LIBERA UNIVERSITÀ MARIA SS. ASSUNTA
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA
CLASSE LMG/01
CATTEDRA DI
FILOSOFIA DEL DIRITTO
Neuroscienze e libero arbitrio: riflessioni filosofico-giuridiche.
Neuroscience and free will: philosophical and legal considerations.
RELATOREProf.ssa Laura Palazzani
CORRELATORE Prof. Roberto Zannotti
CANDIDATOMelissa Palumbo
Matricola 05788/400
ANNO ACCADEMICO 2011-2012
1
NEUROSCIENZE E LIBERO ARBITRIO:
RIFLESSIONI FILOSOFICO-GIURIDICHE
INTRODUZIONE
LIBERO ARBITRIO: CONTESTO FILOSOFICO
- I nemici della libertà e della mente: determinismo e riduzionismo
- Dal dualismo cartesiano al materialismo neuroscientifico
ETICA E NEUROSCIENZE
- La nascita della neuroetica e del neurodiritto
- L’identità dell’Io e il concetto di “persona”
- Autonomia, autocontrollo e autodeterminazione: le decisioni tra emozioni
e razionalità
NEUROSCIENZE E DIRITTO
- Una relazione complessa
LE NEUROSCIENZE IN AMBITO CIVILISTICO
- L’individuo come “soggetto di diritto”: capacità giuridica e capacità
d’agire
- Paternalismo giuridico e diritto all’autodeterminazione
- Gli istituti di tutela dei soggetti non autonomi
- Il modello neuroscientifico della capacità di agire e la sua valutazione
neuropsicologica
- Rilievi critici
LE NEUROSCIENZE IN AMBITO PENALISTICO
- Il diritto penale italiano tra categorie consolidate e nuove sfide
- Il sistema penale: caratteristiche generali e ispirazioni di fondo
- L’azione umana dal punto di vista giuridico: suitas, responsabilità e
colpevolezza
- L’imputabilità e l’infermità secondo il nuovo modello neuroscientifico
- La prova neuroscientifica: le tecniche di lie e memory detection
- Alcune considerazioni sul paradigma neuroscientifico
LE NEUROSCIENZE IN PRATICA: SENTENZE ITALIANE RECENTI
- La sentenza di Trieste
- La sentenza di Como
- Rilievi critici
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
2
Introduzione
La coscienza regna, ma non governa.
(Paul Valéry)
Per secoli il tema della libertà è stato un argomento di elezione di filosofia ed
etica; oggigiorno esso viene affrontato anche nell’ambito della ricerca scientifica,
in particolare alla luce degli apporti delle scienze cognitive e delle neuroscienze.
L’umanità da sempre si affanna nel cercare di capire il significato del suo agire,
impegnando filosofi e religiosi. Una parte degli uomini sembra quasi “rifiutare” la
propria libertà, negandone addirittura l’esistenza e la possibilità, forse alla ricerca
di “giustificazioni” del proprio agire o di “ragioni superiori” delle proprie
esistenze. È stata attribuita la responsabilità di azioni ed eventi ad “altro-da-sé”:
divinità, destino, passioni, leggi della Natura, società. Un’altra parte dell’umanità,
invece, ha rivendicato costantemente la propria libertà: di agire, di pensare, di
essere. Il sentimento sotteso alla formula homo faber fortunae suae di
Marc’Aurelio ha resistito al passare dei secoli, non cedendo mai di fronte ad
istanze deterministiche di ogni sorta.
La lotta tra i sostenitori del libero arbitrio e i suoi detrattori, che ne predicano
l’illusorietà, continua ancora oggi, moltiplicando i suoi campi di battaglia, da
quelli storici della filosofia e dell’etica a quello nascente delle neuroscienze.
Le discipline della mente e del cervello portano avanti lo studio di come i processi
cerebrali e quelli cognitivi si integrino e modellino a vicenda. La sfida
neuroscientifica impegna filosofi e scienziati nel gravoso compito di dare risposte
a quesiti millenari. Anzi, oggi vediamo le due figure confondersi: filosofi che si
occupano di discipline scientifiche e scienziati che discutono su questioni etiche.
