempo sotto l’albero a leggere. Al mulino puoi fare

il bagno. Dai, non farti pregare.»Elvira non si fece pregare. Il tempo di entrare in casa, indossare un costume sotto il vestito

e si ritrovarono a camminare, uno di fianco all’altra, all’ombra degli alberi che costeggiavano i sentieri deformi di campagna.«A mio nonno non piace che te ne vai in giro con quello» disse la ragazza.

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«Dici Mimì?»«Il tizio con la motocicletta.»«Perché? Lui è mio amico.»«Nonno dice che è un brigante, un delinquente.»«Masto Guizzardo si sbaglia. Mimì non è cattivo. Lui fa le cose giuste.»«Rubare è una cosa giusta, quindi?»Tommaso pensò a quanto era accaduto da Santese. L’amico aveva aggredito Nello, era

entrato in casa e gli aveva preso i soldi. Denaro che serviva per una giusta causa. Nello Santese aveva violentato Stella nei campi, l’aveva messa incinta per poi lasciarla in mezzo a una strada. Se non fosse stato per quella vecchia muta, la ragazza sarebbe stata costretta a partorire tra i cespugli. Così gli aveva detto Mimì e così doveva essere. I soldi servivano per aiutarla. Stella voleva andare in Venezuela e portare con sé il bambino. Adesso poteva farlo. Aveva un’opportunità.«Tuo nonno non conosce Mimì.» Scosse il capo, poi indicò in avanti. «Guarda lì. Siamo

arrivati.»Il sole bucò il tetto di rami e foglie sopra le loro teste. Gli alberi lasciarono il posto a un

tappeto d’erba tagliato in due dal fiume. Un serpente d’acqua che strisciava fino alla parete sconnessa della montagna. Il mulino era un ammasso di pietre cadute che costeggiava il fiume. La ruota di legno era stata smontata e giaceva coricata su un fianco.Tommaso prese Elvira per mano e se la tirò dietro.«Vieni, lumaca.»Il suono delle loro risate si levò alto e un gruppo di uccellini nascosto tra i ruderi si librò in

volo. Tommaso si tolse i sandali impolverati e la canottiera, li gettò su un masso ricoperto di muschio ed entrò in acqua. L’aria abbandonò i suoi polmoni all’istante. La pancia venne risucchiata, sparì dietro le costole. Elvira era ancora sulla riva, i piedi nel fango e la gonna sollevata appena sopra il ginocchio.«È troppo fredda!» gli disse, e lui diede uno schiaffo sullo specchio dell’acqua. Gli schizzi

lambirono le gambe della ragazzina, che fece un salto all’indietro, il corpo sollevato sulla punta dei piedi.Tommaso non riusciva a smettere di ridere, gli faceva male la mascella. In un attimo aveva

dimenticato suo padre, la casa, Teresa e il suo matrimonio, Mimì, Stella e il bambino.Il bambino.Tommaso si era dimenticato anche di Nunzio, del corpo abbandonato tra i rami, gonfio e

dilaniato dai morsi. Aveva dimenticato il sangue, e quegli occhi che lo fissavano. Poi però Elvira gridò.Il verso di un animale che squarciava la radura. Tommaso trasalì. Il sorriso gli morì sulla

faccia. Vide l’amica andare giù, cadere sui gomiti e strisciare all’indietro, i talloni che scavavano nel fango e il volto deturpato dal terrore. Si girò di scatto e il sole lo abbagliò. Sbatté le palpebre, assalito dalla sensazione di essere vulnerabile e impotente, nell’acqua. Sollevò un braccio, provò a schermarsi e allora lo vide.

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L’uomo emerse dalle mura del mulino. Dita nere e unghie spezzate che artigliavano la pietra. I capelli spettinati, la faccia ricoperta da una tintura scura come la pece. Ruotò gli occhi e si passò la lingua sui baffi striati dal muco. Il corpo contorto di un vecchio, le braccia come rami secchi. Solo che quell’individuo non era un vecchio, era qualcosa di più. Era il riflesso della paura. Occhi che guardavano nel buio.

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19

OGGI

«Come cazzo hai fatto a farlo entrare in tribunale?» De Vivo guardò Jack, poi lui.Damiano si esibì nel migliore tentativo di sorriso che la faccia gli permettesse. «Ho detto al carabiniere giù all’ingresso che sono amico tuo. Funziona sempre.»«Almeno mettigli il guinzaglio.»«A lui non piace essere legato, tirato e cose del genere. Ti segue e basta.»«Se lo dici tu.» De Vivo bussò alla porta e aprì senza attendere risposta.La dottoressa Malangone era al telefono. Sedeva alla scrivania, dietro una montagna di

faldoni, i capelli ricci legati e solo una sottile linea di matita intorno agli occhi. Fece loro segno di accomodarsi sulle sedie davanti a lei, ma erano occupate da pile di carte. Il commissario le liberò entrambe, poggiando i documenti sul pavimento, e si mise comodo, le mani incrociate sull’addome. Damiano si prese il suo tempo per sedersi. Odiava l’inverno perché il freddo gli entrava

nelle ossa e ogni movimento gli costava sempre più fatica e fastidio. Stava invecchiando troppo in fretta per la sua età, e non riusciva a smettere di chiedersi fino a quando avrebbe resistito. Sbuffò e si poggiò contro il bordo del tavolo per piegarsi. Una fitta all’addome gli causò un capogiro, e tirò un sospiro di sollievo quando sentì il suo culo secco schiacciarsi sulla seduta. Il cane sembrava comprendere la sua sofferenza. Gli andò vicino e gli strusciò il muso umido contro il dorso di una mano, prima di accucciarsi ai suoi piedi.«Va bene, dottore. Attendiamo il referto completo entro il pomeriggio.» La dottoressa

Malangone chiuse la chiamata e si voltò verso di lui. «Buongiorno, Valente. Grazie di essere venuto.»Damiano si asciugò l’occhio. «Ne abbiamo un altro?»Il procuratore annuì. Sembrava diversa, pensò lo Sciacallo. Diversa dalla prima volta che

l’aveva incontrata, quando lei era ancora un giovane magistrato venuto a Castellaccio con la determinazione giusta per catturare l’Uomo del salice. Adesso appariva stanca, nelle iridi c’era quella luce che lui conosceva bene e che aveva visto in molte altre persone prima di lei. La rassegnazione di chi ha imparato a conoscere la morte, a sentirne l’odore, a comprendere la molteplicità dei suoi volti. A leggere il disegno nascosto dietro il sangue senza però riuscire a fare nulla per fermarlo. O per prevenirlo.«Riccardo Gentile.» La Malangone gli passò un fascicolo.«È stato ritrovato nel parcheggio della Baia» intervenne De Vivo. «Stesse modalità. Gola

tagliata, un biglietto infilato nella ferita.»«Lui vede» disse Damiano.«Già, lui vede.»

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«Perché non mi sembrate sorpresi?» chiese lo Sciacallo.«Architetto, quarantacinque anni. Viveva con la madre che ne ha denunciato la scomparsa

quattro giorni fa. Il suo nominativo era in una lista della Postale» rispose il procuratore.«Un pedofilo, quindi.» «Sì, ma non è mai stato avviato qualcosa di concreto a suo carico.»«Questa mattina siamo stati a casa sua, nel quartiere Mercatello» aggiunse De Vivo,

grattandosi il mento con un dito. «C’era ancora il computer acceso, è uscito di casa in fretta e furia per andare a incontrare il suo assassino. Non si è preoccupato di cancellare la chat.»«Chat?» Damiano si agitò sulla sedia. Allungò la gamba cattiva, sentì i muscoli rattrappiti

che si contorcevano sotto la pelle.«Dottor Valente, la vittima ha parlato per quasi un’ora con il presunto assassino su un

comune social per incontri. Si sono conosciuti nel pomeriggio e si sono dati appuntamento alla fermata del bus davanti al Teatro Verdi.»«I miei ragazzi stanno controllando l’hard disk e tutta la roba che abbiamo trovato a casa

dell’architetto Gentile.» De Vivo incrociò il suo sguardo, gli occhi grigi cerchiati dalle rughe. «Non so se provare rabbia per la morte di una persona o simpatia per chi l’ha uccisa…»«Commissario» lo richiamò la Malangone, poi si voltò verso Damiano e disse: «C’erano

cassetti con doppi fondi, nella scrivania. Abbiamo trovato diverse chiavette USB che stiamo controllando, e le chiavi di un appartamento. La cosa peggiore era nascosta sotto una mattonella proprio al centro della stanza. Una busta di plastica con quasi un centinaio di polaroid. Una collezione.»«Non mi dica.» Damiano si massaggiò la cicatrice all’angolo della bocca e scosse il capo.«Le metteva in posa dopo averci fatto sesso.» De Vivo strinse un pugno al bracciolo della

sedia e le nocche pelose sbiancarono. «La macchinetta fotografica era nel cofano dell’auto. Aveva lo stesso piano delle volte precedenti, peccato che l’hanno ammazzato prima.»«Le istantanee sono datate» continuò la Malangone a voce bassa. «Gentile incontrava

ragazzine da almeno cinque anni. Sembrano tutte minorenni, alcune non avevano nemmeno il seno.»Lo Sciacallo spostò il bastone di lato, grattò il collo muscoloso di Jack, senza togliere gli

occhi di dosso al procuratore.«Avete fatto rintracciare l’indirizzo ip del computer con cui Gentile ha chattato?»

domandò.«Ci sta lavorando sopra la Postale» De Vivo aprì il parka, infilò una mano nella tasca

interna e prese una sigaretta. «Gentile ha ricevuto un paio di foto mentre si scambiavano messaggi. Lo stronzo continuava a chiederle, con insistenza. Ti devo far leggere quello che diceva: flirtava come un ragazzino innamorato. Comunque, gli allegati della conversazione erano gli unici documenti scaricati dalla rete e presenti sul computer. Aveva cancellato tutto il resto. Due foto, lei doveva avere quindici, forse diciassette anni. Capelli neri lunghi, pelle molto chiara.»«Le avete già controllate? Sono autentiche?»

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«Certo, come no. Si possono fare un sacco di cose con Google.» Il commissario sorrise. «Appartengono a una liceale di Monza. Io lo dico sempre a mia figlia che deve cancellarsi da quella merda di Facebook. Non c’è più privacy, si prendono le tue cose e ci fanno il cazzo che vogliono.»Damiano assorbì la notizia. «La vittima quindi è stata raggirata. Costretta con una

promessa a uscire di casa e incontrare chi l’ha uccisa. Strano che si sia fatto fregare con tanta facilità. Da quello che mi avete detto, deve essere un tipo molto prudente. Uno diffidente, che pianifica e controlla. Invece non ha nemmeno cancellato le tracce della conversazione, prima di andare all’appuntamento. Era certo di farlo dopo, una volta a casa.»«Tutto quello che dici è sacrosanto, ma se sei un malato arrapato come Gentile e vedi carne

fresca, ti va il sangue al cervello. Fidati, puoi pianificare quanto vuoi, ma forse una volta o due sbagli.» «Che idea si è fatto, Valente?» intervenne il procuratore.Niente, non ho pensato a niente. Lasciami in pace.Lo Sciacallo infilò una mano nella tasca dell’impermeabile e sentì le chiavi dell’auto. Contò

fino a dieci, guardò verso la porta. Immaginò l’ottone della maniglia contro le dita, il cigolio dei cardini non oliati, la luce debole nel corridoio. Sentì la punta del bastone che ticchettava sul pavimento, il rumore delle zampe di Jack che lo seguivano. Vide se stesso nell’auto, la lancetta dell’acceleratore, il lungomare di Salerno, piazza della Concordia. Vide casa sua. Lo studio, la libreria, l’odore di vecchio, gli occhi di suo padre. Il capo che penzolava, la faccia spappolata ma gli occhi ancora ben visibili. Occhi che guardavano nella sua direzione.Lui vede.Che significa?«Forse è stato il padre di una ragazza.» De Vivo prese la sigaretta tra le labbra. «Se

qualcuno molestasse una delle mie figlie, io gli farei male. Molto male.»«E Citarella, allora? Il bancario?» La Malangone sbuffò. «Lui non era un pedofilo. I genitori

hanno confermato che stava attraversando un periodo di stress. Il padre sapeva che il giovane aveva frequenti rapporti con prostitute. Ne era ossessionato e stava cercando di smettere. Doveva vedersi con un terapista la settimana scorsa per provare a risolvere il problema.»«Ne siamo certi? Magari i Citarella non conoscono tutto della vita del figlio…»«No, il procuratore ha ragione.» A Damiano era bastato qualche istante per mettere ordine

nei propri pensieri. «Citarella non era un pedofilo, però aveva un problema. Un problema con le donne, ed è questa la chiave di lettura. Le donne. È probabile che Citarella sia stato il primo, non possiamo dirlo. Magari l’assassino voleva uccidere e ha trovato la vittima per caso. Un esperimento sulla strada.» Tamburellò con le dita sul fascicolo dell’omicidio Gentile. «Con l’architetto è subentrata la premeditazione. Il concretizzarsi di un progetto che, per quanto ne sappiamo, forse è appena iniziato.»De Vivo si voltò verso di lui. «In che senso?»

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Lo Sciacallo fece un ghigno. Non c’entravano i libri e nemmeno gli articoli sulle riviste che avrebbe potuto scrivere per tirare su qualche soldo. La questione era un’altra. Se lo sentiva scorrere sotto la pelle, nelle vene. Sangue mischiato ad altro sangue. Non poteva starne fuori, era più forte di lui. Viveva per quel genere di cose. I ricordi poi lo assillavano. Le cose che pensava d’aver sepolto per sempre trovavano il modo per ritornare alla luce.Lui vede.Damiano si toccò la gamba: non gli faceva più male.«Complimenti, signori. Abbiamo un assassino seriale.»

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20

LUGLIO, 1950

«Ti ha mandato lui da me?»L’uomo si avvicinò all’acqua e l’erba frusciò, schiacciata dai piedi nudi. Una mano tremò

nell’aria, le dita si allungarono, sottili come zampe di ragno. Tommaso fece un passo indietro, i talloni che grattavano sopra i sassi del fondale. Elvira

era da qualche parte alle sue spalle, sulla riva. Le sue urla erano diventate un pianto e in mezzo alle lacrime, ai suoni che rimbalzavano contro le pietre del mulino, una voce. «Sei venuto a cercarmi?» proseguì quell’individuo, la schiena ricurva e i capelli incrostati

dal fango. Indossava una giacca di lana di un vecchio abito sopra il torso nudo. La fodera vomitata dagli strappi nel tessuto, i pantaloni bucati sulle ginocchia e legati in vita da una corda. Il petto rigato dal sudore e dalla sporcizia. Il ragazzo tirò su con il naso. Riconobbe l’odore che impregnava l’aria, la puzza di marcio

nelle narici. Trattenne un conato di vomito.«Goffredo?» chiese. Lottò per non perdere l’equilibrio, contrasse l’addome e arrancò verso la riva. «Goffredo?

Sei tu?»L’uomo sbatté le palpebre. Una lacrima gli scivolò lungo lo zigomo e sparì tra i fili grigi

della barba. Piegò il capo di lato, annuì in fretta.«Non dirgli che mi hai visto» supplicò gettandosi in ginocchio in mezzo ai cespugli. «Se lo

sa mi viene a cercare, e io non voglio essere preso.»«Chi è?» chiese Elvira.Tommaso si voltò. L’amica era sconvolta, il vestito sporco di fango, le guance rosse.«Tranquilla, lo conosco. È inoffensivo.» Il ragazzo rivolse il palmo di una mano verso

Elvira, poi riportò l’attenzione sull’uomo. Il battito del cuore gli rimbombava nella testa, aveva un nodo in gola, faceva fatica a respirare.«Ma che dici, Goffredo? Non mi ha mandato nessuno… Chi è che ti deve prendere?»«Shhh, non dire il mio nome. Ti prego, Lui ci sente!»«Chi ci sente?»L’uomo sbracciò verso il bosco, alla destra del mulino. Puntò le dita in direzione di

Castellaccio, verso le montagne.«È venuto giù. Io l’ho visto, e pure tu. Lui è sceso per prenderseli tutti.»Tommaso uscì con cautela dall’acqua, mise un piede sulla riva. I pantaloni incollati alle

cosce. Non sapeva perché stesse prestando ascolto ai vaneggiamenti del vecchio. Goffredo era pazzo, lo dicevano tutti in paese. Era caduto dalle braccia della mamma mentre lo allattava. Dicevano anche questo, di lui. Se lo vedevano in giro, i ragazzi lo prendevano a

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sassate. Per Teresa però il vecchio non era cattivo, e nemmeno pazzo. Viveva da solo sulle montagne insieme a una capra e un paio di galline. Aveva avuto una moglie una volta, e anche un figlio. Una famiglia di cui prendersi cura. Un giorno però, tornato dalla montagna, li aveva trovati morti. Si era tenuto i corpi in casa per mesi, fino a quando la puzza non era arrivata fino a Castellaccio. Nessuno sapeva cosa fosse accaduto alla famiglia di Goffredo, o forse chi ne era a conoscenza preferiva tenerlo per sé. Era più facile dare del pazzo a qualcuno, che provare a capirlo.Tommaso poggiò con delicatezza una mano sulla spalla dell’uomo. Sentì la consistenza

delle ossa sotto il tessuto della giacca.«Me lo racconti bene? Ci stai spaventando.»Goffredo si bloccò, smise di parlare. Gli occhi inchiodati ai suoi. Il ragazzo provò a sorridere, cercò di sembrare più rilassato e calmo che poteva, poi il

vecchio iniziò a tremare come un albero solitario scosso dal vento. Goffredo spinse via la sua mano con uno schiaffo. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma dalle labbra spaccate non uscì altro che un lamento basso. Il verso di una bestia impaurita. Fece un passo indietro, inciampò, strisciò in mezzo all’erba.«Andiamo via!» disse Elvira. «Ho paura, voglio tornare a casa.»Tommaso però non si mosse. Era sconvolto, aveva visto qualcosa negli occhi del vecchio.

Qualcosa che lo spaventava a morte. «No, no, no…» Goffredo si rimise in piedi, la testa schiacciata in mezzo alle mani. Scosse il

capo. «No, no, no…» Poi si mise a correre. Lontano da lui, lontano da Elvira, lontano dal mulino. Corse via, senza voltarsi indietro.

* * *

«Sei sicura di quello che hai visto?» Il maresciallo Pironti si era già fatto ripetere la storia da Elvira almeno cinque volte. La ragazzina annuiva convinta, aggiungendo ogni volta un piccolo dettaglio al racconto. Masto Guizzardo era vicino alla nipote, un braccio poggiato sulla sua spalla.A Tommaso non avevano fatto tutte quelle domande. Dopo che Goffredo era sparito in

mezzo agli alberi, lui e l’amica erano scappati a casa del nonno. Gli avevano detto cosa era accaduto e lui li aveva accompagnati alla caserma dei carabinieri. Era la prima volta che il ragazzo metteva piede dentro la caserma. Sulla facciata dell’edificio c’erano ancora i segni dei proiettili. I tedeschi avevano fucilato lì due partigiani di Paestum. Il maresciallo l’aveva fatto entrare nel suo ufficio e gli aveva fatto raccontare quello che era accaduto.«Va bene, Tommaso. Sei stato bravo, adesso va’ a sederti fuori.»Aveva seguito il consiglio di Mimì.Quando parli con le guardie, meno cose dici e meglio è.«Masto Guizzardo, voi che sapete di questo Goffredo?» Tommaso tese l’orecchio per

ascoltare le voci nella stanza del maresciallo. Un carabiniere seduto alla scrivania di fronte a lui alzò gli occhi da foglio e penna e lo guardò con aria di rimprovero.

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«È un povero cristo, non capisco perché si nascondesse al mulino. La testa non gli funziona bene.»«Potrebbe aver fatto male a qualcuno e aver paura di essere preso.»Tommaso pensò a quello che aveva appena detto il maresciallo.Se lui lo sa mi viene a cercare, e io non voglio essere preso.Era quello che gli aveva detto Goffredo. Elvira l’aveva sentito e raccontato. Forse il vecchio

temeva proprio questo, che loro svelassero il suo nascondiglio a Pironti. Magari aveva fatto qualcosa di sbagliato e aveva paura di essere catturato e sbattuto in carcere.Io l’ho visto, e pure tu.«Non lo so, dite che ne sarebbe capace?» chiese Guizzardo.«Tutto è possibile» rispose il maresciallo. «Non dimentichiamoci che hanno ammazzato

una povera creatura. Io ho un figlio piccolo, e lo voglio prendere, chi ha fatto una cosa del genere.»«Avete ragione» affermò Guizzardo.Tommaso poggiò la testa contro il muro e chiuse gli occhi. Era fuori, all’aperto. Sotto il

cielo rosso del tramonto, inginocchiato in mezzo a massi e tronchi morti. Sulla riva del fiume. L’acqua era torbida, un fiume di sangue che attraversava il bosco. Anche Nunzio era lì. Il corpo gonfio, impigliato in mezzo ai rami e alle radici sporgenti di un albero morto.Morto.Il bosco era morto. C’era un odore strano nell’aria. Un tanfo di marcio, di carne andata a

male. Tommaso strisciò fino a Nunzio. L’odore non veniva solo da lì. Era ovunque. Si guardò intorno, impugnò un sasso e lo brandì come un’arma. Sapeva di non essere solo. Guardò prima da un lato, poi dall’altro. Il sole stava iniziando a calare dietro la punta degli alberi. La luce si fece più debole. Lui non si mosse, e nemmeno la cosa che lo stava osservando. Avvertiva il peso di uno sguardo. Due occhi famelici che scavavano nella sua carne come i denti sul corpo di Nunzio. E poi l’odore, insopportabile.Odore.Tommaso si annusò la punta delle dita. Era la mano con cui aveva toccato la spalla di

Goffredo. L’aveva sentito già al mulino quel tanfo, quando il vecchio era sbucato da dietro le rovine, e adesso lo seguiva come una scia.«Oh madonna…» sussurrò. I pensieri cominciarono a scorrergli nella testa, troppo in fretta

perché lui riuscisse ad afferrarli.«Masto Guizzardo, permettetemi di dirvi una cosa.» La voce del maresciallo Pironti

echeggiò nella stanza. «Conosco vostro figlio, abbiamo prestato servizio insieme. È un bravo carabiniere, e lo rispetto. Da quello che mi dite vostra nipote starà ancora un po’ qui da noi, giusto? Tenetela al sicuro, allora.»«È quello che faccio, marescia’.»«Lo so, lo so. Però quel ragazzo…»Tommaso avvertì un nodo alla gola.

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«Non fraintendetemi. Il ragazzo non mi sembra male, ma la famiglia non è buona. Il padre è uno che porta guai. Li conosco fin troppo bene, i cristiani come lui. Prima o poi scoppiano. Fate attenzione a Elvira, solo questo volevo dirvi.»

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21

OGGI

Flavio fece le scale di corsa. Entrò nella sala comune e si guardò intorno. I giorni a La Quiete sembravano scorrere tutti allo stesso modo. Al centro della camera, alcune pazienti stavano facendo un gioco sotto lo sguardo attento del volontario, un ragazzo pelle e ossa dal sorriso facile.«A chi tocca tirare i dadi?»«No, Principessa Margot, è appena stato il tuo turno, ora tocca a lei. Che nome hai scelto?

Fa’ vedere a tutti il cavaliere.»Nomi immaginari scritti con un pennarello colorato su cavalieri di carta.Il ragazzo gli sorrise, la pelle bianca come un sudario, e lui lo ignorò. La signora Rita lo

aspettava vicino alle finestre.«È successo davvero?» le chiese, prendendola per un braccio. Era così agitato che non si

rese conto di stringere troppo. La donna non fece nulla per liberarsi dalla presa. Si ravviò una ciocca di capelli con una mano e fece un cenno d’assenso con la testa.«Dotto’, ve lo giuro sui miei figli. Per piacere, sedetevi. Dovete sentirlo con le vostre

orecchie.»Flavio afferrò una sedia e la trascinò fino a Roberta. Lo sguardo della ragazza era perso nel

vuoto, oltre la grata e i vetri, sulla patina di ghiaccio che ricopriva il cortile della clinica.«Guardate, lo sta facendo… lo sta facendo ancora!» L’infermiera gli toccò una spalla e lui le

fece segno di restare in silenzio.La paziente aveva mosso le labbra. Un movimento appena percettibile della fossetta sul

mento.Flavio sbatté le palpebre. Non riusciva a crederci. La ragazza stava comunicando. Dopo

settimane di lavoro, questo segnale giungeva comunque inaspettato. Doveva essere accaduto qualcosa, un evento che aveva schiacciato un interruttore nella testa della giovane. La parte di lei che si era rifugiata in una dimensione di vuoto e di silenzio dimostrava di essere ancora viva.«Che ha detto?» chiese l’infermiera.La voce di Roberta era un sussurro; un soffio debole di vento attraverso una finestra

socchiusa. Parole senza suono.Flavio si sporse in avanti, si avvicinò fin quasi a toccarla. Seguì il movimento delle labbra

con attenzione, appeso a un filo. Temeva che quello sforzo fosse solo passeggero. Un impulso della coscienza, che potesse sparire così come era arrivato.Avanti Roberta, puoi farcela.«L-u-i…»

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Lui? Ha detto lui?Era come se le corde vocali della ragazza si stessero sciogliendo.«…v-e-d-e.»Lui vede.«Lui… vede…»«Dottore, che sta dicendo?» Rita non mollò la presa.Flavio soffiò l’aria fuori dalle narici. Incrociò lo sguardo dell’infermiera. «Ho bisogno di un

favore.»

SALERNO, 1992

Flavio fissava le ombre che strisciavano sul soffitto. Si era alzato dal letto solo per andare in bagno e mangiare qualcosa. Sul pavimento, ai piedi del comodino, c’era un vassoio con una cena che non aveva sfiorato. Era a pezzi, la pelle impregnata dall’odore di letto e di malattia. Le ossa spezzate, lo stomaco accartocciato come pagine strappate da un libro. Voleva alzarsi, reagire, ma non ne aveva la forza e questo lo faceva stare ancora più male. Uno come lui doveva essere abituato, si ripeteva. La morte era entrata e uscita dalla sua vita così tante volte che avrebbe quasi potuto farci amicizia. Aveva bisogno di parlare, di raccontare a qualcuno quello che provava. Forse avrebbe dovuto chiamare a casa di Damiano, chiedere alla madre il suo indirizzo. Gli avrebbe mandato una lettera, perché certe cose è più facile scriverle che dirsele a voce. Lui avrebbe capito, perché anche se non si vedevano da anni erano parte della stessa cosa. Oltre la porta, i genitori adottivi si muovevano come gatti, i passi leggeri e le voci basse. Pianti attutiti dalle pareti. Con Mattia avevano perso un secondo figlio. I poster dei Duran Duran, dei Queen e di altri musicisti appesi alle pareti della sua camera erano il ricordo dell’altro lutto che aveva colpito quella casa. Un alone di sofferenza si depositava intorno ai mobili, alle cose e alle persone. Un dolore che nemmeno l’illusione di una nuova vita poteva lenire.Flavio girò il capo di scatto. Sbatté le palpebre, tastando il comodino alla ricerca

dell’interruttore per accendere il lume.Don Mimì era in piedi vicino alla scrivania, e sfogliava i suoi appunti di Istologia per

l’esame che non avrebbe più dato.«E quindi mo’ pensi che la risposta sta qua dentro?» disse il vecchio, picchiettando con un

dito sui fogli. «Sparisci.» Flavio si mise a sedere, i piedi nudi sul pavimento.«Tutti ‘sti libri non ti impareranno mai a campare. Quante volte te lo devo dire?»«Diventerò un medico.» Il ragazzo sostenne lo sguardo del nonno. «Aiuterò le persone.»«E a Mattia?» Don Mimì prese un sacchetto di tabacco infilato nella tasca posteriore dei

jeans e si rollò una sigaretta. L’accese con un fiammifero e fece un tiro. «Aiuterai le persone come hai fatto con Mattia? Fratelli di sangue, vero?»Flavio girò piano la mano, guardò la cicatrice che gli segnava il palmo.Fratelli di sangue.

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«Tuo fratello si butta sotto un treno e tu vieni a marcire in questo cesso.» Il vecchio indicò la stanza con un cenno del capo.«Lui era depresso… io non potevo fare…»«Uh, ma statt’ zitt’ per piacere.» Mimì gli apparve davanti, seduto sui talloni. «Lo so che

cosa stai pensando, solo che non vuoi dirlo. Ti credi che non ti conosco? Io e te siamo uguali.»Flavio sostenne lo sguardo del nonno, e in quegli occhi azzurri come schegge di vetro vide

se stesso.Don Mimì scoprì i denti gialli in una smorfia ferale, e gli sfiorò la testa con le dita.«Lo sai che devi fare adesso?»Il ragazzo annuì, come se fosse in preda a un tic. Mosse il capo avanti e indietro in modo

frenetico. Avvertiva un formicolio alla base della nuca, un torpore improvviso su un lato della faccia. Si accarezzò la cicatriceLo sapeva. Lo sapeva più di ogni altra cosa.

OGGI

Flavio parcheggiò l’auto sotto casa di De Nicola. Aveva provato a telefonargli più volte durante il tragitto da La Quiete al residence, ma il cellulare risultava staccato. Chiuse la portiera, attraversò la strada e si avvicinò al citofono. Il dottore viveva tra Capaccio e Paestum, al secondo piano di uno stabile vicino al mare. Uno di quei posti che d’inverno restavano vuoti e in estate ospitavano villeggianti. Le tapparelle dei vari appartamenti erano tutte serrate, fatta eccezione per una. La casa di un uomo solo. De Nicola si era lamentato. Sperava in un trasferimento. I figli vivevano a Napoli con la ex moglie, costringendolo nel ruolo di un padre a cui toccavano solo due fine settimana al mese e le vacanze alternate.Fece scorrere un dito sulle targhette bianche dei cognomi. Schiacciò il pulsante.Nessuna risposta. Flavio tornò indietro, mise una mano nella tasca e prese la chiave dell’auto. Stava per

aprire e tornare in clinica quando si voltò. Era appena l’una e, nonostante il vento freddo che penetrava fin nelle ossa, il sole era alto in cielo e batteva sulla facciata dell’edificio. Abbastanza per far luce dentro casa.Osservò il secondo piano. Un lampadario in casa di De Nicola era acceso. Poteva scorgere il

debole bagliore arancione contro le tende.Ritornò sui suoi passi. Guardò prima da un lato e poi dall’altro, verso i balconi del vicinato.

Non c’era nessuno in giro. Mise le mani sul cancello, un piede sul muretto, e lo scavalcò atterrando dall’altro lato con un balzo. La serratura del portone era rotta. Mancava il cardine che permetteva la chiusura dei battenti. Spinse con un gomito ed entrò. Salì le scale senza fretta, il silenzio rotto dal rumore dei suoi passi. Sulla porta del dottor De Nicola non c’era la targhetta con il nome. Flavio accostò il viso alla porta, tese l’orecchio. Era socchiusa.

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Sospinse il battente con la punta di una scarpa e un prisma di luce si allargò sul pavimento. Scorse i piedi di un appendiabiti ricoperto di giacche, un ombrello, un paio di Nike gettate in terra alla rinfusa. Attese sulla soglia per un tempo che gli parve infinito, prima di entrare. Il silenzio faceva parte della casa come le mura, i mobili, gli odori imprigionati dietro i vetri delle finestre chiuse. Trovò il telefono del collega sul tavolo della camera da pranzo, vicino al piatto con gli avanzi della cena e una mela marcia tagliata a metà. Una sedia era stata rovesciata, la spalliera puntata verso un piccolo corridoio. Lui si sporse di lato, fece un passo in avanti.De Nicola era in camera da letto.La faccia di profilo, sprofondata in una chiazza di sangue, gli occhi spalancati, le mani

legate dietro la schiena. Era disteso su un fianco, le gambe piegate all’indietro. Un buco al centro della fronte. Flavio fissò il cadavere, senza muoversi. Poi prese il telefono, compose il 113 ma non schiacciò il pulsante di chiamata. Doveva andare via da quel posto. Subito. Tornò indietro, uscì di casa senza chiudere la porta. Scese le scale, scavalcò il cancello ed

entrò in macchina. Infilò la chiave nel quadro ma non mise in moto. Sferrò un pugno sul volante e rimase a guardare la strada vuota oltre il parabrezza. La mano pulsava. Il dolore era un richiamo, lo faceva sentire vivo. De Nicola aveva aperto alla persona che gli aveva sparato. Non c’erano segni di scasso.

Aveva aperto e l’aveva fatta accomodare. Il collega aveva detto d’avere una gamba rotta, di essersi fatto male mentre giocava a calcio, però non portava alcuna fasciatura. Forse sarebbe dovuto andare in clinica, chiedere a qualcuno se avesse accompagnato il dottore al pronto soccorso, dopo la partita. Guardò nello specchietto retrovisore la finestra di De Nicola. Avevano ucciso un uomo in quella casa, un uomo che conosceva. Un padre, un medico affermato. Avevano ucciso un uomo, e a lui non importava.Mise in moto e si allontanò piano. Le ruote della sua Zafira accarezzavano l’asfalto. Forse

l’avevano visto entrare in casa, forse potevano pensare che fosse stato lui. Se la polizia fosse venuta a cercarlo, gli avrebbe fatto perdere tempo. Troppe domande non sono mai una cosa buona.La voce di Mimì gli riecheggiò nella testa. Era dall’ultima volta che era andato a caccia, che

non gli parlava. Faceva così, il vecchio. Restava in silenzio per tutto il tempo e aspettava che lui trovasse la persona giusta. Era stato semplice. Con il suo lavoro Flavio vedeva merda tutti giorni, lui più di chiunque altro. I bambini gli raccontavano quello che voleva sapere. Non sempre con le parole. I disegni, per esempio: gli bastava guardarli per capire quello che stava succedendo. Al resto pensava Mimì. I segni che si portava sul corpo erano opera sua. Era stato il vecchio a insegnargli cosa fare. Torna in clinica e sposta la ragazza. È lei il problema, la devi proteggere.Flavio staccò una mano dal volante e si grattò una tempia. Aveva chiesto alla signora Rita

di non perdere mai di vista Roberta.«Lo so» sussurrò al sedile vuoto del passeggero. Gli tremavano le labbra. «Non ripetermi

quello che devo fare.»

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Giunse a un incrocio e imboccò la statale. Costeggiò la pineta fino ai templi di Paestum. Si sforzava di pensare, ma non era lucido. Prese il telefono per chiamare Damiano ma cambiò idea e lo scagliò sul sedile di dietro. Perché eliminare De Nicola? Il dottore conosceva la verità sulla paziente 68. Pensò a quello che gli aveva spiegato Agostino. L’accettazione falsificata. Che motivo c’era di non salvare i dati di ricovero nel database? Pensò a questa e a migliaia di altre cose. Guardò lo specchietto retrovisore e solo allora si accorse dell’auto che lo stava seguendo.

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22

LUGLIO, 1950

Rosso. Tommaso vedeva solo rosso. Rosso come gli schizzi sui sassi. Rosso come il cielo sopra la punta degli alberi. Rosso come

il colore del sangue. Avanzò a fatica, un passo dopo l’altro. Il mondo intorno sembrava immobile, tutto era rallentato. Il respiro, il battito del cuore, lo scorrere dell’acqua, le foglie scosse dalla brezza che portava con sé l’odore della carne. Barcollò, andò a sbattere contro un tronco. La resina che si attaccava alla pelle. Si trovava

nel bosco, ma non ne capiva il motivo. Era stanco, voleva tornare a casa. La strada era da qualche parte alle sue spalle, sempre più lontana, eppure non riusciva a voltarsi. Doveva girarsi e tornare indietro, ma non ce la faceva. Il rumore guidava i suoi passi. Non il mormorio del fiume, quello lo conosceva bene.Era un suono diverso. Un fruscio. Qualcosa che sentiva solo nella testa, assordante. Due

pietre che strusciavano tra loro. Si portò le mani alle orecchie.Smettila, ti prego. Fa troppo male.Si piegò in avanti. Anche il vomito era rosso. Caldo e rosso, come il sangue.Poi il suono mutò. Divenne un pianto, il lamento angosciato di un bambino. Tommaso

affondò le unghie nel tronco, cercando la forza per rimettersi in piedi. Nunzio. Adesso comprendeva il motivo. Lui era l’unico che potesse salvarlo. Non Mimì e nemmeno il maresciallo Pironti. Solo lui.Ringhiò e fece un passo in avanti. L’aria pesante contro la faccia sembrava la tela di un

ragno che provasse a trattenerlo.Più veloce. Devo camminare più veloce.Sferrò un pugno nel vuoto. Voleva sfondarla quella ragnatela, aprirsi un varco nel nulla. Lui

era forte, poteva riuscirci nonostante quello che diceva suo padre. Don Rosario non l’aveva mai capito, non aveva nemmeno provato a farlo. Tommaso afferrò i rami che gli ostruivano il passaggio e li spezzò. Erano ricoperti di spine, che gli bucavano la pelle. Il dolore però era lontano, come la strada verso casa. Il pianto si fece più forte. Era diverso. La voce del bambino era cambiata, si era fatta più

cupa. Non era un bambino, ma un adulto. Lacrime di dolore. Un uomo che si portava addosso una colpa, qualcosa di orribile. Tommaso adesso lo vedeva. La schiena ricurva e nuda, le vertebre come pietre scheggiate sotto la pelle grigia. Era rannicchiato sulla sponda del fiume. Le braccia lunghe e ricoperte da fasci di muscoli che si accavallavano a ogni piccolo movimento.Chi sei?

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Le spalle si alzavano e abbassavano, scosse dal pianto. Il fiume aveva smesso di scorrere, era diventato piatto. Un lago di ghiaccio in piena estate. Ghiaccio nero. Anche gli alberi erano neri, spogli. I tronchi contorti, simili a scheletri dissotterrati.«Dammi il bambino» ordinò Tommaso. «Sono venuto a riportarlo a casa.»L’uomo smise di piangere, le spalle si immobilizzarono. Si voltò piano. Teneva qualcosa tra

le mani, le dita lunghe e ricurve. Qualcosa stretto nella morsa dei suoi artigli. Il ragazzo vide delle gambette penzolare nel vuoto. Piedi piccoli e innocenti.«Cosa gli hai fatto?» Era sconvolto, adesso sarebbe voluto tornare indietro ma mani

invisibili lo tenevano fermo e lo costringevano a guardare. Il senso di colpa. Era arrivato troppo tardi.L’uomo incrociò il suo sguardo. Tommaso vide qualcosa nei suoi occhi che gli fece paura. Si

sentì debole, inutile. Voleva solo tornare a casa, la gola soffocata dai singhiozzi.Lacrime rosse sulla faccia.

* * *

Tommaso si svegliò urlando, madido di sudore. Sbatté le palpebre, mise a fuoco gli sportelli storti del suo armadio. Il sole irrompeva nella stanza dalla finestra aperta. Si prese la faccia tra le mani, cercò di calmare il respiro. Si sentiva come se l’avessero preso e buttato sotto le ruote di un trattore. Mise i piedi sul pavimento e si alzò. Tastò i muscoli delle cosce, quasi per accertarsi che potessero reggere il peso del corpo. Prese i pantaloncini che aveva abbandonato su una sedia, calzò i sandali e scese al piano di sotto. Voleva andare a lavarsi, provare a togliersi di dosso la sensazione di malessere che gli aveva lasciato l’incubo. Forse Mimì aveva già saputo di Goffredo e di quanto era accaduto al mulino, ma voleva correre a casa sua per avvisarlo. Era possibile che il maresciallo Pironti non si sbagliasse, a proposito di quell’uomo. Era un tizio strano, un mezzo eremita che si nascondeva in montagna. Magari aveva ucciso lui Nunzio, così come aveva assassinato la moglie e il figlio. Sbuffò. Se le cose stavano davvero così, era lui il mostro che aveva visto al fiume. Erano suoi gli occhi che ardevano nelle ombre della boscaglia.Passò davanti alla cucina, puntando dritto verso la porta di casa. Aveva lo stomaco chiuso e

nessuna voglia di fare colazione. Afferrò la maniglia ma si bloccò. Dove era Teresa? A pensarci bene, la casa era troppo silenziosa. Nessun rumore di pentole, o di passi. Nessuna traccia di suo padre, e delle sue imprecazioni. Solo il silenzio.Tornò indietro, vide del pane tagliato a fette e un bicchiere di latte lasciato a metà sul

tavolo. Un piatto rotto, i cocci sparsi sul pavimento.«Teresa?» chiamò.Silenzio.I cuscini del divano erano schiacciati. Se guardava bene, gli sembrava di notare la forma

del corpo di Don Rosario stampata sulla fodera. Su un tavolino basso, una bottiglia vuota e dei fogli. Buste aperte. Lettere.Il ragazzo ne prese una in mano, lesse il mittente e il respiro gli morì in gola.Mimì.

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La lettera era indirizzata a Teresa. Erano tutte indirizzate a Teresa, decine.Si sedette sui talloni, la schiena curva e una lettera tra le mani. La calligrafia di Mimì era

semplice, il tratto incerto come quello di un bambino. Ieri mattina mi sono svegliato con un brutto pensiero in testa. Avevo sognato di non vederti

più, che eri di un altro. Tommaso mi ha raccontato di quel pecoraio di Giungano e ancora non lo so perché non sono andato a casa sua e non l’ho ucciso. Volevo farlo, ma poi sono uscito a piedi quando ancora non c’era il sole. Ho camminato fino a casa tua e mi sono nascosto in mezzo agli alberi ad aspettare che uscissi per andare a bollire le bottiglie. Io lo so che tu mi hai visto, me ne sono accorto e non provo vergogna. Solo un vile proverebbe paura dei propri sentimenti. Io non ho paura di niente, nemmeno dell’amore.Tommaso posò la lettera sul tavolo. Il modo in cui l’amico si rivolgeva alla sorella era così

intimo che leggere di nascosto quelle parole sarebbe equivalso a rubare. Non sapeva che i due si scrivessero, né che l’amico venisse a spiare Teresa all’alba. Era splendido. L’amore della sorella era corrisposto. Si morse il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. Che cosa ci facevano quelle lettere in mano a Don Rosario?Lui non sa leggere.Scattò in piedi, lo stomaco rattrappito da un presentimento. Aveva dormito così tanto,

schiavo dell’incubo, che non aveva sentito i rumori al piano di sotto. Forse il padre aveva trovato le lettere nascoste da Teresa. Era ubriaco e l’aveva obbligata a leggergliele tutte.«Madonna del Carmine.» Corse fuori. Il carro di Don Rosario non era in cortile. Dove erano

andati? Le parole del maresciallo a Masto Guizzardo gli risuonarono nella testa.Il padre è uno che porta guai.Se non otteneva quello che voleva, poteva diventare pericoloso. Non avrebbe picchiato

Teresa, lei era promessa a De Luccia e non voleva farla arrivare all’altare ricoperta di lividi, però era un uomo imprevedibile.Tommaso tornò indietro, chiuse la porta di casa e puntò dritto verso la strada. All’inizio

camminava a passo svelto, la falcata ampia. Poi iniziò a correre, sollevando una nuvola di polvere dietro i talloni. Corse oltre i boschi, fino a quando non arrivò a casa di Mimì. Era esausto. Incespicò su un gradino e finì con la faccia sul battente. Si riprese, bussò alla porta.«Mimì!» disse ad alta voce. La moto non era parcheggiata al suo posto, sotto la tettoia per

la legna. Si avvicinò a una finestra, le mani premute contro il vetro come uno di quei binocoli che avevano i soldati americani. Non c’era nessuno.E adesso che faccio?Poteva andare al paese, dai carabinieri. Denunciare Don Rosario al maresciallo. E con

quale accusa? Cosa avrebbe risolto? Aveva raccontato alle guardie di Goffredo, gli aveva riportato il corpo senza vita del piccolo Nunzio, e loro cosa avevano fatto? Niente. E poi non era sicuro che Teresa fosse con il padre. Magari la sorella era scappata. Forse Mimì era in mezzo agli alberi, vicino alle stalle, ed erano fuggiti via insieme. Sorrise. Non era male come idea. Si sedette su uno scalino, le spalle premute contro la porta, e distese le gambe in avanti. Il sole gli batteva sulle cosce. Chiuse le palpebre. Un po’ di riposo non gli avrebbe

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fatto male, soprattutto dopo la nottata che aveva passato. Guardò verso i campi incolti e la linea degli alberi. Il mostro era ancora lì fuori.Si sforzò di pensare. Il sogno era un segnale. Quello che aveva visto sembrava reale, doveva

per forza avere un senso. All’improvviso gli venne in mente il giorno in cui era andato con Mimì al fiume. Avevano trovato il sasso con cui l’assassino aveva colpito Nunzio alla testa. Poi era arrivato il Barone.Gioia gli aveva detto che poteva andare da lui, se avesse sentito il bisogno di parlare.Era un medico dei pazzi, adesso lo sapeva. Però lui non era pazzo, aveva solo trovato il

corpo di un bambino sbranato. Credeva d’aver visto l’assassino, almeno nei suoi sogni. Se c’era una persona che poteva aiutarlo, quella era il Barone. Si rimise in piedi e riprese a camminare.Non voleva andarci da solo, da Gioia. Si sentiva stupido, ma non gli era piaciuto il modo in

cui quell’uomo lo aveva fissato, con occhi che sembravano in grado di fare un buco in testa alle persone, e fregargli l’anima. Imboccò un sentiero in mezzo agli alberi e puntò dritto verso il fiume. Il Barone viveva in quella casa enorme, che solo a guardarla dall’alto faceva paura. Una chiazza nera in mezzo al bosco. Si strinse nelle spalle. Se si fosse presentato ai cancelli del Barone in compagnia, avrebbe

corso meno rischi.Sicuro, ma in compagnia di chi?Quanto avrebbe voluto avere una persona con cui condividere avventure come quelle.