Soprattutto, ci sfidano a sciogliere un dubbio antico: se siamo liberi; in
particolare, se siamo liberi da noi stessi.
Molti sperano che le indagini neuroscientifiche portino a comprendere chi sia a
prevalere tra cervello e mente, stabilendo in tal modo chi ha ragione tra
deterministi e indeterministi, tra riduzionisti e antiriduzionisti.
3
In realtà, l’errore è proprio nella domanda. Non ci si deve chiedere chi sia a
comandare, se la mente o il cervello, in maniera rigidamente alternativa, come se
l’indipendenza dell’uno provocasse automaticamente la “dipendenza” dell’altra.
Il vero dualismo da superare è questo persistente chiedersi “chi prevale tra mente
e cervello?”.
La risposta che sta emergendo dalle neuroscienze vanifica la domanda stessa:
mente e cervello sono un tutt’uno. La mente è complementare al cervello e
viceversa, in un’interazione fondamentale e imprescindibile. Entrambi si
modellano a vicenda e condividono la guida dell’uomo.
Ancora di più: dal combinarsi di mente e cervello emerge l’individuo, la persona
nella sua interezza, in identità con essi. Individuo, mente e cervello sono un
unicum inestricabile.
Possiamo evocare una suggestiva immagine per rendere l’idea: la carta dei
tarocchi del Carro, in cui l’uomo allo stesso tempo guida e viene condotto da due
creature, due sfingi, che possiamo paragonare l’una alla sua mente e l’altra al suo
cervello.
Ma mentre queste domande vengono poste, il diritto non può stare fermo a
guardare. Anch’esso deve inserirsi nella discussione neuroscientifica e rivolgersi i
medesimi dubbi.
E i giuristi si sono mossi: assistiamo ad una ricca e fertile profusione di articoli,
libri, conferenze, incontri tra esperti. Una disciplina nuova è nata, il
“neurodiritto”, appositamente per affrontare i temi etici relativi alla mente e al
cervello.
Sono sorti nuovi dubbi e, in certi casi, si sono incrinate antiche certezze: si può
punire un uomo che non è libero? Se in molte azioni e decisioni interviene la parte
inconscia del cervello, si può parlare di “piena” responsabilità? O è il concetto
stesso di responsabilità a dover essere abbandonato? Come stabilire quando un
uomo è capace di agire? Se interviene una lesione o una patologia a livello
cerebrale, quanto di quell’individuo rimane? Se l’uomo nella sua interezza (come
fisicità, ma anche come mente e comportamento) è il risultato di processi
evolutivi, cosa fare con quei soggetti che pongono in essere condotte anti-sociali,
e quindi in un certo senso anti-evolutive? Il criminale è un reo da punire e
4
reintegrare oppure un malato da curare o, nell’ipotesi più estrema, da
neutralizzare? Possiamo ancora sperare di possedere il libero arbitrio? O
dobbiamo rassegnarci ad essere le marionette del più subdolo dei tiranni, il nostro
cervello?
Nella trattazione che segue, il mio scopo è di presentare l’attuale stato di
conoscenze a cui è giunta la ricerca neuroscientifica e le conseguenze che
potrebbero riflettersi sul diritto.
Nel primo capitolo, “Libero arbitrio: contesto filosofico”, ripercorro quella che si
può definire la “storia” del concetto di “libero arbitrio”, nonché l’evoluzione sul
piano filosofico della nozione di “mente”, a partire dalla filosofia antica fino ai
pensatori contemporanei.
Nel secondo capitolo, “Etica e neuroscienze”, espongo alcuni dei temi che
rappresentano gli ambiti di ricerca più ardui delle scienze cognitive, con in
particolare i rilievi emersi dalla cosiddetta disciplina “neuroetica”.
Nel terzo capitolo, “Neuroscienze e diritto”, delineo come si sta attuando il
confronto tra neuroscienze e diritto, due discipline che ancora faticano a
comprendersi e ad integrarsi, in ragione della diversità a livello stesso di
linguaggio e categorie.
Nel quarto capitolo, “Le neuroscienze in ambito civilistico”, riporto quelli che
sono i risultati raggiunti dall’interazione tra la branca neuroscientifica della
“neuropsicologia forense” e il diritto civile, esaminando soprattutto come possono
essere arricchite alcune categorie giuridiche fondamentali, quali la capacità
giuridica e la capacità d’agire.
Nel quinto capitolo, “Le neuroscienze in ambito penalistico”, esamino come
vengano messi alla prova gli istituti fondativi del diritto penale alla luce delle
recenti scoperte sul sistema nervoso, ossia la colpevolezza, la responsabilità e
l’imputabilità.
Nel sesto capitolo, “Le neuroscienze in pratica: due sentenze italiane”, riporto
come la nostra giurisprudenza si è avvalsa, per prima in Europa, della perizia di
tipo neuroscientifico e genetico.
5
Libero arbitrio: contesto filosofico
I nemici della libertà e della mente: determinismo e riduzionismo
La questione della libertà dell’uomo è uno dei temi principali del dibattito
filosofico, di ogni tempo e luogo. Iniziamo da una definizione (o meglio ancora
una delimitazione) del concetto di libertà. Secondo il senso comune, un individuo
è libero quando si trova nella condizione di poter scegliere quale azione compiere
tra tante. Dunque, un’azione per essere libera deve essere nella piena disponibilità
di scelta di un individuo. Questi si pone, perciò, come “causa” di tale azione. A
questo punto, però, ci troviamo di fronte a due diverse accezioni di libertà, ossia
libertà di agire e libertà di volere. La prima si qualifica come la possibilità di agire
senza l’influenza di vincoli fisici o la coercizione di altri individui; la seconda,
invece, è una condizione “interiore”, che consiste nella libertà di scegliere tra
diverse opzioni secondo, appunto, la nostra volontà. Questa seconda accezione
corrisponde al concetto di “libero arbitrio”, che si può riassumere con la formula
della “capacità di autodeterminarsi”.1
Si pone un problema, però. Queste infatti sono le condizioni del singolo uomo, ma
un individuo vive e agisce in un contesto indipendente da lui, ossia il mondo. Ed è
qui che affiora la vera e propria diatriba filosofica: quali sono le regole che
governano il mondo? E come dovrebbe essere il mondo affinché l’uomo possa
essere definito “libero”?
Sono due le posizioni principali che si contrappongono, da un lato il determinismo
e dall’altro l’indeterminismo. Entrambe tentano di rispondere alla domanda
“l’uomo è libero?”.
I sostenitori del primo postulano che ogni evento ed ogni azione siano il risultato
di una serie di antecedenti, una sequenza inevitabile e immodificabile nel suo
1 M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori, Introduzione. La frontiera mobile della libertà, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice edizioni, Torino, 2010, p. IX-XI.
6
corso, che segue rigidamente le leggi naturali. Il libero arbitrio sarebbe perciò
un’illusione.
Gli indeterministi, invece, semplicemente si oppongono a tale visione,
concependo l’esistenza di un fattore “indeterminabile” e, per molti autori, casuale,
che può mutare il corso degli eventi.2
All’interno di queste due “fazioni” filosofiche, si articolano poi diverse correnti,
qualificabili come declinazioni delle due linee di pensiero, alcune più morbide,
altre più drastiche.3
Ad un estremo, abbiamo il determinismo radicale, che nega in maniera assoluta il
libero arbitrio, mentre all’altro estremo si situa il libertarismo, anche detto
indeterminismo radicale, che non solo afferma l’esistenza della libertà
esclusivamente in un contesto indeterministico, ma anche che non è possibile
ricondurre ogni evento ad una causa.
Alcuni libertari, invece, pur negando la causalità rigida di ogni evento, ritengono
che le azioni umane si distinguano non essendo eventi, bensì scelte, causate
dall’agente.