Mimì era troppo grande per essere suo amico, e gli altri ragazzi del paese lo schifavano. Dicevano che era troppo stupido, un pezzente che puzzava di letame, e ci mancava poco che lo prendessero a sassate come facevano con Goffredo. Sorrise. Una persona forse c’era. Il maresciallo Pironti aveva detto a Masto Guizzardo di tenere Elvira lontana da lui, e questo l’aveva mortificato. Lei era la cosa più vicina a un’amica che avesse mai avuto, oltre che l’unica femmina con meno di venti anni con cui avesse mai parlato, oltre a Teresa. Gli piaceva, e pure molto, ma sentiva che il suo interesse non era ricambiato. Una ragazza di Roma e il lattaio di Castellaccio. No, non avrebbe mai funzionato: però potevano essere amici. Ottimi amici. Aveva deciso. Sarebbe andato di nascosto da lei e le avrebbe chiesto di accompagnarlo. Si trattava solo di una visita di cortesia, non sarebbero stati via a lungo.

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23

OGGI

Uccidere, per la prima volta. Piantare una lama nella carne, squarciare la gola e restare fermo a osservare l’anima che

scivolava fuori dal corpo della vittima, tra gli schizzi di sangue e un ultimo respiro. Sostenere lo sguardo della Morte, e un’ultima supplica. Doveva essere andata così, era scritto negli occhi di Citarella. Ricordi prigionieri nelle iridi.Damiano si passò la lingua sul palato, nello spazio tra i denti strappati via dall’asfalto tanti

anni prima, e sistemò lo specchietto retrovisore. L’auto di De Vivo gli andava dietro. Forse portare lui e la Malangone a Castellaccio non era stata una buona idea. Due persone sgozzate, i corpi abbandonati nelle auto e una firma lasciata nel sangue. Lui vede. Damiano si era chiesto quale ragione lo legasse a quei morti. Ci aveva pensato e ripensato fino a procurarsi un’emicrania. Stava invecchiando, il suo corpo sembrava disfarsi ogni giorno di più, ma il cervello gli funzionava ancora bene. Da ragazzino era stata la sua unica arma, insieme alla corsa. Avvertì una fitta alla gamba, nell’osso tranciato dal paraurti. Guardò oltre il parabrezza schizzato dal fango e dalla pioggia, verso il profilo della casa in

mezzo ai campi. La casa di Giulio Fabiani, l’Uomo del salice. Percorrere quella strada gli causava dolore. Aveva la sensazione di tornare indietro. Un

ragazzino che si allenava per la campestre. Il vento caldo di agosto sulla faccia, il rumore dei passi, il cigolio delle biciclette degli amici che gli gridavano di andare più forte, di non fermarsi. Damiano però si era fermato. Era stato costretto a farlo. Al posto degli alberi e della distesa d’erba ai lati della strada adesso c’erano terra dura e rami morti. Quante volte era passato davanti a quella tenuta? Tante. Troppe perché riuscisse a contarle, eppure non si era mai chiesto cosa stesse accadendo all’interno. Non aveva mai immaginato quello che si poteva nascondere dietro le mura decrepite.Rallentò e imboccò una stradina sterrata. Non c’era un cancello a proteggere la proprietà.

Nel cortile, il furgoncino di Stefano con il nome della sua ditta sulle fiancate.L’amico era seduto sui gradini, una tuta da lavoro sporca di calce e la sigaretta tra le

labbra. Aspettò che lui fermasse l’auto e gli andò incontro, il sorriso sulla faccia tirata e le basette striate di grigio. Damiano aprì la portiera del passeggero dall’interno e Jack saltò fuori. Si fermò a grattarsi un orecchio.Stefano si bloccò e indicò il cane. «Che ci fa questa bestia con te?»Lo Sciacallo sbuffò e si aggrappò al tettuccio per scendere dall’auto.«Abbiamo fatto amicizia.»L’uomo annuì, guardò la macchina del commissario.

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«Buongiorno.» La Malangone era già scesa, i tacchi che scricchiolavano sul pietrisco. Tese una mano verso Stefano che ricambiò la stretta. «Mi ricordo di lei.»«Anche io di lei, dottoressa» disse, poi fece un cenno alle sue spalle. «Ho una copia delle

chiavi nel cruscotto. Dovrei ristrutturare questa catapecchia e provare a vendere, ma non c’è tanta domanda in giro, oggi.»«Non dopo quello che è successo lì dentro» aggiunse De Vivo, incassando la testa nel

colletto del parka.«Già. Vogliamo entrare?»«Aspetta qui, bello.» Damiano accarezzò la testa del cane, poi sollevò lo sguardo verso la

facciata della casa e deglutì. Le finestre inchiodate da assi marce, le mura ricoperte da un alone viscido, impalpabile. Aveva giurato che non avrebbe mai più rimesso piede in quel posto. Si sbagliava. «Fai strada.»

* * *

Le ombre si riunirono nell’atrio per accoglierli. Lo Sciacallo strinse la mano sul bastone. L’occhio non smetteva di lacrimare e quel tanfo gli dava la nausea. Le pareti, il pavimento, i mobili, tutto era impregnato dall’odore di morte, come una catacomba. Uno di quei siti archeologici che aveva visitato in Messico, in un’altra vita.Stefano diede un colpo di tosse, attraversò il corridoio. Zampe e artigli si chiusero dietro la

sua schiena come petali di una pianta carnivora, e Damiano avrebbe pensato che l’amico fosse stato inghiottito dall’oscurità se non avesse sentito il respiro affannato che giungeva da qualche parte davanti a lui. Un’imprecazione tra i denti, le mani che armeggiavano con qualcosa di metallico, poi un ronzio. La luce fredda di un led sgocciolò sul pavimento.«Ho ripristinato la corrente.» Stefano si pulì le mani sulla tuta. «Pensavo potesse essere

utile.»«Cosa dobbiamo cercare?» La Malangone gli sfiorò il braccio e Damiano trasalì. Guardò il procuratore come se non

l’avesse mai vista prima, poi De Vivo. Il commissario scartò una caramella e se la lanciò in bocca. Lo Sciacallo seguì la traiettoria della pasticca nell’aria e pensò al suo studio, al cassetto della scrivania, alla vecchia scatola di mentine sepolta sotto le scartoffie. Avrebbe voluto essere a casa, anche solo per poterla prendere e scuotere. Niente di più. Sentire il suono delle pasticche che sbattevano nel contenitore. Non voleva farsi, la morfina era solo una via di fuga e il dolore gli serviva per capire. Il dolore lo aiutava a ricordare.«Guardiamo nelle stanze» disse. «Dove teneva le ragazze.»Dopo Claudia ce ne erano state altre. Ragazze che Giulio aveva trascinato in quella casa,

torturato e ucciso. Una scia di corpi dimenticati dal tempo. «Facemmo irruzione in questa casa qualche ora dopo che ve ne eravate andati.» De Vivo

seguì Stefano lungo la scalinata che portava al piano di sopra. Una mano che accarezzava la

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parete, sbriciolando l’intonaco. «Eravamo convinti di trovare la ragazzina che aveva rapito, e invece l’aveva già spostata.»«Ci stava aspettando» disse Damiano. Si fermò sul pianerottolo e riprese fiato. Pensò al

buio, al rumore dell’acqua, alle bambole appese ai rami, nel bosco. Pensò a Claudia, all’estate del 1985 e al suo viso incrostato di sangue. «Sapeva che saremmo entrati in quella caverna. Era lì che voleva far finire tutto.»«Peccato non averlo capito prima.» De Vivo si voltò a guardarlo, la barba incolta e gli occhi

infossati. «Il pavimento della cantina era lastricato di ossa. Dovevi fare attenzione a dove mettevi i piedi.»Damiano aprì la bocca per dire qualcosa ma le parole gli morirono sulle labbra. Le pareti

erano incrostate di muffa e sporcizia. Chiazze gialle risalivano dai battiscopa fino al soffitto«Meno male che non hai ristrutturato» sussurrò verso Stefano, prima di puntare il bastone

verso una stanza. «È lì.»La Malangone guardò la porta aperta, fece un passo, fino a posare le unghie smaltate sul

legno dello stipite. Si voltò verso Damiano, gli occhi sbarrati come se avesse visto un fantasma.«Che vuol dire?»Lo Sciacallo non rispose. Varcò la soglia, vide il gancio piantato nel muro. In quella camera

l’odore della casa era più forte. Paura, sangue, urina. Un miscuglio che impregnava l’aria. De Vivo allungò un braccio verso l’alto. Sfiorò una lampadina che penzolava dal soffitto e piegò il filo, indirizzando la luce verso una parete. Damiano vide i disegni fatti con una bomboletta spray. Serpenti, volti di donna, e poi le scritte. Un mosaico di parole senza senso. Il delirio prigioniero nella testa di Giulio. Lo Sciacallo fece scorrere gli occhi da un capo all’altro del muro, fino a quando non

riconobbe i versi scritti con la vernice nera e sentì il sangue che gli si gelava nelle vene.

Vede lui dentro al buio, nel sangue e nella carne.

Della terra i figli seguiran il sentiero di verità ch’è nero.

«Che cazzo vuol dire?» chiese De Vivo.«È per quei due tizi uccisi?» domandò Stefano, ma nessuno gli rispose. Si avvicinò al muro,

sfiorò le lettere con le dita. «Vede lui dentro al buio…»Vede lui dentro al buio.Vede lui.«Lui vede» sussurrò Damiano. «Ecco che cazzo significa.»

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24

LUGLIO, 1950

Tommaso ed Elvira avanzavano attraverso nugoli di moscerini e rami sporgenti. L’aria bruciava sulla pelle, come dita di fuoco strette intorno alla gola. Costeggiarono il fiume, provando a ripararsi sotto gli alberi, ma con quel caldo pareva che anche le ombre fossero andate a nascondersi.«È successo qui.» Il ragazzo indicò un tronco morto sulla riva. «L’ho trovato lì, in mezzo ai

sassi.»Pensò a quello che gli aveva mostrato Mimì. Il corpo era stato trascinato, il tragitto segnato

da schizzi di sangue. Guardò verso un ammasso di cespugli alla sua destra e corrugò la fronte.«Non c’è più.»«Cosa? Che cosa non c’è più?» chiese Elvira, il collo rigato dal sudore.Tommaso aprì il fascio d’erba con le mani, guardò prima da un lato, poi dall’altro. Si voltò,

si spostò fino al punto dove aveva visto il corpo e ritornò indietro.«La pietra.» Si grattò la nuca. «Era qua e adesso è sparita.»«Quale pietra?» L’amica guardò la riva. «Ce ne sono a centinaia: di che pietra parli?»«Quella che ha ucciso Nunzio. Era appuntita e sporca di sangue. Mimì l’ha vista qui. L’uomo

che l’ha ucciso gli ha dato una botta in testa e l’ha tirato fino alla sponda.»«Forse l’hanno presa i carabinieri. È una prova, magari hanno sentito la storia di Goffredo

e sono tornati qui per le indagini.»«Non lo so.» Tommaso scosse il capo poco convinto. Guardò la linea degli alberi dall’altra

parte del fiume, e poi il sole sopra le loro teste. L’acqua era uno specchio verde che proiettava lame di luce metallica in ogni direzione. «Andiamo.»Non era mai stato a casa dei Gioia, anche perché il Barone non comprava il latte da suo

padre, però una volta ci si era avvicinato. La primavera precedente, ad aprile. Teresa gli aveva chiesto di cercare degli asparagi e Tommaso aveva preso il sentiero che dal fiume portava fin sotto la montagna. Sapeva che quello era il posto migliore. Aveva notato i segni degli pneumatici lungo il tragitto. I tedeschi avevano visto la tenuta dalla montagna e avevano provato a raggiungerla, solo che casa Gioia non si faceva trovare, se non voleva. Era quello che dicevano i vecchi a Castellaccio. Tommaso invece l’aveva trovata. Le vecchie mura ricoperte di rampicanti e i mostri a guardia del cancello. Aveva visto le fauci di pietra ed era tornato indietro, a passo svelto. Era troppo codardo per proseguire l’avventura. Adesso però le cose erano cambiate. Il Barone poteva aiutarlo, si sforzava di convincersene

a ogni passo.

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Gli incubi lo stavano distruggendo. Se non fosse passato per il fiume quel pomeriggio, se non si fosse preoccupato di fare tardi e avesse percorso la strada normale, si sarebbe coricato con qualche escoriazione per le cinghiate ma non avrebbe mai trovato il cadavere di Nunzio.«Grazie che hai deciso di accompagnarmi» disse a Elvira.«Di niente. E poi sono stanca di stare sotto un albero a leggere.»«Cosa hai detto a Masto Guizzardo?»Silenzio.«Non gli hai chiesto il permesso?» Tommaso si fermò.La ragazza sorrise. «Mi hai promesso di tornare a casa per pranzo, no? I nonni sono andati

ad Agropoli, a chi avrei dovuto chiederlo?»«Questa cosa non è buona.» Riprese a muoversi, la falcata più ampia. «Il maresciallo

Pironti ha detto a Guizzardo che non devi vedermi.»«Il maresciallo può dire quello che vuole. Lui non ti conosce, io sì… o comunque sto

imparando a farlo. E poi gli amici me li scelgo da sola.»Tommaso sentì il calore sulla faccia, le orecchie diventare roventi. Non era colpa dell’afa.

Sorrise. «Sbrighiamoci, non voglio che fai tardi.»La casa del Barone era diversa da come la ricordava. Non c’erano più rampicanti ed

erbaccia sulle mura, il cancello sembrava tinteggiato di recente. Niente ruggine. Due teste enormi sormontavano entrambi i lati dell’ingresso. Fauci spalancate e zanne incastonate nella pietra come fossili. Occhi che sembravano voler avvertire i visitatori di qualcosa che Tommaso non riusciva a capire.Elvira infilò la faccia tra le sbarre.«Sta arrivando una persona» disse, e fece un passo indietro.Tommaso deglutì e strinse i pugni così forte da sentire le unghie nella carne.Sentì il tonfo metallico di una porta che sbatteva, poi una melodia, qualcuno che

fischiettava. Guardò oltre il cancello e vide un uomo vestito di bianco. Una camicia larga, le maniche sbottonate che sventolavano come bandiere, e pantaloni corti tipo quelli di un ragazzino.Il Barone Gioia.«Tommaso? Sei tu?» chiese, e la voce fu accompagnata dal tintinnare di un mazzo di chiavi.

«È un piacere vederti. Vieni, venite… venite.» L’uomo fece scattare la serratura e aprì il cancello. «Scusate il déshabillé, non aspettavo visite. Chi è questa splendida signorina?»«La mia amica…» fece il ragazzo, ma lei lo interruppe.«Sono Elvira» tese la mano. «Piacere di conoscerla.»Un sorriso increspò le labbra sottili del Barone. Le punte dei baffi oscillarono.«Fa molto caldo oggi, venite dentro… posso offrirvi una limonata? È fatta con i limoni della

Costiera Amalfitana, me li faccio arrivare da Minori. Prego, seguitemi.»Camminarono su una passerella di lastre di pietra che serpeggiava in mezzo a un prato di

un verde così intenso da far male agli occhi. Al centro del cortile, l’acqua zampillava dalla bocca di una statua, un enorme serpente di pietra che emergeva da un blocco di roccia nera.

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Un mostro, come quelli che lo osservavano dall’alto. Diavoli con ali di pietra, corna e zanne che sembravano grondare sangue. Se ne stavano appollaiati sui cornicioni della casa, con le ali piegate, pronti a spiccare il volo. A calare in picchiata sopra le loro teste.«Ti spaventano?» chiese il Barone, indicando le sculture. «Mio nonno aveva gusti molto

particolari. Era stato in Francia, aveva visto Notre Dame…»«Parigi?» chiese Elvira.«Sì, Parigi.» Gioia sorrise. «Ci sei stata?»«No, ma vorrei, un giorno.»«Buona idea. I giovani devono viaggiare per capire come funziona il mondo.»«Cosa sono?» Tommaso non riusciva a staccare gli occhi dalle sculture.«Le gargolle?» Il Barone aprì la porta. «Sono solo vecchie decorazioni, non possono farti

del male. Per favore, entrate. Venite dentro.»Il Barone li fece accomodare in salotto e disse loro di aspettare.«Hai visto quanta roba strana?» bisbigliò Elvira, accarezzando un teschio dipinto di nero

usato come centrotavola su un piano di cristallo. La melodia fischiettata da Gioia giungeva da qualche parte, fuori dalla stanza.«Già.» Tommaso si era accomodato sulla punta di un cuscino. Era sudato e non voleva

rovinare il divano. Guardò le dita sporche di fango e le zolle di terra che i sandali avevano lasciato sul tappeto fatto con la pelliccia di una tigre.Il ragazzo provò disgusto. Una cosa era cacciare per nutrirsi, ma uccidere un animale per

esporlo come trofeo non era giusto.Allungò una mano verso il tavolino accanto al divano, e sfiorò una statuetta di legno. Una

donna dal corpo deformato. Le braccia lunghe, i seni enormi, le gambe appena abbozzate. Chi aveva intagliato quella cosa non aveva ben chiare le misure, pensò.Il tintinnio del vetro.«Eccoci qui.» Il Barone depositò un vassoio su un tavolo di cristallo posto al centro del

tappeto. «Coraggio, prendete. Con questo caldo vi farà bene.»«Grazie.» Elvira prese un bicchiere e ne mandò giù un sorso. «È buonissima!»Gioia si lisciò un baffo, incrociò lo sguardo di Tommaso. «E tu? Non hai sete?»Il ragazzo prese la bibita ma non bevve. «Barone… io…»Avanti, stupido. Metti in ordine le parole. Sei davvero venuto qui solo per una limonata?«Quella mattina al fiume… voi mi avete detto che potevate aiutarmi…»Qualcosa si mosse negli occhi di Gioia. Un guizzo, una luce nelle iridi. Tommaso la notò e si

sentì a disagio.«Aiutarti?» chiese l’uomo, rilassandosi sulla poltrona, le dita che accarezzavano la pelle dei

braccioli. «Certo che posso. Desidero farlo.»«Davvero?»«Davvero.» Il Barone si passò la lingua su un labbro. «Lo sai cosa ti sta succedendo?»«Io vedo cose. Di notte. Le sogno e non riesco a smettere di farlo. Vorrei non pensarci,

vorrei essere lasciato in pace, ma non ci riesco.»«Vedi il bambino?»

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«Sì. Nunzio.» Tommaso mandò giù un sorso, ma la limonata non lo fece stare meglio. Bruciava nella gola. Bruciava come acqua santa sulla pelle di un peccatore. «È brutto da dire, lo so, ma non vorrei mai averlo trovato. Perché io? Mi perseguita, il fiume mi perseguita. Vedo gli occhi di qualcuno in mezzo agli alberi. Lui mi spia… è come se sapesse tutto di me, e ho paura. Se non riesco a fermare questa cosa, diventerò pazzo.»«Come Goffredo?» chiese il Barone, e il cuore di Tommaso smise di battere. Guardò Elvira e

lei si irrigidì. Le ginocchia strette, il bicchiere sollevato a mezz’aria.«Adesso ti starai chiedendo come faccio a conoscere la storia di Goffredo.» Gioia sorrise, la

pelle così liscia che sembrava cera. «Ho viaggiato molto, ho collezionato cose.» Roteò il braccio, a indicare tutta la stanza. «Castellaccio però è casa mia, e io so tutto. Così come la mia famiglia sapeva tutto di tutti. Io posso farti stare meglio, ma devi dirmelo tu. Devo sapere quello che vuoi realmente.»Tommaso si prese del tempo per riflettere. Un tempo che gli sembrò lunghissimo.«Voglio che lo prendano» disse. «L’uomo che ha fatto quelle cose a Nunzio… lo devono

trovare. Le guardie non fanno niente, e lui è ancora là fuori.»«Perché ti interessa tanto?»«Se non scopro chi è stato, i sogni non andranno mai via.»«Ne sei sicuro?»Il ragazzo fece un debole cenno d’assenso. Il Barone sorrise.«Vedremo.»

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25

SALERNO, 1997

Flavio osservò l’uomo mentre posava le buste della spesa nel portabagagli. Sembrava un tipo a posto, una faccia simile a tante. Sorrideva alla moglie e svuotava il carrello, come aveva fatto mille volte l’ingegnere, prima che i fili nella testa di Mattia si spezzassero per sempre.«Alla fine lo hai trovato.» Don Mimì se ne stava seduto sul sedile del passeggero e guardava

con curiosità il parcheggio del supermercato.Lui non rispose. Aveva osservato quell’uomo per mesi. Lo aveva visto portare i nipoti al

parco, andare a correre sul lungomare e guardare le partite di calcio al bar con gli amici. Aveva respirato l’aria che respirava lui e si era chiesto, per tutto quel tempo, se almeno si ricordasse di Mattia, del bambino con i capelli rossi che voleva essere un indiano.«Stanno andando via» disse il nonno. Flavio attese un istante, poi mise in moto. Seguì

l’utilitaria mentre attraversava il traffico di Salerno e si arrampicava sulla strada per Sala Abbagnano. Le villette sovrastavano la città, una schiera di costruzioni omogenee aggrappate alla collina. In lontananza, la spia gialla del cancello elettronico lampeggiò mentre l’auto svoltava per imboccare il vialetto. Flavio la superò e si fermò cinquecento metri più avanti. Guardò nello specchietto retrovisore, senza staccare le mani dal volante, e trasse un respiro. La cicatrice sulla mano gli prudeva come se un nugolo di insetti si stesse agitando sotto la sua pelle.«Lo hai portato?» chiese Don Mimì. Lui si affrettò ad annuire, si tirò il cappuccio della felpa

sul capo e scese dall’auto. Percorse la distanza che lo separava dall’accesso alla villa con il cuore in gola. Notò le telecamere di sicurezza installate sui cancelli delle case e infilò le mani nelle tasche. Aveva montato sull’auto una targa rubata, nel caso le registrazioni di sicurezza avessero catturato il suo passaggio, e si era fatto crescere la barba per nascondere il volto. Una parte remota del suo cervello gli suggeriva di voltarsi e andare via. Non poteva restituire la vita a Mattia, e stava rischiando di rovinare la sua.«Non mi dire che hai paura delle guardie.»Alle sue spalle, Mimì si fermò per accendersi una sigaretta.Flavio incassò la testa nelle spalle. Studiare quell’uomo era servito a qualcosa. Era un

abitudinario, le sue giornate seguivano schemi precisi.Vai al supermercato con tua moglie solo di sabato pomeriggio. Poi torni a casa, parcheggi nel

cortile. Lei va dentro, mentre tu sollevi la saracinesca del garage. Non vuoi che lei venga a darti una mano. A che serve, tesoro? Uso il montacarichi! In tanti anni insieme sei stato bravo a tenerla alla larga dal tuo mondo, ad ammaestrarla come un animale da circo.

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Si infilò nel cancello e le fotocellule ne bloccarono la chiusura. L’uomo stava armeggiando con dei sacchi di plastica in fondo al garage quando si voltò.«Tesoro, ti ho detto che non…»Flavio gli piombò addosso, e una gamba dell’uomo cedette all’urto. Barcollò, andando a

sbattere contro gli scaffali e trascinando con sé una tanica di plastica vuota. Aveva gli occhi sbarrati e la bocca distorta in una smorfia asfittica. Non emise un suono, non gridò nemmeno mentre lui lo afferrava per il cappotto e lo metteva a sedere.«Il dottor Felitto?» chiese all’uomo. «Mario Felitto?»«Sì… sì, sono io… sono Mario Felitto. Ti prego, non abbiamo nulla di valore. I soldi sono

tutti in banca. Non farci del male… No, aspetta. Fermo!»Gli occhi del Dottor Mario Felitto, psicologo infantile in pensione, consulente dell’ASL per

le case famiglia e gli orfanotrofi di Salerno e provincia, intercettarono il metallo di un vecchio tirapugni che Flavio aveva infilato nella mano destra. Alla sua morte, Mimì De Martino aveva lasciato tre cose in eredità all’unico nipote: una vecchia casa ora disabitata a Castellaccio, un tirapugni rubato ai soldati americani quando era ragazzino e il buio dentro.Flavio iniziò a colpire Felitto come se fosse un sacco di patate. Lo aveva bloccato tra il

pavimento, le buste della spesa e gli scaffali. Gli stringeva la gola con tale forza che, anche se avesse voluto, la sua vittima non sarebbe riuscita a chiedere aiuto. Il suo pugno di ferro squarciò gli zigomi, aprì un taglio sulla fronte dello psicologo. Più lui lo guardava con quegli occhi da miserabile, più Flavio sentiva qualcosa che gli dilagava nel petto. Era come se il mondo intorno a lui fosse diventato all’improvviso nero.«Come hai potuto?» Si stupì nell’udire il suono della propria voce. «Era solo un bambino,

gli hai rovinato la vita.»«Non ho fatto niente, per favore… Non ho fatto niente…»Flavio lasciò andare la presa e Felitto scivolò sul pavimento del garage, un occhio ridotto a

un grumo di sangue.«Ci stai mettendo troppo» ringhiò Don Mimì dal cortile, ma lui non gli diede ascolto. Infilò

una mano nella tasca e le dita si strinsero intorno al coltello da campeggio che gli aveva regalato l’ingegnere prima del viaggio per le Dolomiti, ai tempi del liceo.«Si chiamava Mattia» sibilò. «Lui era solo un bambino, e tu dovevi aiutarlo.»«Ti prego, c’è mia moglie di sopra. Non farmi questo…»«Lei lo sa, vero? Sa che cosa facevi ai tuoi pazienti?»«Non farlo, per favore! Aiuto, Maria… aiuto!»Flavio fece ruotare il manico del coltello tra le dita, lo puntò verso il basso e colpì con tutta

la rabbia che aveva in corpo. La lama si conficcò in una lattina di plastica, con un tonfo sordo. Rimasero immobili. Lui e Felitto. Uno di fronte all’altro. Flavio inspirò a pieni polmoni la paura e l’odore di sangue della sua vittima e disse: «Dammi il portafogli.»«Come?»Uno schiaffo. «Il portafogli.»«Eccolo… nella tasca della giacca, è qui.»Flavio perquisì con foga l’uomo, che emise un gemito.

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«Mario?» Una voce di donna giunse attraverso la porta del montacarichi.Flavio si mise un dito sulle labbra e l’uomo annuì. Sfilò la carta d’identità e guardò la

fotografia incollata all’interno.«Sembri una brava persona» sussurrò, poi strappò il coltello dalla lattina e si rimise in

piedi. Il cuore gli martellava nel petto, trattenne un conato di vomito. L’adrenalina lo stava abbandonando, e la cicatrice sulla mano aveva smesso di prudere. «Dovrai convivere con questo» disse. «Dovrai convivere con tutto il male che hai fatto.»Uscì alla svelta dal garage e abbandonò il cortile di casa Felitto da un cancelletto

elettronico. Don Mimì lo aspettava sulla strada.«Lo hai lasciato vivere?» chiese il vecchio. «È questo che ti ho insegnato?»Flavio si voltò di scatto. Sovrastava il nonno in altezza.«Sta’ zitto» disse. «Tu non sei reale.»Tornò all’auto, stringendo il documento di Felitto in una mano. Pensava a Mattia, ai suoi

capelli rossi e a quella volta sulle Dolomiti in cui gli aveva regalato una cassetta dei Cure per il suo walkman. A tutte le sere in cui gli aveva chiesto se poteva dormire nel suo letto. Se solo avesse potuto tornare indietro, gli avrebbe risposto di sì. Si sarebbe preso cura di lui, più di quanto avesse mai fatto. Erano fratelli di sangue, e i fratelli questo facevano. Si difendevano a vicenda.

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26

OGGI

«Che fai? Adesso ti nascondi?»Il vecchio era seduto dietro. La pelle lucida per il sudore e la canottiera bucata dai

proiettili.Flavio guardò nello specchietto retrovisore. Voleva vedere l’auto, accertarsi che avessero

smesso di seguirlo, ma Don Mimì era proprio al centro e sembrava ostruirgli di proposito la visuale. Gli occhi inchiodati ai suoi, mentre due macchie rosse si allargavano sull’addome e una sul petto, poco vicino al cuore. Poi la pelle si sollevò e dai buchi venne fuori qualcosa. Rimbalzò dentro la macchina. Una, due, tre volte.Pallottole.Flavio tornò a guardare la strada davanti a sé. Aveva fatto il giro largo, arrivando fino alla

zona industriale di Agropoli, ma non era servito a niente. Non avrebbero smesso di venirgli dietro. Vide una stazione di servizio in lontananza, l’insegna luminosa, e accelerò.«Allora? Che hai deciso di fare?» tuonò la voce di Mimì alle sue spalle.«Lasciami in pace.» Flavio si voltò di scatto, ma il nonno era sparito. Solo i sedili vuoti e imbrattati dal pelo di Jack.Lasciò la statale, fermandosi alla pompa di benzina. Il veicolo era un puntino nero nello

specchietto retrovisore. Non poteva esserne certo, ma gli pareva d’aver notato due sagome all’interno dell’abitacolo. Trattenne il respiro.Hanno freddato De Nicola. Un colpo in mezzo agli occhi. Loro sono armati. Io no.Spense il motore. Forse non volevano fargli del male. Forse volevano solo capire chi era e

poi avrebbero tirato dritto, senza fermarsi. Avrebbero superato la pompa di benzina e proseguito per la propria strada. Aprì il vano del cruscotto, rovistò dentro rovesciando il contenuto sulla tappezzeria. Sfiorò qualcosa di freddo, coperto da una scatolina vuota di pillole e da dei fogli di carta. Sentì un torpore alla mano. Una carezza invisibile che gli diede conforto. Afferrò il tirapugni, lo guardò sotto la luce gialla dell’abitacolo e poi se lo infilò come una

fede nuziale. Affondò la mano nella tasca e scese dall’auto. Inserì un pezzo da venti euro nella colonnina e selezionò la pompa. Fece tutto al rallentatore. Non si voltò verso la strada, non voleva guardare. Sentiva il rumore del motore, delle ruote che macinavano asfalto.Stanno rallentando.Inserì la pistola ed erogò il diesel dando le spalle alla strada. Fissò la guardiola davanti a

sé, la saracinesca abbassata. Si chiese se le telecamere di sicurezza fossero attive. Il posto sembrava vecchio, uno di quei buchi su una strada inutile, in mezzo a fabbriche chiuse e capannoni.

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Pneumatici sul pietrisco. Il sibilo dei freni. Lo scatto di una portiera, poi di una seconda.Non voltarti.Flavio vide il riflesso di un volto nel vetro del distributore. Le labbra si mossero, una voce

gli riempì la testa ma non riuscì a distinguere le parole, a coglierne il significato. Era stordito, la testa gli rimbombava. Avvertì un prurito alla base del cranio e digrignò i denti. I numeri scorrevano sul display come quelli di un contachilometri.12… 15… 17… 20.Finito.Si girò di colpo, sfilando la mano con il tirapugni dalla tasca. Colpì con l’avambraccio quello

dell’uomo alle sue spalle. Sentì il cozzare delle ossa, seguito subito da una scarica di dolore nel gomito. Ruotò il bacino e affondò la pistola del distributore nell’addome dell’uomo. L’avversario si piegò in avanti, la bocca spalancata alla ricerca d’ossigeno, la faccia sulla traiettoria del suo ginocchio.Flavio lasciò andare la pompa, afferrò l’uomo per il cappuccio e glielo calò sul capo mentre

sollevava la gamba. Avvertì lo schiocco del setto nasale che si sfondava contro la sua rotula, poi un grido di dolore. Non mollò la presa. Calò un gomito al centro delle scapole dell’avversario e lo strattonò, cambiando posizione. Con la coda dell’occhio aveva visto che l’altro era sceso dall’auto e gli stava puntando contro una pistola.Flavio smise di pensare, fece appello a un primordiale istinto di sopravvivenza. Era l’unica

cosa che aveva, l’unica cosa che l’aveva tenuto in vita per tutto quel tempo. Abbassò la testa un attimo prima dello schiocco dell’arma. Spinse davanti a sé l’uomo che aveva bloccato, come fosse un bue che traina un aratro. Lo usò come scudo, provò a guadagnare metri utili. Sentiva i bossoli che rimbalzavano sull’asfalto, le grida di dolore, il corpo che sussultava tra le sue mani, poi il silenzio. Il peso che diventava insostenibile. Aprì le mani, lasciò che il tizio si afflosciasse ai suoi piedi e balzò in avanti. Saltò addosso all’uomo con la pistola. Il tirapugni sventrò l’aria. Le nocche ferrate colpirono l’avversario tra la mandibola e l’orecchio.L’uomo era massiccio, il corpo coperto da un piumino nero. Barcollò, andò a sbattere

contro un finestrino. Lottò per restare in piedi, tentando di puntare di nuovo l’arma verso Flavio. Lui però non rimase a guardare. Ruotò la gamba di appoggio e sferrò un calcio laterale. Il ginocchio del killer si piegò come un ramo secco. Il gigante si sentì mancare la terra sotto i piedi e crollò in avanti. Il mento si schiantò sull’asfalto e i denti schioccarono, soffocando un grugnito.Flavio si bloccò, le vene che pulsavano impazzite nelle tempie. Gli scoppiava la testa. Aveva

mentito a se stesso. Si era ripromesso che dopo la caverna, dopo Giulio, si sarebbe rialzato. Basta morte, basta sangue. Se esisteva un punto di non ritorno, lui c’era finito dritto contro. Un urto frontale. La sua mente era rimasta intrappolata a quel pomeriggio dell’85. Dopo la gara. Era ferma al giorno in cui aveva raccolto Damiano dalla strada, il corpo flaccido e spezzato come una busta di vetri rotti. L’odio verso i ragazzi che avevano ridotto l’amico in quello stato gli bruciava nel petto. Era stato facile, per Mimì, mettergli un coltello in mano. Nei suoi incubi, aveva già impugnato la lama.

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Una volta che provi il sapore del sangue, poi non dimentichi.Il killer sbuffò, nel tentativo di rimettersi in piedi. Stringeva ancora la pistola nel pugno.

Flavio sollevò un piede fin quasi a portarsi il ginocchio al petto, poi lo calò giù insieme a tutto il peso del corpo. Cento chili di rabbia, tutti concentrati su una mano. Il tallone schiacciò le dita strette intorno all’arma.Un grido straziò il silenzio.«Mi hai rotto la mano.» L’uomo si contorse come una coda mozzata di lucertola. «Me l’hai

rotta… bastardo… sei un bastardo.»«Shhh…»Adesso basta. Stai perdendo tempo. Va’ via. In clinica, prendi la ragazza.Allontanò la pistola con un calcio e si inginocchiò. Costrinse l’avversario a sedersi, la

schiena premuta contro la portiera dell’auto. Avrebbe dovuto chiedergli chi li avesse mandati. Perché avessero ucciso De Nicola e per quale motivo lo stessero seguendo. Avrebbe dovuto fare queste e altre domande, o sedersi in auto, mettere in moto e andare via. Lasciare che fosse la polizia a fare le domande giuste. Guardò il suo veicolo, lo sportellino del serbatoio aperto. Doveva solo voltarsi e andare via. Era semplice.Però non lo fece. Flavio non si mosse.L’uomo provò ad afferrargli un braccio, i loro sguardi si incrociarono. Aveva la bocca piena

di sangue, e quando tentò di parlare pezzi di denti gli caddero sul petto insieme alla saliva.«Ti… ucc… uccidiamo.»Flavio annuì. Strinse le dita intorno al tirapugni. Sollevò il braccio.«Non oggi.»

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27

LUGLIO, 1950

«Li avete letti tutti, questi libri?» Elvira fece scorrere le dita sui dorsi dei volumi allineati su una mensola. Tommaso si guardò intorno a bocca aperta: non ne aveva mai visti così tanti. Pensò che il Barone dovesse essere davvero ricco, per possedere una biblioteca così grande.«No, non tutti… ma una buona parte. Era la collezione di mio nonno, la conservo con cura.

Per fortuna non è andata persa durante la guerra. Sono molto fortunato.» Gioia sorrise, le mani incrociate dietro la schiena. «E tu cosa mi dici, signorina? Ti piace leggere?»La ragazza sorrise, raggiante. «Molto. Non so che darei per poter vivere in un posto come

questo. La vostra casa è stupenda.»«Ti ringrazio. E tu? Che dici, Tommaso?»Il Barone gli aveva imposto una regola. Se voleva il suo aiuto, doveva dire sempre la verità.«Niente bugie, niente cose in sospeso. Chiedo solo questo» gli aveva detto, e lui aveva

giurato.Guardò prima l’amica, poi il Barone. Abbassò il capo sugli alluci che sbucavano dai sandali.«Non sono molto bravo a leggere. Io… mio padre… io non vado a scuola.»La faccia gli stava andando a fuoco, la pelle scottava. Sperava che da un momento all’altro

nel pavimento si aprisse un grosso buco nel quale poter sprofondare.«Non fartene una colpa.» Il padrone di casa gli si avvicinò. La sua pelle profumava di

sapone e acqua di colonia. Un odore gradevole, intenso, nonostante il caldo. «Nella mia vita ho conosciuto moltissimi uomini istruiti che non valevano nemmeno la metà dei braccianti, dei pastori e dei taglialegna di questo paese. Individui così spregevoli che concedergli l’appellativo di uomo era il complimento più grande che potessi fargli. Potrai studiare, se vorrai. Potrai essere chiunque vuoi, Tommaso. Io lo vedo, ne sono sicuro e il tempo mi darà ragione. Adesso però basta divagare. Io non ho niente di particolare da fare, ma credo che voi due dobbiate ritornare a casa. È una lunga passeggiata, e non voglio farvi tardare.»Il Barone riportò l’attenzione su Tommaso.«Ricordi cosa ti ha detto Goffredo?»Il ragazzo incrociò lo sguardo di Elvira, e lei annuì. Gli diede coraggio.«Eravamo andati al vecchio mulino. Volevamo nuotare, e lui è uscito dalle rovine. Non

l’avevamo sentito e non volevamo spaventarlo. I ragazzi lo cacciano via se lo incontrano, ma noi non gli abbiamo fatto niente. Lo giuro.»«Lo so. Prova a non giustificarti per ogni cosa che dici, e va’ avanti.»«Sì, scusate.» Si morse la lingua, fece un lungo respiro, la fronte imperlata di sudore. «Mi ha

chiesto di non dirlo. Era spaventato.»

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«Di non dire cosa, Tommaso?»«Non dovevo dire a lui che l’avevo visto. Non capisco a chi si riferisse. Ho pensato al

maresciallo Pironti. Forse Goffredo ha ucciso Nunzio così come ha ucciso la sua famiglia, e adesso si nasconde.»«E perché lo avrebbe fatto, secondo te? Avanti, sentiamo…»«Perché è pazzo!»«Quindi» disse il Barone, accarezzandosi la punta di un baffo, «devo essere per forza pazzo

se uccido. Non è così?»Tommaso provò a rispondere, ma dalla bocca gli uscì solo un balbettio senza senso.Che cosa vuole da me? Guardò verso la finestra. Il sole proiettava lame di luce sulla libreria. Qualcosa sul volto del

padrone di casa era mutato. Era diventato inespressivo, freddo come una lastra di ghiaccio. Elvira doveva essersene accorta, perché fece un passo indietro. Rimise a posto un libro che stava sfogliando. Poi l’uomo sorrise.«Ha detto solo questo? Goffredo, intendo… ha aggiunto altro?»Il ragazzo si morse il labbro. Voleva andare avanti, dire di più, ma era come se qualcuno gli

avesse cucito la bocca con ago e filo. I pensieri cozzavano tra loro diventando immagini senza senso. Il terrore negli occhi di Goffredo, il rumore del fiume, l’acqua sporca di sangue, le fauci della cosa sulla riva, l’odore della carne marcia.«È venuto per prenderli tutti» intervenne Elvira. «Ha detto che lui l’aveva visto, e anche

Tommaso. È venuto, ha detto… e mentre parlava ha indicato la montagna.»Il Barone si avvicinò alla finestra, le mani giunte dietro la schiena e il mento sollevato. La

pelle sotto il mento flaccida come l’otre di un pastore.«Sei sicura?»«Sì.» Il ragazzo strinse i pugni. «Ha indicato la montagna.»«Capisco.» Il Barone indicò le due sedie davanti a uno scrittoio. «Sedetevi, per favore.»I ragazzi obbedirono. Tommaso avvertiva una tensione che non riusciva a controllare, e

irrigidì le spalle. Le mani poggiate sulle cosce non smettevano di tremare. Poi le dita di Elvira si intrecciarono alle sue, sotto il tavolo, e quando la guardò con la coda dell’occhio lei gli fece un debole cenno con il capo, che valeva più di mille parole.«La storia di Goffredo è molto controversa.» La voce del Barone si sovrappose al vuoto, al

battito dei cuori, al loro respiro mischiato all’aria calda di agosto. «Conoscevo bene sia lui che sua moglie. Ero poco più grande di voi quando li vidi per la prima volta. Lavoravano per mio padre, occasionalmente. Piccoli incarichi, piante da tagliare, qualcosa da aggiustare. Erano brave persone, tranquille. Si facevano gli affari propri, a differenza di molti nostri paesani.»Gioia prese un vecchio libro dagli scaffali, la copertina dai bordi mangiati, e andò a sedersi

dall’altra parte della scrivania.«Vivevano sulla montagna, nella casa del padre. Goffredo veniva da una famiglia di pastori.

Ricordo ancora quando nacque suo figlio. Era felicissimo. Un uomo magro, dagli occhi buoni, che non faceva altro che sorridere. Tutto il giorno.» Il Barone poggiò il volume sul

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piano dello scrittoio, e lo accarezzò. Il bordo delle pagine era marrone. «Quello che accadde resta un mistero. Uno dei tanti misteri di Castellaccio. Dissero che aveva il vizio di bere e che aveva perso la paga di una settimana ai dadi. Goffredo però non beveva, e ai soldi ci stava attento. Molto attento.»«Cosa è successo? Voi lo sapete?» domandò Elvira.«Goffredo trovò la porta chiusa dall’interno. Il corpo della moglie era riverso in una pozza

di sangue. Così tanto sangue da impregnare le assi del pavimento. Qualcuno le aveva tagliato la testa e l’aveva lasciata lì, al centro della casa. Gli occhi aperti erano rivolti verso la porta.»«Il figlio?» Tommaso strinse la mano dell’amica. «Cosa fecero al bambino?»«Goffredo lo trovò più in là, nel bosco. Impiccato a un ramo con del filo di ferro.»«Oh, mio Dio.» Elvira si portò l’altra mano alla fronte.«Dio non c’entra proprio niente con tutto questo, mia cara. Almeno, non il dio che

intendiamo noi.» Il Barone fece un sorriso triste. «Non conosco il resto della storia. Mi ero trasferito a Londra per studiare. Una volta tornai per l’estate, chiesi di Goffredo e mi dissero che era impazzito. Aveva vissuto per quasi un anno con i corpi dei familiari in casa. Nessuno faceva domande. Una cosa ve la posso raccontare, però. Ed è scritta qui, nelle pagine di questo vecchio libro.» Elvira allentò la stretta alla mano di Tommaso, che la vide muoversi appena sulla sedia,

incuriosita.«Che libro è?» chiese.«Il De Fauci Inferni.»«Che significa?»«Letteralmente? Il passaggio dell’inferno.» Il Barone si mise a sfogliare il volume, le pagine

segnate da una teoria di foglie secche. «Amavo perdermi tra gli scaffali delle librerie londinesi. Il profumo della carta mi dava la serenità che non riuscivo a trovare altrove, e non avrei mai immaginato che in quel paradiso questo titolo in latino avrebbe attirato la mia attenzione.»«Posso vederlo?» Elvira allungò una mano, ma il Barone allontanò il libro. «Meglio di no, mia cara. Perdonami se ti sembro scortese. La prossima volta, quando avrai

le mani pulite, ti concederò di sfogliarlo. Sai leggere in inglese? No?» Sorrise, un’espressione indecifrabile sul volto. «È una raccolta di poemi, nient’altro che un’opera di fantasia. Non dovrei prenderla così sul serio, questo è chiaro, però c’è qualcosa che ci riguarda. Un dettaglio che riguarda tutti noi, soprattutto te, Tommaso.»Il ragazzo sussultò. «Può far smettere i miei incubi?»«Forse. O causarne di peggiori, invece. Questo ancora non lo so. Ma può aiutarci a capire. Il

libro è stato scritto da Maurizio Cornelio Vetero, uno studioso dell’occulto inviato dall’Imperatore Augusto per investigare sui misteri che affliggevano le province romane. Un mio amico era ricercatore, e non c’è voluto molto a capire che quello scelto dall’autore non era altro che uno pseudonimo.»«Un che?»