Una corrente recente, influenzata dai principi della meccanica quantistica,
suppone che esista una “causalità indeterministica”, secondo cui vi sono degli
antecedenti che non determinano in modo rigido gli eventi, ma che si limitano ad
aumentarne le probabilità di verificazione.
Tra i deterministi, inoltre, si trovano i sostenitori del compatibilismo, secondo cui
l’uomo può essere libero anche in un mondo determinato, poiché la “causalità”
degli eventi non si configura come “inevitabile”.
Interessante, sempre tra le correnti deterministiche, è la concezione del
consequenzialismo, che, riferendosi all’ambito giuridico, ritiene l’attribuzione di
biasimo e merito una forma di regolazione sociale: il diritto non dovrebbe
preoccuparsi dell’esistenza o meno di libertà di scelta, ma solo fornire norme e
sanzioni che corrispondano ai valori dei consociati. In tal senso, si contrappone
alla visione retribuzionistica della pena, per la quale invece il colpevole merita di
essere punito proprio perché ha scelto liberamente di commettere una violazione.
2 G. Corbellini, Quale neurofilosofia per la neuroetica?, in A. Santosuosso (a cura di), Le neuroscienze e il diritto, Ibis, Como-Pavia, 2009, p.74-75.3 I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina editore, Milano, 2012, p. 932.
7
Vi sono poi diverse posizioni, in particolare la corrente neo-positivista (che trova
come precursore John Stuart Mill e tra i suoi esponenti Carl Gustav Hempel), che
propongono una soluzione “mediata” al problema della causalità di eventi e
azioni: il mondo naturale è governato da cause, mentre il mondo delle azioni
umane non è legato a cause, bensì a motivazioni e ragioni.4 Perciò, l’uomo si
distingue dagli altri esseri viventi per la sua capacità di scegliere i propri obiettivi
e finalizzare ad essi le proprie azioni.
In un quadro simile, si pone la teoria della causalità creativa o immanente: il
passato, le circostanze e i condizionamenti ambientali influenzano l’uomo, in
modo tale da inclinarlo (ma non obbligarlo) verso certe azioni, lasciando così
impregiudicata una complessiva capacità di autodeterminarsi.5
Forse la cosa più interessante che risulta da questa disamina di correnti è che in
realtà l’uomo non sarebbe libero né in un mondo deterministico, né in un mondo
indeterministico. Lungi dall’essere dimostrata l’una o l’altra concezione,
possiamo però immaginare le condizioni cui sarebbe sottoposto l’individuo in
mondi simili. Se infatti vivessimo in un universo determinato, la libertà (o meglio
la capacità di scegliere il corso delle nostre vite) esulerebbe dal nostro potere
d’azione, dato che subiremmo gli esiti di cause remote. Il passato determinerebbe
il presente, che a sua volta determinerebbe il futuro: noi saremmo meri spettatori
del flusso degli eventi. Potremmo prevederli, ma non saremmo in grado di
modificarli.
Ma anche in un mondo indeterministico saremmo ridotti a semplici spettatori. Se
infatti intervenisse un fattore del tutto casuale in ogni evento, rendendolo perciò
imprevedibile sia nel suo originarsi sia nel suo evolversi, qualunque nostra azione
avrebbe un influsso minimale, se non addirittura superfluo. Anche qui saremmo
vittime di cause al di là del nostro controllo. L’unica differenza è che in tal caso
non sarebbero nemmeno prevedibili.
Forse è per queste ragioni che alcuni autori hanno preferito “tirarsi fuori” dalla
discussione e aderiscono a quello che è stato definito scetticismo epistemico, che
postula l’impossibilità di dimostrare sia una tesi sia l’altra, cioè non siamo in
4 C. De Rose, Il soggetto situato. La spiegazione delle azioni umane tra liberta individuale e determinismi sociali, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001, p. 84-90.5 M. De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, Laterza, Roma-Bari, 2004.