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«Uno pseud… un nome falso. Capisci? Il De Fauci Inferni era stato scritto in latino, ma non da un romano. La stesura dell’opera risale a un’epoca molto vicina alla nostra, forse l’inizio dell’Ottocento. Non guardatemi in quel modo, lo so… sto facendo un mucchio di chiacchiere. Lasciatemi finire, però. Il vero autore è Sir Horace Leymore, un commerciante di spezie che ha visitato in lungo e in largo l’Italia. È stato anche da noi, sapete? Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che ha trascorso diversi anni in Cilento. Amava la nostra terra e le sue leggende. Ha scritto di noi, di Castellaccio e della nostra montagna.»«Davvero?»«Sì, Tommaso… davvero.» Il Barone si premette l’indice e il pollice sulla fronte. «Il Signore

della notte è il componimento più intenso che abbia mai letto. Mi ha spaventato e sconvolto così tanto che per anni non sono riuscito a rileggerlo. Racconta dei greci che erano arrivati sulla costa con le loro navi e si erano stabiliti proprio qui, in questi boschi, e di quello che gli capitò.»Tommaso deglutì, la lingua attaccata al palato. Il Barone si schiarì la voce con un colpo di

tosse.«Non so da dove Maurizio Cornelio Vetero abbia tratto ispirazione, ma le sue descrizioni

sono molto vivide. Parla di una caverna che conduce fin dentro al cuore della montagna. Una porta verso il mondo dei morti. I greci la scoprirono e il Signore della notte, che era stato imprigionato dentro di essa da un sortilegio, decise di ringraziarli a suo modo per averlo liberato. Quella stessa notte discese al villaggio. C’erano bambini, molti bambini. Quando le madri si destarono, non trovarono altro che i loro pagliericci vuoti. Le donne invocarono i nomi dei figli per giorni. Gli uomini decisero di tornare sulla montagna, l’unico posto che non avevano ancora controllato. Quello che scoprirono li lasciò senza parole. Un flagello era calato su tutti loro.»Il Barone Gioia chiuse il libro in uno schiocco. Guardò i ragazzi e si lisciò i baffi.«I piccoli erano stati sempre lì, per tutto il tempo. Impiccati ai rami degli alberi. I loro corpi

erano stati mutilati e adornavano il sentiero che portava alla caverna. Segnavano il percorso per le fauci dell’inferno.»Tommaso rabbrividì. «Come il figlio di Goffredo.»«Sì, proprio come il figlio di Goffredo.»

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28

OGGI

Lo Sciacallo arrancò per le scale fino alla porta. Voleva uscire da quella casa, e voleva farlo subito. Annaspò alla ricerca della maniglia, gli mancava l’aria. Si sentiva come se gli avessero squarciato la gola e poi lo avessero lasciato lì, tra quelle mura, in attesa di morire. Era stato l’Uomo del salice a brandire la lama, vibrando un colpo preciso, proprio sotto il

pomo d’Adamo. Damiano si era illuso che un colpo di pistola bastasse per mettere a posto le cose. Si

sbagliava. Giulio non era mai morto. La sua essenza impregnava le mura di quella casa, avvelenava il terreno. Era ovunque. Nelle pietre, nella terra, nelle radici infette del salice bianco.L’Uomo del salice era Castellaccio.Lo Sciacallo riuscì a spalancare la porta, e si gettò fuori. Cercò un appoggio, ma la punta del

bastone affondò nel vuoto. Crollò in ginocchio, un braccio ancorato a un pilastro del portico.«Aspetta.» Stefano fu subito al suo fianco, lo aiutò a tirarsi su. «Che fai? Vuoi spezzarti

l’altra gamba?»«Devo tornare a casa mia… io… ho di meglio da fare che stare qui.» Damiano fu disgustato

dalle sue stesse parole. Era patetico, una caricatura vivente di se stesso.Hai paura?La Malangone lo stava osservando. Nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso. Nessuna

commiserazione, nessuna pietà.«Dottor Valente» disse, la voce tranquilla. Gli poggiò una mano sul braccio e lui fece un

cenno con il capo. Cercò di calmarsi. In fondo, era solo una scritta sul muro. Jack saltò fuori dai cespugli, trottò fino a lui e gli premette il muso sfregiato contro una coscia.«Sto bene, bello. È passato… è tutto passato.»«Che cosa hai detto?» La voce di De Vivo rimbombò nel corridoio vuoto della casa.

«Aspetta, sto uscendo fuori. Non prende… ripeti!»Il commissario scese i gradini e si fermò nel cortile. Il cellulare poggiato all’orecchio e il

volto segnato dalle rughe. «È sicuro?» chiese, grattandosi il collo. «Va bene, ho capito. Trattenetelo, voglio parlarci. Sì,

un’ora e sono lì.» Chiuse la chiamata e guardò Damiano. «Stai bene?»Lo Sciacallo annuì.«Dottore’, era Ricciardi. C’è un testimone.»«Chi?» Il procuratore gli lasciò andare il braccio.«Il conducente di un autobus. Dice che ha visto una ragazza alla fermata.»«Una ragazza?»

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«Così pare.» De Vivo infilò il telefono in tasca e prese una sigaretta. L’accese e fece un tiro. «Dice che alla fermata c’erano quattro persone. Un uomo, due donne dell’est e la ragazza.»«Le sembra attendibile?»«Non lo so, potrebbe. Ricciardi dice che l’autista è sicuro. Ha guardato verso la pensilina

quando si sono aperte le porte. Faceva molto freddo e la ragazza indossava un giubbino leggero.»«Un giubbino?» chiese Damiano. Il sangue aveva ripreso a circolargli in corpo, l’occhio a

lacrimare, la gamba a tormentarlo. Le fitte di dolore gli ricordavano che era ancora vivo. «L’autista era rientrato al lavoro da nemmeno una settimana. Il mese scorso è stato

aggredito mentre era in servizio. Ha guardato la ragazza e si è allarmato. Pensava fosse una tossica che sarebbe salita a bordo per rompergli il cazzo. Scusate, dottore’.»«L’autista… cosa è accaduto dopo? Ha visto?»«Il pullman è ripartito. La ragazza è rimasta alla fermata. Il tizio dice d’aver guardato nello

specchietto retrovisore e di aver notato una macchina in doppia fila.»«L’auto di Gentile» osservò la Malangone. Chinò il capo e rimase in silenzio, come se le

occorresse qualche istante per assimilare la notizia. Si voltò verso la casa, un dito puntato contro la porta aperta. «Cosa c’entrano i nostri omicidi con tutto questo?» chiese.«Vendetta.» La voce di Damiano parve provenire da un’altra dimensione. Un piano temporale parallelo

in cui tutto era semplice e lineare, come i binari di un treno. La ragazza alla fermata, il sangue, i corpi sgozzati, il biglietto infilato nella ferita.Lui vede.Era tutto collegato.«È una vittima.» Lo Sciacallo piantò il bastone nel terreno, in un tentativo goffo di

raddrizzare la schiena. «Deve essere stata in questa casa, proprio come noi.»«Un impiegato con il vizio delle puttane e uno stimato professionista adescatore di

minorenni sul web.» De Vivo parlò attraverso una nube di fumo. «Ci può stare.»La dottoressa Malangone scosse piano il capo. Non sembrava convinta.«Quando si pensa a un crimine violento, si tende sempre a dare per scontato che a

commetterlo sia stato un uomo.» Damiano si asciugò la guancia. «Il maschio è più forte, non crea empatia con le vittime perché non ha sensibilità. Giulio Fabiani aveva alle spalle un’adolescenza di violenze e abusi.»«La matrigna lo trattava di merda» s’intromise Stefano, le mani infilate nella tasca della

tuta.«E cosa è diventato?» riprese Damiano, il respiro che formava nuvole di vapore davanti

alla faccia. «Uno psicotico che sequestrava ragazzine e le torturava. Non significavano nulla per lui: la loro vita era niente. Doveva controllarle, ne sentiva il bisogno. Gli uomini che subiscono violenze possono diventare a loro volta dei violenti. Gli esseri umani però non sono tutti uguali. Siamo fatti di carne e di sentimenti. Amore e odio non dipendono dal sesso.»

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«Una ragazza…» sussurrò la Malangone.«Non una semplice ragazza. Una sopravvissuta.» Damiano fece un gesto con la mano. Le

dita tracciarono lettere invisibili nell’aria. «Lei ce l’ha fatta. È scampata a tutto questo. Giulio non era infallibile, aveva bisogno dell’aiuto di un partner, non solo per condividere la sua mania. Ci ha provato con Stefano nell’85, usandolo per adescare Claudia, così come si è servito di Samuel, il ragazzo africano che aveva scelto come apprendista nel suo disegno folle.»«Ingrid» disse Stefano. «L’austriaca… lei riuscì a scappare»«Esatto. Ingrid si è salvata. Era allenata, e Giulio era ancora solo. Un giovane inesperto che

moriva dalla voglia di uccidere. Forse per la prima volta. Dottoressa, mi ascolti. È probabile che io mi sbagli, ma guardiamo i fatti. Abbiamo due corpi e un messaggio lasciato nel sangue. Se è stata la ragazza alla fermata ad adescare e uccidere Gentile, allora è mossa da qualcosa che non le dà pace. Un fuoco nero che nessuno vuole toccare. Il fuoco nero non scalda, il fuoco nero uccide.»«Farò controllare il graffito.» La bocca del procuratore si tese in un debole sorriso. «Una

mia amica insegna all’Università di Salerno, ed è una studiosa di valore. Ho scattato una foto e voglio farle leggere i versi che ci sono in quella casa. Magari possono aiutarci a comprendere il significato del messaggio di cui lei parla, dottor Valente.»«Grazie.» Lo Sciacallo vide gli occhi di Giulio nella caverna. Il sorriso folle sulla faccia

quando era montato sul petto di Flavio.«Andiamo, dottore’» disse De Vivo. «Voglio sentire l’autista e poi passare dagli uffici della

Postale. L’ispettore Raimondi sta controllando il computer di Gentile e le trasmissioni della chat. Magari viene fuori qualcosa anche da lì. Un indirizzo, o roba del genere. Possiamo prenderla prima che ammazzi altra gente.»«Forse l’ha già fatto.» Damiano salutò entrambi, li osservò mentre salivano a bordo

dell’auto, accarezzando con una mano la testa enorme di Jack. Il commissario partì in retromarcia, sollevando una nuvola di polvere.«Che pensi?» Stefano gli mise una mano sulla spalla.«Ho ucciso Giulio una volta. Mi sa che non gli è bastata.»Una vibrazione nel taschino della giacca. Lo Sciacallo afferrò il telefono, guardò il display.

Non riusciva a spiegarsi il perché, ma aveva un brutto presentimento, sudore freddo nel colletto della camicia e la sgradevole sensazione che il mondo gli sarebbe caduto addosso da un momento all’altro.«Chi è?» domandò l’amico, indicando con il mento il cellulare.Damiano si toccò la cicatrice sullo zigomo. Bruciava come una ferita aperta.«È Flavio.»

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29

LUGLIO, 1950

«Che pensi di lui?» Elvira si chinò a raccogliere un sasso. Se lo sistemò tra l’indice e il pollice, piegò il braccio di lato e lo scagliò verso lo specchio dell’acqua. La pietra sferzò il fiume. Una, due, tre volte prima di essere ingoiata dalla corrente.«Dove hai imparato a farlo?» Tommaso la guardò ammirato. Era il terzo lancio che non

sbagliava.«Non cambiare argomento.» Gli diede un pizzicotto su un braccio, prese una pietra e gliela

mise in mano. «Me l’ha insegnato mio padre. Adesso rispondi… che impressione ti ha fatto?»Il ragazzo strinse le dita sul sasso, guardò le nocche sbiancare, i tendini accavallarsi, le

linee verdi delle vene sotto la pelle.«È strano.»«Tutto in quella casa è strano. Hai visto la roba sugli scaffali?»«Ha viaggiato molto. Quanti soldi pensi ci vogliano per girare il mondo?»«Parecchi.» Elvira si mise dietro di lui, gli sfiorò le spalle, il respiro che gli accarezzò la

nuca. «Tieni il busto dritto, ecco… così. Adesso guarda il punto dove vuoi far rimbalzare la pietra.»Tommaso fissò il fiume. Tirò il braccio indietro e si preparò a lanciare. Senza fretta. Gli

piaceva sentirla così vicina a sé che aveva paura di interrompere quel momento. Quanti giorni mancano alla fine dell’estate?Contò in fretta, cercando di non perdere la concentrazione. Venti giorni, forse venticinque.

Era tutto ciò che avevano per stare insieme, poi Elvira sarebbe tornata a casa e a lui non sarebbe rimasto nulla. Un sassolino sul fondo del fiume.«Andrai ancora dal Barone?» gli chiese lei.«Dici che dovrei?»«Io sono io, tu sei tu. Se fossi al posto tuo, sarei curiosa di scoprire qualcosa di più. Hai

notato quanto ci tiene a quel libro?» Gli assestò una pacca sulla spalla. «Allora, la tiri questa pietra?»Il ragazzo sorrise. Elvira aveva preso sul serio la cosa. Lui non sapeva far rimbalzare le

pietre sul fiume, ed era grave. «Sei maldestro» aveva detto. «Tutti sanno come fare.»Tommaso si era limitato a scrollare le spalle. Essere bravo a tirare le pietre non gli avrebbe

cambiato la vita.

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Strizzò le palpebre e si strofinò la fronte con il polso bagnato di sudore. L’acqua sembrava essersi intorbidita. Un torrente di melma e detriti. Scorreva rapido, come se da qualche parte a monte si fossero rotti gli argini. Vortici di spuma contro massi putrefatti. Tommaso abbassò la mano che brandiva la pietra. La punta di un naso, la forma sinuosa di un mento. Fece un passo verso la riva, strizzò gli

occhi. I sandali lambiti dall’acqua. «Lo vedi anche tu?» chiese.«Cosa?»Il corpo.«Lì… lo vedi?» Indicò la cosa che galleggiava.Nunzio? No, non può essere. Ho aiutato Don Rosario a caricarlo sul carro. «Dove? Non c’è niente, Tommy.»Deglutì chiodi arrugginiti e strinse i denti. Scagliò la pietra con tutta la forza che aveva.

Aveva ragione Elvira. Era maldestro, ma la mira non gli mancava. Colpì quel naso, lo tranciò di netto, facendolo sparire in una piccola esplosione di schizzi. «Dovevi farla rimbalzare» disse l’amica.Non rispose. Sollevò il mento e osservò la montagna. Il fianco roccioso che si stagliava

sopra le cime degli alberi. Vide la strada arrampicarsi verso il nugolo di case marroni, costeggiando i tronchi e la macchia verde del bosco.«Si sta facendo tardi.» Si voltò verso il sentiero. «Dobbiamo tornare.»«Non devi per forza accompagnarmi fino a casa. Sono quasi arrivata.»Il ragazzo immaginò che Elvira avesse paura di farsi vedere con lui dai nonni. Non poteva

dimenticare quello che aveva detto il maresciallo Pironti. Poi però pensò alla sua casa vuota, alle lettere abbandonate sul tavolino che Mimì aveva mandato a Teresa, e il cuore iniziò a battergli più forte. La visita a casa del Barone Gioia gli aveva fatto dimenticare quello che era successo, e adesso la preoccupazione lo pervase, inondandogli le vene come un torrente infetto.«Ti porto fino al sentiero, poi vai dritta. È facile.»«Che ti succede? Hai cambiato faccia.»«Niente. Vieni… da questa parte.»«Sicuro?»«Sicuro.»

* * *

Teresa provò a nascondere il livido con una ciocca di capelli. Una chiazza viola sullo zigomo, il labbro gonfio e gli occhi rossi per il pianto. Tirò su con il naso e fece finta di mettere a posto la cucina. Tommaso vide i cocci sul pavimento, e prese la scopa poggiata contro il muro.«Ti aiuto.»«Grazie.»

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Il silenzio era una presenza nella stanza. Tommaso riusciva a sentirne il respiro mentre spazzava. La sorella non aveva voglia di parlare, ma lui sì. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe permesso a nessuno di farla soffrire, tanto meno a suo padre.«Alla fine ha picchiato anche te.»«Me lo sono meritato» rispose la ragazza, chiudendo un’anta e voltandosi verso di lui, le

braccia incrociate sul ventre.«Ho visto le lettere. Da quando vi scrivevate?»Teresa mosse un angolo della bocca in un accenno di sorriso.«Sei mesi.»Tommaso indicò il viso della sorella. «Ha visto come ti ha combinata?»«No, e non deve vederlo. Lo so che cosa vuoi fare… promettimi che non gli dici niente.»«Lo giuro.»«Su mamma? Lo giuri su mamma?»«Sì, lo giuro su mamma.»Mentiva.Teresa incrociò il suo sguardo, e lui non distolse gli occhi. Rimase calmo, cercò di non

muovere i muscoli della faccia, e lei non si accorse che stava digrignando i denti.«Mi ha fatto mettere il vestito buono e siamo andati a Giungano. Vuole fare presto con le

nozze, ma De Luccia ha detto che non si può anticipare.»«Meglio così, no?»«Oggi, domani… che cambia. Sono io che devo sposarmelo a quello, non lui.» Teresa si

voltò, prese uno straccio e sollevò il coperchio di una pentola messa sul fuoco. Tommaso avvertì una lieve incrinatura nella voce. «Ha aspettato che tornassimo a casa per picchiarmi. Non l’aveva mai fatto prima, aveva sempre paura di rovinarmi il faccino.» Sorrise. «I segni andranno via prima del matrimonio, ha detto.»Tommaso strinse le mani sulla scopa.«Dove sta adesso?» chiese con voce tranquilla, spingendo i cocci nella paletta.«Fuori. Ha sfasciato un po’ di roba, si è preso una bottiglia ed è uscito. Spero che muoia.»Il ragazzo annuì. Gli era capitato di sognare la morte di Don Rosario. Svegliarsi, scendere al

piano di sotto e trovarlo disteso su quel vecchio divano. Un braccio penzoloni, le dita ancora strette al collo di una bottiglia. Strozzato dal suo stesso vomito. L’aveva immaginato e non se ne vergognava. Quanto aveva desiderato che a morire fosse stato lui, invece di sua madre. Le cose sarebbero andate in modo diverso. Teresa avrebbe potuto sposare Mimì e non sarebbero stati costretti a vendere la casa per pagare i debiti.Se desideri una cosa con tutto il cuore, prima o poi si avvera.«Vado a gettare questi fuori.» Attraversò il corridoio in un tintinnare di cocci e uscì sul cortile. La porta della stalla era

socchiusa, il gancio di ferro danzava nel vuoto come un osso rotto.Tommaso svuotò la paletta sul brecciolino e la lasciò cadere a terra. Avanzò, tenendo lo

sguardo fisso sulla porta. Avrebbe dovuto riflettere, prendersi il tempo per respirare, ma era stanco. Stanco di ingoiare e andare avanti, di accettare. Stanco di subire.

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Ti fai ancora mettere le mani addosso? Don Rosario ballava intorno al fuoco come uno stregone pazzo. La camicia sbottonata, il

crocefisso appeso al collo che rimbalzava sul petto. In una mano la bottiglia di vino, nell’altra un foglio di carta.«Si scrivono le lettere d’amore» gracchiò, la faccia rossa e madida di sudore. Le mucche si

agitavano dietro le sbarre dei recinti. Fece un saltello, rischiò di cadere e scoppiò a ridere.«Le lettere!» gridò, una vena che gli spaccava in due la fronte.«Che state facendo?» Tommaso vide il forcone poggiato contro il muro. Le punte sporche

di letame.«Le brucio.» Il padre mandò giù un sorso, rivoli di liquido rosso sul mento. Indicò le

fiamme. «Quello è il loro posto. Nel fuoco.»«Siete pazzo.»Tommaso osservò la lettera sventolata in aria. Doveva togliergliela di mano. Forse era

l’ultima rimasta. Significava qualcosa per Teresa e Mimì. Significava qualcosa per lui.«Datemela.»Si avvicinò piano, un braccio teso in avanti. Il calore della fiamma gli sfiorava le dita.«Vuoi questa?» Don Rosario guardò la lettera e l’avvicinò al fuoco. Un angolo di carta svanì

nel fumo. «Vieni a prenderla, scimunito.»Non se lo fece ripetere. Gridò mentre girava intorno al fuoco, i pugni stretti e le unghie

conficcate nella carne. Divorò lo spazio che li separava, in un istante. A guardarlo da vicino, il padre non sembrava più così alto. Era solo un miserabile ubriaco, che a stento si reggeva in piedi.Tommaso era arrabbiato, una sensazione che non aveva mai provato prima. La furia lo

rendeva cieco. Così cieco da non notare il sorriso che spariva dalla faccia di Don Rosario. Così cieco da non accorgersi del fondo della bottiglia che puntava dritto alla sua tempia.Il vetro cozzò contro il suo orecchio, ma non si ruppe. Il ragazzo perse lo slancio, i piedi che

sbattevano uno contro l’altro. Finì contro il petto del padre, urtò con la fronte sul suo mento, e i denti di Don Rosario schioccarono. Caddero, rotolando nella polvere in un vortice di gambe e braccia. Padre contro figlio. Avvinghiati, uniti nel sangue e nella follia. Lottarono, le urla che si mescolavano ai versi degli animali nella stalla. Lottarono senza avere un motivo. Forse per Teresa, forse per altro. Tommaso non poteva più saperlo. Il padre provò a bloccarlo, ma lui gli era montato sul petto. Sfilò un braccio dalla presa, ululando. Le nocche si schiantarono sul naso di Rosario, e dalla sua bocca proruppe un torrente fetido di bestemmie.«Ti ammazzo… Io ti ho messo al mondo e io ti levo da…» sibilò, prima di sputargli in faccia.Il ragazzo riuscì a liberare l’altro braccio. Qualcosa di viscido e caldo gli scorreva davanti

agli occhi. Osservò il volto del padre diventare rosso, le palpebre sbattere mentre lui gli stringeva entrambe le mani intorno alla gola, i pollici che schiacciavano il pomo d’Adamo.Uno schianto.La bottiglia esplose. I pezzi schizzarono dappertutto.

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Tommaso allentò la morsa, la stalla prese a girargli intorno. Si ritrovò su un fianco, il sapore della terra in bocca e gli occhi che fissavano gli zoccoli di una mucca. Don Rosario tossiva, piangeva e diceva cose senza senso. Il rumore di una catena, qualcosa che sbatteva, poi uno sbuffo. Suoni attutiti da un fischio che gli trapassava il cranio.Mi ha rotto la testa.Tommaso sentì l’odore pungente del fuoco, il calore che gli sfiorava i talloni. Tastò il

terreno, le dita toccarono qualcosa. Un foglio.La lettera.Don Rosario gli camminava attorno strusciando i piedi, quel che restava della bottiglia

ancora stretto nel pugno. Sferzò l’aria con il braccio e i denti di vetro azzannarono il vuoto. Era confuso. Sembrava indeciso se tagliargli la gola o lasciar perdere.Tommaso avvertì l’ombra del padre incombere su di lui e si sentì piccolo, un insetto

pronto a essere schiacciato. L’uomo gli sferrò un calcio. La punta della scarpa lo centrò alla nuca e il fischio divenne

un’esplosione nella testa. Il boato di una mina in mezzo ai campi. Tommaso sbatté le palpebre, si sforzò di non perdere i sensi, e mentre i confini del mondo

intorno a sé si disintegravano pensò solo a una cosa. Il forcone. Avrebbe dovuto usare il forcone.

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30

OGGI

Flavio fermò l’auto nel cortile della clinica. Un infermiere gettò una sigaretta nella neve e lo fissò a bocca aperta mentre scendeva dal veicolo e correva verso l’ingresso. Lo sportello aperto alle sue spalle, il respiro affannato. La sua faccia riflessa nei vetri scuri della porta scorrevole. Non si era nemmeno dato una pulita. Schizzi di sangue secco sugli zigomi. Lanciò un’occhiata verso l’ascensore e le persone in attesa, poi prese le scale. Fece i gradini due per volta, la testa vuota. Pensieri, immagini, ricordi erano stati risucchiati dal buio.«Dottore?» si sentì chiamare, ma proseguì senza fermarsi. Raggiunse il secondo piano,

rallentò la corsa. Si guardò intorno, il corridoio tappezzato di disegni. Vide un bagno e vi si infilò dentro. Lei non doveva vederlo in quelle condizioni, o si sarebbe spaventata. Aprì un rubinetto e accolse il tocco gelido dell’acqua tra le mani. Si lavò la faccia, deterse le nocche sbucciate e si asciugò con dei tovaglioli di carta. Tornò nel corridoio e riprese a muoversi. Senza fretta. Aveva la sensazione di essere osservato. Occhi che lo seguivano e che lui non poteva vedere. Occhi ovunque, anche nei muri. Si voltò. Era solo, il riverbero di una voce attutito dalle pareti. Un televisore.La signora Rita stava guardando un talk show mentre puliva la mensa. Non si accorse

nemmeno di lui, quando entrò nella stanza.«Mamma dotto’, mi avete fatto paura» disse.Flavio cercò di controllare il tono della voce. Sentiva un tremolio alla bocca. Espirò con il

naso e guardò verso la finestra. Un angolo vuoto tra il muro e il vetro.«Dov’è?»L’inserviente seguì la linea dei suoi occhi.«State tranquillo, ho fatto come avete detto voi.» La donna sorrise. Immerse lo scopettone

in un secchio pieno d’acqua e riprese a lavare il pavimento. «Non l’ho persa d’occhio un minuto.»«Grazie.» Flavio stava per perdere la pazienza. «Dove sta adesso?»«De Martino.»Una voce di donna alle sue spalle.La Nardi si aggiustò gli occhiali sul naso con la pressione di un dito, e sorrise.«Ma dove sei stato?» Lo guardò dal basso verso l’alto, e il volto si contrasse in una smorfia

di preoccupazione. «Che hai fatto? Stai bene?»Flavio spezzò la morsa invisibile che gli serrava le spalle, si liberò delle dita strette intorno

alla gola e si schiarì la voce.«Sto bene.»

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«Dottoressa» intervenne Rita. «Glielo dite voi?»«Certo, non preoccuparti. Va’ pure.»«Dirmi cosa?» Lui guardò l’inserviente che prendeva secchio e mazza e si spostava in un

altro angolo della sala, poi si rivolse alla collega.«La paziente 68? Avevi chiesto a Rita di tenerla d’occhio.»Flavio annuì.«Perché non mi hai detto che aveva parlato?»«Io… non c’è stato il tempo. Dovevo fare una cosa… io…»«Ci sei riuscito, bravo.» La donna gli diede una pacca amichevole sul braccio. «L’hai

riportata indietro.»«Come sta?» Flavio era preoccupato e impaziente. Aveva sbagliato ad allontanarsi dalla clinica. Aveva sbagliato a ficcarsi in quella storia.

Avrebbe dovuto capirlo da subito. La chiacchierata con Agostino all’accettazione, i documenti in archivio e la firma falsa di De Nicola. Elementi sufficienti per avvisare i carabinieri, eppure non l’aveva fatto. Si era introdotto nella casa del collega e ne aveva trovato il cadavere. Un colpo sparato in mezzo agli occhi. Un’esecuzione. Gli assassini l’avevano seguito fino a quella stazione di servizio ad Agropoli. Non avrebbe

voluto, ma era stato costretto a ucciderli. Almeno, uno di loro. Aveva lasciato i corpi sulla strada ed era andato via. Era scappato senza nemmeno togliere loro la patente per arricchire la sua collezione. Le persone cattive hanno sempre un documento dietro.«Sta bene. Vuoi vederla?» La voce della Nardi lo riportò alla realtà. «Però dovevi dirmelo,

che aveva ripreso a parlare. Pensavo facessimo lavoro di squadra. Seguimi.»Flavio rimase in silenzio nel tragitto dalla mensa fino alle stanze delle pazienti. Voleva

mettere in ordine le idee ma non riusciva a pensare. La Quiete non era sicura. Chi aveva ucciso De Nicola voleva seppellire la verità sotto due metri di terra. Roberta, o qualunque fosse il suo nome, rischiava grosso. Il vecchio aveva ragione. Doveva prenderla e portarla via di lì, a ogni costo.«Lo so che sei contrario, ma non c’eri e ho dovuto darle qualcosa.» La Nardi prese un

mazzo di chiavi dalla tasca del camice. «Continuava a ripetere quella frase, a dondolarsi sulla sedia… ha iniziato a dare manate contro il vetro e ho avuto paura che si facesse del male.»«Che frase?» Flavio contrasse la mascella. Avrebbe voluto fare altre domande alla collega,

ma le tenne per sé. Non voleva fare passi falsi. Non più. La guardò di sottecchi.Perché hai assegnato una stanza a una paziente non registrata?«Qualcosa a proposito del vedere… Lui vede. A che cosa si riferisce, secondo te?»Lui si strinse nelle spalle. «Potrebbe essere l’origine del trauma. Un ricordo che la assilla.»«Già. Era questo che cercavi in archivio?»Come lo sai che sono sceso in archivio?

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«Non guardarmi in quel modo.» La dottoressa sorrise e si ravviò una ciocca di capelli sfuggita all’elastico. «Ho incontrato la signora Cappetta in direzione e me l’ha detto. Non c’è niente di male. Perché hai chiesto di consultare le vecchie cartelle di De Nicola?»«Volevo confrontare la diagnosi con altri casi che aveva trattato.»«E hai trovato quello che cercavi?»Flavio fece un debole sorriso e incrociò lo sguardo della collega.«Forse.»«Be’, la prossima volta non scomodarti a fare ricerche. Vieni da me, fai prima. Conosco

tutto ciò che accade in clinica, ed è possibile che De Nicola abbia chiesto un mio parere.»«Ah sì? Succede spesso questa cosa?»«Te l’ho detto, qui facciamo gioco di squadra.»«Devo adeguarmi, allora.»La Nardi lo guardò da dietro gli occhiali e annuì.«Non hai visitato la 68 da quando ti hanno passato la cartella, vero?»Flavio sentì la saliva compattarsi nella gola come un grumo di calcare. Trattenne il respiro,

impiegò qualche secondo per rispondere.«Certo» disse. «Sono stato con lei quasi tutti i giorni.»«Non in quel senso.» La dottoressa scosse il capo. «L’hai visitata fisicamente? Hai visto

cosa aveva addosso? Ah… dimenticavo, non l’hai fatto. Tu non tocchi le pazienti.»Ripensò alla cartella, ai fogli messi in ordine. Alle pagine e alle caselle compilate dal

collega. Rilesse tutto nella mente, come aveva fatto per giorni, e si morse la lingua.Un vuoto.«Quando è arrivata era troppo scossa per poterla avvicinare» riprese la Nardi. «De Nicola

ha chiesto il mio aiuto e le ho dato un’occhiata. Pensavamo che con una donna potesse sentirsi più a suo agio… e invece no. Ho dovuto sedarla. Era debole, denutrita, eppure ha trovato la forza per fare resistenza. Noi volevamo solo aiutarla. Hai letto il fascicolo, vero?»Flavio fece per rispondere, ma lei lo anticipò.«De Nicola era troppo preso dai problemi a casa per fare bene il proprio lavoro. La moglie

gli aveva tolto i figli, lo sapevi? Gli chiesi di compilare il referto, ma aveva fretta. Disse che avrebbe verbalizzato tutto il giorno dopo, e invece non l’ha fatto.»«Non mi hai detto nulla.»La Nardi annuì. «Adesso capisci cosa si prova? Avrei dovuto sapere che lei aveva parlato.

Te ne vai in giro con quegli occhi di ghiaccio e i tuoi modi da samaritano, e ancora oggi, dopo tutti questi mesi, non ho capito bene chi sei. Dobbiamo imparare a fidarci l’uno dell’altra, se vogliamo essere amici.»«Io non voglio essere tuo amico.»La Nardi si fermò, l’espressione di chi aveva appena ricevuto uno schiaffo. Indicò con il

mento una porta chiusa, prese il mazzo di chiavi e si avvicinò alla maniglia.«Se tu l’avessi visitata» disse, infilando la chiave nella serratura, «se avessi visto cosa aveva

sotto la maglia, avresti capito più cose di quanto pensi.»«Che c’è da capire?»

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La donna sorrise. «Lo vedrai con i tuoi occhi.»Spalancò la porta e Flavio entrò nella stanza. Un letto vuoto, le coperte tese sopra il

materasso. La luce del pomeriggio che filtrava da una finestra sbarrata. Un tavolino e una sedia. Vuota.Fece per voltarsi ma avvertì un pizzico alla nuca. La stanza prese a oscillare, le pareti a

flettersi come fossero fatte di gomma. Il pavimento si alzò e si abbassò. Provò a muoversi, ma qualcuno gli aveva inchiodato i piedi sulle mattonelle. Si voltò e vide l’ago. «Mi dispiace» disse la Nardi. «Dovevo sapere da che parte stavi.»Flavio fissò la siringa. Sembrava brillare nella mano della donna. Un bagliore che gli faceva

sanguinare gli occhi. Provò a parlare ma dalla bocca uscì un suono soffocato dalla saliva.Sei uno stupido.Cadde in ginocchio, il respiro ridotto a un sibilo. Lei lo fissava con occhi vuoti, i lineamenti

distorti. Il volto iniziò a sciogliersi come una maschera di cera al sole.

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31

LUGLIO, 1950

Tommaso bussò alla porta e si lasciò cadere sugli scalini. Era esausto, e la testa gli pulsava come se l’avessero presa a martellate. Aveva affrontato il padre. La cosa avrebbe dovuto procurargli piacere, e invece se ne vergognava. Era strisciato fuori dalla stalla e scappato nel bosco, ma non perché avesse paura. Si era sentito un mostro. Aveva desiderato di uccidere Don Rosario e forse l’avrebbe fatto, stringendo ancora più forte le mani intorno alla sua gola, se lui non l’avesse colpito con la bottiglia.«Che hai fatto?» Mimì era una statua di granito sulla soglia. La sigaretta stretta in un

angolo della bocca e l’espressione corrucciata.Il ragazzo era troppo stanco per rispondere. Era bagnato, madido di sudore e sangue. Si

sentì sollevare come fosse un sacco di patate, poi il suono della porta che sbatteva.La cucina odorava di caffè e tabacco.«Ce la fai a stare seduto?» Mimì lo adagiò su una sedia.«Credo di sì… io…»«Shhh, fa’ vedere.» Dita callose gli sfiorarono il mento con una delicatezza che lo sorprese,

girandogli la faccia di lato. Mimì studiò il taglio che aveva sulla tempia con la stessa espressione del veterinario quando veniva a guardare le vacche alla tenuta. «Non è profonda, hai la testa dura. Non dovrò metterti i punti. Adesso te la pulisco.»L’amico rovistò nei mobili della cucina. Prese uno straccio e lo bagnò con una bottiglia

d’acqua che aveva sulla tavola apparecchiata, quindi glielo lanciò.«Premici questo sopra» disse, mentre trafficava con delle bottiglie. «Dovrei avere

dell’aceto da qualche parte. Ah… eccolo.»Versò del sale in un bicchiere d’acqua e lo mescolò con il manico di una forchetta, poi

aggiunse il liquido nella boccetta, prese una sedia e la trascinò davanti a Tommaso.«Brucerà» disse, imbevendo un fazzoletto nel bicchiere e avvicinandolo alla sua testa.Il ragazzo si morse il labbro. Una coltellata gli trapassò il cranio. Emise un gemito

soffocato, poi l’amico gli prese una mano.«Tieni, premilo qui. Vado a cercare qualcosa con cui fasciarti.»Tommaso rimase solo con quel fazzoletto e il proprio dolore, gli occhi gonfi di lacrime.

Sentiva dei rumori al piano di sopra. Cassetti che si aprivano, passi. Deglutì e si strofinò le guance con una mano. Doveva mostrarsi forte, non voleva che lui lo vedesse in quello stato.«Fa bene, piangere.» Mimì schiacciò il mozzicone di sigaretta nel piatto con gli avanzi del

pranzo. «Non devi vergognarti.»Tommaso annuì e tirò su con il naso.

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«Vuoi bere?» L’amico versò del vino in un bicchiere e glielo porse. «Forza, ti fa bene. Manda giù, tutto in un sorso, se ci riesci.»Il ragazzo guardò il liquido rosso come ipnotizzato: aveva lo stesso colore del sangue.

Avvicinò il bicchiere alle labbra e un odore pungente gli penetrò le narici. Fece un piccolo sorso, per darsi coraggio, poi bevve tutto e il calore gli bruciò il petto e la gola.Un sorriso si allargò sul volto abbronzato di Mimì.«Che ti dicevo?»«Posso averne ancora?» Allungò il braccio.«Hai mangiato?»«No.»«Allora meglio evitare. Non voglio raccogliere il vomito dal pavimento.»Gli fasciò la testa e gli diede un colpetto sulla spalla.«Ho dei maccheroni al sugo preparati da Elsa. Li vuoi assaggiare? Sono buoni.»Tommaso avrebbe voluto dire di no, per non approfittare, ma aveva una voragine nello

stomaco e non fece nemmeno in tempo ad accettare l’offerta che l’amico aveva già messo un piatto fumante in tavola. Mangiò con avidità, le spalle che si scioglievano a ogni forchettata. Guardò il bicchiere vuoto, i segni lasciati dal vino sul vetro, e fu tentato di versarsene dell’altro. Poi pensò al padre, a quanto fosse schiavo di quella roba e decise di lasciar perdere. La sola idea di diventare come lui gli dava la nausea. Bevve dell’acqua, con quella non correva rischi.«Anche mia sorella cucina così bene» disse, tra un boccone e l’altro. Mimì fece un debole

sorriso, i suoi occhi si spostarono su un punto della stanza. Rimasero in silenzio, poi l’amico gli disse: «Ho del formaggio di pecora, te ne taglio un pezzo?»«No, grazie.» Si toccò la testa. «Dove hai imparato a fare queste cose?»«L’ho visto fare ai soldati.» Mimì scrollò le spalle. «Questa casa era piena di soldati quando

avevo la tua età. Prima i tedeschi, poi gli americani. Alcuni restavano a dormire fuori, sul portico. Altri qui dentro. Aprivano gli stipi, si sedevano a questa tavola come se fossero loro i padroni.»«È vero che hai ucciso un nazista?»La luce negli occhi di Mimì mutò. Un istante, e le iridi divennero dure come ghiaccio.«Chi te l’ha detto?»«Al paese.» Tommaso posò la forchetta, pentito per quella domanda stupida. «La gente

parla…»«La gente è ignorante e parla a vanvera.» Mimì prese del tabacco da un sacchetto, ne lasciò

cadere una manciata in una cartina e si rollò una sigaretta. «È stato lui? Vero?»«Ha trovato le lettere» rispose il ragazzo con un cenno d’assenso, accarezzandosi la

fasciatura.Mimì fece un tiro, parve prendersi del tempo per assimilare la novità.«Come sta Teresa?»Il ragazzo raccontò quello che era accaduto, gli disse dell’incontro a Giungano con De

Luccia, del tentativo fatto dal padre di anticipare le nozze e dei lividi sul volto della sorella.

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«Per questo l’ho aggredito. Sono entrato nella stalla e l’ho trovato che beveva. Aveva fatto un fuoco con le lettere. Volevo ucciderlo, Mimì. Prendere il forcone e infilarglielo nella pancia.»«Gli uomini che picchiano le donne non sono uomini ma munnezza. Montagne fumanti di

merda con gambe e braccia. Però, è meglio che tu non l’hai fatto.» Fece cadere la cenere sul pavimento. «È meglio così, credimi. Ti sarebbe rimasto sulla coscienza per sempre. Se senti il calore del sangue, poi non torni indietro.»Rimasero in silenzio per un tempo che parve infinito.«Mimì?»«Che c’è?»«Tu ami Teresa?»Un cerchio di fumo nell’aria. «E secondo te se non l’amavo mi mettevo a fare ‘sta cosa delle lettere?»«Che intenzioni hai? Lascerai che si sposi con De Luccia?»L’amico fece una smorfia e si alzò in piedi. Prese i piatti sporchi e li mise a mollo in una

bacinella. Fece un tiro, il volto nascosto dietro la brace, e guardò Tommaso.«Oh, certo che no» disse. «Io tua sorella me la vado a prendere.»

* * *

«Ti piace? Me l’ha dato un amico.» Mimì mollò un pugno al sacco di cuoio che penzolava dal soffitto. La catena tintinnò. «Sicuro che non vuoi imparare?»Tommaso scosse il capo con decisione.«Fare a botte non è cosa mia. Io consegno solo il latte.»«È meglio che resti a dormire qui, che ne dici?» Mimì gli fece segno di seguirlo fuori dal

deposito. Il sole stava scivolando dietro le montagne e il cielo era squarciato da un taglio rosso sangue.«Devo tornare. Teresa è sola, ho paura che le faccia ancora del male.»«Non la toccherà più, fidati. Andrò io a dare un’occhiata. Se lui è al paese, entro e parlo con

tua sorella. Le dico che stai da me.»A casa di Mimì c’era il bagno, e Tommaso non fu costretto a trovare una canaletta per

lavarsi. Mangiò formaggio di capra e del pane duro bagnato in una ciotola d’acqua e andò a stendersi in una stanza al piano di sopra.«Ci dormivano i miei fratelli, qui» disse Mimì mentre buttava un lenzuolo sul materasso e

apriva le tapparelle.«Quanti fratelli e sorelle hai?»«Cinque. Il più piccolo si chiamava Nicola. Era secco come un chiodo e sempre malato. È

scampato alla guerra ma è morto di tetano. Un giorno si tagliò vicino a del filo spinato e a fare il resto ci pensò la febbre. L’altro mio fratello si chiama Matteo. Non lo sento da una vita. Se n’è andato prima a Torino e poi in Francia. Un tizio di Salerno che lo conosce mi ha detto che fa il cameriere a Nizza, e io spero che stia bene.»«Ti piacerebbe rivederlo?»