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grado di stabilire se siamo liberi o no.6 Più di recente, vi è anche chi ha preso atto,
come Noam Chomsky, che il libero arbitrio è un concetto per noi irrinunciabile,
ma allo stesso tempo inconciliabile con ciò che la scienza ci dice sul mondo e
sugli organismi biologici: parliamo della concezione del misterianismo, perché la
libertà umana è e sarà sempre un mistero insolubile.7
Il quadro appena descritto è piuttosto drammatico. E forse per la gente comune
anche poco credibile. Chiunque percepisce di avere il controllo delle proprie
scelte, decisioni e azioni. Ma se la discussione tra deterministi e indeterministi
può apparire astratta e slegata dalla realtà quotidiana, di tutt’altro spessore è
un’ulteriore questione filosofica di cui ci occupiamo ora.
Il libero arbitrio, infatti, viene messo a dura prova anche dalla posizione del
riduzionismo. Con quest’ultimo ci si riferisce alle correnti di pensiero che
sanciscono la “riduzione” della mente alla materia del corpo. Troviamo differenti
declinazioni dell’istanza riduzionistica, ma possiamo dire che tutte sono
accomunate dal “dogma” secondo cui non esiste la dimensione mentale come ente
a sé, distinto dal corpo.
Al pari del tema della libertà, le questioni della natura della mente e del suo
rapporto con il corpo hanno occupato un posto di primo piano nella discussione
filosofica e, parallelamente, nella ricerca scientifica.
Un primo approccio alla dimensione mentale può partire anche in questo caso
dalla concezione del senso comune. L’uomo, di norma, percepisce la mente come
distinta dal corpo, dotata di una propria autonomia e dignità ontologica: mentre
l’intelletto è capace delle più mirabili abilità, dall’autocoscienza all’uso della
logica fino alla creatività artistica, il corpo invece è spesso declassato a “macchina
sensoriale”, preposto alla percezione degli stimoli esterni, nonché a mera sede-
contenitore della mente e, nel caso, dell’anima. L’essere umano, infatti, vive
momento per momento su due piani: quello fisico e quello intellettivo. Entrambi i
piani hanno la capacità di assumere nuove informazioni: di tipo sensoriale
attraverso il corpo, di tipo cognitivo attraverso la mente.
6 I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, cit., p. 14.7 M. De Caro, Libero arbitrio e neuroscienze, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, il Mulino, Bologna, 2011.
9
Ciò che distingue la mente dal corpo, però, è la peculiare capacità di elaborare tali
informazioni e modellarle, ma soprattutto la capacità di pensare il corpo (qualità
che evidentemente manca alla materia fisica) e addirittura di concepire se stessa.
Questa semplice intuizione portò, difatti, Cartesio a distinguere la realtà in res
extensa, ossia la materia fisica (dotata esclusivamente di qualità “dimensionali”
che la “estendono”), e in res cogitans, la mente (in grado, per l’appunto, di
“cogitare”, di pensare la realtà).
Più sinteticamente, si può affermare che la mente è dotata di “coscienza”, al
contrario del corpo. Ed è con la coscienza che spesso in filosofia si fa coincidere
sia la nostra identità, sia la mente di per sé. Ma proprio l’intangibilità della
dimensione mentale ha messo a dura prova la discettazione filosofica, in modo
tale che si è spesso preferito analizzare le sue singole funzioni, piuttosto che la sua
natura. La questione “che cos’è la coscienza e di cosa è fatta” rimane tuttora
aperta, nonostante filosofi e scienziati continuino a ricercarne la soluzione.
Quello che noi oggi sappiamo per certo, grazie alle discipline neurologiche e alla
psicologia (nell’ambito di quest’ultima, un immenso contributo è venuto dalla
psicoanalisi), è che la mente si suddivide in parte conscia e parte inconscia. La
prima viene chiamata anche “livello personale”, che corrisponde alla coscienza e
alle facoltà intellettive di cui possiamo disporre secondo la nostra volontà. La
seconda, invece, è detta “livello subpersonale” e corrisponde all’insieme di
meccanismi automatici, la cui attivazione non dipende da noi e, per alcuni di essi,
addirittura non siamo consapevoli della loro esistenza.8 Sull’inconscio non è il
caso di entrare nello specifico, data la presenza di diverse scuole di pensiero,
nonché la mancanza di teorie empiricamente dimostrate. Quello che a noi
interessa è l’assunto secondo il quale, in diverse situazioni, decisioni e
comportamenti dipendono non dalla nostra volontà, bensì da meccanismi
inconsci, attivati in maniera indipendente dal cervello. Sul punto torneremo in
seguito, analizzando ciò che risulta dalle attuali scoperte neuroscientifiche.
Come dicevamo, a proposito della mente, filosofi e scienziati si dividono
generalmente in riduzionisti e antiriduzionisti. In entrambe le posizioni, si sono
distinte diverse correnti.
8 N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, Apogeo editore, Milano, 2009, p. 26-27.
10
La principale contrapposizione vede da una parte i dualisti, dall’altra i monisti.
Il dualismo, la cui paternità va a Cartesio, predica la coesistenza più o meno
autonoma di due “sostanze”, una materiale ed una mentale. Tale concezione, poi,
si distingue in un dualismo epifenomenico (per cui la mente non produce effetti
sugli eventi fisici) e in un dualismo interazionista (che invece sostiene l’influenza
della mente sul mondo materiale).
Il monismo, invece, sancisce l’esistenza di una sola sostanza. Per gli idealisti, tale
sostanza è di natura mentale. Per i materialisti, essa è esclusivamente di natura
materiale, per l’appunto.9
Ed è proprio quest’ultima a rappresentare la posizione riduzionistica per
eccellenza: la mente si identifica con il suo substrato fisico, ossia il cervello.
Ed è qui che viene sfidata di nuovo la libertà umana: le nostre decisioni le
prendiamo a livello interiore (dunque, mentale), ma se la nostra mente coincide
con il cervello, e questo risponde a leggi fisiche naturali, allora la nostra mente è a
sua volta determinata da tali leggi fisiche. Ci ritroviamo di fronte al dilemma
deterministico.
Ed è qui che intervengono le neuroscienze: se la mente è determinata dal cervello,
di conseguenza lo studio del sistema nervoso ci può permettere di stabilire
l’identità di un individuo e di prevederne i comportamenti.
Ma, nonostante l’apparenza, le stesse neuroscienze non si configurano come un
insieme di dottrine esclusivamente riduzionistiche. Al loro interno, vi sono
neuroscienziati che sostengono opinioni alquanto differenti.
È utile fare una piccola digressione: un conto è discutere di riduzionismo
ontologico, affermando l’identità degli stati mentali con gli stati cerebrali, un altro
se si parla di riduzionismo metodologico, che invece consiste nello scomporre un
ente complesso nelle sue parti più piccole. In tal senso, nell’ambito delle ricerche
neuroscientifiche, vengono applicati due approcci metodologici: quello
riduzionista (lo studio del cervello a partire dai suoi componenti elementari) e
quello olistico (la ricerca dei correlati neurali delle funzioni mentali e dei
comportamenti).10
9 I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, cit., p. 25.10E. R. Kandel, Psychiatry, Psychoanalisis and the New Biology of Mind, American Psychiatric Publishing, Washington, DC., 2005.
11
Infatti ad oggi le spiegazioni materialistiche di stampo riduzionistico non hanno
ancora trovato una soluzione a diversi problemi. In particolare, non hanno saputo
dare una risposta scientificamente dimostrabile alla domanda fondamentale: come
sia possibile che da strutture fisiche, quali sono quelle cerebrali, possa emergere la
mente. Parimenti insoluta, l’altra domanda fondamentale di come avviene il
passaggio da uno stato mentale all’altro, da un’esperienza qualitativa all’altra,
cioè la coscienza di emozioni, colori, sapori e via dicendo (ossia i cosiddetti
“qualia”).