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«Forse, non lo so.» Mimì gli passò un cuscino. «Mio padre è sparito prima della guerra, lasciandoci soli con i nostri problemi. Mia mamma aveva solo la bellezza dalla sua parte, e il resto della storia penso che lo sai.»Tommaso abbassò lo sguardo, mortificato. Coprì la brandina con il lenzuolo, tolse i sandali

e si distese. La testa gli pulsava, ma meno rispetto al pomeriggio.«Cerca di riposare» disse Mimì. «Domani ti sveglierai con una melanzana al posto della

fronte.»Il ragazzo rise. Aveva dimenticato la visita a casa del Barone Gioia, i sogni e Nunzio.Meglio così. Forse la botta in testa mi ha messo a posto.Poi però l’amico si fermò sulla soglia e lo fissò in quel modo che lo rivoltava come un

calzino.«Sei stato in caserma, dai carabinieri?» chiese.Tommaso si passò la lingua sulle labbra. Raccontò l’incontro con Goffredo ma non disse

d’essere stato a casa del Barone. Si era rivolto a Mimì per primo, e il fatto di aver parlato con Gioia gli sembrava un segno di sfiducia. Era un po’ come se lo avesse tradito.«Pensi che sia stato Goffredo?» chiese, e Mimì scrollò le spalle.«Potrebbe essere, come no. Io non sono una guardia, ma certe cose le capisco. Filomena ha

detto che non ha sentito urlare. Mettiamo che sia stato Goffredo a prendere Nunzio: secondo te il bambino non si sarebbe messo a strillare? Possibile che nessuno in casa abbia sentito niente?»Ha ragione. Uno come Goffredo spaventa solo a vederlo arrivare.«Te lo dico io cosa è successo.» Mimì tamburellò con le dita sul muro. «Nunzio conosceva

la bestia che l’ha ammazzato. Si fidava. Forse quello è arrivato e se l’è portato a fare una passeggiata fino al fiume. Non è distante da casa, e la mamma non se ne è accorta.»«Chi potrebbe fare una cosa così?»«Te l’ho detto, una bestia. Gli uomini sono capaci di cose anche peggiori. Una volta ho

sentito gli americani parlare di un tedesco che mangiava i cadaveri. L’avevano trovato da qualche parte, giù in Sicilia. La testa è come una sfoglia di cipolla, e se scopri che ti piace una cosa, come ammazzare i bambini, poi ti torna la voglia e lo fai ancora e ancora.»«Già… spero che lo prendano prima.»«E chi? Pironti? Quello non sa trovarsi nemmeno l’arnese nei pantaloni. Ascolta, Tomma’,

tu hai iniziato la cosa e tu devi finirla. Sei un bravo ragazzo e sei pure sveglio. Lo so che tutti ti fanno passare per scemo perché così gli conviene, ma non sei solo un lattaio. Io le capisco, le persone, e forse ho pure capito tu come sei fatto.»«Dici davvero?» Il ragazzo deglutì. «E come sono fatto?»«Tu tieni le palle. Hai trovato un cadavere fatto a pezzi e non sei uscito pazzo. Potrei

fregarmene di questa cosa, ma forse un domani sarò padre e non ce lo voglio nel mio paese uno che potrebbe sbranare i miei figli.»«Nemmeno io… Ma come…»«Facciamo così. Domani mattina torniamo al fiume e cerchiamo le prove. Magari andiamo

a vedere dove sta Goffredo. Forse lui ne sa più di noi. Questo tizio potrebbe essere lo stesso

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che gli ha fatto fuori la famiglia… e magari è per questo che si sta cacando addosso. Adesso dormi, però. Riposa.»«Grazie.»Mimì non rispose. Tommaso sentì i rumori delle scarpe sui gradini, della porta che

sbatteva, della chiave che girava nella serratura. Ascoltò il rombo della moto e poi il silenzio, che gli cullava i pensieri. L’aria si era fatta più fresca. In lontananza, prima di chiudere gli occhi, sentì il fragore di un

tuono. Era spossato e, più che addormentarsi, precipitò in un sonno improvviso e tormentato. Sognò la fine dell’estate, e poi l’inverno. La neve che soffocava la montagna e i tetti di Castellaccio. I rami secchi, lo scorrere dell’acqua. Il gelo che pizzicava la pelle, i piedi nudi sulla roccia. I suoi piedi che seguivano orme. Impronte lasciate prima del suo arrivo, impronte vecchie come il mondo. La forma di un tallone, il calco delle dita sulla superficie bagnata. Confuse, sfocate, ma era certo che fossero lì. Per lui. Qualcuno, o qualcosa, lo stava aspettando.

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32

OGGI

«Dici che Flavio se la scopa?» Stefano gli diede un colpetto con il gomito e indicò la psichiatra in corsia.«Abbassa la voce.» Damiano picchiò la punta del bastone sul pavimento. «Non farmi fare

una figura di merda.» L’uomo al banco dell’accettazione aveva composto un numero sul telefono e gli aveva

detto di attendere. La dottoressa Nardi sarebbe stata subito da loro. Nardi.Damiano non ricordava d’aver sentito questo nome. Flavio non era uno che parlava molto,

e si stupì quando la donna dimostrò di sapere bene chi fosse.«Il dottor Valente?» Gli tese la mano, uno sguardo intelligente dietro la montatura spessa

degli occhiali. Non era bella, con quei denti sporgenti e il sorriso gentile, ma dava l’impressione di avere il giusto carisma.«Sì.» Lo Sciacallo ricambiò la stretta. «Lui è…»«Geometra Stefano Fabiani.» L’amico si pulì una mano su una coscia e la tese in avanti.Si erano precipitati in clinica dopo aver ricevuto la telefonata. Flavio non aveva detto molto, la voce smorzata dallo shock. Era stato a casa di un collega e

ne aveva trovato il cadavere. Due uomini l’avevano seguito, li aveva affrontati e uccisi.La paziente. Damiano si sentiva in colpa. Era stato così preso dal caso degli omicidi seriali in cui l’aveva

coinvolto la Malangone che aveva trattato quasi con superficialità l’amico. Flavio era venuto a chiedere il suo aiuto a proposito di una sua paziente, e lui si era limitato a fare una telefonata. De Vivo gli aveva confermato che quanto indicato nella cartella era sbagliato. Nessuna volante aveva recuperato una giovane in stato confusionale.Stai bene? Perché non ti prendi qualche giorno di vacanza?Era l’unica cosa che Damiano aveva saputo dire all’amico.Flavio era una sua responsabilità. Una porta aperta sul passato. Sapeva che sua madre

aveva provato a chiederne l’adozione nell’85. I servizi sociali avevano risposto di no. Era depressa, avevano detto, e il ragazzo era finito altrove. Un quindicenne silenzioso con uno zaino di libri vecchi e una valigia rotta in cui nascondere i segreti, il dolore e la violenza che si trascinava dietro. Pochi si erano sforzati di capirlo, Damiano incluso. Era troppo preso dalla sua vita, e aveva voltato le spalle a un fratello.«De Martino mi ha parlato di voi» disse la psichiatra, con le mani infilate nelle tasche del

camice che giocavano con delle monetine.«Sul serio?» chiese Stefano, un sorriso da gigolò fallito sulla faccia.

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«Cerchiamo il dottor De Martino.» Damiano si asciugò la lacrima con il polso. Il dolore si era spostato dall’addome alla schiena. Ragni con zampe di metallo che scavavano la carne fino alle vertebre. Non aveva tempo né voglia per i convenevoli.La donna sembrò colpita dai suoi modi bruschi. Lo guardò con gli occhi di un macellaio

davanti a un capo di bestiame, poi si sistemò gli occhiali sul naso.«Flavio?»Lo Sciacallo fece un debole cenno d’assenso. «Strano. Non l’ho visto.»«Ne è sicura?» Il sorriso morì sulla faccia di Stefano.«Certo, ho appena coperto io il giro dei suoi pazienti. Ho provato a telefonargli ma ha il

cellulare staccato. Un attimo…» La dottoressa guardò un’inserviente che spingeva un carrello con vassoi e piatti sporchi. «Rita?» disse alla donna. «Per caso ha visto il dottor De Martino, questa mattina?»Rita si fermò. Spostò lo sguardo da lui a Stefano, poi tornò a fissare Damiano e annuì piano.«È uscito di fretta» rispose, una corona per il rosario appesa al collo e i segni bianchi della

ricrescita tra i capelli. «Gli ho chiesto dove andava, ma non mi ha risposto.»«Grazie.» La Nardi sorrise e la donna si limitò a salutare: «Con permesso.»«Possibile che abbia avuto un malore? Un attacco d’influenza, magari?» ipotizzò la

psichiatra, e Damiano fece un ghigno.«Qui si curano le persone, giusto?»«Certo, o almeno lo spero… questo è il nostro obiettivo.»«Strano allora che il dottor De Martino sia scappato via per un po’ di raffreddore, non

crede?»La dottoressa non rispose. «Comunque,» Damiano strinse le palpebre, la voce roca, «mi dispiace averla scomodata.»«Nessun problema.» La Nardi si tolse il sorriso dalla faccia. «Vi serve altro?»«No. Grazie per il suo tempo.»«Dite a De Martino di chiamarmi, quando lo vedete. Sono preoccupata.»La donna infilò le mani nelle tasche del camice, si voltò e tornò da dove era venuta.

Rimasero a guardarla mentre si allontanava. Una miniatura in fondo al corridoio. Poi la voce di Stefano ruppe il silenzio.«Io me la scoperei» disse. «Un po’ in carne per i miei standard, però devo ammetterlo: una

botta gliela darei.»«La daresti anche a me una botta, se avessi le tette» grugnì lo Sciacallo.«Probabile. Che ne pensi, di lei?»«Non lo so.» Damiano strinse la mano sull’impugnatura del bastone. Contrasse le narici e

inalò l’odore di disinfettante. Vide i disegni appesi alle pareti, sentì l’eco di una risata in lontananza. «Possono lavarli quanto vogliono questi pavimenti, lo sporco resta.»«Come?»«Vieni, usciamo. Poi ti spiego.»

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* * *

«Spero che quel cane non faccia i suoi bisogni nel mio Ducato.» Stefano guardò nervoso nello specchietto retrovisore.Damiano lo ignorò. Prese il telefono, aprì il registro delle chiamate e provò a contattare

Flavio.«Allora?» Stefano scalò la marcia e prese la strada per Castellaccio. Avevano lasciato l’auto

di Damiano a casa di Giulio.«È spento.»Lo Sciacallo abbassò lo smartphone, guardò la neve sporca al margine della strada. Seguì

con la mente la linea di fango e ghiaccio, una traccia nel buio. Provò a dare ordine ai pensieri.«Secondo te è possibile falsificare un ricovero?» chiese.Stefano corrugò la fronte, gli occhi fissi sulla strada.«Prima che mia moglie mi mandasse in mezzo a una strada, facevo lavori per il Vaticano.

Lo sai, no? Ho seguito la manutenzione di alcuni ospedali. Quattro anni fa mia madre ha avuto problemi di cuore. Per operarsi ci volevano almeno otto mesi di attesa, ti rendi conto? Mi sono bastati cinque minuti e una telefonata per trovarle un posto e le mani del primario pronte ad aprirle il petto.»«Si può fare tutto.»«Esatto. Devi conoscere persone che conoscono altre persone. La politica, le amicizie.»«Bel sistema del cazzo.» Lo Sciacallo distese la gamba cattiva ed emise un gemito.

«Mettiamo che vuoi far sparire una ragazza con problemi. Dove la metti?»«Le sparo?» «Ho dimenticato di dirti che vuoi farla sparire senza ucciderla.»«La sbatto in un posto dove nessuno potrà trovarla.»Lo Sciacallo annuì.«Una clinica psichiatrica per sole donne potrebbe essere un bel posto» disse. «Il medico a

cui hanno sparato è coinvolto, e potrebbero esserlo tutti. Anche quella dottoressa Nardi.»«Una bella faccia da stronza.»«Cazzo.» Damiano guardò il display del telefono che vibrava.«Che succede?»«È De Vivo.» Trattenne il respiro. «Sì?»«Valente, qui è un macello.» La voce del commissario proruppe dal telefono. «Il tuo amico

si è lasciato dietro troppi morti. I carabinieri lo stanno cercando e quelli sono stronzi. Non so se riesco a tenerli a bada. Dove sta adesso? Il capitano di Agropoli ha visto le registrazioni della videosorveglianza, dice che è roba da film di 007.»Lo Sciacallo si voltò verso Stefano. Le labbra dell’amico si mossero mimando: “Che dice?”«Al dottore hanno sparato in testa» continuò De Vivo. «I due morti alla stazione di servizio

sono slavi. L’auto che guidavano risulta noleggiata da una donna di novantadue anni. In che giro si è messo De Martino?»

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«In nessun giro, Ernesto. Ricordi che ti chiesi di controllare se la polizia aveva recuperato una ragazza in stato confusionale per poi portarla a La Quiete?»«Damiano…»«Ascoltami un attimo» lo interruppe lo Sciacallo. «Flavio stava seguendo una paziente.

Aveva ricevuto la cartella clinica da quel medico che hanno ammazzato. Dobbiamo capire cosa è successo…»«Non dobbiamo fare un cazzo, invece» disse De Vivo in tono brusco. «I carabinieri stanno

andando alla clinica e la rivolteranno come un calzino. Abbiamo altro a cui pensare adesso. Ricordi cosa abbiamo visto nella casa di quel pazzo?»I graffiti. Quella maledetta scritta sul muro.Damiano non rispose.«Il procuratore si è dato da fare. È un cazzo di poema, roba del Cinquecento, Settecento…

che ne so. Mi senti? Sei ancora lì?»«Ci sono.»«Devi venire a Salerno, ti vuole parlare. Ha avuto un’idea per prendere questa ragazza. Ci

stanno addosso, Damia’… dobbiamo arrestarla prima che ci scappi il prossimo morto. Si stanno mobilitando tutti, in Questura.»Lo Sciacallo fece scorrere un dito sullo schermo. Chiuse la chiamata.«Flavio è scomparso» disse, le cicatrici sullo zigomo striate da una lacrima caustica.«E mo’?»«Non lo so. I carabinieri lo cercano.»«Si è fatto ammazzare!» Stefano sferrò un pugno sul volante. «Lo sapevo che finiva così. Se

ne va in giro convinto di essere Batman e guarda che cazzo succede.»«Non si è fatto uccidere.» Damiano pensò alla dottoressa Nardi, al modo in cui lei lo aveva guardato mentre

rispondeva alla sua domanda. Le aveva chiesto se avesse visto Flavio e lei aveva inchiodato gli occhi nei suoi.I bugiardi distolgono lo sguardo. Ma lei è una psichiatra, conosce il linguaggio del corpo.«Jack» disse al cane sul sedile posteriore. «Ti va di accompagnarmi a Salerno?»L’animale sbadigliò, scoprendo zanne affilate come coltelli.«Lo prendo per un sì.» Guardò Stefano. «Devo recuperare la mia auto.»«Va bene, ma io che faccio nel frattempo? Non tenermi fuori da questa cosa.»«Oh, certo che no.» Damiano spinse la lingua contro il palato. «Come te la cavi a seguire le

donne?»Stefano sorrise. «Sono il numero uno, cazzo.»

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33

AGOSTO, 1950

Tommaso aprì gli occhi con la sensazione che la stanza stesse tremando. Le crepe del soffitto scivolavano sull’intonaco e sparivano nelle macchie di muffa. Anche la luce tremolava, uno sfarfallio accecante davanti alla faccia. Poi una voce.«Finalmente.»Non il terremoto. La mano di Mimì che gli scuoteva il petto.«Sono sveglio» biascicò il ragazzo, le tempie che battevano come tamburi.«È mezz’ora che ti chiamo.»«Quanto ho dormito?» Si ricordò della ferita alla testa non appena provò a sedersi. Soffocò

un conato di vomito, strinse i denti e mise i piedi a terra, il corpo ricoperto da una pellicola appiccicosa di sudore.«Che hai?» Mimì lo guardò come se avesse davanti un morto, poi indicò la fasciatura. «Ti fa

male?»Tommaso annuì. Non aveva senso mentire.«Vuoi che gli dia un’occhiata?»«Teresa» disse. Non gli importava nulla della ferita. «Come sta?»«Vieni giù. Devi mangiare qualcosa.» Mimì gli fece strada fino alle scale e poi giù in cucina.

Le spalle troppo larghe per la camicia che indossava. «Tuo padre se ne è andato. Era sconvolto. Ha preso il carro, le ha urlato qualcosa contro ed è sparito. Questa notte sono rimasto a farle compagnia finché ho potuto. Le manchi.»Il ragazzo si morse un labbro.Anche lei mi manca.L’odore di caffè lo accolse nella stanza. Sulla tavola c’era una fetta di pane e un barattolo di

miele. Mimì gli porse una tazza fumante.«Bevilo, ti fa bene.»Un paio di sorsi bastarono a svegliarlo. Era come se il suo cervello fosse stato spaccato a

metà. I pensieri si contendevano la ribalta. Da una parte Teresa, Don Rosario e il matrimonio. Dall’altra il fiume, le acque sporche di sangue, il corpo di Nunzio. Chissà cosa avrebbe detto il Barone se gli avesse raccontato del sogno. Era stato così reale. Dettagli impressi nella memoria. Gioia gli aveva mostrato quello strano libro e gli aveva parlato della poesia. Una poesia sulla morte. Su cose brutte che non dovrebbero mai accadere.La caverna.«Ho fatto due conti» disse Mimì. «Teresa si sposerà a fine mese.» «Non resta molto tempo.» Il ragazzo prese una fetta di pane e la spalmò di miele. «Quando

partite? Hai già deciso dove andare?»

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«Devo sistemare un paio di cose, prima. Non mentivo ieri sera, voglio trovare quello che ha ucciso Nunzio e mi serve il tuo aiuto. Te la senti?»Tommaso era a pezzi, avrebbe voluto strisciare fino al piano di sopra e rimettersi a letto.

Gli faceva male la testa. Sentiva d’avere qualcosa ancora infilato nella ferita. Pezzi di vetro che tintinnavano quando masticava, camminava, muoveva il collo.«Credo di sì.» «Bene. Vestiti e diamoci una mossa, allora.»Un attimo dopo erano sulla strada, la moto lanciata a tutta velocità attraverso campi e case

solitarie. Il vento caldo di agosto che frustava il viso. Trovarono la mamma di Nunzio seduta su una sedia rotta, una bottiglia di vino in mano.

Tommaso deglutì. L’ultima volta che l’aveva vista gli era sembrata una donna diversa. Era poco più grande di Teresa, ma adesso sembrava una vecchia. Il viso scavato da rughe profonde come segni di uno scalpello nel legno.«Quella ti fa stare meglio?» chiese Mimì mettendo il cavalletto.Filomena scrollò le spalle. La gente al paese aveva già pronunciato la sua sentenza.Una sciagurata. È colpa sua se le hanno ammazzato il figlio.«Severino non mi parla più, Mimì» disse, asciugandosi una lacrima con una mano. Le dita

sembravano quelle di una vecchia che avesse passato tutta la vita a raccogliere pomodori. «Gli hanno messo in testa che ero dentro con il compare. Io non ce l’ho l’amante.»«La gente fa schifo. Tuo marito è un uomo sveglio, e lo sa pure lui che non è vero.» Mimì

fece un tiro. «Vuoi che ci parli io?»La donna non rispose. Gli occhi fissavano un punto alle loro spalle. Tommaso si voltò,

provò a seguirne la traiettoria. Alberi, erba alta, e da qualche parte il fiume. Il lamento basso dell’acqua condannata a scorrere all’infinito. «Ero entrata a prendere le mollette» continuò Filomena. «Stavo stendendo i panni e lui

giocava lì, dove stanno le corde. Lo sentivo ridere, poi sono uscita e non ci stava più.»«Hai visto qualcuno, prima? Ti è sembrato che ci fosse una persona sulla strada?»Silenzio.«Tu l’hai visto?» Tommaso avvertì il peso degli occhi di Filomena addosso e gli tremarono

le gambe. Aprì la bocca per rispondere ma Mimì lo anticipò.«Lo ha trovato lui, ma la cosa non ti deve interessare.»Filomena lo guardò perplessa. Gli occhi lucidi.«Lo sai come andrebbe a finire» continuò l’amico. «Lui ti dirà di sì e allora tu gli

domanderai come è stato. Cosa ha provato a vedere tuo figlio morto. Gli chiederai se gli è sembrato sereno. Se gli occhi erano sbarrati per la paura. Il ragazzo dovrà rispondere. Ti dirà la verità perché lui non sa mentire, e tu starai male. Credimi, continuerai a stare male, ancora e ancora, fino a quando non entrerai in cucina, aprirai un cassetto, prenderai il coltello buono per l’arrosto e ti taglierai le vene.» Mimì buttò la sigaretta a terra e la schiacciò con un piede. «Andrà così, e Severino ti troverà in una pozza di sangue. La gente dirà che era vero. Filomena teneva il compare e si è ammazzata per la vergogna.»«Se così deve andare, raggiungerò la creatura mia.»

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Mimì scosse il capo. «Non c’è niente, dopo. Quando muori, sei solo ossa sotto terra. Non ne vale la pena.»«E tu che ne sai?»«Lo so e basta. Adesso ti ripeto la domanda. Hai visto qualcuno fuori dalla casa?»La madre di Nunzio non rispose. Guardò verso il sentiero e gli alberi davanti alla casa.

Soldati in fila, in un assedio silenzioso. Strinse appena le palpebre, come se si sforzasse di mettere a fuoco. Tommaso era convinto che lei si fosse fatta quella stessa domanda. Centinaia di volte.Chi c’era fuori casa? Chi stava guardando il tuo bambino?Poi Filomena scosse piano il capo. Una lacrima solitaria sulla guancia. «Nessuno» disse. «Non ho visto nessuno.»

* * *

L’erba gli arrivava fino alla cintola. Tommaso usò le braccia per farsi largo in un mare giallo. Il sole gli bruciava sulla pelle. Mimì si assestò una manata sul collo sudato.«Zanzare di merda» sibilò. «Raccontami ancora la storia dell’uomo in mezzo agli alberi.»Il ragazzo provò a spiegare quello che aveva provato. La sensazione che qualcuno lo stesse

osservando e che quel qualcuno fosse ancora lì, nascosto vicino al fiume, quando era tornato con Don Rosario a prendere il corpo di Nunzio.«È probabile che quel pazzo sia rimasto a contemplare lo scempio che aveva fatto» affermò

Mimì. «O magari non c’è nessun pazzo, e te lo sei solo immaginato.»Tommaso avrebbe voluto replicare. Era convinto che fosse tutto reale: lui non era pazzo, e

nemmeno stupido.Nessuno ha visto. Nessuno ha sentito.Il vecchio mulino si stagliava sopra la punta degli alberi. Un ammasso contorto di pietre

lambito dal torrente. Avevano deciso di fare il giro largo e arrivare alle rovine da dietro.«Credi che sia ancora lì dentro?»«Non lo so, ma se ci vede arrivare inizia a correre, e fa troppo caldo per inseguirlo» disse

Mimì. «Adesso abbassa la voce e cerca di non fare rumore.»Tommaso provò a imitare i movimenti dell’amico. La schiena curva in avanti, le ginocchia

appena piegate. Un passo alla volta, senza fretta. I piedi che toccavano terra e non facevano rumore. Il fiato sospeso come se si fossero tuffati in un pozzo d’acqua gelida. Si infilarono in un boschetto alle spalle del mulino e rimasero a osservare i ruderi. Sembrava che il tempo si fosse arrestato.Un rumore.Tommaso si lasciò sfuggire un grido. Osservò le piume che galleggiavano nell’aria, il cuore

che pompava sangue fuori controllo. Era solo un uccello.«Scusa» si giustificò il ragazzo, la testa incassata tra le spalle.«L’effetto sorpresa è andato a puttane» grugnì Mimì, uscendo dal nascondiglio. «Andiamo

a dare un’occhiata.»

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Dietro le rovine di un muro c’erano i segni di un fuoco. Un moncone di legno bruciato, dei sassi disposti in cerchio e gli avanzi di una cena. La testa di un topo, ancora attaccata ai resti del corpo. Gli occhi vuoti e le costole scarnificate. Ciuffi di pelo e segni di morsi.«L’ha mangiato crudo…» osservò Mimì, sedendosi sui talloni e guardando il terreno. «Il

sangue sembra fresco.»Tommaso avvertì un capogiro. Chiuse gli occhi cercando di fare dei respiri lenti e profondi.

Voleva allontanare quell’immagine, il tanfo della carne andata a male, ma quando li riaprì la realtà non era cambiata.I segni dei denti.«È stato lui.» Le parole gli uscirono di bocca senza che potesse controllarle. Gli bastava

guardare i resti di quel topo per capirlo. Goffredo era pazzo. Aveva ucciso la moglie e il figlio. Aveva impiccato il bambino sulla montagna. Li aveva fatti a pezzi come aveva ucciso Nunzio.Perché? È pazzo… ecco perché.«Questo non significa nulla.» Mimì infilò una mano nel taschino della camicia alla ricerca di

una sigaretta, ma erano finite. «Merda.»«Ti ho detto che è stato lui» Tommaso poteva vedere lo sguardo febbrile di Goffredo nella

notte. Gli occhi come fuochi fatui in mezzo agli alberi, gli stessi occhi che al mulino avevano spaventato Elvira. La ferita alla testa pulsava ma gli sembrava di non sentire neppure il dolore. Il petto gli bruciava, lo stesso calore che aveva provato nella stalla.«Sono sicuro» ripeté, i pugni stretti. «Dobbiamo fermarlo!»Mimì fece un cenno d’assenso con il capo. Si alzò, prese un fazzoletto dai jeans e andò a

immergerlo nel ruscello.«Passati questo sulla faccia.» Gli porse il fazzoletto bagnato, ma Tommaso non si mosse.«Non vuoi fare niente?»«Che dovrei fare, secondo te?»Il ragazzo scosse il capo. Non riusciva a comprendere.«Ucciderlo» disse. «Io e te… noi dovremmo uccidere Goffredo. Lui è un assassino…»«Se sei convinto, fallo da solo.» Mimì teneva ancora il braccio teso in avanti. Guardò il

fazzoletto, scrollò le spalle e si deterse il collo. «Non ammazzo un vecchio solo perché se ne va in giro a mangiare topi.»L’amico si allontanò dal mulino, tornando nella direzione da cui erano arrivati. Tommaso

rimase in mezzo ai ruderi, la rabbia che gli ribolliva nelle vene e gli occhi fissi sulle spalle di Mimì. Lo osservò mentre diventava sempre più piccolo, poi si affrettò a seguirlo. Recuperarono la motocicletta nascosta in mezzo agli alberi e partirono su un sentiero dissestato, senza dirsi una parola. Tommaso si immerse nei suoi pensieri, con un sapore amaro in bocca. Cercò di mettere ordine nei ricordi, nelle sensazioni che aveva provato. Forse sarebbe dovuto andare dai carabinieri. Il maresciallo Pironti sembrava interessato a trovare Goffredo. Ucciderlo poteva essere una scelta affrettata. Le guardie avrebbero potuto interrogare il vecchio, chiuderlo in una stanza e metterlo sotto torchio. Sarebbero

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riusciti a fargli sputare la verità, tra una farneticazione e l’altra. Lo avrebbero sbattuto in una cella dimenticata da Dio a marcire. Goffredo non avrebbe più fatto del male a nessuno. Tu l’hai visto, aveva detto.Certo che l’ho visto, bastardo. Ho visto te mentre uccidevi Nunzio.«Ma che cazzo…» La voce dell’amico lo riportò alla realtà. Si sporse di lato e guardò sulla strada. Le donne aspettavano nel cortile della casa di Mimì. Elsa, la vicina che gli aveva regalato la camicia del figlio, venne loro incontro seguita da

una figura minuta. Una vecchia dai capelli radi, il corpo un groviglio di rami secchi.La muta.Tommaso si ricordava di lei. Si prendeva cura di Stella, la ragazza che aspettava il figlio di

Santese. La vecchia gli aveva afferrato un braccio e lo aveva guardato dritto negli occhi, in un modo che non avrebbe mai dimenticato.«È nato?» chiese Mimì, spegnendo il motore, ed Elsa annuì.«Che ci fa lei qui, allora?» L’amico indicò l’anziana.«Lui è venuto a prendersi il bambino.»L’uomo smontò di sella e Tommaso fece lo stesso. Aveva la sensazione che qualcosa di

davvero spiacevole stesse per accadere.«Chi?» Mimì prese Elsa per i gomiti.«Santese» rispose la donna. «Nello Santese è venuto a prendersi il figlio.»Mimì lasciò andare la presa.«Tomma’» disse. «Sei ancora con me?»Il ragazzo digrignò la mascella come un cane rabbioso. «Sì.»«Allora vai nel deposito e prendimi la pala. Dobbiamo scavare un fosso.»

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34

OGGI

«De Fauci Inferni?» Lo Sciacallo lesse il titolo del libro a voce alta. Rivolse alla donna uno dei suoi ghigni migliori. La professoressa Barone distolse lo sguardo, imbarazzata. Damiano sapeva che lei si stava

sforzando di non guardare le sue cicatrici, proprio come tutte le altre persone in quella stanza, e non la biasimò. Doveva ammetterlo, aveva un aspetto davvero di merda. Un occhio che lacrimava, la gamba cattiva che non gli dava tregua, costringendolo a stare seduto sulla sedia come se avesse le chiappe poggiate su un letto di chiodi. Se a questo si aggiungeva che ai suoi piedi era accucciato un cane con il muso sfigurato e il pelo nero come il catrame, la situazione era davvero poco confortante.«Come fa a esserne sicura?» chiese scettico. Qualche testa si mosse in segno d’assenso.«Ho letto i versi del graffito. La traduzione è approssimativa, ma credo che il testo possa

coincidere.» «Possa?» Il commissario De Vivo si schiarì la voce con un colpo di tosse.La Barone ravviò una ciocca di capelli biondi, guardò il procuratore quasi a farsi coraggio e

la Malangone sorrise.«Va’ avanti, Linda.»«Vada a pagina ottanta, per favore» disse la professoressa. Damiano sfogliò il volume. Un mosaico di caratteri su pagine ingiallite. Nessuna poesia.

Solo parole di morte e disperazione. Parole e immagini. Tavole disegnate a mano, disegni dominati dal nero. Corpi di bambini appesi ai rami degli alberi. Una cascata e dietro di essa una voragine. La bocca frastagliata della montagna. Lo Sciacallo smise di respirare. Scollò gli occhi dal libro per un istante. Incrociò lo sguardo della Malangone e comprese. Anche lei aveva visto il libro prima di convocare la riunione.«Dove ha trovato questo volume?» domandò, e la professoressa Barone si tolse gli occhiali

e li rimise nella custodia.«In un negozio dell’usato a Londra» rispose. «Non conoscevo Sir Horace Leymore prima di

aver visto le lettere, e mi sono incuriosita. Non è stato facile. Il De Fauci Inferni è l’unica opera attribuita allo scrittore britannico prima della sua scomparsa.»«Che genere di lettere?»«Le lettere che Leymore spediva a Edgar Allan Poe dall’Italia.»«La professoressa» intervenne la Malangone «ha condotto studi sulla vita e sulla follia di

Poe. Conosce molto della…»La Barone interruppe il procuratore.

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«Leymore scrisse di aver fatto una scoperta sensazionale. Un testo antico sul mondo dell’occulto. Il diario di un tale Maurizio Cornelio Vetero, uno studioso inviato dal senato romano a fare luce sui misteri che animavano il Cilento.»«Che misteri?» De Vivo incrociò le mani sul piano del tavolo.«Morti e uccisioni, credo. La cosa mi incuriosì. Leymore affermava d’aver tradotto questo

testo, ma non è mai stata reperita la versione originale. Gli studiosi inglesi sostenevano che lo scrittore avesse inventato tutto. Una storia di fantasia per fare scalpore. Nessuno si mostrò interessato a pubblicare il manoscritto, considerato un vero affronto alla fede. Leymore fu costretto a stamparne poche copie a sue spese. L’edizione che ha lei in mano ora, dottor Valente, è stata curata da una piccola casa editrice specializzata in esoterismo.»Damiano sentì un brivido risalirgli lungo la schiena. Aveva freddo, nonostante i

riscaldamenti accesi e le finestre chiuse. Dimenticò Flavio, la clinica e l’angoscia che gli riempiva lo stomaco. Aveva voglia di alzarsi, di chiedere scusa per il disturbo e uscire dalla stanza. Sparire, seguito dall’unica cosa che aveva. La solitudine. Voleva andarsene. Doveva farlo, eppure non si mosse. Non riusciva a staccare gli occhi dall’illustrazione di Maurizio Cornelio Vetero. Era perfetta, così reale da togliergli il respiro. E poi la parola, quella minuscola parola in greco a fondo pagina.

k .ακοδαίμων«Cacodemone» sussurrò. «Lo spirito maligno.»«Lui vede» disse la professoressa in risposta. «Quella è la caverna dell’Uomo del salice,

giusto? A Castellaccio? È lì che… intendo…»«Sì.» Damiano deglutì. «È lì.»Sentì le mani di De Vivo che lo liberavano del peso del libro. Le pagine sfogliate, poi

un’imprecazione e l’incantesimo che si spezzava.«Che vuol dire tutto questo?» chiese il commissario.«Giulio Fabiani conosceva il De Fauci Inferni» disse il procuratore. «Questo è sicuro, i versi

sono chiari.»

Vede lui dentro al buio, nel sangue e nella carne.

Della terra i figli seguiran il sentiero di verità ch’è nero.

Le bambole, pensò Damiano. Le bambole impiccate agli alberi.«La ragazza lo sa» disse. «Lei sa tutto, è per questo che uccide.»«Cosa?» esclamò De Vivo, ma lui non fu in grado di rispondere. Era come se qualcuno gli

avesse aperto il cranio e versato una colata di cemento. Non riusciva a pensare ad altro che a Claudia. Al corpo mutilato, alla testa deposta tra le radici del salice bianco. Al sangue sulla terra nera e all’odore di bruciato. Odore di polvere da sparo e schizzi di sangue. Lo schiocco delle vertebre, la testa di suo padre che esplodeva e gli occhi che lo fissavano.Lui vede.

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«Mettiamo che questa storia del libro sia in qualche modo vera» continuò il commissario. «E mettiamo pure che Valente abbia ragione. La ragazza della fermata uccide per vendetta. Magari è stata rapita da quel pazzo di Fabiani ed è riuscita a sfuggirgli. Perché proprio adesso? Perché ha aspettato tutto questo tempo per uccidere?»Nessuna risposta.«Ispettore Alfieri, a che punto siamo con la lista?» La voce della Malangone spezzò il

silenzio, rivolta a un uomo in uniforme seduto all’altro capo del tavolo. Il poliziotto sembrò quasi attraversato da una scarica elettrica, il collo flaccido stretto dal nodo della cravatta.«Ce l’abbiamo» rispose. «Un elenco di quindici uomini. Solo cinque hanno accettato di

collaborare, per il momento.»«Cinque?» lo incalzò De Vivo. «Non bastano.»L’ispettore scrollò le spalle, le guance rosse per l’imbarazzo.«Possiamo averli tutti» disse il commissario. «Incriminiamoli per qualcosa, costringiamoli

a fare un accordo, dottoressa.»La Malangone si massaggiò il mento, scuotendo appena il capo. «Non è legale questa cosa.

Potremmo avere problemi.»«Se non vogliamo raccogliere un altro cadavere dalla strada, dobbiamo sporcarci le mani.

Abbiamo un movente, d’accordo, e forse pure un collegamento con Giulio Fabiani. Ho controllato tutte le denunce, i miei ragazzi si sono sentiti con le altre questure e stiamo facendo un lavoro immane. Non c’è stata una, e ripeto una ragazza che in questi anni abbia fatto un passo avanti e abbia detto d’essere stata in quella casa, eppure la televisione ha ricamato sulla storia per molto tempo. Dobbiamo prendere quegli uomini e farli collaborare, non abbiamo scelta.»Damiano sbatté le palpebre. Si guardò intorno senza capire dove si trovasse. Lottò per

tornare in sé, per essere qualcosa di più che un corpo spezzato in quella stanza.«Quale elenco? Chi sono queste persone?» chiese, e De Vivo abbozzò un sorriso.«Pedofili. La peggiore feccia di Salerno e provincia. Rifiuti travestiti da insospettabili.

Professionisti, padri di famiglia, brava gente. Alfieri alla Postale non se ne è fatto scappare nemmeno uno. Li tiene tutti schedati e passa le giornate davanti a un monitor a controllare se fanno i bravi. L’ispettore è un tipo paziente, sai? Non ha fretta. Aspetta che questi animali facciano un passo falso.»Lo Sciacallo si asciugò una lacrima. Adesso capiva.«Esche» disse.«A loro piace giocare.» De Vivo aprì il parka, prese una sigaretta dal taschino e la mise in

bocca senza accenderla. «E noi vogliamo farli giocare. Con la persona sbagliata, però.»

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35

AGOSTO, 1950

Tommaso si poggiò contro il manico della pala e riprese fiato. Osservò Mimì che srotolava la coperta sporca di terra, una sigaretta stretta tra le labbra e le palpebre socchiuse per il fumo. L’amico afferrò il fucile per la canna e lo tirò a sé come una spada dal fodero. Fece un tiro e chiese: «Con quanta gente è venuto?»«Un dottore e due dei suoi.» Elsa si tormentava la gonna con le mani. «Ci ha cacciate. Ha

detto che ci avrebbe pensato il medico a far nascere il bambino, e che dovevamo toglierci dai piedi. Non servivamo più.»«Ha cacciato lei da casa sua?» L’uomo indicò la muta, che se ne stava dritta come un tronco

secco. Le mani ossute incrociate sul ventre e gli occhi immobili. Tommaso la guardò di nascosto. La vecchia lo faceva sentire a disagio, e rischiò di strozzarsi con la saliva quando si accorse che lei lo stava fissando.«Ho capito.» Mimì tirò indietro il carrello, guardò dentro l’arma e fece un grugnito. «Potrei

lasciare le cose come stanno. In fondo è il padre, e Stella non è nelle condizioni di salire su una nave. Il Venezuela è troppo lontano, per lei e per il criaturo.»«No!» Elsa fece un passo avanti, il viso ridotto a una maschera di preoccupazione. «Se dici

così, non hai capito niente di come vanno le cose. Santese non le lascerà tenere il bambino, o peggio ancora… se li porterà entrambi a casa e lei di giorno pulirà i cessi e la notte gli scalderà il letto. Sarà la sua schiava… una bambola sotto il tetto della moglie. Lo capisci o no?»Mimì si piantò il calcio del fucile contro il petto e puntò la canna verso la boscaglia.«Che meraviglia» sussurrò. «Questa sì che è un’arma. Sai a chi l’ho presa, Tomma’?»Il ragazzo scrollò le spalle.«Era di un tedesco» disse Mimì. «Si era messo in testa che poteva venire a casa mia e

picchiare mia madre. Credeva che a lei piacesse avere il naso rotto e gli occhi lividi. Lei che era la femmina più bella del Cilento. È vero, Elsa? Diglielo pure tu!»Tommaso si voltò. La donna rimase in silenzio, il capo chino e gli occhi che fissavano la

punta dei sandali.«Ero come te.» Mimì abbassò l’arma. «Quattordici anni è l’età giusta per fare molte cose, e

io ho dovuto farglielo capire che si sbagliava, mi spiego? Ho dovuto insegnargli io a quel tedesco di merda come funziona il mondo. Io, che ero senza un padre e con tutto il peso delle responsabilità addosso.»«Non deve succedere pure a lei.» Il ragazzo si sorprese nel sentire il suono della propria

voce.Che sto dicendo?

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«A Stella» aggiunse. «A lei non deve succedere quello che è capitato a tua mamma.»Mimì lo osservò come se avesse visto un fantasma. Gli occhi blu lo trapassarono da parte a

parte, simili a lame di ghiaccio. Tommaso sentì il freddo infilarsi sotto la pelle, nelle ossa. Guardò prima la muta e poi Elsa, e lei gli sorrise.«No» disse l’uomo, il fucile messo di traverso sulle spalle. «A Stella non deve succedere.»

* * *

«Adesso ti dico cosa facciamo.» Mimì si sporse dalla copertura degli alberi, metà faccia premuta contro un tronco. «Vedi quelle auto sulla salita?»Tommaso fece un cenno d’assenso. Non aveva tolto gli occhi dalla carrozzeria delle

macchine, da quando erano strisciati fino al capanno. «Prendi questo.» Il ragazzo sentì una mano dell’amico sulla sua, le dita che si aprivano e

poi si richiudevano su qualcosa di freddo. Un coltello. «Scendi piano e non fare rumore. Taglia le ruote. Prima di una e poi dell’altra. Puoi farlo?»Il ragazzo attese una frazione di secondo prima di rispondere.«Credo di sì.»«Credi o sei sicuro?»«Sono sicuro» disse, mentre si muoveva, la lama che baluginava nella notte. Si tolse i

sandali e mise un piede davanti all’altro. Il respiro leggero, il cuore che gli rimbalzava in gola. «Non ci devono sentire» aveva detto Mimì qualche minuto prima, mentre infilava la moto

in mezzo ai cespugli, ma Tommaso sapeva che era inutile. Loro li stavano già aspettando.Emerse dalla boscaglia come un corvo nella notte. Puntò dritto verso l’auto di Santese.

Ricordava d’averla vista davanti alla casa quando erano andati a trovarlo. Nera e tirata a lucido, sembrava assorbire la luce delle stelle e rifletterla contro il ventre della montagna. Tommaso alzò gli occhi verso la parete rocciosa. Incombeva su di lui, con tutto il suo peso. Poi sentì il rumore. Un verso basso, il respiro silenzioso di tutte le cose. I refoli d’aria in mezzo alla pietra, al legno, al canto degli insetti, portavano un messaggio

che non avrebbe mai dimenticato. Lui, Mimì, le persone dentro la casa, la gente di Castellaccio. Erano tutti estranei. Ospiti in un mondo che non era mai appartenuto a nessuno di loro.Poggiò la schiena contro l’enorme ruota di scorta appesa sotto il lunotto posteriore e

chiuse gli occhi. La mano che reggeva il coltello stava tremando, come le gambe. Contò fino a dieci, fece per muoversi poi si fermò. Riprese a contare.Posso farlo, non ci vuole niente. Adesso mi abbasso, infilzo il copertone e…La porta si aprì in un cigolio di cardini marci. Rumore di passi, l’eco di un pianto. Il bagliore

di una luce sul terreno.Tommaso si appiattì contro il paraurti, come un geco su un muro. Piegò le gambe,

lasciandosi scivolare verso il basso fino a sedersi sui talloni. Strinse il coltello con più forza, ascoltò il rumore dei passi, il grattare di un fiammifero, lo schiocco delle labbra che

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aspiravano fumo. La porta era aperta, e sentiva le voci provenire da dentro la casa. Un lamento, il pianto di un bambino, ancora.Il figlio di Stella!Guardò verso gli alberi davanti a sé. Scorse la sagoma di Mimì, l’ombra in mezzo ai

cespugli, poi spostò il peso del corpo su un lato e sporse il capo per sbirciare. Prima la punta dei capelli, poi un sopracciglio. Vide i contorni di un uomo delineati dal bagliore dentro il capanno. La fiamma della sigaretta illuminò un paio di baffi sottili che lui conosceva bene.«Maresciallo!» La voce di Mimì tuonò in mezzo agli alberi. Tommaso ritrasse il capo come una molla. L’amico emerse dalla boscaglia. La canna del

fucile poggiata contro la spalla.«De Martino, che ci fai con quell’arma?»Mimì si fermò tra le due auto, le gambe divaricate. Gli fece un segno con la mano come a

scacciare una mosca, e Tommaso si mosse. Strisciò dall’altro lato, una spalla rasente gli sportelli dell’auto. Si rannicchiò vicino a una ruota e attese, le dita sudate strette intorno al coltello.Che hai in mente, Mimì? «Parlate di questo fucile?» disse l’amico. «Sapete com’è, la donna che vive in quel buco mi è

venuta a chiamare. La vecchia muta, la conoscete? Be’, lei non può parlare, ma stava con una persona che è in grado di farlo, e mi ha detto che degli uomini sono venuti qui, a casa sua, e l’hanno cacciata. Le hanno ordinato di andarsene, allora io sono venuto a dare un’occhiata. Siete in servizio? Siete qui per lo stesso motivo? Hanno chiamato anche voi?»Pironti non rispose. Un rumore di passi.«Tu? Pazzo bastardo, vattene! Maresciallo?» Il ragazzo riconobbe la voce di Santese.Mimì si fece una risata e a Tommaso si gelò il sangue. Era la prima volta che lo sentiva

ridere in quel modo. Si cinse le gambe con un braccio e nascose la faccia tra le ginocchia.«Maresciallo?» gli fece il verso Mimì come un pappagallo ammaestrato. «Uh uh, adesso

capisco. Hai chiamato i carabinieri per poter fare i cazzi tuoi, eh?»«Quell’individuo è venuto ad aggredirmi in casa mia.»«Sì, lo confesso e me ne pento. Ho sbagliato, pensavo che romperti quella faccia da maiale

servisse a qualcosa, e invece no. Avrei dovuto ucciderti, ma forse posso ancora rimediare.»«Per favore, De Martino…» disse con tono conciliante il maresciallo. «Adesso però ho questo.» Lo scatto di una sicura. «Chi c’è dentro? Che ne dici, Santese, se

dai una voce al tuo medico e agli altri e li fai uscire? Ah, no, no, maresciallo… tieni le mani avanti. Bravo, così posso vederle.»«Che vuoi fare, De Martino?» domandò Pironti. «Sparare a un carabiniere?»«Sapete qual è il problema, marescia’? È buio e non si vede niente. La vecchia mi ha chiesto

di cacciare i ladri da casa sua e io questo voglio fare. Siete voi i ladri?»Tommaso si piegò in avanti. Osservò i piedi degli uomini sul terreno, le scarpe lucide, poi

guardò verso la porta aperta. Calcolò i passi che lo separavano dal capanno.