Per questa ragione, diversi neuroscienziati e filosofi della mente hanno ripreso un
approccio dualistico. Non un “dualismo delle sostanze”, ormai superato, bensì due
tipologie differenti di dualismo: alcuni adottano una prospettiva dualistica “delle
proprietà”, secondo cui pur esistendo solo enti fisici essi sono dotati sia di
proprietà fisiche sia di proprietà non fisiche; altri ricorrono invece ad un dualismo
epistemologico, ovvero riconoscono l’irriducibilità dei fenomeni mentali a quelli
fisici.11
E partendo da questi approcci, si distinguono altre correnti di pensiero.
L’emergentismo ritiene che la mente emerga quando la materia raggiunge un certo
grado di complessità e che gli stati mentali non siano osservabili da alcun mezzo,
perché accessibili solo dall’individuo che li esperisce.
L’esternismo o esternalismo, pur considerando il cervello il punto di partenza dei
fenomeni mentali, afferma che i contenuti dei pensieri sono determinati
principalmente dal mondo esterno, o meglio dalla conoscenza degli oggetti e delle
loro proprietà su cui i pensieri vertono.
Il funzionalismo, invece, postula che uno stato mentale va definito semplicemente
alla luce della funzione che svolge e soprattutto che la natura dei fenomeni
mentali non corrisponde a quella fisica della loro controparte materiale, facendo
un parallelismo tra il rapporto mente-cervello di un essere umano con il rapporto
software-hardware di un computer. Dunque, pur essendo dotati di una
composizione diversa, mente e cervello mantengono una corrispondenza
funzionale tra gli stati dell’uno e gli stati dell’altro.
11 I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, cit., p. 28.
12
Ma come nella discussione tra deterministi e indeterministi, anche nello scontro
tra riduzionisti e antiriduzionisti vi è il rischio di giungere ad estremizzazioni
concettuali eccessive.
Se alcuni riduzionisti radicali arrivano a sostenere un “determinismo biologico”,
in cui i comportamenti dell’uomo vengono decisi esclusivamente da meccanismi
cerebrali, certi antiriduzionisti finiscono per predicare non solo l’assoluta
soggettività degli stati mentali (per esempio, come percepisco io un colore non lo
potrà percepire nessun altro), data l’impossibilità di osservarli e studiarli
oggettivamente, ma anche addirittura l’incapacità di comunicarli, di condividerne
l’esperienza con altri. E difatti tale posizione antiriduzionistica viene definita
solipsistica.12
Come si è detto per la questione deterministica, così pure per la tesi riduzionistica
nessun esperimento o ricerca scientifici sono riusciti a dimostrarne
l’incontrovertibile fondatezza.
Non riescono a trovare risposta le due domande fondamentali: se siamo liberi o
determinati; e se la mente e il cervello sono un tutt’uno o autonomi.
Possiamo scoprire (e così stiamo facendo), grazie alle neuroscienze e alle scienze
cognitive in generale, come interagiscono stati mentali e stati fisici, come gli uni
influenzano gli altri, cosa succede a livello cerebrale quando prendiamo una
decisione o proviamo un’emozione, ma siamo ancora lontani dallo stabilire una
volta per tutte se noi “siamo” il nostro cervello e chi è a comandare tra noi e lui.
Dal dualismo cartesiano al materialismo neuroscientifico
La storia del libero arbitrio ha origini antiche. Fin dall’età classica ci si poneva il
quesito se è l’uomo ad essere padrone di se stesso o se invece è vittima di altre
forze a lui estranee.
Nel pensiero greco, il tema della libertà intreccia saldamente filosofia, etica e
religione. In epoca arcaica, si riteneva che la condizione fondamentale per essere
liberi fosse l’appartenenza ad un popolo, ad una polis, e vivere seguendone leggi e
12 Ivi, p. 31.
13
costumi.13 Ma l’uomo greco, oltre ad obbedire al nomos umano, doveva seguire e
sottostare al Nomos divino: confrontarsi con le entità sovrannaturali della
Necessità, del Destino e del Fato, il cui volere imperscrutabile si impone persino
agli dei.14 Perciò, il dovere morale dell’uomo greco consiste nell’obbedire in
primis all’Ordine naturale delle cose, in secundis alla legge umana. Il dramma
etico dell’uomo greco si profila quando la seconda è in contrasto con la prima e
per seguire una deve violare l’altra; emblematica su tale contrapposizione è la
tragedia Antigone di Euripide.