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Un movimento.Vide la pistola un istante prima dello sparo. Una sagoma nera sulla soglia, con il braccio

teso fuori dalla copertura del muro, poi il fragore. Un suono che gli lacerò i timpani e che rimbalzò contro la parete rocciosa. La mano che stringeva l’arma si aprì, un dito per volta. L’uomo uscì dal capanno, gli occhi sbarrati e le gambe molli. Fece un passo in avanti, poi crollò con un tonfo. Silenzio.Il ragazzo sbirciò sotto l’auto e incontrò gli occhi vuoti della morte.Mimì ricaricò l’arma. «L’avete visto anche voi. Stava per spararmi.»«Hai ucciso… un carabiniere…» farfugliò Pironti.«Ah sì? Beh, era passato dalla parte sbagliata, non era più un carabiniere. Anzi, non era più

niente.»«Il bambino è mio!» ringhiò Santese. «Mi appartiene! Sono suo padre.»«Ti appartiene? Il maresciallo lo sa, che hai stuprato la mamma di tuo figlio? Che cosa è

successo? Non ne volevi sapere niente e mo’ hai cambiato idea?»«È appena nato, potrei dire che è di mia moglie. Che era incinta ma non volevamo farlo

sapere, per scaramanzia… la pancia si vedeva poco perché è magra. La gente non capirà: e poi, anche se fosse, a chi importerebbe? Con me avrà un futuro migliore, con lei lì dentro no. E poi non l’ho violentata, è stata lei a cercarsela, io…»Santese non completò la frase. Il boato fu forte, improvviso. Un rumore di rocce che

cadevano, di alberi abbattuti. Poi un grido.«Mi hai… ahhhh, la mia gamba!» Nello si rigirava nella polvere, la voce distorta dal dolore.«Se l’è cercata?» ruggì Mimì. «Ha detto così, maresciallo? Se l’è cercata?»«Abbassa il fucile» disse Pironti. «Possiamo sistemare la cosa senza farci male.»«Deve stare con la mamma, è quello il posto suo.»Tommaso vide i due uomini arrivare di corsa. Uno di loro imbracciava un fucile da caccia a

doppia canna. Aprì il fuoco. I vetri di un’auto andarono in frantumi. Il ragazzo si prese la testa tra le mani. Doveva muoversi, non poteva restare fermo in quel posto.«Dove cazzo eravate andati?» ringhiò Santese.«A pisciare… a pisciare!» rispose una voce in mezzo al frastuono dei colpi.«Sparate a quel pezzo di merda! Sparategli!»Tommaso vide il maresciallo rotolare nella polvere, una pistola stretta nella mano.

L’osservò mentre si rialzava, prendeva la mira e sparava contro Mimì.Il maresciallo Pironti. Era venuto a casa sua e li aveva trattati come se non fossero niente, come se non

esistessero. Miserabili fuori dalle leggi di Dio. Aveva detto a Masto Guizzardo di tenere Elvira lontana da lui perché era pericoloso.Pericoloso.La rabbia gli esplose dentro. Un fuoco nello stomaco, lo stesso fuoco che l’aveva spinto a

sfidare suo padre. Tommaso lo sentì crescere, insieme all’odio e alla voglia di uccidere. Di affondare il pugnale nel petto di Pironti e squarciarlo, sentendo gli schizzi di sangue mentre colpiva a ripetizione fino a slogarsi il polso.

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Avrebbe voluto farlo, ma si limitò a guardarlo morire.«Vai da Stella, Tomma’!» L’urlo di Mimì sovrastò il ruggito delle armi, il respiro assordante

della montagna. L’amico puntò il fucile e schiacciò il grilletto.Le gambe di Pironti scalciavano. Si teneva una mano premuta contro il pomo d’Adamo, nel

tentativo di tamponare il torrente nero che gli scorreva sul petto. La bocca aperta alla ricerca d’aria. Poi gli occhi si rovesciarono nelle orbite.«Tomma’!» gridò ancora Mimì, e lui schizzò fuori, girò intorno all’auto e iniziò a correre.

Santese si era trascinato fino al paraurti. Lo vide e provò ad afferrargli una caviglia. Il ragazzo sentì le dita sfiorargli il polpaccio, poi il tallone, ma non rallentò. Qualcosa gli sibilò vicino a un orecchio per poi andare a sbattere contro il muro in un’esplosione di schegge e calcinacci. Tommaso entrò, si chiuse la porta alle spalle e riprese fiato.Stella era distesa su un pagliericcio. La camicia da notte sporca di sangue e la faccia pallida

come uno straccio. C’era sangue anche sul pavimento, e sui ferri medici dispiegati su un tavolo come gli attrezzi di un macellaio. Sangue e un rumore. Il pianto di una creatura minuscola. Tommaso sbatté le palpebre. Un uomo era seduto su uno sgabello vicino al letto. La luce delle candele gli danzava nelle lenti degli occhiali, e teneva il neonato stretto tra le braccia. I loro sguardi si incrociarono, poi Tommaso sollevò il pugnale.«Che… che cosa le avete fatto?» chiese.«Sono un dottore, l’ho fatto nascere io. Ho dovuto toglierglielo dalla pancia, lei era troppo

debole. Sarebbero morti tutti e due.»Il ragazzo riportò lo sguardo su Stella. Il suo petto si alzava e abbassava, le labbra si

muovevano silenziose. «Datemi il bambino, per favore.»È ancora viva.Tommaso fece un passo in avanti, allungò la mano libera.«Datemelo subito!» Il bambino scoppiò a piangere.Il medico annuì. Fece per passargli il fagotto, le mani minuscole del piccolo che

vorticavano nell’aria. Tommaso esalò un respiro di sollievo, si sporse in avanti, poi l’uomo tese un braccio verso il tavolo, fino a sfiorare con le dita una delle lame.Il fendente fu una reazione d’istinto. Il ragazzo affondò la lama tra le costole del dottore.

Un colpo secco. L’uomo provò a spingerlo via, sputando sangue dalla bocca. Tommaso gli tolse con delicatezza il neonato dalle mani. Lo prese in braccio e lo portò a Stella. Lei trovò la forza di sorridergli mentre accoglieva il figlio in grembo, e questo gli fece tremare le gambe. Lo sentiva adesso, più forte. Il respiro della montagna. Qualcosa di simile a un mormorio. Un suono basso e lento. Ripetuto.Non un respiro. Una voce. La voce di una donna.Ti ho già sentita.Tommaso si voltò. Il medico stava provando a estrarsi il coltello dal fianco. Le mani erano

strette sull’impugnatura, e la faccia era contratta in una smorfia di dolore.Dolore e paura.

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Il ragazzo lo raggiunse. Gli afferrò i capelli, strattonandogli il capo all’indietro perché lui potesse guardarlo dritto negli occhi. Serrò le dita sull’impugnatura e tirò il braccio all’indietro quanto bastò per liberare la lama fino alla punta. Poi affondò, questa volta con più forza. Sentì la resistenza delle ossa, qualcosa che esplodeva.«Le avete tagliato la pancia?» bisbigliò all’orecchio dell’uomo.«No… no… ti prego, io…»Tommaso lasciò scivolare la lama nell’addome del medico come un pennello su una tela.

Lo squarciò tutto, inalando il tanfo degli organi interni che si riversavano sui suoi piedi nudi. Fece un passo indietro, lasciò cadere il coltello. Gli spari fuori dal capanno tacquero.«L’hai beccato?» gridò una voce roca.«Sì! Sta scappando là in mezzo.»«Vallo a prendere!»«Vacci tu, cazzo.»«Il bambino.» Tommaso riconobbe la voce di Santese. «Pigliatelo!»«Hai sentito?»«Cosa?»«Zitto, ascolta.»«Eccolo, attenti! Eccolo!»Uno sparo.«Vieni qua.» Le parole di Stella erano un sospiro, mentre fuori dalla casa scoppiava

l’inferno. Il ragazzo barcollò fino a lei, le ginocchia molli come candele squagliate.«Prendi mio figlio» disse, sfiorandogli il dorso della mano. Le sue dita erano gelate. «Esci di

là, portalo lontano… io…»Tommaso scosse il capo. «Vedrai, adesso arriva Mimì. Lui sa cosa fare.»Stella però non rispose. Non disse più nulla. Gli occhi fissi sulle croste di muffa del soffitto.

Il tempo rallentò fino a disintegrarsi in un’esplosione assordante che spinse i detriti a chilometri di distanza. Fuori dal capanno, in mezzo agli alberi, oltre le montagne. Pezzi di vita, i ricordi, la gioia delle cose semplici. La paura di essere, la paura di divenire. Tutto andato. E in mezzo, le note acute di un pianto.Il pianto di un bambino.Tommaso lo accolse tra le braccia. Lo strinse a sé con delicatezza, per paura di fargli male.

Il figlio di Stella, un essere così piccolo. E fu colto proprio allora dalla cruda consapevolezza che la verità era lì, nascosta tra quelle

macerie. In attesa.

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36

OGGI

Damiano trovò i carabinieri ad attenderlo davanti al cancello di casa. Le auto ricoperte da una patina di ghiaccio e le guance degli uomini arrossate dal freddo.«Se avessi saputo d’avere ospiti, avrei messo l’acqua sul fuoco» disse, cercando il mazzo di

chiavi nella tasca dell’impermeabile.Il capitano Mosca fece un debole sorriso. Se ne stava dritto sotto la neve come un palo

conficcato nel terreno. Guardò Jack che si era fermato a pisciare contro un albero e lo indicò con un cenno del mento. La pelle lucida, sembrava essersi appena rasato.«Non dovrebbe portare la museruola?» chiese.Lo Sciacallo guardò il cane e scrollò le spalle. Infilò la chiave nella serratura, spalancò il

battente in un cigolio di cardini arrugginiti e allargò il braccio per invitarli a entrare.«È probabile, e forse anche il guinzaglio, ma non credo gli piaccia.»«Non crede?»«No, non credo.» Damiano sostenne lo sguardo di Mosca, poi sollevò un angolo della bocca

e le cicatrici sembrarono strisciare come vermi di carne sullo zigomo. «Prego, accomodatevi.»Attraversarono il giardino, uno di fianco all’altro, la punta del bastone che scandiva i passi.

Il respiro che si condensava in nuvole davanti alla faccia.«Come vanno i suoi romanzi, Valente? Mia moglie la adora, è impazzita quando ha saputo

che la conoscevo.»«Lo so, mi assumo il merito di aver fatto saltare molti matrimoni.»«Probabile, però lei l’ha delusa, sa?» Mosca si lisciò la punta di un baffo. «Pensava che dopo

aver salvato la ragazzina sulla montagna si sarebbe dedicato a scrivere un libro sull’Uomo del salice. Lo pensavano tutti, me compreso.»Lo Sciacallo deglutì un grumo di saliva acida, schiacciò l’interruttore e accese la luce nel

cortile. «Certe storie è meglio provare a dimenticarle.»«Giusto.» Il capitano si fermò alla base degli scalini del portico, mosse il capo prima da un

lato e poi dall’altro. Gli occhi stretti in fessure. «Soprattutto quando un sospettato e il suo complice vengono sottratti alla giustizia da tre cittadini disposti a tutto pur di vendicarsi.»Damiano aprì la porta e Jack schizzò dentro, con la coda che sbatteva nel buio del

corridoio.«Ritengo esistano delitti che la legge non può toccare,» disse, «e che quindi entro certi

limiti giustificano la vendetta privata.»«La pensa davvero in questo modo?»

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«Non io ma sir Arthur Conan Doyle. Mi dica, capitano, da ragazzino ha mai letto Sherlock Holmes?»Mosca non rispose. Lo fissò come se avesse davanti un pazzo.Forse hai ragione. Sono il più pazzo di tutti.«Quando hai quindici anni le cose ti restano per sempre addosso, capitano. Puoi lavarti con

la candeggina ma non sarai mai abbastanza pulito.» Sorrise. «Venga, faccia entrare i suoi uomini. Vi preparo un tè.»* * *Lo Sciacallo aveva conosciuto Mosca durante un briefing indetto dalla Malangone per dare

la caccia all’Uomo del salice. Dopo trent’anni di silenzio, Giulio era strisciato fuori dalle ombre. Il corpo di una ragazza appeso ai rami di un vecchio albero era il suo modo per ricordare che la paura era reale. Un sentimento più vero dell’amore, un messaggio nascosto nel sangue e nella carne putrefatta. Elina e i suoi occhi vuoti. Gli insetti che le danzavano davanti alla faccia. Damiano era ritornato sulla montagna per lei. Non per restituire dignità alla memoria di suo padre, sospettato di un omicidio che non aveva mai commesso, ma per lei e per Claudia. Aveva chiuso la telefonata con De Vivo e preso il bastone. Si era trascinato sul pendio, zoppicando sotto gli sguardi di accusa delle bambole rotte, per dimostrare a Giulio che si sbagliava. Anche i peggiori incubi potevano finire.«Il dottor De Martino le ha mai parlato del suo lavoro a La Quiete?» La voce di Mosca lo riportò tra le pareti umide del suo studio. Sentiva i rumori della

perquisizione provenire dalle altre stanze.«Flavio non parla molto» rispose. Avrebbe dovuto raccontare della paziente, quella

ragazza recuperata dalla polizia e portata in clinica, ma non lo fece. Fissò Mosca con la freddezza di un giocatore di poker.Non c’è nulla di sbagliato nelle mezze verità. «Stiamo chiacchierando da venti minuti, Valente.» Il capitano posò la tazza vuota sulla

scrivania. «Venti minuti abbondanti, e sa cosa penso? Aspetti, mi faccia finire… credo che lei mi stia mentendo. Si sente al sicuro in questo posto, non è vero? In mezzo ai suoi libri, nel suo mondo. Le dico una cosa: nessuno è mai al sicuro, ed è bene che…»«Capitano.» Un carabiniere era fermo sulla soglia, una scatola di scarpe stretta tra le mani. Mosca si voltò, la fronte tagliata dal segno del cappello. «Che c’è, Di Lascio?»Il militare non rispose, si avvicinò e posò il contenitore sul tavolo. Le dita di Mosca

scivolarono sul coperchio velato dalla polvere, poi lo sollevarono. Lo Sciacallo avvertì una stretta al petto. Gli lacrimava l’occhio, avrebbe dovuto asciugarsi la faccia ma non riusciva a sollevare il braccio. Era come una statua di cera disciolta sulla sedia.Documenti di riconoscimento, a decine. Patenti, carte d’identità. Foto sbiadite di uomini

comuni. La collezione di Flavio. Pedofili, stupratori, padri violenti. Persone a cui aveva dato la caccia, che aveva punito. Le sue vittime. Solo un mostro può fermare un altro mostro.

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Il capitano se li fece scorrere tra le mani, formando un mucchietto sul tavolo. Si bloccò di colpo. Ne prese uno e lo sollevò davanti agli occhi, la luce della lampada che si rifletteva sulla plastica protettiva. Lo Sciacallo lesse il nome, sbatté le palpebre, poi rilesse ancora una volta. Voleva essere

sicuro di non sbagliarsi.«Riccardo Gentile» sussurrò.«Mi diceva che oggi è stato in procura, giusto?» Mosca aggiunse la carta d’identità alle

altre. «È lui, vero? Riccardo Gentile è una delle vittime del serial killer. Uno di quelli con il biglietto infilato in gola. Il pedofilo, per la precisione. Che vuol dire tutto questo? Cosa significa la scatola per De Martino? Lei lo sa?»Lo Sciacallo non rispose subito, lo sguardo inchiodato sulla faccia del capitano. Il viso

dell’uomo era così liscio che riusciva quasi a distinguere i pori. Perfetto, senza nemmeno un segno.«Le ho già raccontato ciò che voleva sentire.» Damiano rivide Flavio, il corpo sfregiato dai

tagli, e sorrise. «Lei ne ha di cicatrici?» Descrisse un cerchio davanti alla sua faccia. «Mi guardi. Cicatrici come queste, intendo. Ne ha?»Il capitano scosse piano il capo e Damiano buttò fuori l’aria, soddisfatto. Si massaggiò la

gamba cattiva, i muscoli rattrappiti del femore, poi si asciugò la lacrima. Era il suo rituale, un vero e proprio disturbo ossessivo-compulsivo.«Bene» schioccò la lingua. «Allora non può capire.»* * *Damiano aspettò che l’inserviente uscisse dal portone della clinica. Alle dieci di sera in

punto, come gli era stato detto. Il tipo all’accettazione si era meritato il pezzo da cinquanta euro che gli aveva fatto scivolare sul bancone. Si sciolse dall’abbraccio delle ombre, il corpo deforme sotto l’impermeabile e il colletto sollevato fino alle orecchie. Guardò la donna che si fermava vicino all’auto, la borsa aperta e la mano che rovistava alla ricerca delle chiavi. Contò i passi che lo separavano da lei.«Rita?» chiese, e lei sussultò, il terrore dipinto in faccia.Lo Sciacallo sollevò una mano per scusarsi, abbozzando un sorriso. Ricordava lo scambio

di sguardi che c’era stato tra l’inserviente e la Nardi. Un istante, e il sospetto si era insinuato tra i suoi pensieri come un pugnale nel costato.«Mi avete spaventato» disse la donna. «Che volete da me?»«La verità.»«A proposito di cosa? Scusate… ma chi siete voi?»Damiano fece un passo in avanti. Sbottonò il bavero del cappotto per assicurarsi che lei

riuscisse a guardarlo bene in faccia.«Chi sono? Sono solo un uomo che vuole sapere come stanno le cose. Adesso ti dico io cosa

succede. Tu mi racconti tutto quello che sai della ragazza, e io me ne vado. Oppure continui a reggere il gioco della dottoressa Nardi e ne paghi le conseguenze.»«Ho detto tutto ai carabinieri, chiedete a loro. Siete un poliziotto?»«Rita…» Damiano si vergognava di quello che stava per fare. Aveva toccato il fondo.

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Strinse le labbra e soffiò. Un debole fischio, come aveva visto fare a Flavio centinaia di volte, in cortile. Jack sbucò da dietro le auto parcheggiate, le unghie che graffiavano il marciapiede e la testa incassata tra le scapole. Manco potesse leggergli nel pensiero, il cane si fermò davanti alla donna e la fissò con occhi di vetro, le zanne che sbucavano dai lembi di carne sul muso mutilato.«Non urlare» sibilò Damiano, stringendo la presa sul bastone e sforzandosi di raddrizzare

la schiena. «Non provarci nemmeno, o ti salterà addosso. Ti farà a pezzi prima che qualcuno riesca a sentirti, sempre ammesso che accada.» Mentiva. Non aveva la minima idea che Jack fosse in grado di fare quelle cose, ma il suo aspetto bastava e avanzava, come minaccia. Rita fece un passo indietro, urtò con il sedere l’auto alle sue spalle ed emise un gridolino.«Cosa ho detto che ti succede, se gridi? Vuoi finire sbranata?»«Per piacere, ma che volete da me? Tengo due creature a casa, lasciatemi stare.»«Io ti voglio lasciare stare, ma tu devi fare la brava e rispondere.»«Ve lo giuro, io non l’ho visto il dottor De Martino» disse la donna, il viso rigato dalle

lacrime. «È andato via di corsa, mi ha chiesto di guardare la ragazza ed è scappato.»«Rita…» Damiano scosse piano il capo. «La verità.»«Se lei lo sa, mi fa cacciare.»«La Nardi?»L’inserviente si deterse la guancia con il palmo della mano. «Mi fa cacciare, e a me serve,

questo lavoro.»«Rispondimi. Chi ti può licenziare? La Nardi?»«Il dottor De Martino mi aveva chiesto di guardare la ragazza e di non dire niente a

nessuno. Io volevo farlo, ma lei si agitava e la dottoressa l’ha sentita. Oh Dio, lo sapevo… lo sapevo che dovevo farmi i fatti miei. In che guaio mi sono cacciata?»«Un momento. Perché dovevi controllare la paziente e non dire niente? Cosa è successo?»«La ragazza ha parlato… lei diceva cose…»Damiano mise ordine nei pensieri. Flavio era venuto nel suo studio e aveva chiesto aiuto.

Gli aveva raccontato della paziente, dello stato catatonico in cui si trovava. Un vegetale, con lo sguardo sempre fisso fuori dalla finestra.«Diceva cose?»Rita si affrettò ad annuire. «Cose strane. Il dottore ha sentito ed è scappato fuori. Aveva gli

occhi da pazzo.»«Ricordi le parole? Che diceva la paziente?»«Ho dovuto tenerla ferma, avevo paura che si facesse male. Sembrava un’anguilla… sono

venuti gli infermieri e poi la dottoressa. Lei mi ha portato nella stanza, ha chiuso la porta e io… io…»«Rita, guardami: che cosa ha detto la ragazza?»La donna incrociò il suo sguardo, gli occhi gonfi e rossi. Tirò su con il naso.«Lui vede.»«Cosa… sei sicura?»

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«Lui vede» ripeté lei, poi corrugò la fronte. «State facendo la stessa faccia del dottore quando l’ha sentita parlare… Perché? Che significa?»Lo Sciacallo allentò la morsa sull’impugnatura del bastone. Il dolore lo investì come un

fiume che avesse appena sfondato gli argini. Un fiume nero, gonfio di detriti. Fece un passo indietro, un altro ancora. Si guardò attorno, stranito. Non ricordava perché si trovasse in quel luogo né come ci fosse arrivato. Ascoltò il battito del cuore diventare lento, cadenzato. Il respiro che formava nuvole bianche nella notte. Dove ho messo la macchina?Damiano si allontanò, arrancando nel parcheggio come un morto che non sarebbe riuscito

a dormire. Mai più. «De Martino è andato via con lei» gli urlò dietro Rita. «Era tornato in clinica. Voleva vedere

la ragazza… e lei gli ha detto di seguirlo. Sono andati via insieme!»Lo Sciacallo guardò la donna da sopra una spalla, senza capire cosa gli stesse dicendo. Si

sentiva vuoto, come se una parte di sé fosse fuggita in un’altra dimensione. Un mondo fatto di specchi dietro cui nascondersi per assistere alla propria agonia. Braccato dalle domande, dalla paura di sbagliare e dal freddo. Un gelo che si insinuava sotto i vestiti, aghi di ghiaccio nella pelle. Aveva lasciato l’auto vicino agli alberi. Adesso ricordava. Il tetto ricoperto da una patina di

neve e un faro rotto. Provò a raggiungerla, la gamba cattiva che strusciava sull’asfalto come un pezzo di legno marcio. Sfilò le chiavi dalla tasca ma gli caddero. La mano tremava, lui tremava. Strinse i denti e si allungò verso il veicolo. Poggiò un fianco contro la portiera, ascoltò il battito del cuore, lento e cadenzato. Si sentiva sopraffatto.Devo andare via di qui… io devo…Sollevò lo sguardo verso l’albero e vide le gambe livide della ragazza. Penzolavano nel

vuoto, il sangue che gocciolava da un piede sulle radici, come resina nera. Un ticchettio assordante. I rami che si flettevano nello sforzo di sorreggere il corpo. Un vecchio salice bianco. Un’ombra si chinò a raccogliere le sue chiavi.«Queste ti appartengono.» La voce era come un’eco dentro a un pozzo, un rumore in una

casa abbandonata.Damiano incrociò il suo sguardo. Gli occhi lattiginosi, privi dell’iride.«Tu non esisti» disse. «Io ti ho ucciso.»Giulio annuì con un cenno solenne del capo. Prese la sua mano, gli poggiò il mazzo nel

palmo e gli chiuse con delicatezza le dita, una per una, poi si voltò verso il salice. Il corpo della ragazza era sparito, i rami vuoti. «Lui vede» disse Giulio, prima di dissolversi in un respiro. Vapore bianco davanti alla

faccia.Lo Sciacallo strinse i denti e cercò di rialzarsi. Le fitte di dolore gli ricordavano che aveva

ancora un conto in sospeso. Il salice bianco, Claudia. Pezzi incastrati in un’unica, grande verità. Pensava d’aver chiuso il cerchio, ma si sbagliava. Era entrato in quella caverna convinto che fermare l’assassino sarebbe bastato. Si era addentrato nei cunicoli

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nascondendosi dietro l’ombra di Flavio, e aveva ignorato i segni, i fregi antichi lasciati nella roccia perché quelli come lui capissero. Pitture murali, serpenti.Il male era vivo. Era in tutte le cose. Un flusso di energia che infettava la terra, l’acqua,

l’aria. Si nascondeva nelle pietre di Castellaccio in attesa che i deboli si lasciassero assorbire. Il male aspettava un corpo che potesse ospitarlo e permettergli di solcare il mondo degli uomini. Damiano adesso capiva. Esisteva una chiave per decifrare il messaggio che Giulio aveva provato a spiegare nel momento della morte. Il De Fauci Inferni.Il libro. Lo Sciacallo premette il pulsante del telecomando, aprì la portiera e si lasciò cadere sul

sedile. I pensieri gli turbinavano nella testa, fuori controllo. Si distese su un fianco, il freno a mano che premeva contro l’addome. Sfiorò la maniglia dello sportello del passeggero. Uno scatto. Jack saltò dentro, il respiro caldo sulla sua guancia, contro le cicatrici. La lingua che gli leccava via le lacrime.

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37

AGOSTO, 1950

Tommaso strinse il bambino al petto e continuò a correre. I rami gli sferzavano le braccia e le gambe. Era scivolato fuori dal capanno attraverso una piccola finestra che dava sul retro. Aveva strisciato contro la parete rocciosa, la schiena piegata in avanti e le dita poggiate sulle labbra del piccolo. Avrebbe voluto farlo smettere di piangere, ma non sapeva come fare. Provò a cullarlo, a sussurrargli che andava tutto bene, anche se sapeva che non sarebbe stato così. Era solo questione di tempo e, per quanto lui si sforzasse di fare in fretta, Santese sarebbe riuscito a trovarli. Era la voce a dirglielo. Un fiume di parole che gli riempiva la testa. Una voce antica, un suono dolce. Il viso di sua madre, una ninna nanna sussurrata all’orecchio. Il tenero abbraccio della notte.Si morse il labbro. Avrebbe dovuto costeggiare la strada, spostarsi in mezzo agli alberi,

puntando dritto verso il paese, e invece si era spinto nel cuore della boscaglia, i piedi nudi devastati dai tagli. L’adrenalina era un anestetico. Non sentiva dolore, aggrappandosi alle rocce. Ringhiava e continuava a spostarsi, come un animale braccato. Tommaso afferrò una radice sporgente e spinse con le gambe per arrampicarsi sopra un

blocco di massi. Teneva il piccolo stretto a sé, come il più prezioso dei tesori. Grugnì e digrignò i denti, cercando di andare nella direzione opposta rispetto agli spari. Le armi non avevano smesso di ruggire, l’eco dei colpi risuonava come una sequela di tuoni nella notte. Pensò a Mimì, lo vide rannicchiato dietro una roccia, il fucile tra le mani. Magari era ferito, o magari aveva finito i proiettili e gli uomini di Santese lo tenevano sotto tiro. Forse doveva tornare indietro e provare ad aiutarlo. Mimì però gli aveva affidato un compito. Qualcosa di più importante.Guardò il figlio di Stella e rallentò fino a fermarsi, i polmoni simili a sacche vuote. Poggiò la

schiena contro un tronco, piegò le ginocchia e si mise a sedere, stendendo le gambe sul terreno umido. I piedi stavano prendendo fuoco, la vista era appannata dalle lacrime. Accarezzò la guancia del bambino con il pollice. Si era calmato, il respiro era un refolo d’aria calda contro le dita. «Devo portarti da Elsa» bisbigliò, aggiustando la coperta sporca di sangue in cui era

avvolto il neonato. Provò a farsi coraggio. «Lei sa cosa fare. C’è la muta, la vecchia muta… Ti nasconderanno, piccolino. Loro ti nasconderanno.»Devi lasciarlo a lui quando arriverà.Tommaso girò la testa di scatto. Si guardò intorno, il cuore che gli rimbalzava nel petto. La

voce era viva, reale. Una carezza del vento in un orecchio.«Chi c’è?» chiese al buio davanti a sé. Non ricordava la direzione da cui era arrivato. Le

ombre si erano fuse tra loro, una colata di pece sui cespugli, sulle rocce. Una cascata nera e

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viscida. Il ragazzo sentì un brivido risalirgli lungo la schiena. La pelle delle braccia si increspò.Si rialzò, la vista offuscata dalle lacrime. Cercò di non pensare alle cose che aveva visto al

capanno, a quelle che aveva fatto. Emise un gemito e fece un passo avanti, lento, come se dovesse poggiare le piante dei piedi sopra vetri rotti. La Morte era venuta a cercarlo, gli aveva posato una mano sulla spalla e mostrato come fare il suo lavoro. Si asciugò il viso con il polso e sentì qualcosa di appiccicoso sulla pelle. Sangue. Non il suo,

il sangue del dottore. Tommaso aveva ucciso un uomo, gli aveva aperto la pancia e aveva annusato il tanfo delle sue budella. La vita di quell’uomo per Stella. Aveva fatto la cosa giusta. Il medico aveva scelto di mettersi dalla parte sbagliata, proprio come il maresciallo Pironti, ed entrambi avevano avuto la fine che si meritavano. Carne marcia per i vermi. Madonna, ma che sto pensando?Si bloccò. Era sicuro d’aver sentito qualcosa. Un rumore proveniente dalla boscaglia.

Rimase in ascolto, cullando il piccolo. Non riusciva a vedere nulla, i rami erano incastrati sopra la sua testa e respingevano il chiarore della luna. Rabbrividì.Devo tornare indietro, sulla strada.Tommaso annaspò nell’oscurità, lo stomaco rattrappito dalla paura. Se avesse inciampato,

se si fosse rotto una gamba, sarebbe rimasto sulla montagna, nel mezzo del nulla. Avrebbe condannato il bambino a morire di fame e di freddo, e forse, alla fine, sarebbe morto anche lui. Il piccolo emise un vagito. Lui gli prese una manina tra le dita e si domandò se Stella gli avesse dato un nome. I nomi erano importanti, tutti dovevano averne uno. Acqua.Tommaso si voltò, le pupille che si rifiutavano di adattarsi alla penombra. Riusciva a

sentirlo, adesso. Il mormorio dell’acqua in mezzo agli alberi. Riprese a respirare, le spalle strette dalla tensione. Se c’era un torrente, allora poteva seguirlo. Lo avrebbe aiutato a uscire da quel bosco, a trovare la via per il paese. Lì poteva bussare alle porte, una per una, fino a quando non avesse trovato qualcuno in grado di aiutarli. Il bambino doveva mangiare. Sorrise. Se avesse avuto il carretto dietro, avrebbe potuto fargli bere un po’ del suo latte.Usò un braccio per farsi largo in mezzo ai rami. Le foglie erano taglienti come lame. I

cespugli sembravano ammassarsi per formare un muro che gli impedisse di andare avanti. Era come se la montagna stesse facendo di tutto per trattenerli. Tommaso era stanco, i polpacci duri come le gambe di un tavolo. Le braccia appesantite dal fagotto.Devi lasciarlo a lui quando arriverà.«Ho detto di no, mamma» ringhiò, poi si girò e prese a camminare all’indietro, usando la

schiena come scudo per sfondare la ragnatela di rami. Le foglie gli graffiavano la carne. Sangue e resina. Tommaso non avrebbe mollato, non si sarebbe fatto piegare. La determinazione l’aveva reso cieco, e non si accorse nemmeno che stava zoppicando, che la montagna aveva iniziato a prendersi gioco di lui facendolo girare intorno allo stesso punto.«Seguo l’acqua» mormorò, guidato dal rumore. Percorse un sentiero di buche ed erba

bassa che sembrava scavato tra le rocce appositamente per lui. Le maglie della vegetazione

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sopra la sua testa si sfilacciarono, e Tommaso poté vedere le stelle. Occhi di osservatori lontani, venuti a convincerlo che il peggio era passato. Poi lo vide, l’albero in mezzo alle rovine. La luna proiettava un fascio di luce liquida sulla corteccia. Il tronco era contorto, il corpo di un vecchio gigante serrato nella morsa della pietra. I rami emergevano dal tetto sfondato come mani protese verso il cielo. Il suono dell’acqua era diventato più intenso, eppure non vedeva nessun torrente da seguire, nessuna via d’uscita. «Ci siamo persi.» Lui arriva. Lo schiocco di un ramo spezzato, il fruscio delle foglie smosse. Tommaso sentì il cuore

salirgli in gola. Portò la mano alla cintura, dove era convinto d’aver infilato il coltello, e tastò il vuoto. In un attimo gli passarono davanti agli occhi gli istanti prima della fuga dal capanno. Aveva preso il bambino dalle braccia di Stella ed era rimasto a guardarla morire. Non aveva fatto nulla per confortarla, non le aveva tenuto la mano. Si era voltato, aveva fatto un passo verso il corpo del dottore per recuperare il coltello conficcato nella pancia. Aveva guardato il sangue sulle assi di legno del pavimento e provato una strana sensazione. Qualcosa di difficile da spiegare, simile all’euforia che provava nel mangiare le caramelle a Natale.Il ragazzo sbatté le palpebre e mise a fuoco le sagome disegnate dalla notte. Il bambino

piangeva ma lui non fece nulla per calmarlo. Lo tenne tra le braccia indolenzite, gli occhi inchiodati alla corteccia di quello strano albero. Era convinto che ci fosse qualcuno in mezzo alle rovine, o meglio, qualcosa. Contrasse le narici, annusando l’odore portato dalla brezza. La puzza di un animale, di pelo bagnato e carne andata a male. Contò la distanza che lo separava da quelle vecchie pietre. Magari poteva fare il giro, e tornare indietro. Era a pezzi, però poteva farcela. Trascinare il carretto per le campagne di Castellaccio l’aveva temprato. Era più forte di quanto suo padre credesse, il più forte di tutti.Poggiò il piede su qualcosa di duro. Il dolore si inerpicò dal tallone fino all’addome. Gli

riempì la pancia e gli esplose nella testa, facendolo vacillare. Tommaso si morse un labbro, soffocò un grido. Forse la cosa in mezzo alle rovine non si era accorta di loro.Se solo il bambino la smettesse di piangere.Poi notò la mano che ghermiva il tronco, dita sottili che scavavano nel legno, e il respiro gli

morì in gola. Strinse il figlio di Stella al petto. Sentì la bocca minuscola contro la canottiera, il corpo che si contorceva nel suo abbraccio. «Zitto, piccolo» sussurrò. «Ti prego, stai zitto.»Devi darlo a lui. Sta arrivando.Dall’ombra delle rovine sbucarono occhi rossi come il fuoco, occhi che gli scavavano nelle

viscere, occhi ai quali era impossibile opporsi. Venivano verso di lui. Famelici.Abbassò lo sguardo sul bambino. Tese le braccia in avanti. Erano diventate leggere, così

leggere che non le sentiva più.Tommaso cominciò a piangere, e non smise più.

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38

OGGI

“Il Signore della notte fece provare agli uomini ciò che gli uomini avevano fatto provare a lui. Li condannò al dolore. Un dolore eterno.” Damiano sottolineò il passaggio del libro che la professoressa Barone aveva fotocopiato

per lui. Era rimasto sveglio a leggere e rileggere le pagine del De Fauci Inferni. Gli era sembrato di fare un salto nel passato, ai tempi del liceo e delle notti insonni, smarrito nelle storie di Lovecraft e Poe. Sir Horace Leymore non era una grande penna, doveva ammetterlo, ma il modo in cui mostrava i dettagli del suo territorio lo inquietava. Il passo sui bambini appesi agli alberi lo riportò per l’ennesima volta alle bambole rotte impiccate ai rami. Giulio aveva allestito un set per la sua mattanza, un sentiero che dal salice bianco portava fino alla cascata.La porta dell’inferno.Il Signore della notte era strisciato fuori dalla montagna attraverso lo squarcio nella

prigione di pietra che qualcuno aveva preparato per lui. Sorrise e scrisse un appunto sulla Moleskine dai bordi consumati.Giulio. Sir Horace Leymore. De Fauci Inferni.Tre nomi a spezzare la trama di un cerchio. «Che cazzo vuol dire?» disse, agitando vicino all’orecchio la scatola di mentine. Era vuota,

ma gli sembrava ancora di sentire il rumore delle pasticche che rimbalzavano all’interno.

Vede lui dentro al buio, nel sangue e nella carne.

Della terra i figli seguiran il sentiero di verità ch’è nero.

Aveva tracciato delle linee sotto le parole, solchi d’inchiostro sul foglio. Giulio Fabiani aveva letto il libro, questo era chiaro, ma come ne era entrato in possesso? In una mail che gli aveva spedito poco prima, la professoressa aveva ribadito che il volume era raro. Damiano se ne era accertato. Aveva cercato la homepage dell’editore, una piccola casa indipendente specializzata in esoterismo, e aveva provato ad acquistarne una copia. Inutile, il volume non era più disponibile. Aveva ottenuto una risposta simile dai siti di compravendita dell’usato, in Europa e negli Stati Uniti. Fuori commercio. Il De Fauci Inferni non esisteva. Damiano trovò il contatto mail dell’editore e inviò un messaggio. Si qualificò come

giornalista e rifilò un paio di stronzate a proposito di un pezzo che doveva scrivere. Chiese una copia dei rendiconti, delle tirature di stampa e dei dati di vendita. Fantascienza, pensò,

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ma forse era possibile seguire i libri uno a uno nel percorso dalla tipografia alla casa dei lettori. Era convinto che fosse un buon inizio, e saltò sulla sedia quando un suono di notifica proruppe dalle casse del computer. Aveva un messaggio nella inbox.Mail delivery failed.«Ti pareva! Mancata consegna.» Sferrò un pugno sulla scrivania, poi si passò una mano

sugli occhi stropicciati. Jack spinse con il muso la ciotola vuota sul pavimento dello studio.«Hai fame?» lo Sciacallo guardò l’orologio, poi il sole attraverso le tapparelle abbassate.

«Cazzo, è già giorno.»Zoppicò fino alla cucina, una mano che sfiorava le pareti. Rifornì di croccantini il cane e

tornò alla sua sedia con la testa che ribolliva. Il cervello lavorava in modo febbrile. Sentiva d’essere a un passo dalla verità, di averla sotto il naso e non riuscire a vederla. «Linda Barone ha comprato il libro in un negozietto di Londra» ripeté, guardando Jack che

mangiava. «Ammesso che Giulio se lo sia procurato nello stesso modo, in uno dei suoi viaggi di lavoro, che cosa cambia? Le bambole… le bambole c’erano anche nel 1985, proprio come nel disegno.» Sfogliò con foga le fotocopie disposte sul tavolo. «Dove ti ho visto? Ah, eccoti!»Osservò l’illustrazione. Le linee brusche tracciate dalla mano di Sir Horace Leymore. I

corpi dei bambini impiccati agli alberi erano la raffigurazione di un incubo.«Volevi fare la stessa cosa. La soffitta di casa tua era piena di bambole. Hai cominciato con i

giocattoli rotti delle tue sorelle, non è vero?» chiese alla sedia vuota davanti alla scrivania. Il vuoto però non rispose. Non era necessario che lo facesse.

La soffitta era l’unico posto dove poteva stare in pace. Troppa polvere, troppo sporco. La moglie di suo padre non ci saliva mai, lì sopra. Odiava l’immondizia e le cose fuori posto. E poi c’erano i topi, che portavano le malattie e rosicchiavano le cose. A Giulio piacevano i topi. Non gli abbaiavano contro come i cani, né provavano a graffiarlo come i gatti. I topi erano come lui, silenziosi, e poi si lasciavano prendere per fare quello che doveva fare. Bastava mettere il cibo avvelenato in un angolo e aspettare che ne uscisse uno dai buchi nei muri. Non avrebbe mai immaginato che in un corpo così piccolo ci fosse tutto quel sangue. La prima volta che aveva affondato la lama nella carne del ratto, gli era schizzato sulle mani. Caldo e denso come il succo di un frutto maturo.«È bello» aveva risposto alla voce, e lei ne era stata soddisfatta.In soffitta poteva essere se stesso. Era il luogo perfetto in cui leccarsi le ferite e provare a

essere felice. Si toglieva la maglia e osservava il corpo nudo riflesso nello specchio rotto. I segni delle bruciature sul petto e sulle costole. La moglie di suo padre diceva che era necessario. Il dolore lo avrebbe aiutato a crescere, a correggere il suo carattere ribelle. Giulio però non era un ribelle, non faceva mai nulla per contraddirla. Anche quando le

sorellastre gli rubavano le cose, lo prendevano in giro o lo picchiavano, lui non si lamentava. Aveva imparato a non piangere, a trattenere le lacrime quando la punta della sigaretta affondava nella carne. Respirava l’odore della pelle bruciata e fissava il muro. La voce lo consolava, gli diceva di aspettare che fosse notte, per poi raggiungerla. Gli avrebbe insegnato come fare, doveva avere pazienza. Giulio li avrebbe uccisi tutti, uno alla volta. Li avrebbe visti

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soffrire come loro facevano soffrire lui, e la cosa gli stava bene. Era un bambino intelligente, più intelligente di quello che pensavano gli altri. I suoi occhi vedevano nel buio e non aveva paura della notte. Girava per casa, si fermava sulla soglia e li osservava mentre dormivano, come quella notte. Il padre aveva un rivolo di saliva che gli scorreva dalla bocca. Lui sarebbe morto per ultimo, si disse. Doveva soffrire, prima. Assistere alla fine della sua famiglia. Sarebbe invecchiato, suo padre, con la certezza di aver perso tutto. Giulio lo avrebbe accudito, non gli avrebbe fatto mancare nulla e, proprio quando si sarebbe accorto di quanto fosse speciale suo figlio, lui lo avrebbe fatto morire. Tenendogli la mano e sorridendo.Era stata lei a dirglielo, una delle prime volte che si erano conosciuti.Aveva guidato i suoi passi fino alla caverna e gli aveva insegnato come passare sotto la

cascata senza bagnarsi. Lei sapeva tante cose, e gli voleva bene. Come una madre, come la sua vera madre.Giulio ricordava il suo volto, il sorriso quando lo cullava. Avrebbe voluto passare più tempo

con lei, non si era mai sentito pronto a lasciarla andare. I ricordi buttati in una scatola ad ammuffire in soffitta. La moglie di suo padre aveva tenuto per sé i gioielli e gli abiti buoni, e stipato lì tutto il resto.«Dobbiamo sistemare di sopra» diceva a pranzo. «Gettare via un po’ di schifezze e fare

spazio.»Se lo avessero fatto, lui non avrebbe mai trovato il libro. Un vecchio libro che puzzava di

muffa. Avvolto in una busta di plastica e sepolto sul fondo della scatola. Un libro bellissimo, con disegni di posti che lui conosceva. Era diventato il suo tesoro. L’unico che aveva, e di cui ora sfogliava le pagine con cura. Le sfiorava appena, le dita lavate fino a cancellare le linee dei polpastrelli. Apparteneva a sua madre, ne era sicuro. Alla sua vera madre, non a quella donna che gli spegneva le sigarette addosso. Come faceva a saperlo? Una dedica senza firma sulla prima pagina, parole bellissime, troppo belle per essere state scritte dal padre.“Elvira, i miei occhi ti vedranno. Per sempre.”Giulio le ripeté ad alta voce. «Elvira» sorrise, assaporando il sapore di ogni singola lettera. «Che nome bellissimo.»

Damiano venne svegliato dalla vibrazione del telefono. Sollevò la faccia dai fogli, un filo di bava attaccato alla carta. Guardò il cellulare che camminava sulla scrivania e allungò una mano per prenderlo. Lesse il nome sul display strizzando gli occhi come un miope. Sperava fosse Flavio. Una chiamata per dirgli che stava bene, che tutto era risolto, ma quella non era la voce del suo amico.«Valente, che stai facendo?» chiese il commissario De Vivo.«Io… sto sistemando delle cose, credo di aver…»«Ue’, stammi a sentire. L’esca ha funzionato. Abbiamo un incontro.»Lo Sciacallo ci mise più del dovuto ad afferrare il significato di quanto gli era stato appena

detto. Pensò al piano della Malangone, agli uomini sotto controllo della Polizia Postale per pedofilia.«Hai capito che ho detto? La ragazza ha chiesto un incontro a uno di quegli stronzi.»«Quando?» biascicò, la bocca impastata dal sonno.

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«Alle tre. Ce la fai a essere qui in un’ora?»Damiano guardò l’orologio. Le 13:00, quanto aveva dormito?«Sì» rispose, tastando il vuoto alla ricerca del bastone. «Arrivo.»

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39

AGOSTO, 1950Tommaso fu svegliato dal ronzio degli insetti. Un nugolo di moscerini davanti alla faccia.

Sbatté le palpebre, sollevò una mano per schermarsi dalla luce del sole. Gli parve che il braccio pesasse un quintale. Respirava a fatica, le narici ostruite da grumi di muco e un sapore di ferro in bocca. Fece per mettersi a sedere, ma gli girava la testa e riuscì a stento a sollevare il busto.«Quella ragazza ti vuole davvero bene, lo sai?» Il Barone Gioia sedeva su un tronco morto, il bastone messo di traverso sulle gambe. Non

si era accorto della sua presenza, e il suono della voce lo fece trasalire.«Elvira è venuta a bussare ai miei cancelli prima che sorgesse il sole» continuò l’uomo.

«Era preoccupata per te, ti stanno cercando tutti.»Il ragazzo scosse il capo. Si guardò intorno senza capire dove si trovasse. Poi il ronzio

mutò, divenne un suono definito, limpido. Lo scorrere dell’acqua, il verso del fiume.«Sapevo che saresti tornato qui» continuò l’uomo, un sorriso di plastica sulla faccia. «Non

lo ricordi, vero? Non sai cosa è successo?»Tommaso si posò le dita su una tempia. Strofinò via dalla pelle una patina viscida e

appiccicosa. Era andato con Mimì da Stella, avevano affrontato gli uomini di Santese. Gli spari, ricordava il fragore delle armi, poi le grida. La morte negli occhi del maresciallo Pironti.«Hai preso tu il bambino?» chiese il Barone.«Il bambino» ripeté a bassa voce, scavando nella testa alla ricerca di un significato per

quella parola. «Il figlio di Stella.»Il Barone annuì. Fece roteare il bastone in una mano, poi piantò la punta nel terreno e

scattò in piedi. Le gambe color cachi dei pantaloni si gonfiarono come lenzuola al vento.«Alzati, sono stanco di aspettare.» Il tono di voce dell’uomo cambiò. Era duro, secco. «Devi

imparare a controllare le emozioni, piccolo amico mio. Il tuo comportamento è dannoso. Ti stai sottovalutando, e questo non mi piace.»Tommaso fece come gli era stato detto. Il modo in cui il Barone lo fissava, la luce nei suoi

occhi, lo fece desistere da ogni protesta. Poggiò la pianta dei piedi a terra ed emise un gemito. Il dolore lo aiutò a ricordare d’essersi liberato dei sandali prima di provare a entrare nel capanno. Prima di uccidere il dottore. Inspirò e l’aria gli riempì i polmoni, facendolo esplodere in un colpo di tosse. Un fiotto acido gli riempì la bocca. Vomitò sulle pietre, il petto che bruciava. Barcollò e sarebbe caduto, se Gioia non l’avesse preso per un braccio.«Va meglio, adesso?» chiese, e il ragazzo annuì.

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Il Barone si mise al suo fianco e lo guidò per i pochi metri che lo separavano dal fiume. Le acque erano così calme da sembrare una lastra di cristallo, e il fondale era ricoperto di rocce.«Guarda la tua faccia» disse Gioia, ma Tommaso non si mosse. Aveva paura di sporgersi,

come se i tentacoli di una creatura potessero emergere per afferrarlo e trascinarlo giù.«Coraggio, specchiati! Non succede nulla, ci sono io.»Il ragazzo fece un passo, piegò il busto in avanti. Vide un ciuffo di capelli, la fronte, il naso.

Dettagli di un volto che non riconosceva più. Scosse il capo, fece per ritrarsi ma il Barone non mollò la presa. Le dita gli strinsero ancora più forte il braccio.«Dimmi cosa vedi…»Tommaso vide il sangue, una macchia scura sulla bocca, sul collo, i brandelli di carne

incollati alla faccia, e gli tremarono le gambe.No, non è possibile… «Non sono stato io!» Provò a liberare il braccio, ma Gioia non lasciò andare la presa. «È

stato lui… quell’uomo. È uscito dal nulla, lui ci stava seguendo… sì, mi seguiva da sempre.»«Un uomo? Lo hai visto?»Il ragazzo si affrettò ad annuire, indicò verso la linea degli alberi. «Era lì in mezzo al bosco

quando ho trovato Nunzio, e mi guardava. È stato lui. Ha ucciso Nunzio e poi il figlio di Stella, lo giuro… Io… dobbiamo trovarlo!»Io non sono pazzo. Io non sono un bugiardo. Smettila di guardarmi in quel modo.«Va bene.» Il Barone staccò la mano dal suo braccio e si lisciò la punta di un baffo.«Va bene?»«Ti credo.» La voce di Gioia era melliflua, l’alito sapeva di caramelle alle erbe. «Troveremo

insieme il colpevole. Ti aiuterò io. Adesso sciacquati il viso, ti porto a casa mia.»

* * *

«Brucia ancora?» Il Barone gli porse un bicchier d’acqua che lui mandò giù tutto d’un colpo. Era il secondo che beveva, e non riusciva a togliersi il sapore metallico dalla bocca. «No, sto meglio» rispose, abbottonandosi la camicia. Gioia gli aveva medicato i tagli ai piedi

e dato degli indumenti puliti.«Ti stanno bene» gli disse. «In questa casa non si è mai buttato nulla ed è un bene.

Indossavo questi vestiti quando avevo la tua età. Il colletto è un po’ consumato, ma può andare.»«Grazie, non doveva darmi queste cose.»«Non essere sciocco: certo che dovevo. Prova queste.» Gli porse un paio di scarpe e

Tommaso le calzò senza fare il nodo. Disse che erano strette a causa della fasciatura, ma era solo una scusa. La verità era che non sapeva allacciarle perché non aveva mai avuto delle scarpe vere come quelle, ma si vergognava ad ammetterlo.«Mimì è vivo?»

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«Sembra proprio di sì.» L’uomo si accomodò su una poltrona e sorseggiò il tè da una tazzina con il bordo dorato. «Che cosa pensavate di fare? Volevate mettervi contro Santese?»«Santese voleva togliere il figlio a Stella, non è giusto… i bambini devono stare con le

mamme.»«E la violenza era il solo modo che conoscevi per sistemare le cose, vero?»Il ragazzo non rispose. Pensò al coltello che affondava nella carne del dottore e deglutì

fiele.«Io lo so cosa hai fatto.»Tommaso trattenne il respiro. Incrociò lo sguardo del padrone di casa e lui sorrise.«Credi che tipi come quel Mimì rappresentino un modello da seguire, ma ti sbagli.»«Mimì è mio amico» protestò il ragazzo.«Certo, come no. E allora dimmi… dove si trova il tuo amico adesso?» Il Barone si guardò

attorno. «Io non lo vedo. Ha messo in pericolo la tua vita, e gli amici non fanno queste cose. Gli amici aiutano. A proposito, quando vi ho visti al fiume… ricordi quella mattina? Stavate indagando sull’assassinio del bimbo?»«Volevamo scoprire chi era stato.»«E l’avete trovato?»Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Mimì ha detto che mi avrebbe aiutato, noi… stavamo…»«Certo, però non l’ha fatto. Il tuo amico ha pensato solo a se stesso e a quello che voleva.»Non è vero, Mimì voleva aiutarmi. O forse no, forse a lui non interessava. «Lo sapeva? Dell’uomo al fiume, intendo. Ne avevate parlato?»Quando gliel’ho raccontato, mi ha raccomandato di non dirlo a nessuno. Perché? Pensava che

fossi pazzo? Uno stupido pazzo come Goffredo?Tommaso sollevò il capo e incrociò gli occhi del Barone, che gli rivolse un cenno d’assenso.«Bene» disse. «Vedo che inizi a capire.»«Al vecchio mulino» il ragazzo dischiuse le labbra screpolate. «Goffredo ha mangiato un

topo crudo. Abbiamo visto il corpo. C’erano i segni dei denti.»«Credi che sia stato lui a toglierti il bambino?»«Non l’ho visto in faccia, era notte…» Le parole gli morirono sulla bocca. Tommaso osservò

il Barone che si alzava, andava a prendere una scatola di vetro posta in un angolo della stanza, ne sollevava il coperchio e prendeva un libro. Era il vecchio volume che gli aveva mostrato quando Tommaso era andato con Elvira a casa sua. L’uomo gli trascinò una sedia vicino, si accomodò e sfogliò le pagine con delicatezza, come se fossero sottili lembi di pelle ingiallita. Sorrise soddisfatto e disse: «Voglio che guardi questo disegno e mi dici cosa provi.»Il ragazzo lanciò un’occhiata. Un uomo in mezzo al bosco teneva un bambino sotto un

braccio e un altro per la gola, sollevandolo davanti alle sue fauci spalancate. Aveva i denti ricurvi come zanne di un lupo, e il petto nudo. Tommaso si sporse per osservare meglio. Era un uomo come lui, come suo padre, come Mimì. Un uomo in grado di fare cose orribili.

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Poi notò il dettaglio sullo sfondo. Una cascata, un muro d’acqua che si infrangeva sulle rocce.«Acqua» bisbigliò. «Sentivo il rumore dell’acqua.»Gli occhi di Gioia si illuminarono. Due fiamme ambrate nella penombra della casa.«Il De Fauci Inferni non è un libro come gli altri, piccolo amico mio. Il De Fauci Inferni

racconta la verità. L’ho studiato per così tanto tempo che potrei usarlo per mettere in discussione i dogmi della scienza. Io sono un medico, conosco la mente umana ed è stupenda, in grado di fare cose meravigliose.» Picchiettò con un dito sull’illustrazione. «Tu sai come arrivare in questo posto.»«Non lo so… Stavo correndo e non vedevo niente. Mi sono perso.»Il Barone scosse il capo. «Non ti sei perso, ci sei arrivato da solo. Devi portarmi lì,

dobbiamo tornare insieme sulla montagna. Adesso.» Chiuse il libro e se lo strinse al petto, accarezzando la copertina di cuoio. «Maurizio Cornelio Vetero c’è stato, è tutto scritto qui dentro. Lui ha guardato negli occhi del buio, proprio come hai fatto tu. Posso aiutarti, Tommaso. Io sono in grado di farlo, davvero.»Il ragazzo iniziò a tremare come quando si risvegliava da uno dei suoi incubi, o come

quella notte al fiume, o davanti a quel vecchio albero. Il Barone se ne accorse e gli strinse una spalla. La sua mano era calda, infondeva coraggio.«Non devi avere paura» disse. «Troveremo la verità insieme, in un modo o nell’altro.»

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40

OGGI

Salvatore Manzo si stava cacando addosso. Aveva l’addome gonfio, nonostante da un quarto d’ora stesse mollando scorregge sul sedile dell’auto. Gli sudavano le mani, aveva le dita incollate al volante e la lingua che sembrava un pezzo di carne andata a male. Se avesse potuto si sarebbe tirato indietro, ma quelli avevano minacciato di raccontare tutto a sua moglie e non poteva permetterselo. Non ora che quel tirchio del suocero si era deciso a intestargli l’albergo a Positano. Trenta camere a picco sul mare, una vista da togliere il fiato e la garanzia di un flusso continuo di turisti russi con le tasche piene di soldi. Se Pina avesse saputo del suo vizietto, lo avrebbe lasciato all’istante. Lui che aveva avuto pazienza e ingoiato tutto, ogni singolo insulto. Se pensava a tutte le volte che si era sentito chiamare incapace, gli veniva l’orchite. E questo perché non era stato in grado di darle un figlio. La natura aveva deciso in vece sua. Azoospermia, così dicevano le analisi. Tanto meglio, si era detto. Cosa sarebbe accaduto se avessero avuto una femmina? Sarebbe riuscito a controllarsi? Se Pina si divertiva a farsi scopare dai camerieri dell’hotel, anche lui aveva un segreto. Gli piacevano le ragazzine, non poteva farci nulla. Bionde, more, magre, grasse. A lui non importava. L’aspetto era secondario. Se riuscivi a conquistare il cuore di una dodicenne, potevi possederlo per sempre, e lui in questo era bravissimo.«Pezzo di merda, stai respirando troppo forte.» La voce del commissario proruppe

dall’auricolare. «Rallenta o ti viene un infarto.» Salvatore chiuse le palpebre e cercò di rilassarsi. Doveva stare calmo, non gli poteva

capitare nulla. Non con tutti quei poliziotti nascosti in giro. Guardò il cellulare per vedere se lei gli avesse scritto. Magari aveva cambiato idea. La chat era ferma alle 12:30, quando la ragazza aveva accettato di vedersi nel parcheggio di quel supermercato a Torrione. A giudicare dalle foto che gli aveva inviato, non era per niente male. I capelli neri e lunghi, la pelle bianca come il latte e quel piercing al lato della bocca che faceva molto punk. Forse era troppo grande per i suoi gusti, ma non aveva scelta.«Manzo, ci sei?»Cazzo, quanto lo schifo, a questo commissario!«Sì» rispose, piegando il capo di lato per accostare la bocca al colletto della camicia.«Non muoverti in quel modo, fesso. Vuoi che ti veda?»Salvatore guardò nello specchietto retrovisore e riportò la mano sul volante.«Bravo così. Adesso ascolta. Sei un uomo fortunato, ricordatelo sempre.»Fortunato? Io? Non capisco dove stia la mia fortuna.«Fa’ quello che ti è stato detto e torni a casa. Siamo qui per te, guarda l’orologio.»Le 14:58.

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Mancano due minuti. Solo due minuti e farò entrare nella mia auto una pazza assassina. Dio, ma chi me l’ha fatto fare?Fanculo Pina, fanculo Positano, fanculo l’albergo.Salvatore sfiorò la chiave inserita nel quadro. Sarebbe bastato che mettesse in moto e se ne

andasse. Non potevano trattenerlo. Aveva fatto la sua parte. Era rimasto per due giorni in quella stanza insieme a quei tipi strani, con gli occhi fissi sul monitor e le dita che battevano i tasti. Non era colpa sua se ci sapeva fare, in quelle cose. Gli veniva normale attirare le ragazzine, se ne era reso conto fin da quando aveva diciotto anni e faceva il capo scout. All’epoca non c’era internet, ma bastava strimpellare una chitarra intorno a un fuoco per avere tutti gli occhi addosso. Il ragazzo più grande, quello che sapeva sempre tutto. A quante di loro aveva insegnato a menare il cazzo in una tenda? I loro futuri fidanzati e mariti avrebbero dovuto ringraziarlo. Se non avesse pensato lui a svezzarle, sarebbero cresciute come delle perfette imbranate.Cazzo! Una ragazza era entrata nel parcheggio dal lato nord. Un puntino nello specchietto laterale.

Era troppo lontana per metterla a fuoco ma veniva verso di lui, le braccia incrociate al petto.«Sta arrivando» disse. Capelli scuri, come nelle foto che gli aveva mandato. La polizia li

aveva informati che gli scatti erano falsi, rubati dal profilo di una studentessa sui social, ma la descrizione fornita da un testimone lasciava intendere che ci fosse una somiglianza con l’assassina. Una tipa magra, capelli neri e un giubbino di jeans.Oh Dio, arriva…«Non è lei, stai tranquillo.» La voce roca del commissario gli rimbombò nella testa.Manzo osservò la ragazza che passava di fianco alla sua auto, uno zaino dietro le spalle e i

pollici infilati sotto le cinghie. Una donna in un veicolo parcheggiato nell’altra corsia diede un colpo di clacson, e lei si affrettò a raggiungerla.«Corri» disse, tirando un sospiro di sollievo. «Corri dalla tua mamma.»Doveva rifiutarsi e basta. Nei film facevano sempre vedere che la polizia si serviva di

agenti infiltrati e in borghese. Perché cazzo volevano procurarsi un pedofilo vero?Pedofilo.Era la prima volta che definiva se stesso in quel modo. Scollò le dita dal volante e osservò

le linee nei palmi.È questo che sono? Un pedofilo?Salvatore provò un senso di disgusto, un sapore marcio nella bocca. Come se finalmente

riuscisse a osservare la sua vita da una prospettiva diversa. Cercò di rievocare il momento esatto in cui qualcosa dentro di lui si era rotto. Pensò alla prima volta che gli era venuto duro, alle medie. La figlia dei vicini aveva sei anni e voleva sempre sedersi sulle sue ginocchia mentre disegnava. Non lo aveva chiesto lui, funzionava così e basta. Era la sua natura.Posso provare a cambiare, magari se chiedessi aiuto a un medico… a uno specialista… ma poi

che dico a Pina? Che sono depresso? La prenderebbe come un’offesa. Sì, credo proprio che…

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«Ci siamo» gracchiò il commissario nell’auricolare. «Disinvolto, siamo qui con te.»Manzo sollevò gli occhi verso le macchine parcheggiate davanti alla sua. Vide una ciocca di

capelli nero corvino smossa dal vento. Una figura esile emerse dallo spazio tra una Punto dal cofano ammaccato e una Nissan Micra. La pelle di un pallore anemico e occhi scuri che puntavano dritto verso di lui. Faceva freddo ma lei non sembrava sentirlo, stretta in un giubbino di jeans. Salvatore impallidì nel vederla avvicinarsi, e il respiro gli si condensò in una nube che appannò il vetro. Era come se il gelo camminasse insieme a lei. Uno spettro di ghiaccio nel mondo dei vivi. Deglutì e contò i metri che li separavano.Il sorriso. Ricorda di sorridere.Lo spettro fece il giro dell’auto e si fermò davanti allo sportello del passeggero. Si piegò in

avanti, osservò l’abitacolo con lo sguardo di un rapace e Salvatore lottò per dischiudere le labbra. Le sue guance erano bloccate e il massimo che riuscì a ottenere da sé fu una smorfia da ebete. Schiacciò il pulsante e abbassò il finestrino. Era chiaro, le foto che quella pazza aveva inviato agli altri erano false. A parte il piercing al labbro, nulla nei dettagli del suo viso faceva pensare alla diciassettenne delle immagini inviate via chat. Come avevano potuto quegli uomini farsi fregare così?«Ciao» gli disse. «Aspettavi me?»Salvatore rimase colpito dalla voce. Era calda, in contrasto con l’aria fredda che si

insinuava dentro l’auto. Fece un cenno d’assenso.«Vieni dentro, starai congelando.»Era bella in un modo che non riusciva a spiegarsi. C’era qualcosa nei suoi occhi, nel modo

in cui lo fissava, che gli risvegliava una strana sensazione. Era uno sguardo ferale, ecco. Non avrebbe mai rischiato per una così. Le parti si erano invertite. Il cacciatore era diventato una preda e, anche se gli avevano detto di restare calmo, non ci riusciva. Stava sudando, il colletto era un cappio che gli impediva di respirare.Che aspettano a intervenire?«Dove mi porti?» La ragazza gli sorrise, e Salvatore fu colto da un conato di vomito. Lo

stomaco attorcigliato in una morsa, la colazione che gli risaliva in gola. Schiacciò la spalla contro lo sportello, sentì la forma bombata della maniglia e una voce che gli diceva di aprire la portiera e scappare. Quella ragazza lo avrebbe ucciso proprio sotto gli occhi della polizia, in quel parcheggio. Gli avrebbe tagliato la gola per poi infilarci dentro uno di quei fottuti biglietti.Un momento…Salvatore piegò il capo di lato. Aveva notato qualcosa di strano nella ragazza, quando aveva

parlato. Un dettaglio che non aveva colto subito. Si era fatto distrarre dalla paura e dal senso di colpa. Era stato debole e stupido. Così stupido da non scorgere un movimento nella gola. Il pomo d’Adamo che si alzava e si abbassava.«Tu… sei un uomo?»Il sorriso sulle labbra della giovane si spense come una stella morta. Salvatore colse il

baluginio della lama prima che l’assassino provasse a piantargliela in corpo. Si avventò sul passeggero, bloccandogli i polsi con le mani. Strinse con tutta la forza che aveva, urlando di

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fare in fretta. Anche il commissario gridò fino a lacerargli un timpano, poi lo sportello si aprì e vide le pistole spianate e le mani che afferravano il tizio vestito da donna e lo tiravano fuori. Sentì il tintinnio del coltello che rimbalzava sull’asfalto e il battito assordante del suo cuore.«Sono vivo» si disse, guardando il proprio riflesso nello specchietto retrovisore. «Sono

ancora vivo.»

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41

AGOSTO, 1950

Tommaso vide il capanno attraverso i vetri dell’auto. La porta era chiusa e le macchine di Santese e dei suoi uomini erano sparite. Gli era sembrato di vedere una chiazza rossa sulla facciata, come se un pomodoro fosse stato scagliato con violenza contro il muro.«Mimì deve sposare mia sorella Teresa» disse. «Se lui muore Teresa dovrà mettersi con De

Luccia.»«La cosa è importante per te?» Il Barone scalò la marcia e il motore ruggì nell’affrontare la

salita verso Castellaccio.«Voglio che sia felice.»«E tuo padre? Lui non vuole la felicità di tua sorella?»«No, a lui interessano solo i soldi per pagare i debiti. Ha perso tutto a carte, pure la casa dei

nonni e le vacche. Mia mamma dice che non devo incolparlo perché è uno stupido e si deve provare pietà per gli stupidi, ma io non ci riesco.»«Tua madre?»Il ragazzo annuì.«Quando ti ha detto queste cose? Voglio dire, io sapevo che…»«Adesso.» Tommaso si tolse i capelli dalla fronte. Gli piaceva andare in auto, ma preferiva

la motocicletta. Una volta sposato, forse Mimì gli avrebbe permesso di guidarla. Magari gliel’avrebbe addirittura regalata.«Piccolo amico mio.» Il Barone staccò per un istante gli occhi dalla strada e lo fissò. «Lo sai

che tua madre è morta, vero?»Lui annuì. «Aveva una bella voce. Mi cantava le canzoni per farmi addormentare.»«E tu la senti? Senti ancora la sua voce?»Tommaso fece un respiro profondo. Era folle quello che stava per dire, ma anche la verità.«Mi parla in continuazione» disse, con una voce che non sembrava la sua. «A volte la sento

più forte, altre meno.»«Da quando ha iniziato? È stato sempre così?»«Non lo so» rispose, poi si corresse. «Da ieri notte, mentre andavamo a prendere il

bambino. Ero in mezzo agli alberi, quando mi ha parlato. Non la capisco sempre, parla difficile.»«Sei sicuro che sia lei a farlo?» Il Barone deviò dalla strada principale imboccando un

sentiero sterrato che si insinuava come un serpente tra alberi e rocce.Tommaso si strinse nelle spalle. Non era in grado di rispondere a quella domanda.«Mi portate in manicomio?»Gioia sorrise. Lo guardò come se fosse il portatore di una verità assoluta.

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«Non ti porto da nessuna parte.»

* * *

«Questa è la via del sale.» Il Barone chiuse la portiera e gli indicò un sentiero in mezzo agli alberi. «La usavano i contrabbandieri per il mercato nero, prima che i tedeschi li scoprissero.»«Che cosa è successo a quegli uomini?»Gioia fece roteare il bastone nell’aria e iniziò a camminare. «Li fucilarono e poi li

seppellirono da qualche parte in mezzo al bosco. Il sangue chiama sangue, Tommaso, e questa è una terra antica. Le montagne esistevano da prima che arrivassimo noi. Tu credi alla vita dentro le cose?»Il ragazzo corrugò la fronte. Si limitò a seguire il Barone, trattenendo un gemito a ogni

passo. I piedi avevano ripreso a fargli male, ma non abbastanza da impedirgli di andare in fondo a quella storia.«La vita è stata gentile con me. Mi ha dato un titolo nobiliare, la possibilità di diventare un

medico e di viaggiare. Viaggiare molto» continuò l’uomo. «Ho conosciuto popoli così antichi che mi hanno fatto sentire piccolo come un granello di polvere nell’aria. Quella gente ha idee e credenze davvero diverse dalle nostre. Tutto quello che vedi intorno a noi, adesso, ha un’anima. È un concetto primitivo, lo so, ma proprio per questo non è da sottovalutare. Mi segui? Tutto ha un’anima, dicevo… gli alberi, la terra, il fiume. Anche le nostre montagne hanno un’anima, e non è detto che sia buona. Anzi, secondo me non lo è per nulla. Vieni, da questa parte. Attento a dove metti i piedi.»Tommaso imitò i movimenti del Barone, arpionando con le dita una roccia. Strisciarono su

un lembo di terra fino a degli scalini che la natura aveva intagliato nella pietra. L’aria aveva una consistenza diversa, a quell’altezza. Era fredda, e si infilava nelle narici seccando i polmoni. L’uomo raggiunse una sporgenza e indicò con il bastone un punto in mezzo agli alberi.«Lì si trova la casa della muta» disse. Poi spostò il braccio verso nord. «Da quella parte

invece viveva Goffredo.»Il ragazzo riusciva a scorgere la punta di un tetto in mezzo agli alberi.«Avevo la tua età quando Goffredo mi parlò della cascata.» Gioia gli fece segno con una

mano di riprendere a muoversi. «Disse che ne sentiva il mormorio di notte, quando sedeva sul portico a fumare. Ha esplorato questi luoghi in ogni direzione, senza mai trovarla. Ricordo che questa cosa mi lasciò perplesso. Lui conosce la montagna meglio di tanti altri in paese, è un patrimonio che si tramanda di padre in figlio, nella sua famiglia, e mi sembrava assurdo che non fosse riuscito a trovarla.»«Una cascata come quella del disegno?»«Esatto: proprio come quella del libro. Lo dissi a mio nonno, gli raccontai la storia di

Goffredo e lui mi liquidò con una scrollata di spalle. Disse che era un tipo strano, e forse aveva ragione.» Il Barone fece una pausa, poi incrociò il suo sguardo e disse: «Credo che tu l’abbia sentita ieri notte, e ti invidio.»

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«Voi invidiate me?» Tommaso si massaggiò una tempia. La voce sembrava più forte, ora, e si fondeva ad altre voci, decine di tonalità diverse. Un miscuglio di parole che gli toglieva il respiro.«Oh, sì, piccolo amico mio. Tu credi in Dio?»«Non vado a messa, la domenica consegno il latte.»«Mi sembra giusto. Io penso che Dio non sia come lo immaginiamo. Non è un vecchio con la

barba bianca e lo sguardo benevolo. Il suo perdono non è per tutti ma si deve guadagnare, e non con la preghiera.»Tommaso annuì, poco convinto. Il Barone era un tipo strano e parlava troppo difficile per

lui, però una cosa era sicura. Conosceva davvero bene la montagna. Si spostava da una parte all’altra come se sapesse a memoria ogni singolo passo, buco o spazio in cui infilarsi.«Venite spesso qui sopra?»«Quando posso. Guardati intorno. Non ricordi nulla?»«No, scusate… era buio, io non ci sarei potuto arrivare da questa parte.»«Forse, ma potrei convincerti del contrario.» Gioia abbassò un ramo con il braccio e puntò

il bastone verso la penombra della boscaglia. «Dopo di te.»Il ragazzo guardò lo spiraglio tra le foglie prima di infilarsi dentro. Sentì i rametti che si

spezzavano sotto i suoi piedi mentre avanzava, con il capo chino in avanti e le mani che si facevano largo in mezzo ai moscerini. Si lasciò inghiottire dalla frescura del bosco e dal silenzio. La voce aveva smesso di parlargli. Voltò il capo prima da un lato, poi dall’altro, come se fosse alla ricerca di qualcosa che aveva perso. Poteva sentire il respiro del Barone alle sue spalle, il fruscio delle foglie smosse, poi il vuoto. Era come entrare in un santuario. Il mondo intorno sembrava essersi fermato. Un ammasso di pietra, legno, terra e aria. Perfino gli uccelli avevano smesso di cinguettare.Il salice emergeva dal terreno con i suoi rami scheletrici. Le radici gonfiavano e spaccavano

la terra. Avevano ridotto in cumuli di pietra le fondamenta di una costruzione. Blocchi anneriti dal tempo, ricoperti di rampicanti. Un tetto sfondato, un tappeto di mattoni e detriti.Tommaso rabbrividì. Adesso ricordava.«Lui è uscito da lì.» Indicò con un braccio le rovine. Gli tremava la mano. «È venuto verso

di me. Voleva il bambino.»«Chi era lui? E tu cosa hai fatto?»«Non lo so, non ricordo. Io volevo andare via, volevo salvare il figlio di Stella. Portarlo da

Elsa, ma non ci riuscivo.»«Cosa hai fatto, Tommaso?»«Le mie gambe erano ferme… mi facevano male i piedi e Lui veniva verso di me. Le sue

mani erano nere. Le sue dita… le sue dita. Io ero stanco, molto stanco. Il bambino non smetteva di piangere, e ci avrebbe sentiti. Lui ci avrebbe sentiti.»«Guardami, piccolo amico mio… Cosa hai fatto?»Tommaso si fissò le mani. Erano sporche di sangue, i palmi rivolti verso l’alto e le dita che

spillavano gocce rosse sul terreno. Tic. Tac. Uno schiocco secco, le lancette di un orologio.

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L’eco di un pianto. Venne colto dalle vertigini, la terra sotto i piedi parve muoversi. Poi si sciolse come ghiaccio al sole, e lui cadde nel vuoto. Un rumore d’acqua. Una cascata.

L’uomo era un ammasso di ossa e panni logori. La barba come stoppa e i capelli gonfiati dalla brezza della notte. Fece un passo e poi un altro. Gli occhi sbarrati e le braccia tese in avanti.«Dammelo» bisbigliò. «A me, dammelo…»Tommaso si ritrasse, la mascella contratta in una smorfia. Stava ringhiando come un cane

rabbioso. Non aveva fatto tutta quella strada per niente. Non era arrivato fin lì per perderlo.Il bambino era suo. Gli apparteneva.Goffredo piegò il capo di lato: stava piangendo. «Ti prego, non fargli male… lui è piccolo, è

ancora piccolo.»Tommaso sentì la bava che gli colava sul mento. Lo stomaco accartocciato in un pugno. La

voce nella testa stava cantando una ninna nanna. Una splendida melodia.

Il ragazzo gridò. Provò a scappare ma due braccia lo afferrarono in una morsa asfissiante. Il Barone lo tenne a sé, la faccia premuta contro il petto e quell’odore di colonia che gli riempiva le narici.«Shhhh… non preoccuparti. È tutto a posto, va tutto bene.» Il dottore gli accarezzò la testa, il tocco gentile delle dita sui capelli. Tommaso si sentiva

morire. Voleva morire. Sbattere il cranio contro un albero fino a farlo esplodere.Lui. Il mostro.«Tu hai un dono» sussurrò il Barone. «Lei ha scelto te. Io non ero degno, credevo di esserlo

ma mi sbagliavo… Tu invece sì, lo sei…»«Padrone?» Una voce sottile e spezzata si levò dai ruderi. Goffredo uscì dal suo

nascondiglio. La faccia sporca di sangue e terra. Teneva qualcosa tra le braccia. Si muoveva sulle gambe storte, il passo incerto.«Guarda, Tommaso.» Gioia lo prese per le spalle. «Ammira il tuo dono.»Del figlio di Stella era rimasto poco. Un fagotto di morte e brandelli di carne. Aveva segni di

morsi sulla faccia, gli mancava una mano. Gli aveva mangiato entrambe le gambe e poteva vedere le ossa che sbucavano dalla coperta lercia. Divorato, come i topi al mulino. Come Nunzio. Un corpo incastrato tra i rami nel fiume.«Sono stato io» disse. «Ho fatto io queste cose orribili.»«Orribili?» Il dottore scoppiò a ridere. «Perché dici così?»«Sono pazzo, io… ho mangiato i bambini…»«Ascoltami, quell’albero significa qualcosa. Questo bosco significa qualcosa, quei cumuli di

pietra significano qualcosa. Il tuo cammino è stato scritto nel De Fauci Inferni. Adesso ci sono io a proteggerti, vedrai. Le cose andranno meglio, capiremo insieme come farle funzionare.» Gioia gli accarezzò la fronte. «Nella tua testa c’è la verità, la strada per l’ascensione. Lo sappiamo solo noi tre. Tu, io e Goffredo. Il testimone dell’avvento.»

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Il Barone lo lasciò andare, raccolse il bastone adagiato sulle foglie e la terra nera e disse: «Ti ha visto al fiume ed è venuto a dirmelo. Gli occhi in mezzo agli alberi, quelli che vedevi con insistenza nei tuoi sogni, erano i suoi. Il testimone dell’avvento.»Il dottore si avvicinò a Goffredo, guardò i resti del bambino e si lisciò un baffo.«Possiamo fidarci di lui: non dirà niente a nessuno.»Il vecchio annuì, una lacrima che gli rigava la faccia.«Lui è bravo a tenere i segreti» continuò Gioia, lisciando la testa dell’uomo, che venne

scosso da un tremito. «Lo ha già fatto, e sa anche prendersi le colpe. Giusto? Farai per il mio piccolo amico quello che hai già fatto per me?»Goffredo scosse appena il capo. Bastava.Il Barone si mosse con rapidità. Tommaso capì quello che stava accadendo solo quando

vide la lama spuntare dall’orecchio del vecchio, dopo essere sbucata fuori dalla punta del bastone. Gioia fece un’espressione rattristata, poi ritrasse l’arma e l’uomo cadde. Si piegò sulle gambe e rovinò al suolo in un tonfo sordo.«Volevo essere io il Signore della notte, colui che vedeva dentro il buio.» Il Barone pulì

l’arma sul cadavere. Schiacciò un pulsante e il coltello scomparve come la lingua di un serpente. «Ho fatto tutto quello che Maurizio Cornelio Vetero aveva indicato nei suoi versi. Una donna e un bambino: che cosa potevano mai rappresentare, la moglie e il figlio di un pastore? Lo avevo appeso ai rami, come aveva fatto il Signore con i figli dei greci. Credevo che dopo aver dimostrato il mio valore lei mi avrebbe mostrato la via per la caverna, ma smise proprio allora di parlarmi, e adesso ne conosco il motivo.»Il Barone incrociò il suo sguardo e sorrise.«Sei venuto al mondo tu.» Usò il bastone come appoggio e si inginocchiò. «Seguirò il

sentiero di verità che è nero. Ti seguirò, Tommaso.»Il ragazzo vacillò. Avrebbe voluto rispondere che era tutta una follia, che lui era pazzo, e

anche il dottore. Malati da rinchiudere in una stanza dalle mura spesse, o da seppellire vivi in una fossa. Avrebbe voluto dire tutto questo, ma non lo fece. Tommaso rimase in silenzio e ascoltò la voce di sua madre. Un suono bellissimo, che gli rimescolava i pensieri.«Mi mostrerai come fare?» chiese Gioia, e lui annuì.«Ti guiderò io alla caverna.»Sentiva un rumore in lontananza. Acqua gelida sulle rocce.

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42

OGGI

De Vivo gettò la parrucca sul tavolo. «Un travestito? Ti rendi conto?»Damiano fissò le ciocche di capelli nero corvino come se potesse attraversarle con lo

sguardo, e si asciugò l’occhio con il polsino.«Che sapete di lui? Di questo Petrillo?» chiese alla Malangone.«Non molto, a parte il fatto che ha mollato gli studi per darsi al volontariato a tempo

pieno» rispose il procuratore, tamburellando con la penna su un taccuino. «È nato e cresciuto in una comune. Villa Gioia, la conosce? Si trova dalle sue parti.»Lo Sciacallo incrociò lo sguardo del giudice, poi quello di De Vivo.«Quella gestita dal senatore Gioia?»«Esatto. Ho chiesto di poter visitare la struttura e fare qualche domanda.»«Chiesto?» Damiano si massaggiò la gamba cattiva. Percepiva una strana cautela nella voce

della Malangone.«Uno non diventa senatore senza contare niente» si intromise il commissario. «Per andare

a bussare a certe porte devi passare dal tetto.»Damiano fece un cenno d’assenso. Capiva benissimo come funzionava il sistema.«Ha ammesso tutto: è stato lui a uccidere Citarella e Gentile.» Il procuratore si tolse una

ciocca di capelli dalla faccia. Sembrava esausta, aveva due fosse nere sotto gli occhi. «La prima vittima è stata scelta a caso: voleva solo capire se fosse in grado di portare a termine quello che aveva progettato. Aveva acquistato in rete un corpetto in lattice per riprodurre il seno, e si era sottoposto a elettrodepilazione del viso per togliere l’ombra della barba. Su una cosa aveva ragione lei, dottor Valente.»«Prego?»«Vendetta. Lo ha fatto per vendetta.»«Non capisco. Che ragione ha questo individuo di uccidere dei predatori sessuali? È stato

vittima di abusi? E poi, che c’entra il biglietto? Ha saputo spiegarvelo?»Il procuratore guardò il commissario, che annuì.«Forse dovrebbe chiederglielo lei. È di là che aspetta. C’è una cosa che potrebbe

interessarle.»Damiano corrugò la fronte.«Prestava opera a La Quiete… come volontario.»

* * *

«Cosa ti è successo alla faccia?» Il ragazzo lo fissava come se il vero mostro nella stanza fosse lui.

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«Un incidente.» Damiano fece un ghigno e sentì le cicatrici scivolargli lungo il viso. Puntò un dito contro l’assassino e disse: «E a te, invece? Posso chiamarti per nome? Mauro, giusto? A te cosa è successo?»Il ragazzo tirò le spalle indietro, torturò con la lingua il piercing che aveva all’angolo della

bocca.Un giochino fastidioso. Ti strappo quel coso, se non la smetti.«Sei un poliziotto?» chiese Mauro.«No, e nemmeno un avvocato.»«Non ne ho bisogno: sono colpevole e devo pagare… Se non sei un poliziotto o un avvocato,

allora che ci fai qui dentro?»«Sono venuto a ringraziarti.» Lo Sciacallo si concentrò sul suono della propria voce. Bassa,

roca. Sembrava stesse parlando attraverso una maschera di ferro. «A ringraziare me?»«Che c’è? Non mi capisci quando parlo?» Aveva tirato le somme mentre zoppicava nel

corridoio della Questura. Il biglietto infilato nella gola delle vittime, la ragazza in stato catatonico, l’omicidio del medico e gli uomini che avevano inseguito Flavio e la sua scomparsa. Era tutto collegato da un filo sottile, la tela di un ragno enorme. Guardò il ragazzo e gli offrì il suo sorriso migliore. «Fosse per me, ti lascerei libero di ucciderne altri.»Mauro sbatté le palpebre, poi si voltò verso la porta della stanza. Sembrava a disagio.«Lo so, quello che ti dico può fare impressione, e me ne assumo la responsabilità. Quegli

uomini meritavano di morire. Sono contento che a provvedere sia stato tu.»«Grazie» disse il ragazzo, poco convinto.«Prego… A proposito, chi era lei?» chiese. «La ragazza che impersonavi, quella che

uccideva i cattivi. La conoscevi?»Mauro deglutì. «Era mia madre.»«Cosa le hanno fatto? Me lo vuoi raccontare?»«È una storia lunga, non saprei da dove iniziare…»«Fa’ con calma.» Lo Sciacallo poggiò il bastone contro la sedia, distese la gamba cattiva

sotto il tavolo. «Non ho fretta.»

La ragazza aveva imparato a voltarsi e a rispondere al saluto quando pronunciavano il suo nome. Elisabetta. L’uomo che vede non faceva altro che ripeterlo. Tutti avevano diritto a un nome, perché i nomi erano importanti. Solo che lei non si chiamava Elisabetta, né Betta, né qualsiasi altro nome loro avessero provato ad affibbiarle. Aveva avuto un nome, uno vero, e una famiglia prima che la prendessero, solo che non riusciva a ricordarlo. Era passato tanto tempo. Così tanto che aveva dimenticato il volto dei suoi genitori, il colore del suo cane, gli odori di casa sua.Casa.Non sapeva nemmeno dove fosse, casa. Se fosse riuscita a uscire dal cancello, a passare sotto

lo sguardo dei mostri di pietra e correre nel bosco, non avrebbe saputo da che parte andare o a chi rivolgersi per essere aiutata. L’ultima volta che aveva chiesto aiuto era finita lì. Le persone non erano mai quello che sembravano. Dietro i sorrisi, le parole gentili, poteva

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nascondersi qualcosa di brutto. Chi meglio di lei poteva dirlo? Quel giorno il suo papà doveva aver avuto un incidente con l’auto, per questo non era passato a prenderla. Succedevano in continuazione, gli incidenti. Le auto non si fermavano al semaforo, non rispettavano la precedenza agli incroci. Si formavano lunghi ingorghi e i clacson diventavano assordanti. Un muggito di vacche come quelle che sentiva adesso dalla finestra della sua stanza. Lei aspettava con le spalle premute contro il cancello della scuola e nessuno le aveva chiesto se avesse bisogno di aiuto. Il bidello era uscito a buttare la spazzatura e non le aveva nemmeno rivolto uno sguardo. Poi però era passato Fausto, il collega della mamma.«Piccola, aspettavi da molto?» le chiese sorridendo. «Il tuo papà mi ha chiesto di venire a

prenderti. Ha avuto un contrattempo.»Lei non rispose subito. Da quando aveva iniziato la scuola suo padre non aveva mai fatto

tardi. Nemmeno un giorno. Aggiustava gli orologi, il tempo era il suo lavoro.«Coraggio.» Fausto le aprì lo sportello, batté la mano sul sedile dell’auto come lei faceva con

il cane per farlo sedere sul divano. Amava stare seduta con Billy a guardare i cartoni. La mamma non voleva. Lascia peli ovunque, diceva. A lei però non importava. Billy era suo amico. Il suo migliore amico. Pensò a Billy e al fatto che avrebbe mangiato senza di lei. La bambina che sarebbe diventata Betta aveva fame, troppa fame; se solo avesse aspettato altri cinque minuti prima di salire su quell’auto, avrebbe capito che il papà aveva davvero avuto un incidente, e che sarebbe arrivato davanti alla scuola, ma in ritardo.Il tempo.Quando giocava il tempo non era mai abbastanza. Passava troppo in fretta. Che cosa strana.

Si chiedeva sempre perché, invece, quando le facevano le cose brutte le lancette parevano fermarsi. Doveva avercela con lei, il tempo, forse per un torto che gli aveva fatto il suo papà. Magari aveva sbagliato ad aggiustare un orologio, chissà, e il proprietario si era lamentato. Il tempo a casa di Fausto non passava mai. La tenne in uno scantinato con le pareti ricoperte di cartoni di uova per molto tempo. Anni. Lei cresceva e i vestiti non le andavano più.«Questi sono di mia figlia, ormai non le entrano » le disse. «Te la ricordi, Angelica? Andavate

al mare insieme… si diploma a fine mese. Vuole iscriversi a legge, diventare un avvocato come me.»La bambina che era diventata Betta non ricordava Angelica, ma si chiese se Fausto andasse

anche da lei, la notte. Se le legasse i polsi al letto e le si distendesse sopra fino a quando non aveva finito con le sue cose. Si domandò se Angelica sapesse che il suo papà teneva lei, la sua amichetta del mare, in una stanza buia a mangiare cibo per cani e aspettare il giorno buono per morire.La morte.Non arrivò mai, o almeno non come lei sperava. Un giorno però smise di macchiare le

mutandine di sangue e Fausto si preoccupò.«Come è possibile?» le chiese. «Ti ho dato la pillola!»Non sapeva che lei l’aveva sputata. Perché le dava le medicine? A lei non piacevano, odiava

quando la mamma voleva per forza farle ingoiare qualcosa.

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Fa’ la brava, o la febbre non passa. Stavolta però non aveva la febbre, si sentiva benissimo. Questa cosa spaventò Fausto e il tempo riprese a correre. Più in fretta. I giorni passarono e lui non venne più a trovarla, nemmeno per portarle il cibo. Lei era contenta, anche perché, pur non mangiando più, la sua pancia aveva preso a gonfiarsi. Sarà aria, si disse.Solo aria.Il sole le fece male agli occhi quando vennero a prenderla. Erano in due, non dissero nulla.

Non le fecero portare con sé i vestiti di Angelica, e nemmeno la cartella con i libri e i quaderni, ancora ordinati come quando era suonata la campanella. L’aria non sapeva di vecchio, di muffa e del sudore di Fausto. Era buona, e le piaceva. Gli uomini la aiutarono a camminare, le sue gambe non funzionavano più bene e la pancia pesava. La fecero salire in una macchina grande, pulita e dai vetri neri, e la portarono lontano, molto lontano. Viaggiò di notte e di giorno lungo una strada piena di altre auto. Vide il mare, le montagne e prati giganti, con animali che mangiavano l’erba. Si sforzò di ricordare il nome di quelle bestie, ma non ci riusciva. Lo chiese agli uomini e loro non risposero. Forse erano muti, pensò, o forse lei gli stava antipatica. Fermarono l’auto nel cortile di un castello. Il regno delle principesse.La bambina che si chiamava Elisabetta vide altre ragazzine come lei con le pance piene

d’aria, e conobbe l’uomo che vede. Lui era gentile, le diceva che era speciale e che presto sarebbe stata meglio. I dottori la aiutarono a stare meglio. Una signora le tenne la mano e disse di spingere l’aria, e lei lo fece. Spinse più forte che poteva, fino a quando non sentì il pianto. Il bambino era così piccolo, sporco di sangue, e lei voleva accarezzarlo. Forse era suo, le piacevano i bambini, ma la donna lo avvolse in un telo e lo portò via. Elisabetta non rivide mai più quel bimbo e nemmeno gli altri che uomini come Fausto

venivano di notte e di giorno a mettere nella sua pancia. Era triste, molto triste.

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43

AGOSTO, 1950

Tommaso rimase in silenzio per tutto il viaggio di ritorno, la fronte premuta contro il finestrino e gli occhi verso il cielo. Osservò il modo in cui il sole si infilava in mezzo ai rami, le sfumature di luce, il bianco, il giallo e la carezza di una mano invisibile sulla faccia. Una mano calda che gli lisciava la guancia, che cullava i suoi pensieri.«Diremo che è stato Goffredo.» La voce del Barone ruppe il silenzio, all’improvviso. «Ti eri

perso sulla montagna e lui ti ha seguito. Ha atteso il momento giusto per toglierti il bambino. Li porteremo a vedere. Me ne occuperò io, sta’ tranquillo.»«Il maresciallo è morto» biascicò Tommaso. Era stanco, e tutto quello che desiderava era

dormire. Per giorni. Cadere in letargo e risvegliarsi in un’altra vita, in un altro tempo.«Meglio così. Pironti era un essere inutile, un servo. Io sedevo nelle stanze del Duce, l’Italia

è cambiata ma non gli uomini che tirano i fili, piccolo amico mio. Ti darò il posto che meriti in questo mondo, farò di te quello che già sei. Tutti dovranno conoscere la storia del piccolo lattaio che ha affrontato il mangiatore di bambini.»«Non ho affrontato nessuno. Perché dire una bugia?»«Le grandi storie si fondano sulle menzogne, e questo è solo l’inizio. La cosa che hai dentro,

quello che sei… ti porterà lontano, ne sono certo. Possiamo lavorare insieme. Io, tu e lei. Ti sta parlando? Ha detto qualcosa su di me?»Tommaso chiuse le palpebre, provò a rallentare il flusso di voci che gli riempiva la testa.

Uomini, donne, bambini. Lingue strane, diverse. Aveva capito che se si concentrava riusciva a fare spazio, e sentire solo lei. La voce che gli importava, l’unica che davvero contava per lui.«Teresa» sussurrò. «Devo salvare mia sorella, io… la devo aiutare.»Gioia annuì, deluso. Imboccò la stradina piena di buche che portava alla tenuta. Il ragazzo

scorse il cancello in lontananza e i mostri di pietra appollaiati sulle mura.«Se lei va via, tu resteresti solo» disse il dottore. «Solo con Don Rosario. È questo quello

che vuoi? Desideri davvero vivere così?»Tommaso ingoiò un grumo di saliva, scosse piano il capo.«Non posso vederti buttare via tutto. Ti è andata bene due volte, ma la fame tornerà. Il

paese è piccolo, cosa pensi che accadrà quando troveranno altri corpi? Goffredo è morto… a chi daranno la colpa?»«Che devo fare? Non lo so… io consegno il latte, niente di più.»Il Barone si lisciò un baffo. «Potresti diventare mio figlio.»Tommaso si voltò e guardò l’uomo, senza capire il senso della sua affermazione.Un passo alla volta sul sentiero lastricato. Costruisci il sentiero, gli altri ti seguiranno.

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Si massaggiò la tempia: la voce di sua madre gli aveva trapassato il cranio come una pugnalata.«Che sentiero?» chiese ad alta voce, e Gioia corrugò la fronte. Allungò una mano e prese la

sua.«Guardami, piccolo amico mio. Tu puoi essere mio figlio. Ti darò una bella vita, l’istruzione

che meriti. Tutto ciò che mi appartiene, che appartiene ai Gioia, sarà tuo. Possiamo avere il tempo di plasmare la materia, noi due insieme.»Un passo alla volta sul sentiero lastricato.Tommaso si prese la gola. Si sentiva soffocare. Afferrò la manopola del finestrino e tirò giù

il vetro. La bocca spalancata alla ricerca d’aria.Costruisci il sentiero, gli altri ti seguiranno.«Potrai avere tutto, Tommaso. Tutto quello che desideri. Pensaci… anche lei! Puoi avere

anche lei.»Il ragazzo guardò verso la casa, nella direzione che il Barone gli stava indicando con un

dito. Vide Elvira seduta contro il muro. La osservò mentre si rimetteva in piedi e si spazzolava il retro della gonna, come le aveva visto fare decine di altre volte. Come quella sera, quando era caduta dal carro e lui l’aveva stretta a sé. Un passo alla volta. I figli della terra ti seguiranno. Cammineranno al tuo fianco sul

sentiero nero.«Va bene» disse.«Va bene?» chiese il Barone con voce stridula.Tommaso incrociò il suo sguardo. Aveva ripreso a respirare.«Va bene» ripeté. «Voglio tutto.»

* * *

Elvira corse verso di lui e gli gettò le braccia al collo. Tommaso era immobile, impacciato, incapace di dire o fare qualcosa. Le lacrime dell’amica gli bagnarono una guancia. Non la meritava, non meritava tutto questo. Era salito su una corriera senza pagare il biglietto, e non riusciva più a scendere. Gioia assisteva alla scena, un sorriso di ghiaccio sotto i baffi.«Stai bene? Cosa è successo?» gli chiese la ragazza.«Dove sta Mimì? È vivo?»«Teresa l’ha nascosto a casa vostra. Lo stanno cercando tutti, è ferito e ha la febbre alta.»«Il Barone può aiutarlo» disse. «È un medico.»«Corro a prendere la mia borsa.» Gioia scattò verso il cancello. Infilò la chiave nella

serratura e sparì dentro il cortile.Tommaso si sciolse con delicatezza dall’abbraccio, prese le mani di Elvira e le strinse forte.

Erano pulite, lisce, mentre le sue erano sporche, piene di calli e con un filo scuro sotto le unghie. Il sangue del figlio di Stella.«È stato Goffredo» disse, sentendo la storia che si formava piano nella sua mente. «Io

tenevo il bambino, stavo scappando dal capanno. Il rumore degli spari era assordante e ho

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avuto paura. Lui mi aspettava nel bosco, forse mi stava seguendo. Abbiamo lottato, io ho provato a fermarlo ma lui era più forte.»La ragazza sbarrò gli occhi, si portò una mano davanti alla bocca.Tommaso trattenne un sorriso. Incrinò la voce il tanto che bastava per sembrare

sconvolto, spaventato, e un labbro iniziò a tremargli. Non seppe mai come ci fosse riuscito, ma arrivarono anche le lacrime. Era un attore migliore di quelli dei film americani. Avrebbero dovuto proiettare il suo volto sulla facciata del municipio. Sarebbe stato un successo, tutti avrebbero applaudito.«Il Barone mi ha trovato che vagavo nel bosco» continuò. «Gli ho raccontato cosa era

accaduto, e siamo tornati indietro. Forse Goffredo non aveva ancora mangiato il bimbo come era successo con Nunzio. Forse era troppo piccolo perché lui si saziasse, ma ci sbagliavamo.»Gioia riemerse dalla casa, i capelli spettinati e il sudore sulle guance. Arrivò di corsa,

trascinando una borsa enorme. Giusto in tempo per diventare parte della storia.«Lo ha ucciso.» Tommaso lo indicò con il mento e l’uomo assunse un’aria solenne. Gonfiò il

petto, infilò una falda della camicia nei pantaloni di lino. «Il Barone è un eroe, ha combattuto contro Goffredo e lo ha fermato per sempre. Lui mi ha salvato. Ci ha salvati tutti.»

* * *

Se l’abbraccio di Elvira l’aveva fatto sentire vivo, quello di Teresa gli tolse il fiato. La sorella lo strinse a sé come non aveva mai fatto prima, gli riempì la fronte di baci e pianse. Piansero insieme, sangue dello stesso sangue. Tommaso avrebbe voluto dirglielo, raccontarle che poteva sentire la mamma e che lei era ancora viva, da qualche parte dentro di lui, e lo guidava.«Mi scaldi una pentola d’acqua, signorina» disse il Barone, e il suono della sua voce lo

riportò alla realtà. «E mi porti degli stracci asciutti. Il proiettile è uscito dalla spalla, qualche centimetro più sotto e bucava il cuore.»«Sta morendo?» chiese Tommaso. Si sentiva in colpa: se non fosse entrato in quel capanno,

se non avesse preso il bambino, tutte quelle cose brutte non sarebbero accadute. Doveva restare accucciato tra le auto. Sarebbe stato meglio se la pallottola indirizzata all’amico avesse colpito lui. Dietro la nuca, o in mezzo agli occhi. Un bel buco nella sua testa malata. Il Barone si sbagliava, e anche sua mamma. Non c’era niente di speciale nelle cose, nessun sentiero da costruire. Quel vecchio libro raccontava bugie. Fiabe per bambini. Storie di paura, di quelle che si raccontano davanti a un falò. Lui era pazzo, andato a male, e la colpa era solo di una persona.Suo padre.Don Rosario sbatté la porta. La sua voce gonfia di vino tuonò al piano di sotto. «Dove cazzo lo tieni? Mi vuoi rovinare?»Teresa ed Elvira impallidirono. Il Barone arrotolò le maniche della camicia.

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«Devo fermare l’emorragia» disse. «Se non intervengo adesso, non credo che possa farcela.»Tommaso si morse il labbro. Guardò la sorella, lesse il terrore nei suoi occhi e gli

tremarono le gambe. Il padre era entrato in casa come una furia. Spostava mobili, sbatteva cose manco Mimì fosse nascosto nei cassetti, poi iniziò a salire. Passi pesanti sui gradini. Il legno che scricchiolava. Il ragazzo avvertì lo strappo. La carne sotto i piedi che si spaccava, le ferite medicate dal

Barone che si riaprivano. Sentì il sangue che bagnava le bende e rendeva viscide e appiccicose le solette delle scarpe. Le scarpe nuove, quelle che non aveva mai avuto. Sangue e fuoco. Le fiamme si avvolsero intorno ai suoi polpacci come serpenti di lava. I tessuti si sfilacciarono, disperdendo rivoli di fumo nella stanza. Stava bruciando, come quel giorno nella stalla. Altri passi, la voce più vicina. Teresa che piangeva.«Te lo sei portato a casa? Stronza… mi vuoi rovinare? L’hai fatto apposta! Sei una puttana…

una puttana come tua madre!»Il ragazzo chiuse gli occhi, trattenne il respiro. Ascoltò il grido, l’eco che rimbalzava contro

le pietre, in mezzo agli alberi. Il ruggito della montagna. Scoprì i denti.Tommaso poteva sentirlo. Sotto il fuoco, i muscoli e le ossa. Il buio che gli dilagava dentro.

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44

OGGI

De Vivo azzannò l’ultima fetta di pizza, un filo di mozzarella impigliato alla barba incolta. «Dobbiamo credergli?» chiese.Damiano e la Malangone erano troppo presi dalla loro ricerca al computer per rispondere.

Lo Sciacallo fece scorrere la freccetta del mouse, cliccò per ingrandire la foto.«L’uomo che vede» disse.Il Senatore Gioia. Un vecchietto in un gessato scuro, gli occhi gentili e la mano stretta a

quella del Ministro dell’Ambiente, durante l’inaugurazione del Parco Nazionale del Cilento.«Questa foto è del 2005. Non c’è qualcosa di più recente?» chiese il procuratore, e lui

scosse il capo.«Non gli piace apparire in pubblico.»«È strano.» De Vivo si pulì la bocca con un fazzoletto. «Dopo tutto quello che ha fatto per il

suo territorio, questo tizio dovrebbe amare che parlino di lui.»«Villa Gioia è un’eccellenza» affermò la Malangone, facendo scorrere un dito sul tablet che

aveva sulle ginocchia. «Ha aperto i battenti negli anni ottanta, accogliendo giovani con problemi di tossicodipendenza da ogni parte del paese.»Damiano cambiò la pagina di navigazione. «Il sito dice che la struttura ospita dalle novanta

alle centoventi persone. Vivono coltivando e vendendo prodotti biologici in tutto il mondo.» Fece una smorfia. «Una volta ho partecipato alle loro raccolte di beneficenza. Ho comprato il loro latte, cazzo.»«Ripeto la domanda.» De Vivo prese una sigaretta dal taschino e se la infilò tra le labbra

senza accenderla. «Vogliamo credere a quel ragazzino pazzo? Andiamo, questo Senatore mi sembra il fratello di Gandhi. Fa le mozzarelle biologiche e raccatta drogati per strada. Siamo sicuri che mangi i bambini?»«Potrebbe essere una copertura. Il ragazzo dice che la madre era tenuta nella struttura

contro la sua volontà. Quanto ci vuole per verificare questa cosa?» chiese la Malangone. «Dobbiamo fare i conti, incrociare la sua data di nascita con le denunce di scomparsa di donne negli ultimi quaranta anni. Sempre che l’età che ci ha fornito Petrillo sia corretta.»«Ci stanno lavorando Mosca e i suoi uomini» rispose il commissario. «Gli ho detto di

buttare giù la porta del comune, di controllare gli atti. Tutto quello che riesce a recuperare sul ragazzo.»«Non basta.» Il procuratore aveva gli occhi ridotti a fessure, in un’espressione da rapace.

«Dobbiamo ricostruire la storia del senatore Gioia. Come è arrivato a essere quello che rappresenta. Le sue amicizie, i suoi contatti: voglio sapere tutto di lui.»

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Lo Sciacallo saltò da una schermata all’altra, staccando una mano dalla tastiera solo per asciugarsi l’occhio. Le cicatrici gli prudevano, ed era un segnale. Il modo che il suo corpo aveva per avvisarlo. Stava per accadere qualcosa di grosso.«Ci stiamo dimenticando della clinica» disse. «Se Petrillo non dice stronzate, possiamo

collegare Villa Gioia a La Quiete. Pensateci bene, cosa abbiamo?»De Vivo fece un cenno d’assenso con il capo. «Un dottore ucciso con una pallottola in

mezzo agli occhi, due morti in una stazione di servizio e un medico scomparso. Il tuo amico.»«Flavio stava seguendo una paziente con disturbi dissociativi.»«Quella che risulterebbe condotta in clinica da una volante? Ho controllato di persona, non

c’è nessuna segnalazione, nessuna denuncia di sparizione e nessun trasferimento da altra struttura. Niente di niente.»«Esatto.» Lo Sciacallo si massaggiò la gamba cattiva, strinse la coscia quasi ad ammonirla

di lasciarlo in pace. Il dolore strisciava dall’osso fino all’addome, costringendolo a piegarsi in avanti e a boccheggiare. «Non hai trovato nulla perché non c’è mai stato nulla. La ragazza non esiste. Ho parlato con una donna che lavora nella struttura. Ha detto che la paziente ha cominciato all’improvviso a parlare. Un attimo prima era un vegetale e quello dopo cantava come un uccellino. Flavio temeva per l’incolumità della giovane, aveva chiesto alla mia informatrice di occuparsi di lei mentre andava a cercare De Nicola. Aveva scoperto qualcosa…»«Dovremmo rivoltare quel posto» disse il procuratore. «Voglio vedere questa ragazza,

farla visitare da altri medici. Voglio capire cosa le è accaduto.»«Certo, come no.» De Vivo fece schioccare i muscoli del collo. «Ci sono già stati i carabinieri

e non hanno trovato nulla. I registri sono puliti, non ci sono nuovi ricoveri da almeno sette mesi. Hanno parlato con una psichiatra, una certa dottoressa Nardi, e lei ha confermato che nessuno del personale ha mai sentito o visto questa ragazza. Ha ragione Valente, lei non esiste, o è quello che vogliono farci credere.»«La Nardi…» Damiano fece un grugnito. «Sembra che quella donna sia in grado di fare il

bello e il cattivo tempo, a La Quiete. La Nardi ha sentito la ragazza parlare e ha fatto allontanare la mia informatrice. L’inserviente era spaventata, non se l’è sentita di mettersela contro. E non se la sente nemmeno adesso. Teme di perdere il posto.»«La paziente…» La Malangone descrisse un piccolo cerchio nell’aria con un dito. Sembrava

stesse riavvolgendo un filo. «Cosa ha detto di così strano?»Damiano si grattò una cicatrice all’angolo della bocca, affondò la schiena nella sedia e

disse: «Provate a indovinare.»

* * *

Lo Sciacallo aveva perso il conto delle notti trascorse senza dormire, eppure non avvertiva la stanchezza. Il suo cervello ribolliva come se fosse attraversato da continue scariche elettriche che lo tenevano all’erta. De Vivo si era davvero impegnato a fondo, per preparare la lavagna con tutti quei bigliettini colorati, nomi scritti con il pennarello e fotografie.

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Avevano passato le ultime cinque ore in quella stanza. Il procuratore aveva parlato ancora una volta con Petrillo e poi indetto una riunione straordinaria per definire un piano d’azione. La notizia era trapelata nonostante il riserbo imposto. L’assassina dei biglietti in realtà era un assassino. I giornalisti erano impazziti, avevano iniziato a chiamare la Malangone alle prime luci dell’alba per avere un’esclusiva e lei li aveva mandati affanculo con eleganza.Damiano sorrise. La osservò mentre sfogliava il taccuino con gli appunti, il volto senza

trucco e il corpo minuscolo stretto in un tailleur stropicciato. Gli piaceva. Non nel modo in cui a un uomo possono piacere le donne. A lui non interessava quell’articolo, però provava simpatia per lei. Rispetto. Sembrava fatta di una lega metallica che lui non conosceva. Abbozzò un sorriso. In quel momento, mentre provavano a districarsi nel labirinto

costruito dal Senatore Gioia per loro, fu attraversato da un pensiero leggero. Così leggero che si sorprese di se stesso.Quando tutta questa storia sarà finita, li farò uscire insieme. Flavio e la Malangone. Forse lei

riuscirà a fargli mettere la testa a posto. Li invito a cena, a casa mia. Anzi no, meglio al ristorante. Non so cucinare. Andiamo a Santa Maria di Castellabate, a L’Arcata. Si mangia bene ed è sul mare. Il mare fa bene alle persone.«La situazione è complessa.» Il procuratore si schiarì la voce. «Dovremmo gioire per la

nostra vittoria. Abbiamo fermato Petrillo prima che facesse del male ad altre persone, e vi faccio i complimenti per questo. La vostra collaborazione è stata fondamentale. Purtroppo però sono emersi fatti nelle ultime ore che ci gettano nello sconforto. Vi chiedo di mantenere un assoluto riserbo sulle cose che sto per dirvi.»Il silenzio calò nella sala come un sudario. Damiano vide in prima fila il capitano Mosca che

si agitava sulla sedia, poi cercò lo sguardo di De Vivo, che contrasse la mascella. Si tastò la giacca alla ricerca di qualcosa che sembrava aver perso.«Sono intenzionata ad avviare delle indagini su Villa Gioia, a Castellaccio. Crediamo di

avere elementi sufficienti ad attivare la macchina della giustizia.»«Di che si tratta, dottoressa?» chiese qualcuno degli agenti.«Dell’orrore più assoluto.» La voce della Malangone tremò. La donna incrociò i suoi occhi e

Damiano vide le fiamme. Lingue arancioni che si contorcevano nelle iridi. «Nella mia breve carriera non mi sono mai imbattuta in uno scenario così oscuro. Quello che accade sul nostro territorio da più di cinquanta anni è uno scempio, un insulto al significato stesso della vita. È per questo che vi ho fatti venire qui. Non sono disposta a tollerarlo. Non più.»

* * *

Damiano attese che la sala si svuotasse prima di alzarsi. Poggiò entrambe le mani sul bastone e spinse con l’addome. L’adrenalina era scivolata via, come sudore sulla pelle, lasciando il posto a un senso di spossatezza. Forse doveva prendersi una stanza a Salerno e riposare. Non era il caso di mettersi alla guida. Solo qualche ora. Prima di uscire aveva lasciato la ciotola piena a Jack, e poteva restare fuori ancora per un bel po’. Eppure la voglia

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di tornare a casa era più forte della stanchezza. Avvertiva il bisogno di sentirsi al sicuro nelle mura umide del suo studio, seduto sulla sua poltrona ad aspettare che Flavio tornasse.Flavio.Cercò di contare i giorni che erano trascorsi senza avere più notizie del suo amico e provò

un nodo alla gola. Per quanto ne sapeva, poteva essergli toccata la stessa sorte di De Nicola. Una pallottola in testa, gli occhi sbarrati che sembravano guardare tutto ciò che aveva lasciato incompiuto. Flavio e il suo mondo, la scatola con i documenti di quegli uomini, e le cicatrici. Una mappa del dolore disegnata nel tempo. Scosse il capo.No, non può essere morto. Me lo sento. Il procuratore lo attendeva in corridoio. Presero l’ascensore e scesero al piano terra senza

scambiarsi una parola. Non c’era nulla da dire, nulla da aggiungere. De Vivo venne loro incontro con una sigaretta stretta tra le labbra.«Conviene passare da dietro» disse.Damiano si sporse, intravide attraverso i vetri sporchi un furgone bianco della RAI. Le

antenne paraboliche sul tetto e un gruppo di teste che si muovevano come galline in un pollaio per sbirciare dentro l’edificio.Uscirono dalla Questura attraverso una porta che dava sul Lungomare di Salerno. Due

agenti fumavano dietro una montagna di spazzatura, le spalle poggiate contro i cancelli della villa comunale. Una squadra di uomini in tute arancioni era all’opera per smontare le luminarie natalizie. “Il giardino incantato”, recitava una scritta in corsivo fatta di lampadine morte.«Dottor Valente.» Il procuratore gli sfiorò un gomito con la mano. «Mi prometta che

riposerà un po’ anche lei.»Damiano le sorrise. «È stata una nottataccia.»«Ce ne aspettano ancora altre.» La donna lo salutò con un cenno del capo.«Venga dottoressa» disse De Vivo. «La accompagno all’auto.»Lo Sciacallo era avanzato di un paio di metri, zoppicando, quando si sentì chiamare ancora.

Si voltò.«Valente.» La Malangone era ferma dove l’aveva lasciata, una ventiquattrore nel pugno.

Una donna minuscola sotto un cielo di piombo. «Mi dispiace per il suo amico. Vedrà, sistemeremo tutto.»Lo so.Damiano sbatté le palpebre e riprese a camminare. La strada era vuota e il vento portava

l’odore del mare. La prima cosa che notò furono i caschi. Le visiere abbassate, i vetri scuri. Una moto che veniva verso di lui contromano. L’uomo seduto dietro si sollevò appena sulle gambe, infilò una mano sotto il giubbino. La cerniera aperta a metà. Poi Damiano vide la pistola, la bocca del silenziatore puntata verso di lui, e sollevò un

braccio come se la sua mano avesse il potere di fermare le pallottole. Chiuse gli occhi e incassò la testa tra le spalle. Contò i secondi prima dell’impatto e aspettò. Aspettò di sentire il proiettile che si faceva largo nel suo corpo, la fitta di dolore, la vista che gli si annebbiava. Aspettò che il mondo precipitasse nell’oscurità. Istanti rotti da un grido.

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Lo Sciacallo riaprì gli occhi, si tastò il petto alla ricerca del foro d’entrata. Non c’era sangue: era ancora in piedi. Comprese quello che era accaduto prima ancora di voltarsi. L’eco del mare, il ruggito degli spari. I suoni inghiottiti dal silenzio. Girò piano il capo, le lacrime che gli riempivano gli occhi. Vide il sangue che si allargava sul marciapiede. La valigetta aperta, i fogli portati via dal vento. La dottoressa Malangone non voleva lasciarla andare, le dita rigide sull’impugnatura.

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45

AGOSTO, 1950

Tommaso calò giù per le scale come un tuono. Un vortice di gambe e braccia. Andò a sbattere contro Don Rosario. Lo colse di sorpresa, trascinandolo con sé, gradino per gradino. I loro volti così vicini che poteva sentire l’alito di vino e sigarette. I loro sguardi incastrati in una morsa. Lasciò che il padre gli guardasse dentro, si specchiasse in quell’abisso che si nascondeva sotto la sua pelle. Non disse nemmeno una parola Don Rosario, mentre cadeva. Anni di rabbia, di frustrazione, di umiliazioni. Tutto svanito in un attimo. Un grugnito, la lingua tranciata dai denti e il sangue che riempiva la bocca.Il ragazzo sentì i polmoni che si svuotavano, una voragine nello stomaco e poi lo schianto.

Le ginocchia sferzarono il pavimento, vide una scarpa volare via e picchiò il gomito contro qualcosa di duro. La fitta di dolore gli strappò un grido. Non riuscì a capire come, ma si ritrovò in piedi. Rotto e ammaccato, con nugoli di formiche che gli camminavano addosso, entrando nei muscoli dai pori della pelle. Sbatté le palpebre, cercando di scacciare le sfere bianche che galleggiavano nell’aria. Era pronto a combattere, non sarebbe andata come alla stalla. Sarebbe finita lì, e subito. Tommaso non aveva paura di suo padre, non temeva nessuno. Si voltò, un braccio sollevato come la guardia di un pugile monco. Don Rosario lo avrebbe

caricato a testa bassa, inchiodandolo alla parete e tempestandolo di schiaffi e insulti: era così che sarebbe andata, non appena si fosse rialzato. E invece non si mosse. Le gambe divaricate e gli occhi fissi contro il soffitto. Una chiazza di sangue che si allargava dietro la nuca, come un bicchiere di vino rovesciato sulla tovaglia.Tommaso ansimò, poi calò piano il braccio. Andò ad accucciarsi vicino al padre e rimase lì,

a guardarlo mentre moriva.

* * *

Il Barone si deterse il collo con un fazzoletto, poi lo ripiegò con cura e lo infilò nella tasca dei pantaloni imbrattatati dal sangue di Mimì.«Che succede adesso?» Tommaso guardava le crepe nella facciata della casa. Aveva le

vertigini, e un orecchio gli fischiava così forte che non riusciva più a sentire la sua voce. Se sua madre avesse potuto vederlo adesso, sarebbe stata fiera di lui. In un modo o nell’altro, era riuscito a impedire a Don Rosario di distruggere l’unica cosa buona che aveva fatto nella sua vita.Teresa.«Mimì starà meglio» disse Gioia. «Guiderò piano fino a casa, non verrà a cercarlo nessuno

da me. Sta’ tranquillo. Con l’amore di tua sorella e le mie cure, si rimetterà presto. Dovrà

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restare nascosto, almeno fino a quando non si saranno calmate le acque. Ho molti amici in giro, e lui e tua sorella potranno andare dove vogliono. Potranno persino sposarsi e avere un nuovo nome.»«Mimì non andrà mai via da Castellaccio: lui fa parte della terra.»Il Barone annuì. «E allora dobbiamo sistemare Santese.»«Posso farlo io» disse il ragazzo. «Vado a casa sua mentre dorme e…»«No, basta sporcarti le mani. Se lui muore subito, penseranno che è stato Mimì a

completare l’opera, e questo non va bene.» Il dottore gli mise una mano sulla spalla. «Ci vuole pazienza, figlio mio. Abbiamo altre cose di cui occuparci adesso.» Indicò con il mento la casa. «Dovrà sembrare un incidente.»Tommaso deglutì a fatica. «Ho capito.»«Li porto via, prima che arrivino i carabinieri. Sicuro che non devo aspettarti?»«È casa di mia mamma: devo pensarci io.»«Come vuoi.» Il Barone si voltò, roteando il bastone nell’aria. Guardò Elvira e disse:

«Piccola, vieni in auto. Ti riporto dai tuoi nonni.»«No, io non mi muovo da qui» protestò Elvira, poi si rivolse a Tommaso. «Resto con te, non

puoi mandarmi via.»Il giovane incrociò lo sguardo di Gioia, che annuì e si avviò verso l’auto.Tommaso svitò il tappo della tanica di benzina, infilò una mano nella tasca e prese i

fiammiferi di Mimì. Si voltò giusto in tempo per vedere la macchina che partiva, le ruote che grattavano il selciato. Teresa era seduta dietro: schiacciò una mano sul vetro e non la tolse fino a quando il veicolo non sparì in mezzo agli alberi.«Mio padre era arrabbiato.» Il ragazzo ascoltò la sua voce. Piatta e fredda come una lama.

«Quando era nervoso, lui beveva e ci picchiava. Noi avevamo paura e ci siamo nascosti nella stalla. L’abbiamo sentito che buttava tutto per aria, poi il silenzio. Probabile che si fosse addormentato sul divano, come faceva sempre da ubriaco. Fumando e continuando a bere fino a perdere i sensi.»Si chinò per prendere una tanica ma gli faceva male il braccio e digrignò i denti per lo

sforzo.«Aspetta, ti aiuto.» Elvira scattò in avanti, mise una mano sull’impugnatura e le loro dita si

toccarono. Tommaso la guardò, una goccia di sudore sulla fronte. Lei aveva i capelli spettinati e il viso sporco, e lo fissava come se fosse l’ultimo ragazzo rimasto a Castellaccio. Avrebbe voluto dirglielo, raccontarle tutto. Farle capire che cosa si portava dentro, o almeno provare a farlo, ma si limitò a sbattere le palpebre.«Grazie» disse, e lei fece un debole sorriso.Tommaso adesso sapeva: le parole tra loro non avevano importanza. Qualsiasi cosa lui

fosse, il tempo si era fermato. Le lancette dell’orologio avevano preso a girare al contrario fino a bloccarsi al giorno in cui si erano conosciuti, alla prima volta che si erano visti. Aveva rimosso tutto, perché una parte di sé provava vergogna. La parte debole, quella a cui aveva smesso di prestare ascolto. I topi non gli bastavano più, aveva bisogno di altro. Se non si

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fosse fermato a casa dei vicini, se non avesse attirato il piccolo Nunzio con una scusa e non lo avesse ucciso in riva al fiume, loro non si sarebbero mai incontrati. Tommaso ed Elvira tracciarono scie di benzina nella casa. Svuotarono la tanica sul corpo di

Don Rosario, adagiato sul vecchio divano all’ingresso. Poi tornarono indietro, si fermarono sulla soglia e il ragazzo accese un fiammifero. Osservò la fiamma danzare nel buio prima di lasciarla cadere ai suoi piedi.Elvira gli strinse la mano. Era stato il tempo a volerlo. Esistenze legate dal fuoco.

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46

OGGI

Al funerale vennero tutti. Una schiera di autorità in abito scuro e facce afflitte. Colleghi, giornalisti, semplici cittadini. Il cortile del Duomo di Salerno era pieno, le persone strette una all’altra sotto le note di un pezzo di Jeff Buckley. Lo Sciacallo non sapeva che fosse il musicista preferito dal procuratore, così come non conosceva il suo nome di battesimo.Anna Laura Malangone.Non se ne era mai preoccupato, pensava che non fosse necessario. I rapporti tra loro non

erano mai scesi sul personale, e ora se ne dispiaceva.Funziona sempre così. Ti accorgi di una persona, dei suoi sentimenti, di chi è realmente, solo

quando l’hai persa.Il Ministro della Giustizia parlò di attacco allo Stato e di sacrificio, tante belle parole che

sembravano anticipare la campagna elettorale. Disse che l’Italia avrebbe reagito. Promise un’inchiesta per fare luce sui fatti, e perché la morte di Anna Laura avesse un senso.Quando mai la morte significa qualcosa?Per tutto il tempo della funzione, Damiano tenne gli occhi incollati sui genitori della

Malangone. Due anziani fragili, con le mani consumate dal lavoro. Se ne stavano stretti nell’abbraccio del Sindaco e del Procuratore generale, piegati dal dolore, come se quella manifestazione d’affetto bastasse a lenire le ferite. La madre di Anna Laura guardava il crocefisso con occhi vuoti. Lo Sciacallo provò a immaginare le domande che la donna stava rivolgendo in quell’istante al suo Dio. Forse erano le stesse che si poneva anche lui.Le domande tenevano in vita le persone, erano la forza che permetteva loro di andare

avanti. Lo aveva capito anche De Vivo. Per questo era venuto a casa sua, due giorni dopo il funerale. Il commissario sapeva che lui non avrebbe smesso di farsi domande. Mai.

* * *

«Che hai scoperto sul senatore Gioia?» Damiano si massaggiò la gamba cattiva. «A parte quello che sapevamo già, intendo.»«Un cazzo! Parte dei registri è andata persa, ti rendi conto?» De Vivo si mise una sigaretta

tra le labbra, fece per accenderla ma allontanò la fiamma dello zippo e si massaggiò la testa. «Dicono che c’è stato un incendio a fine anni cinquanta. Hanno perso tutto.»Tommaso Gioia, l’uomo senza passato. Era diventato il suo incubo. Unico erede della

famiglia Gioia, una delle casate nobiliari del Cilento. Imprenditore, filantropo. Aveva trasformato le montagne di Castellaccio in un parco naturale prima degli anni ottanta. Era

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un appassionato di escursionismo e amava la sua terra, aveva dichiarato in un’intervista uscita sul Mattino nel 1979. Il turismo era una risorsa essenziale, diceva.È per questo che hai fatto sistemare la via del sale, brutto stronzo? Per i turisti?Il salice bianco. Damiano ripensò al corpo di Claudia, alla testa depositata in mezzo ai rami.

Pensò alla caverna, alle incisioni sui muri. Cercò di ricordare la sensazione che aveva provato mentre entrava nel cuore della montagna. L’idea che lui e i suoi amici stessero violando un luogo dove non erano stati invitati. Un tempio.«Su Petrillo, invece?» chiese, accarezzando la testa di Jack e cercando di restare

concentrato.«La professoressa Barone ha guardato nel database dell’Università. Ha fatto la rinuncia

agli studi un anno fa. Inutile dirti che i documenti presentati all’iscrizione sono incompleti. Non c’è stato di famiglia, e nemmeno la copia del diploma di maturità.»«Un altro fantasma.» Damiano si grattò una cicatrice. Sulla scrivania le fotocopie del De

Fauci Inferni erano segnate come il libro di testo di un liceale.«Lo tengono in isolamento» aggiunse De Vivo. «Hanno paura che si suicidi… il ragazzo non

sta bene. Continua a ripetere la storia dei bambini. Dice che lui è stato graziato da Dio perché era speciale. Che cazzo vuol dire? È nel libro, questa cosa? Ti prego, dimmi di sì, perché non ci capisco più niente.»Damiano scosse il capo. Prese il cestino della carta straccia sotto il tavolo, raccolse le

fotocopie e le gettò dentro. Qualsiasi fosse il significato da attribuire ai versi scritti sulle pareti della casa di Giulio, a lui non interessava più. Non c’era giustificazione per il male. Esisteva e basta, dentro le persone, nelle cose. Il male era vivo e non agiva secondo le regole dell’uomo.«Ho le mani legate, porca puttana» disse De Vivo. «Il Questore mi sta addosso, ci manca

solo che adesso controlli quante volte vado al cesso.»«Dobbiamo ricominciare dall’inizio» affermò Damiano. «La clinica: partiamo da lì e dalla

ragazza. Flavio mi aveva detto che…»Il telefono vibrò. Damiano lesse il nome sul display e trattenne la rabbia. Non aveva la

minima voglia di rispondere. Era la terza volta che provava a chiamarlo. Era stanco di sentire scuse.«Che fai?» chiese De Vivo. «Aspetti che si scarichi la batteria per evitare di parlargli?

Prendi quell’affare e vedi che cosa vuole. Ho mal di testa.»Lo Sciacallo allungò una mano, fece scorrere il dito sullo schermo e rimase in ascolto.«Era ora, cazzo! Stavo per venirti a cercare.» La voce di Stefano proruppe dalla cassa dello

smartphone. «Ho saputo del procuratore, mi dispiace.»Damiano contò fino a dieci, sforzandosi di restare calmo.«Cosa vuoi?» sibilò. «Sparisci per giorni e adesso chiami per fare conversazione?»«Rallenta, Forrest! Dove pensi che sia stato, in questi giorni? Ricordi quello che mi avevi

chiesto?»La dottoressa Nardi.«Ci sei?» lo incalzò Stefano. «Troviamoci da Giulio, devo farti vedere una cosa.»

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«Quando?»«Che ne so… adesso?»

* * *

Stefano stava fumando sui gradini del portico. Le guance scavate, la barba incolta e chiazzata di bianco. Quando li vide arrivare fece un ultimo tiro e gettò la sigaretta.«Mi sa che mi sono fatto prendere un po’ la mano» disse, guardando prima Damiano e poi

il commissario. «Potevi dirmelo che sarebbe venuto anche lui. Non ho intenzione di finire in galera.»De Vivo sbuffò. «Non sono in servizio.»«Che succede? Perché mi hai chiesto di vederci in questo posto?» Lo Sciacallo affondò il

bastone nel terreno, fece un passo in avanti. Sentiva i muscoli rattrappiti e anche la gamba buona non voleva saperne di reggere il suo peso. Quella casa aveva una strana influenza sul suo corpo, qualcosa che non riusciva a spiegarsi.Stefano schiacciò la sigaretta con un piede. «È meglio se entrate.»

* * *

Lo Sciacallo fece le scale a fatica, fermandosi ogni tanto per riprendere fiato. Stava sudando, gocce gelide sulla faccia.«Quello lì è Anatoli» disse Stefano, indicando un ragazzo biondo e dalle spalle larghe come

un armadio. «È un mio operaio e mi ha dato una mano a fare questa cosa. Mi fido di lui.»Anatoli li guardò senza salutare.«Dopo che ce ne siamo andati dalla clinica,» continuò Stefano, avvicinandosi a una porta

chiusa, «mi sono messo a pensare a tutta questa storia. Avevi ragione, ci avevano preso per il culo. Ho seguito quella stronza della dottoressa. L’ho vista entrare e uscire da casa, vivere la sua vita come se niente fosse mentre Flavio chissà dove stava. Prima che apra e vi lasci entrare, voglio che tu ci pensi bene. Hanno preso il mio amico, e…»«È anche amico mio.» Lo Sciacallo fece un passo avanti, sollevò un braccio e indicò la

stanza. «È una di quelle dove metteva le ragazze? Che hai combinato?»Stefano girò la maniglia, spalancò il battente e si fece da parte.La dottoressa aveva le mani legate dietro la schiena. Sedeva al centro della stanza, senza

vestiti a eccezione della biancheria intima. Se non fosse stato per gli occhiali rotti sul pavimento, Damiano avrebbe faticato a riconoscerla. La donna sollevò piano la testa e li fissò attraverso l’unico occhio che riusciva ad aprire. Il viso era tumefatto, una maschera di ecchimosi e lacerazioni.«Cristo santo» sussurrò De Vivo. «L’avete violentata?»«Non le ho fatto questa cortesia» disse Stefano, poi Damiano l’afferrò per il bavero e

ringhiò, sputando saliva mentre parlava.«Ma che cazzo hai fatto? Ti metti a torturare le donne, adesso?»

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L’amico sollevò una mano e fece un cenno ad Anatoli. Tutto a posto. Lo Sciacallo guardò alle sue spalle, vide il ragazzo che brandiva un martello e allentò la presa.«Vuoi sapere cosa ha fatto a Flavio?» Stefano si avvicinò alla dottoressa, le afferrò i capelli

costringendola a piegare il capo all’indietro. Lei emise un gemito. Le mancavano alcuni denti. «Avanti, raccontagli le cose che hai detto me. Brutta stronza, diglielo cosa fate voi merdosi in quella villa. Mo’ ti faccio vedere, Damia’. Cambierai idea, dopo che l’avrai sentita parlare.»

* * *

L’uomo con le cicatrici osservò i corpi appesi al soffitto. Penzolavano nel vuoto, gambe e braccia accarezzate dal vento che sibilava in mezzo alle foglie. Scosse il capo e una fitta gli bucò il cranio. Chiodi conficcati nelle pupille. «Spogliatelo» disse una voce, e mani forti lo afferrarono per le braccia. Il tessuto della sua

maglietta che si strappava, la testa strattonata all’indietro. Sentì il tintinnio della cintura, il freddo sulle gambe nude.«Hai visto? Guarda qui.» «Come te li sei fatti tutti questi tagli?» Qualcuno gli tirò i capelli. «Sei pieno, cazzo…»L’uomo con le cicatrici sbatté le palpebre. Cercò di dare un volto alla voce ma era troppo

buio. Doveva aver battuto la testa, sentiva qualcosa di viscido sulla faccia. La mascella indolenzita, come se l’avessero preso a calci in bocca per giorni.Giorni. Non riusciva a capire da quanto tempo si trovasse in quel posto. Aveva avvertito un pizzico

alla base del collo e il mondo era diventato buio. Se lei lo aveva drogato, evidentemente sapeva.L’iniezione. È stata la Nardi… lei… lei…La psichiatra era coinvolta nella morte di De Nicola, e aveva provato a nascondere la

verità, a fare in modo che lui non sapesse. Sì, ma cosa? Strinse piano i pugni senza che quegli uomini se ne accorgessero. Doveva capire se aveva ancora forze a sufficienza, nonostante le croste di sangue e i lividi sul braccio. Lo avevano drogato, molte altre volte. Aveva sognato il cigolio dei cardini, la porta che si apriva e un vecchio che veniva a dargli sollievo. Un cucchiaio di brodo premuto contro le sue labbra, una mano che gli accarezzava la fronte. Uno schiaffo lo riportò tra quelle quattro mura marce, in mezzo ai corpi che danzavano nel

vuoto. Occhi di plastica su di lui. Bambole. Sono solo bambole.«Adesso ci senti?» Risate, un orecchio che fischiava. «Ti ho fatto una domanda. Come te li

sei fatti?»«Portiamolo all’inceneritore.»«Sì, che cazzo aspettiamo?»«No» tuonò la voce aspra. «L’albanese ci aspetta. Tiratelo in piedi.»

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L’uomo con le cicatrici avrebbe voluto spiegarlo, come si era procurato quei segni. Raccontare la storia di ogni singolo taglio. Poteva ricordarla, nonostante gli facesse male la testa. Le lacrime dei bambini, i lividi sul corpo di una ragazzina, le porte sbattute in faccia, la paura. La verità nascosta sotto i punti di sutura. Il suo nome, l’uomo con le cicatrici avrebbe voluto dire anche quello. Flavio De Martino. Scandire ogni singola lettera, perché anche loro dovevano ricordare. Dare un nome a chi li avrebbe colpiti. Si lasciò trascinare fuori dalla stanza, in un corridoio così stretto che gli mancava il respiro.

Le pareti erano di pietra grezza e sentiva il gorgoglio dell’acqua nelle tubature. Strusciò i piedi sul pavimento, fece finta di lamentarsi. Dovevano credere che fosse debole. Si era lasciato spogliare senza opporre resistenza. Volevano che si sentisse vulnerabile, e lui glielo lasciò credere. Poi aprirono la porta e Flavio sentì l’odore. Un tanfo che gli strinse la gola. Tavoli ammassati contro le pareti. Il ronzio delle mosche.Flavio riconobbe la sedia distesa sul pavimento: sull’imbottitura c’era lo stemma della

clinica. La ruota che girava come le pale di un mulino. Vide la brandina e il corpo rannicchiato sul materasso ingiallito. I capelli le coprivano la faccia, il camice era strappato e le scopriva il seno, le costole, i segni dei morsi.Roberta.L’uomo stava urinando in un angolo della stanza. Le spalle nude e una mano premuta

contro la parete. Scrollò il pene, si accertò di aver svuotato per intero la vescica e poi si voltò. Tirò su la lampo e venne verso di lui. Così vicino che le loro fronti si sfiorarono. Flavio sentì il fiato caldo sulla faccia. «Hai ucciso mio fratello» disse con un accento marcato. Nella voce non sembrava esserci

collera. Un sorriso sulla faccia unta. «Gli hai spaccato la testa a cazzotti.» Flavio tenne il capo basso, cercò di sbirciare alle sue spalle. Il cuore gli batteva

all’impazzata. Osservò il corpo di Roberta. Non capiva se fosse viva, poi vide il suo petto alzarsi e abbassarsi. Un respiro debole.«Albane’» chiese la voce alle sue spalle. «Ma a che gioco stiamo giocando?»L’albanese non rispose, seguì lo sguardo di Flavio e annuì.«Lei è la mia preferita» disse, indicando Roberta con un cenno del capo. «È cresciuta tra le

mie mani. Che peccato… Adesso è guasta, non serve più a niente. Io l’avevo detto, che dovevamo metterla nel fuoco insieme alle altre, ma Lui ha dato ascolto alla dottoressa e l’ha fatta portare all’ospedale.Flavio sentì le dita dell’uomo mentre gli raspavano la barba e gli bloccavano la mascella. «Lui è vecchio e non vuole più comandare. Dice che il signore della notte è venuto a

prenderlo. Lui non vede più, e adesso vedo io.»L’albanese si infilò una mano nella tasca dei pantaloni. Flavio colse lo scintillare del

metallo. Vide il tirapugni di suo nonno e deglutì fiele.«Si mette così?» L’uomo infilò le dita negli anelli di ferro, strinse il pugno e sorrise

soddisfatto. «Io l’avevo detto, lei è guasta, ma Lui non ascoltava. E lo vedi che cosa è successo? Tu hai ucciso mio fratello, ma io metto a posto le cose. Fatelo sedere!»

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Qualcuno gli sferrò un colpo alla schiena. Piegò il busto in avanti, poi le mani lo afferrarono per le spalle e lo tirarono giù, i glutei premuti su una sedia.L’albanese gli accarezzò la testa. «Se fai il bravo, ti lascio guardare.»Flavio rimase a guardare mentre lui si avvicinava al letto. Accarezzava il seno di Roberta e

si voltava a sorridergli. Lo vide mentre si distendeva sopra di lei, una mano stretta intorno alla gola e la schiena illuminata da una lampadina appesa al soffitto. Lo ascoltò mentre grugniva, e iniziò a piangere. Le lacrime del bambino che non era mai stato. Pianse in silenzio, le labbra che si muovevano in un flusso incontrollato.Una preghiera.Flavio stava supplicando che lo uccidessero, un colpo di pistola alla testa proprio come con

De Nicola. Loro però non potevano sentirlo. Non potevano comprendere quello che avevano fatto. Avevano visto i segni dei tagli sul suo corpo ma non si erano resi conto del vuoto. Non avevano capito che c’era ancora posto per una cicatrice.

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47

OGGI

La neve ricopriva i campi davanti alla casa di Giulio. Una poltiglia di ghiaccio e fango spazzata dal vento. Raffiche gelide contro le assi inchiodate alle finestre.«Una cosa così non l’ho mai sentita.» De Vivo si accese una sigaretta. «Ve lo giuro, mai.»«Va ben oltre la realtà.» Damiano si staccò dal davanzale, guardò prima il commissario e

poi Stefano. L’amico se ne stava seduto a fissare i mozziconi che galleggiavano in una bottiglietta

d’acqua. Il volto scavato dalle rughe aveva smarrito l’espressione da ragazzo di paese con la battuta pronta. Sollevò il capo e disse: «Che ne facciamo di lei?»«Le avete dato una bella ripassata. Sequestro di persona, percosse.» De Vivo scosse il capo.

«Dovremmo portarla in ospedale.»«Ma è una pazza! E un’assassina di bambini!» Stefano calò un pugno sulla sua coscia. «Tu

hai figli? Io sì, e se penso che poteva capitare a loro mi sento male. Questa gente non merita di vivere.»Il commissario fece un tiro, le palpebre strette a causa del fumo. «Hai ragione, non

meritano di stare al mondo.»L’affermazione rimase sospesa nel vuoto. Damiano sperava che il silenzio potesse

rispondere alle sue domande, ma rimase deluso. Nessuno poteva spiegargli il perché di tutto quello, o forse no. Una persona c’era. Il senatore Tommaso Gioia.«Quell’uomo ha fatto di un libro un testo sacro» disse, stringendosi la fronte con le dita e

fissando un punto sul pavimento impolverato. «Si è lasciato suggestionare dal De Fauci Inferni e ha creato un mondo tutto suo.»«Perché i bambini?» domandò Stefano.Damiano si strinse nelle spalle. «Non sono in grado di risponderti. Certe volte le persone

fanno cose orribili convinte che sia qualcuno a dir loro di farle. Forse Tommaso Gioia è l’assassino seriale più prolifico del nostro paese. Quanti anni avrà? Un’ottantina?»«Cristo.» Stefano riportò lo sguardo sulla bottiglia con i mozziconi. «Un fottuto cannibale.»Lo Sciacallo annuì. «Mangiare un bambino potrebbe avere vari significati. Nell’est Europa

gli ebrei vennero accusati ingiustamente di rapire e uccidere i figli dei cristiani per i loro riti religiosi. L’accusa del sangue, la chiamavano. A Berna ho visto una statua che ritrae un mangiatore di bambini. Non lo so, ma se Gioia ha dei seguaci come dice la dottoressa, vuol dire che le persone sono convinte di ricavare potere da questa pratica.»«Persone importanti» aggiunse De Vivo. «La dottoressa Malangone è morta per mano di

questa gente. Non volevano che lei scoprisse.»

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«Lo stesso motivo per il quale hanno preso Flavio» disse Damiano. «Aveva scoperto quello che era successo alla paziente.»«Quante ne avrà fatte ricoverare la Nardi in clinica, secondo voi?» chiese Stefano.Lo Sciacallo scosse piano il capo. «Quelle che non potevano più avere figli sparivano e

basta. Forse la Nardi si era pentita, e ha convinto Gioia a fare delle eccezioni. Alla madre di Petrillo non è toccata questa fortuna. Lei è stata uccisa da altri ragazzi come Mauro.»«I figli della terra» sussurrò De Vivo. «Come li sceglieva? Cioè, come cazzo faceva a capire

chi mangiare e chi no? È assurdo.»«Lo è» confermò Damiano. «Gioia aveva bisogno di un gregge. Qualcuno che

apparecchiasse la tavola per lui. Rapire neonati è troppo rischioso. Quell’uomo è intelligente, e un manipolatore di prim’ordine. In tutti questi anni non è mai stato messo sotto accusa, neppure sospettato. Meglio prendere le ragazze, segregarle nei sotterranei della sua comunità e costringerle a fare figli in continuazione.»«Un allevamento di bambini.» Stefano tirò su con il naso. «Come i polli… chi cazzo protegge

quest’uomo?»«Non lo so» disse Damiano. «Ma ormai non tocca più a noi scoprirlo.»«Che cosa?» De Vivo si staccò dal muro, una manica del parka sporca di polvere e una

maschera di stupore sulla faccia. «Vuoi mollare? È questo che stai dicendo?» Damiano sostenne il suo sguardo. Pensò a Flavio, alla ragazza della clinica, alla madre di

Mauro Petrillo e a tutte quelle come lei. Pensò ai bambini nelle fauci di un mostro e si sentì morire. Appartenevano al buio, nient’altro che figli del buio. «Sto dicendo che a noi non interessa più scoprire come funziona la testa di Tommaso

Gioia.»«Ah, sì?» Stefano sollevò il capo, contrasse la mascella. «E cosa ci interessa allora?»«Riprenderci Flavio.» Lo Sciacallo fece un ghigno, le cicatrici sulla faccia gli prudevano. «E

uccidere Gioia. Ucciderli tutti.»

* * *

Si ritrovarono a casa di Damiano dopo un’ora. Stefano aveva chiesto il tempo per passare a salutare i figli. Non poteva andare a morire senza averli prima accarezzati un’ultima volta.«Quella stronza di mia moglie non voleva farmeli vedere» disse, sfiorando la testa di Jack

con le dita. «Ha detto che non era il mio giorno delle visite.»«Sei riuscito a parlarci?» Lo Sciacallo attraversò la stanza di Flavio, colpendo le mattonelle

con la punta del bastone. Si avvicinò a una parete, poi tornò indietro. «È questa» disse. «Puoi farlo tu per me? Per favore?»Stefano si chinò, prese un taglierino e lo fece scorrere nella fuga. «Certo che ci ho parlato» disse mentre sollevava la piastrella. «Le ho detto che non avrei

cacciato i soldi delle vacanze, altrimenti. Vuole andarsene a Ibiza con le amiche… Ma che ci faceva con questo ferro in casa?»Damiano rimosse il caricatore e controllò i proiettili. «Cazzo, è carica per davvero.»Rivide Flavio seduto sul vecchio divano, l’arma infilata in bocca.

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Allora volevi farlo sul serio…«Vedo altra roba qui sotto» disse Stefano, poi infilò la mano nel buco del pavimento ed

estrasse un sacchetto di plastica chiuso da un nodo. Usò i denti per aprirlo. Al suo interno, un vecchio walkman avvolto nel cavo delle cuffie, e un coltellino svizzero. Damiano guardò quegli oggetti, incuriosito.Sembra il tesoro di un ragazzino.«C’è una cassetta dentro» disse Stefano. «Cazzo, non so da quanto tempo non vedevo uno

di questi cosi. Secondo te funziona ancora?»Un clacson. Rimisero a posto la mattonella e uscirono in cortile, seguiti dal cane. De Vivo stava

fumando. Anatoli era arrivato con un vecchio Ducato e li aspettava davanti al cancello.«Appena siamo per strada avviso il comando e gli dico della Nardi» li avvertì il

commissario. «Se lei cambia idea e ci denuncia, faremo comunque in tempo a entrare in quella villa di merda, prima che vengano a prenderci.»Damiano strinse l’impugnatura del bastone, infilò la pistola nella tasca dell’impermeabile.

La stessa tasca dove in un’altra vita aveva tenuto la scatola con le pasticche.«Diamoci da fare.»

* * *

«È probabile che lui sia già morto.» De Vivo distese le gambe nel vano merci del furgone.«Lo escludo.» Damiano chiuse gli occhi, ascoltò i giri del motore, il cane accucciato ai suoi

piedi.«Perché ti ostini a portarti dietro quell’animale?»«Flavio l’ha trovato mezzo morto in una discarica. Lo usavano per quei combattimenti

clandestini per pezzenti. L’ha raccolto e gli ha dato una nuova vita. Il cane non può parlare, ma credo che se potesse mi chiederebbe di portarlo con me a salvare il suo padrone.»De Vivo fissò l’animale a lungo, poi poggiò la nuca contro lo sportello e chiuse gli occhi. Lo

Sciacallo osservò le mani del commissario, le nocche doppie come quelle di un gorilla, la fede al dito.«E tu? Come mai vuoi sporcarti le mani?» chiese.De Vivo si leccò le labbra secche. «Gli uomini come Gioia non li fermi con la legge.»Stefano diede un colpo alla carrozzeria. Lo Sciacallo sentì il veicolo che decelerava e si

asciugò l’occhio.«Ci siamo.»

* * *

Flavio sentì le formiche sulla pelle, una colonna ordinata che gli saliva lungo la schiena. Zampe minuscole che gli pizzicavano la carne. Una scia di fuoco che gli incendiava i muscoli. Aveva smesso di respirare, sentiva la mascella intorpidita e una pressione dietro la nuca. Qualcosa che spingeva contro il suo cervello facendogli ruotare gli occhi nelle orbite. Piegò

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il capo di lato, aprendo e chiudendo le mani, i pugni sempre più stretti a scandire il tempo. Non sapeva quante persone avesse intorno perché non si era preoccupato di contarle. Tre, forse quattro. Roberta non si lamentava, non emetteva neppure un suono. Era abituata, pensò. Come se abituarsi a una vita di stupri fosse una cosa normale.A questo servivano tutti quei libri?Mimì era seduto sul bordo del materasso. La canottiera striata di sangue nei punti in cui

erano entrate le pallottole.Ti ho fatto una domanda. È per questo che hai studiato? Per lasciare che facessero questo a

‘sta creatura? «No» bisbigliò Flavio. Sollevò i talloni nudi dal pavimento e i glutei si contrassero.«Ha parlato?» disse uno degli uomini.«Ma allora ce l’ha la lingua, questo.»Dovevi fare una cosa sola. Una! Proteggere la ragazza, e non ci sei riuscito.«Non dirmi… quello che devo fare. Lo so… io lo so.» Flavio venne scosso da un fremito, si

sentiva ribollire. Ogni muscolo, ogni tessuto, ogni singola cicatrice sul suo corpo si era contratta. La sua corazza, un’armatura di carne indurita.«Ma con chi cazzo sta parlando?»Pure tua mamma è morta, e tu che hai fatto? Piangevi, quando è morta?«Tu non c’eri. Io ero solo… un bambino…» Flavio sentì la sua voce salire di tono. Una mano

gli strinse la spalla. Mimì si alzò, venne verso di lui. Gli occhi blu come zaffiri, così freddi e distanti.Adesso non sei più un bambino. Che scusa hai?Flavio gridò tutta la sua rabbia contro il volto del vecchio. Urlò fino a quando dalla bocca

non uscì il fuoco nero che gli bruciava dentro. Fece un movimento improvviso della spalla, liberandosi dalla presa dell’aguzzino, e scattò in piedi come una molla. Sentì lo schiocco dei denti quando sferrò una testata contro il mento dell’uomo alla sua destra. Udì un grido straziato, vide un pezzo di lingua che penzolava tra le labbra, poi ruotò sui talloni. Afferrò la sedia per le gambe e la spaccò sulla faccia del suo bersaglio, in una pioggia di schegge.«Cazzo! Ammazzalo!» gridò qualcuno, e lui si voltò per affrontare una lama diretta al suo

addome. Era cieco, la vista appannata da qualcosa che gli impediva di distinguere i corpi che lo circondavano. Sentì il fuoco, il morso di un animale a una gamba e vide il sangue che gli scorreva dal taglio. L’uomo con il coltello fece un balzo in avanti, le gambe larghe come se stesse tirando di scherma, e Flavio gli si avventò contro. Sollevò un braccio, lasciò che la lama bucasse la carne e uscisse dall’altra parte. Adesso l’avversario era vicino, una smorfia sulla faccia mentre cercava di liberare l’arma incastrata nel suo corpo. Abbastanza vicino da afferrargli un orecchio con la mano libera e tirare con tutta la forza che aveva in corpo.«La pistola, usa la pistola!»L’uomo si prese la faccia tra le mani, un rivolo di sangue che gli scorreva lungo il collo.

Barcollò sulle gambe molli. Flavio si tolse il pugnale dall’avambraccio e lo vibrò in avanti. La punta scivolò nello spazio lasciato dalle dita. L’avversario cadde a terra senza emettere un suono, e lui fece un passo. Non si fermò a riflettere, non lasciò il tempo ai suoi nemici di

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reagire. Il battito del cuore era un rimbombo nelle orecchie. Avrebbe guadagnato la sua strada fino a quel letto, fino a Roberta. Un metro dopo l’altro, un nemico dopo l’altro.Avrebbe salvato la ragazza, o sarebbe morto provandoci.

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48

OGGI

«Siete sicuri di non aver sbagliato indirizzo? Io qui non vedo nessuna manutenzione straordinaria in programma. Come avete detto che vi chiamate?» Il tizio al cancello sfogliò il suo registro. Aveva un walkie talkie attaccato alla cintura e indossava una polo nera con un simbolo ricamato sul petto. Un albero con i rami che puntavano verso il cielo come le dita di una mano. Stefano guardò la gargolla appollaiata sul muro di cinta, incrociò lo sguardo di pietra e si calcò il berretto sul capo, la visiera che gli sfiorava il naso.«È Villa Gioia questa?» chiese.«Certo!» «Allora mi dispiace per te, ma non abbiamo sbagliato.»Sollevò il revolver Ruger calibro 357 Magnum con la matricola abrasa che aveva comprato

dagli zingari e che teneva nascosto vicino al freno a mano, e sparò un colpo in piena faccia a quell’uomo. Poi guardò Anatoli seduto al suo fianco.«Apriamo questo cazzo di cancello.»* * *Flavio vide con la coda dell’occhio l’albanese che rotolava sul pavimento, i pantaloni

abbassati alle caviglie, poi si voltò ad affrontare il ragazzo con la pistola.«Stai indietro!» gli urlò contro il giovane. I suoi occhi erano sbarrati, il viso puntellato di

lentiggini era ricoperto da una patina di sudore. Poteva avere diciannove anni, al massimo venti.«Sparagli» tuonò una voce alle sue spalle. Flavio abbassò lo sguardo sul suo corpo, nudo e

striato di sangue. In una mano aveva il coltello e nell’altra una scheggia di legno appuntita. Fece un passo in avanti.Lo so che stai pensando. È un ragazzino, ma che vuoi fare mo’? Fermarti?Mimì se ne stava con la schiena poggiata contro il muro, in mezzo ai nugoli di mosche che

ronzavano sui tavoli sporchi di sangue e sui brandelli di carne incollati al legno. Un mattatoio, pensò Flavio. Quel posto era un mattatoio.Guardò il ragazzo con la pistola, il dito che sfiorava il grilletto, e digrignò i denti.«Non mi fermo.»

* * *

De Vivo si calò il passamontagna sulla faccia. «Tu non metti niente?»Damiano allargò le braccia e fece una smorfia. «E a che serve? Mi riconoscerebbero

comunque. Forza, facciamola finita.»

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Il commissario estrasse la pistola e aprì il portellone. Appena colse uno spiraglio di luce Jack saltò fuori dal veicolo, il moncone di coda che falciava l’aria, e iniziò a correre. Lo Sciacallo fece leva sul bastone e si rimise in piedi. Sentì il rumore di uno sparo, poi un

grido.Sto venendo a prenderti, Flavio.«Vado dietro al cane» disse, trascinando la gamba cattiva.De Vivo annuì. «Vengo con te.»

* * *

«Mettetevi faccia a terra. Allargate le braccia e nessuno si farà male.» Stefano attraversò il cortile con il revolver spianato. Le persone sbucarono come zombie da dietro le siepi, scivolarono fuori dalle porte dei capanni. Donne, vecchi e alcuni ragazzini. Le mani sollevate e lo sguardo impaurito. Lo osservavano come se fosse un ladro o un terrorista. Sembravano semplici contadini. Le zappe abbandonate sul selciato e l’odore della campagna. Il popolo di Villa Gioia. Ex tossici recuperati. Era quello che gli aveva detto Damiano. Avevano scelto di ritirarsi dalla società, rinchiudersi dietro mura di granito, come se questo bastasse a tenere il mondo lontano.Stefano lanciò un’occhiata alla casa, alle finestre enormi. Le tende erano chiuse e non

sembrava esserci vita all’interno. Solo ombre. Un cartello appeso a un pilastro del portico recitava le regole etiche della comunità. Agricoltura biologica certificata. Niente additivi chimici.Vide un uomo corpulento, la camicia tesa sull’addome, e fu scosso da un fremito. Gli tremò

la mano: il braccio era indolenzito come se si fosse appena reso conto di quanto pesasse l’arma.«Dove tenete le ragazze?» ringhiò. Il sangue pompava all’impazzata, era così teso che non

si accorse della donna alle sue spalle. Vide il fucile solo quando sentì lo sparo. Il proiettile gli ronzò a un palmo dall’orecchio, come una zanzara molesta, e scheggiò il cartello. Poi Stefano vide il martello e il braccio di Anatoli che calava. Colpi secchi sulla testa della donna e il suono del cranio che si sfondava.

* * *

Un lampo illuminò la stanza. Il bossolo rimbalzò sul pavimento come una moneta d’oro. Flavio sentì lo spostamento d’aria, una spalla strattonata all’indietro, e perse per un istante lo slancio. Il dolore lo rese cieco. La sua testa era fatta di muri, pareti di terracotta che iniziavano a sgretolarsi. Qualcosa stava dilagando nella sua mente, prendendo il controllo e rendendolo cieco. Come se all’improvviso avesse dimenticato chi fosse o perché si trovasse in quella stanza. Era braccato dal tanfo della morte. Un animale in gabbia.Il ragazzo lo fissò con stupore mentre lui gli piantava la scheggia di legno in una guancia.

Flavio lo spinse contro un muro, rovesciando una sedia, e lo colpì all’addome con il coltello. Spinse fino a sentire la punta che scalfiva qualcosa di duro. Provò a ritrarre l’arma ma era

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incastrata, poi l’albanese gli fu addosso. Lo caricò a testa bassa, affondandogli una spalla nel fianco e sollevandolo da terra.Flavio sentì il vuoto, poi il tonfo delle proprie ossa che si spaccavano. Si ritrovò sul

pavimento, il corpo dilaniato dalle fitte e l’albanese che gli montava sul petto. Avvertì una pressione alla gola, una mano che gli schiacciava il Pomo d’Adamo e il tirapugni di suo nonno che baluginava nella penombra. L’avversario gli sferrò un pugno al volto che gli fece sbattere la nuca sul pavimento. Sbatté le palpebre, la saliva che sapeva di sangue e di denti rotti. Aveva una macchia rossa davanti all’occhio sinistro. Vide l’uomo che caricava il braccio e Mimì che provava a trattenerlo. Le dita del vecchio come uncini sul bicipite gonfio dell’albanese.Non posso aiutarti per sempre. Devi farcela da solo.Flavio incassò il colpo, e poi un altro ancora. Non riusciva a respirare, sbatteva i talloni sul

pavimento per non lasciarsi andare. Poi sentì il gemito. Un suono sottile, la voce di una bambina.«Papà» disse Roberta, agitandosi sul materasso lercio. «Papà, aiutami.» E Flavio esplose. Il suo cuore andò in pezzi, la sua carne andò in pezzi, come se un ordigno

nascosto nelle sue viscere fosse appena esploso. Afferrò il braccio con cui l’albanese lo bloccava, piantò i piedi a terra e spinse. Un movimento improvviso dell’anca.L’uomo perse l’equilibrio, si sbilanciò. Non di molto, ma quanto bastava a Flavio. Le sue

dita sfiorarono il manico del coltello, lo agguantarono. Strinse l’impugnatura e affondò la lama sotto le costole dell’albanese. L’avversario gridò, riuscì a trovare la forza di colpirlo con una gomitata, poi Flavio gli passò le braccia intorno al collo. Lo tirò a sé come un innamorato. I muscoli ricoperti dai tagli. Sentì la guancia dell’albanese contro il suo zigomo. Lottava per liberarsi, piagnucolando disperato.Flavio annusò l’odore della sua pelle. Era lo stesso che aveva Generoso nella cantina del

Bar Sport. Estate del 1985. Un odore forte, la paura di morire.«Ti prego, aspetta… ah, aspetta…»L’uomo con le cicatrici scoprì i denti. Sfiorò il collo dell’albanese con le labbra tumefatte e

morse. I canini che squarciavano la carne.Morse fino a quando il sangue non gli inondò la gola.

* * *

Lo Sciacallo seguì Jack giù per le scale. Avevano fatto il giro intorno alla casa, ritrovandosi davanti alle porte spalancate di una cantina, quando vide l’animale tuffarsi nel buio. Tirò fuori la pistola e fece per muoversi, ma De Vivo gli mise una mano sulla spalla. Si era tolto il passamontagna, i capelli erano spettinati.«Vado avanti io» disse, e lui lo lasciò fare. Per quanto volesse ritrovare Flavio, infilarsi in

quel buco lo riportava indietro al giorno in cui era entrato nella caverna e aveva affrontato Giulio.Lui vede.

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Le pareti erano grezze, non c’erano graffiti o parole incise nella pietra. Solo spesso cemento, illuminato da led bianchi. Aveva la sensazione di trovarsi dentro un bunker. Continuarono ad avanzare per un tempo che parve lunghissimo, guidati dall’eco delle zampe che grattavano sul pavimento. Raggiunsero Jack alla fine del corridoio. Il cane stava cercando di aprire una porta di ferro, chiusa dall’interno.De Vivo studiò la serratura per qualche istante, poi fece un passo indietro e puntò la

pistola.«Tappati le orecchie» disse, ma era troppo tardi.Il boato risuonò amplificato, come quando da ragazzini lanciavano petardi nei tombini.

Damiano si infilò un dito nell’orecchio, come se potesse bastare quel gesto a zittire il fischio che gli trapassava il cranio. Jack balzò indietro, incassò la testa tra le scapole, il collo muscoloso. Non abbaiò, non scappò. Il commissario spinse il battente con la punta della scarpa e il cane si lanciò nel varco.«Ma dove corre?»«Andiamo a vedere.»Lo Sciacallo non avrebbe mai pensato che una vecchia porta arrugginita potesse bastare a

tenere l’orrore lontano dal mondo degli uomini. Le bambole galleggiavano sopra la sua testa. Damiano sfiorò una gamba di plastica e impallidì. De Vivo aveva rallentato il passo e si guardava intorno con occhi sbarrati. Dietro una porta se ne nascondevano altre, decine di porte corrose dal tempo e sigillate da

lucchetti. De Vivo si avvicinò alla prima, vi poggiò l’orecchio e fece un passo indietro. Questa volta Damiano non si fece trovare impreparato. Si tappò le orecchie e un lampo squarciò le ombre di quel corridoio. La stanza era angusta, mura decrepite a delimitare un nido. La ragazza era legata al letto. Era così magra che la pancia sembrava un pallone in procinto di esplodere.«Tranquilla.» Il commissario allargò le braccia, si avvicinò piano alla brandina. «È tutto

finito, te lo prometto… è tutto finito.»«È viva?» Lo Sciacallo era diventato una statua di cera. De Vivo sfiorò il polso della ragazza e fece un cenno d’assenso.«Devo chiamare qualcuno… Cristo santo, hai visto quante porte ci sono?»Damiano sbatté le palpebre, cercando di contenere il panico che lo stava assalendo.«Vado avanti» disse, indicando il corridoio con la pistola, ma il commissario non gli

rispose. Era come paralizzato, il capo chino e la mano stretta a quella della ragazza.

* * *

Flavio boccheggiò alla ricerca d’aria. Voleva togliersi di dosso l’albanese ma era esausto. Aveva perso la sensibilità al braccio, riusciva a vedere solo da un occhio. Grugnì, spingendo con le ginocchia per scivolare da sotto il cadavere. Il pavimento era ricoperto di chiazze rosse. Strusciò sui gomiti, provò a rialzarsi ma cadde. La coltellata alla gamba faceva male. Premette una mano sul taglio, provando a fermare l’emorragia, mentre arrancava fino al letto.

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«Papà» ripeté Roberta, gli occhi chiusi e il corpo abbandonato in una posa contorta. Una bambola rotta.Flavio provò ad aprire la bocca, ma le sue parole risuonarono come un sibilo asfittico.«Hai i suoi stessi occhi» disse una voce in fondo alla stanza. «Il ghiaccio nelle pupille.»Lui girò piano la testa e vide il vecchio in piedi sulla soglia. I capelli bianchi pettinati

all’indietro, il corpo stretto in un completo scuro. C’era qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di disturbante. L’uomo sembrava camminare in punta di piedi. Scavalcò un cadavere e si fermò a guardare l’albanese. Il sangue che colava dalla gola lacerata. Sorrise.«All’inizio era diverso» continuò l’uomo. «Eravamo solo io e il mio padre adottivo.

Sognavamo di cambiare il mondo, di modellarlo a nostro piacimento. Tu credi in Dio?»Flavio non rispose. Sentiva le forze che gli scivolavano via dalla punta delle dita. Chiuse

l’occhio sperando di ritrovarsi altrove, fuori da quella stanza, magari in clinica, mentre leggeva Anna Karenina a Roberta, ma quando lo riaprì non vide altro che le pareti decrepite, i cadaveri sul pavimento e il vecchio. Si era avvicinato, le mani dietro la schiena e il volto inespressivo.«Ho allevato i figli della terra perché camminassero sulle mie orme» continuò. «Il tempo

passa anche per me, e loro erano diventati forti. Ho dovuto assecondarli, non potevo affrontarli da solo. I miei amici si stavano allontanando. Le persone sono capricciose, cambiano idea in continuazione. Ieri erano buddisti, oggi sono questo e domani… domani chissà.«Questi giovani non hanno compreso il senso. Loro non hanno sentito la voce. Volevano

che li portassi alla montagna, che gli mostrassi la verità, ma io non l’ho fatto. Non erano pronti. Tu ci sei stato, lo so. Hai guardato dentro il buio.»Flavio cercò di pensare a un modo per uscire da quella situazione, ma era stanco. Troppo

stanco per combattere ancora.«Quando ho saputo che lavoravi alla clinica mi si è sciolto il cuore. Tu, il nipote di Mimì. Il

nipote di Teresa, mia sorella. Tu che avevi fermato l’Uomo del salice. Avevi le mani sporche del mio sangue, lo sai? Ma non te ne faccio una colpa. Non tutti riescono a comprendere il dono che la terra gli ha dato. Lui non era come me. Lui non era come te.»Che vuol dire? Flavio non capiva. Provò a sollevarsi su un ginocchio ma ricadde all’indietro.«Non devi sforzarti, tra poco sarà tutto finito.» Il vecchio venne ancora più vicino. Il suo passo era così leggero che sembrava sospeso a

due dita dal pavimento. Spostò lo sguardo su Roberta e abbozzò un sorriso.«Lo sapevo che l’avresti aiutata: in questo sei proprio come lui. Aiutando lei, hai aiutato

anche me. Si stavano prendendo tutto, hai capito? Non potevo lasciarglielo fare» sorrise. «Adesso posso ricominciare da dove ero rimasto.»Mostrò il coltello che teneva nascosto dietro la schiena. La lama scintillò nella penombra,

così sottile da sembrare un ago.«Se tuo nonno avesse saputo quello che ero realmente, mi avrebbe ucciso» disse, puntando

l’arma contro Flavio. «Sei conciato male, lascia che ti aiuti. Quella ferita alla gamba non ha un bell’aspetto, e nemmeno la tua spalla. Ti è andata bene che quell’incapace avesse una

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mira così scarsa. Un paio di centimetri più sotto e avresti una voragine al posto del cuore. Soffriresti inutilmente, e io non posso accettarlo. Non posso fare questo al nipote di mia sorella. Lo capisci? Adesso chiudi gli occhi e non preoccuparti. Penserò anche alla ragazza, te lo prometto.»Flavio strinse le dita di Roberta nella sua mano. Avrebbe voluto fare di più ma Mimì aveva

ragione. La stava perdendo, proprio come aveva perso sua mamma.Poi vide l’ombra staccarsi dal buio. Le zanne snudate e gli occhi come pozzi di oro liquido.

Jack si avventò sul vecchio senza emettere un suono. Denti affilati come coltelli che dilaniavano la carne. Uno strattone. L’uomo crollò sul pavimento, venne trascinato sulle mattonelle sporche di sangue. Mulinò il pugnale, sventrando il nulla e gridando tutto il suo dolore. Lo schiocco delle fauci e il ringhio gutturale di Jack, mentre scuoteva il collo muscoloso. Sembrava volesse strappare la gamba alla sua preda.Flavio sentì il ticchettio di un orologio, un suono ritmico, un martello battuto su un chiodo.

Riconobbe la figura contorta sotto l’impermeabile. Gli occhi febbrili che lo fissavano. Una cicatrice che si dilatava in un sorriso gelido come un pugnale piantato nella schiena dei nemici. Vide la sua pistola, stretta nel pugno di Damiano. Il braccio teso, la canna rivolta verso il basso che sembrava sfiorare la testa del vecchio. Poi un bagliore. Le grida soffocate dal boato.

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LA FINE

1967

Tommaso guardò l’orologio e riprese a camminare. Avanti e indietro: le suole delle scarpe avevano consumato il pavimento dell’ospedale. La pioggia graffiava i vetri come artigli di avvoltoi in un cielo di ferro.«Dovreste entrare» disse l’uomo seduto vicino alla porta. Tommaso gli lanciò un’occhiata

stupita, come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza. Indossava un abito grigio, uno di quei tagli a buon mercato che gli davano l’aria di un ragioniere o un impiegato di banca.«Fabiani, ti sto affidando la cosa più importante della mia vita» disse Tommaso. «L’unica

che conta davvero, per me.»L’uomo torturò la tesa di un cappello infeltrito tra le mani, e chinò il capo in avanti. «Non la deluderò, lo prometto.»Tommaso non rispose. Guardò la maniglia, cercò il coraggio per sfiorarla. Attese che il

silenzio gli desse la forza, poi allungò una mano e aprì la porta.Elvira era seduta a letto, la schiena contro il cuscino e lo sguardo verso le tende scosse dal

vento. Lui chiuse il battente alle sue spalle, girò intorno al letto e andò a chiudere la finestra.«Il freddo non va bene, nelle tue condizioni» disse, ma lei non si voltò a guardarlo. La donna si accarezzò il pancione che gonfiava le coperte e una lacrima le scivolò lungo la

guancia, una colata di diamante liquido. Tommaso avrebbe voluto bloccarla, fermarne la corsa con un dito. Cancellare ogni sofferenza. Avrebbe voluto dirle che sarebbe andato tutto bene, ma non ci riusciva. Gli tremavano le mani. Il cuore era come incatenato: più si avvicinava a lei, più la morsa diventava intensa, togliendogli il respiro. Erano stati uniti dalla morte e adesso la vita li allontanava.Elvira girò il capo, gli occhi iniettati di sangue. «Lui è fuori?»Tommaso deglutì. «Si prenderà cura di te» disse, poi indicò il ventre. «Di voi, e io non vi farò mancare nulla.

Mai. Lui potrà studiare, diventare qualcuno migliore di me, ne sono convinto.»Infilò una mano sotto il cappotto, sentì la copertina di pelle imbottita contro i polpastrelli e

poi una voce nella testa che gli diceva di non farlo, di non privarsene. Una voce gentile che lo guidava a ogni passo. Odiava contraddirla, ma stavolta doveva farlo. Tommaso posò il libro sul comodino.«Lo odio questo libro.» Elvira fece una smorfia. «Odio tutto quello che rappresenta, le cose

che ti ha fatto fare. Le cose che ha fatto fare a me.»«Un tempo volevi sfogliarlo, ma lui te lo impedì.»

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«Vorrei non averti mai convinto ad andare a casa sua. Se non ti avessi spinto a farlo forse le cose sarebbero state diverse… Tu… Noi…»Tommaso fece un debole sorriso, allargò le braccia. «Guardami.»Elvira fece quanto le aveva chiesto e lui disse: «Credi che sarei diventato quello che sono

senza il suo aiuto?»«E cosa saresti diventato? Pensi forse che i soldi e gli abiti firmati ti rendano migliore? Tu

sei un mostro, Tommaso. Un mostro mascherato da persona perbene, proprio come lui. Mi pento di essermi innamorata di te… mi pento di portare tuo figlio dentro di me. E tu cosa fai? Mi procuri un marito pensando che questo possa salvare il mio onore, e mi dai quel libro maledetto? Cosa credi che possa farmene? Sei pazzo.»Elvira scoppiò a piangere, le mani sul volto e le spalle scosse dai singhiozzi. Tommaso

allungò una mano per confortarla, ma si bloccò.«Hai ragione» disse. «Sono un mostro e non posso fermarmi. Io ti amo, ti amerò per

sempre, ma devo proteggerti. Devo proteggere nostro figlio da me e dalla mia gente. Credono che io sia un dio, ti rendi conto?»«Vi siete spinti troppo avanti, tu e il Barone. La sua follia ti ha contagiato… Ho saputo che è

malato, è vero? Che non esce dalla sua stanza da settimane. Mi auguro che muoia lentamente, spero che il cancro lo distrugga un pezzo alla volta. Deve soffrire… lui deve soffrire…»«Non dire così. Lui è mio padre.»«No, non lo è.» Elvira tirò su con il naso, si asciugò la faccia con una mano. «Hai ucciso il

tuo vero padre, o te ne sei dimenticato? Io ero lì con te, ti ho aiutato a bruciare la casa dei tuoi nonni. Adesso vattene. Va’ via… Non voglio più vederti, non voglio più sentirti. Vorrei non averti mai incontrato ma non posso riportare indietro le lancette dell’orologio.»Tommaso annuì. La guancia gli bruciava come se una mano invisibile gli avesse sferzato il

volto con uno schiaffo. Cercò lo sguardo di Elvira, un’ultima volta, ma lei era scivolata sotto le coperte, coprendosi il capo. Lui rimase ad ascoltare il suono del suo pianto attutito dalle lenzuola, poi guardò verso la tenda e si avvicinò alla finestra. Aveva smesso di piovere, e le nuvole si stavano sfilacciando come carne strappata da un morso. Tommaso strinse le palpebre. Il cielo aveva il colore del sangue marcio.

1984

Il sole faceva capolino dietro i vetri di Porta Nuova. Si infilava tra i rami dei giardini di Piazza Carlo Felice, colorando Torino di rosso e arancione. Flavio strinse la mano della madre e saltò a piedi uniti da una mattonella all’altra, come le bambine che giocavano alla campana nel cortile della scuola. Andavano a prendere il treno che li avrebbe riportati a casa. Un viaggio lungo, gli aveva detto lei. Il più lungo di sempre. Flavio sorrise. Non gli importava, era la prima volta che saliva su un vagone e non stava più nella pelle.

Chissà se fischiava come quello di cioccolato nel suo libro dei colori. Se aveva occhi e bocca, e sorrideva alle persone che lo salutavano con la mano.

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Castellaccio.Aveva riempito pagine di quaderni disegnando le vecchie case aggrappate alla montagna, il

mare, i templi dei greci. Aveva osservato quel mondo attraverso una cartolina ingiallita che la mamma nascondeva nel cassetto dei calzini. Flavio non sapeva leggere la scrittura degli adulti, ma quella sotto il francobollo era semplice. Le lettere grandi e storte, proprio come quelle che faceva lui.Torna da noi, figlia mia. Ti vogliamo bene. La tua mamma, Teresa.A Castellaccio vivevano i suoi nonni. Non sapeva che faccia avessero ma aveva pensato a

loro, tutti i giorni. Piccoli e vecchi, i capelli bianchi e un bel sorriso. Aveva sognato che venivano a prenderlo a scuola, come quelli dei suoi compagni di classe. Non capiva perché dovessero vivere separati, troppo lontani per mangiare biscotti e passeggiare nei parchi. Flavio non chiedeva molto, solo questo. E un padre. Non voleva sentirsi in imbarazzo quando gli domandavano che lavoro facesse suo padre. I bambini possono essere cattivi se vogliono. Lo prendevano in giro, dicevano che era figlio di ignoti ma non era vero. Flavio aveva una mamma e dei nonni, e avrebbe trascorso l’estate con loro.«Quanto dura l’estate?» chiese alla mamma, e lei gli parlò con una voce sottile, lontana. La

voce di una bambina in mezzo a un tunnel. Un corridoio di luce bianca, accecante. Flavio ne ascoltò l’eco e strinse la mano di sua madre, più forte. Osservò il mondo che gli scivolava davanti agli occhi, fuori dal finestrino. Palazzi, strade, alberi. Tutto confuso in una luce abbagliante.

OGGI

Sbatté le palpebre e vide un muro. Bianco, come le lenzuola del letto in cui era disteso. Bianco, come il volto della ragazza seduta al suo capezzale. Una cascata di capelli neri sulle spalle e dita sottili intrecciate alle sue. Flavio le strinse e lei tacque, allontanando da sé il libro con la copertina consumata e le pagine che puzzavano di muffa.«Anna Karenina» sussurrò lui con un filo di voce, e Roberta annuì. Gli occhi incastonati in

fossi neri.Seduto in un angolo della stanza, l’uomo con il bastone e la gamba cattiva si asciugò una

lacrima sulla guancia.«Buongiorno» disse, poi abbassò lo sguardo sul pavimento e fece un fischio. Qualcosa si

mosse sotto il materasso. Un corpo enorme, nero. Odore di pelo bagnato. Flavio sentì la lingua ruvida di Jack sulla faccia, il fiato caldo, poi vide due mani schizzate di pittura che afferravano il collare.«Questo cazzo di cane! Scendi!» Stefano tirò l’animale giù dal letto, e lo trascinò fuori dalla

stanza.Damiano avanzò zoppicando verso di lui, un sorriso storto sul volto.«Te la sei presa comoda» disse, e Flavio non rispose. Non sapeva cosa dire. Damiano

guardò per un istante la ragazza e le fece un cenno con il capo. Lei chiuse il libro e lo poggiò sulle ginocchia. Si prese un attimo prima di liberare la mano di Flavio e spingere la carrozzina fuori dalla stanza, in un cigolio di ruote.

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«Hai continuato a ripetere una cosa.» La voce dell’amico era roca. «C’è ancora posto per una. Io non capivo. Nessuno capiva. Poi mi sono ricordato di quei segni che hai addosso. Credevi che non li avessi notati quella mattina a casa mia? Sono venuto qui ogni giorno e ho guardato. Le tue braccia, le tue gambe. Ho studiato il tuo corpo come se tu fossi un cazzo di fossile.»Flavio abbozzò un sorriso, la mascella contratta dal dolore.«C’è voluto un po’ di tempo, per comprendere» Damiano prese il dorso della sua mano e gli

aprì le dita. Una per una. Lasciò cadere un oggetto nel palmo. Metallo freddo e leggero. «Poi ho trovato questo sotto la mattonella.»L’uomo con le cicatrici chinò il capo di lato, strinse il pugno sentendo il vecchio coltellino

svizzero aderire contro le pieghe delle dita. Chiuse gli occhi.«C’è ancora posto per una.»

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RINGRazIAMENTI

Scrivere è un processo intimo e di profonda solitudine, eppure durante la stesura di questo romanzo non mi sono mai sentito solo. Ho avuto la fortuna di avere dalla mia parte le persone migliori che la vita potesse mai donarmi.A mia moglie, Rosaria, per essere la mia prima sostenitrice e il baluardo dietro cui posso

ripararmi quando mi sento smarrito. A Luigi, mio padre, che mentre scrivevo questo romanzo era in ospedale a combattere e vincere la sua battaglia personale più grande. A Giovanna e Luca, mia madre e mio fratello, per il loro sostegno.Ai Moschettieri, Luca Romanello, Maico Morellini e Carlo Vicenzi, per le nostre

chiacchierate folli. A Pia Barletta, maga di Word e gattara, per avermi aiutato a comprendere i misteri della modalità revisione e non avermi denunciato per stalking. Ai miei lettori più affezionati, a Maurizio Vicedomini, Diego Di Dio, Paolo Spinosa, Vincenzo

Urti, Francesca Neri, Giuseppe Gamberini, Michelle Grillo, Francesco D’Antonio e Valerio Tiano alla Feltrinelli Village di Salerno, Leonardo Di Lascia, i ragazzi di Thriller Nord, Carmen ed Elsa di Alcolibri Anonimi, e a tutti quelli che mi sostengono con affetto.A Sara Bilotti, la migliore amica che uno scrittore possa avere.A Luca Briasco, per avermi insegnato a tirare fuori la voce nascosta tra le pagine di questo

romanzo e avermi accolto, insieme a Colomba Rossi e Francesca De Lena, in quella grande casa per autori che è la United Stories Literary Agency.Alla professoressa Linda Barone dell’Università di Salerno per aver accettato di essere un

personaggio in questa storia.Alle mie amiche francesi, Lilas Seewald, Yolande Rochat e Audray Sorio per i loro preziosi

consigli e al mio editore, Gianni La Corte, per aver avuto il coraggio di credere in me e nelle mie storie.A tutti i romanzi che ho letto e a quelli che spero di leggere. Franz Kafka sosteneva di non

voler essere altro che letteratura, e forse aveva ragione.

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ANTONIO LANZETTA

è uno scrittore salernitano che, dopo aver iniziato la sua carriera come autore di romanzi fantasy (sempre per La Corte Editore ha pubblicato Warrior e Revolution), vira verso il thriller prima con il racconto breve Nella Pioggia, finalista al premio Gran Giallo Cattolica e poi con Il buio dentro, romanzo che gli permette di valicare i confini nazionali venendo tradotto da Bragelonne, una delle più prestigiose case editrici d’oltralpe, in Francia, Canada e Belgio.Il buio dentro viene anche citato dal Sunday Times come uno dei cinque thriller non inglesi

migliori del 2017.Da quest’autunno, Lanzetta è anche opinionista di cronaca nera per La vita in diretta su Rai

Uno.

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“LO STEPHEN KING ITALIANO”Sunday Times

“THRILLER AL TOP”L’Espresso

Il Buio Dentro,

il primo thriller di Antonio Lanzetta,ora in edizione Top Ten.

Il corpo di una ragazza viene ritrovato appeso ai rami di un albero. Le hanno tagliato la testa e l’hanno lasciata sul

terreno solcato dalle radici, gli occhi vuoti ora fissano quelli di Damiano Valente. Lui è lo Sciacallo, un famoso scrittore

specializzato nel ricostruire i casi di cronaca nera nelle pagine dei suoi libri. Un cacciatore che insegue nella morte le

tracce lasciate dall’assassino della sua amica Claudia. Un omicidio avvenuto nell’estate del 1985, quando lui era solo un

ragaz- zino con la passione per la corsa e amici in cui credere. Un omicidio che gli ha cambiato la vita.

Trentuno anni dopo, Damiano ritorna ai piedi di quel maledetto salice bianco, per dare una risposta a quella sua

ossessione che come una ferita pulsante gli impedisce di andare avanti. Con lui ci sono gli amici di un tempo, le cui

esistenze si intrecciano inesorabilmente nella dura e cruda scoperta della verità, portandoli a rivivere le emozioni di una

folle estate che ha segnato le loro vite per sempre.