Con il V secolo a.C. assistiamo a riflessioni filosofiche sulla libertà più raffinate e
complesse.
Con Socrate, accanto all’obbedienza alla Natura, abbiamo l’introduzione del
concetto di “spontanea inclinazione al bene”, che deve essere guidata dalla
conoscenza. Per evitare il male ed essere “liberi nel bene”, l’uomo deve dominare
con la ragione le passioni e gli impulsi: Socrate sancisce così il primato dell’anima
sul corpo. L’autodominio razionale e la conoscenza del bene superiore
costituiscono la libertà del logos umano.15
E proprio con Socrate abbiamo una dimostrazione dello stretto legame che unisce
diritto e filosofia: egli, filosofo e non giurista, concepisce per primo il concetto di
“responsabilità in capo all’uomo”, anche se in un modo che rispecchia il senso
religioso dell’epoca. Nella “Repubblica” di Platone, Socrate racconta infatti come
siano gli uomini ad essere responsabili della propria vita: le anime, dopo la morte,
si presentano innanzi a Lachesi, una delle Parche, che decide le sorti degli uomini,
affinché prima di reincarnarsi ognuna scelga il proprio modello di vita futuro. E
afferma: “Non sarà il demone a scegliere voi, ma voi il demone. Non ha padroni la
virtù: quanto più ciascuno di voi l’onora, tanto più ne avrà; quanto più ciascuno di
voi la disonora, meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio
non ne ha colpa”.16
Tale modello di libertà, fondato sulla virtù e sul dominio razionale di sé, viene
ripreso da Platone. Questi definisce libera l’anima che raggiunge non
13 F. Botturi, voce Libertà, in Aa. Vv., Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2010, p. 6386. 14 Ivi, p. 6387.15 Platone, Protagora (a cura di F. Adorno), Laterza, Roma, 1997, 356 e.16 Id., Republica (a cura di G. Reale), Bompiani, Milano, 2009, 617 d-e.
14
l’indipendenza, bensì l’autarchia, intesa come decisione non turbata dalle
passioni.17 Egli, sulla scorta di Socrate, afferma che è l’uomo da solo, senza
l’intervento di un dio, a decidere se raggiungere la virtù; è una sua libera scelta
perseguire la conoscenza del bene. Platone svincola così l’uomo dalla visione di
un Destino cieco e ne sancisce la responsabilità morale delle proprie azioni.
Aristotele, invece, propone non solo un’analitica distinzione tra azioni volontarie
(l’agire con conoscenza) e involontarie (l’agire per costrizione o ignoranza), ma
esamina anche il compimento di una “scelta”, composta sia dalla deliberazione
razionale sia dalle tendenze.18 Vedremo in seguito come curiosamente a
conclusioni simili giungerà il neuroscienziato Antonio Damasio ben 2500 anni
dopo.
Il concetto filosofico del libero arbitrio riceve poi un’analisi sistematica da parte
dei Padri della Chiesa. Prima ancora, è con l’avvento stesso delle “religioni del
Libro”, Giudaismo, Cristianesimo ed Islamismo, che viene concepita la libertà
dell’uomo come dono di Dio. Non vi è una rigida predestinazione o la
sottomissione al volere divino, bensì la libera scelta dell’uomo di aderire al
progetto escatologico di Dio.
L’ebreo, il cristiano e il musulmano, infatti, godono della più ampia libertà: essi
possono decidere se seguire il Bene o compiere il Male. Non senza conseguenze,
però. L’uomo rimane responsabile delle proprie azioni dinnanzi a Dio, ma il suo
giudizio interviene solo in seguito: fino all’ultimo istante della sua vita, l’essere
umano è in grado di rivedere le sue scelte.
Sant’Agostino è uno dei maggiori esponenti del pensiero cristiano medievale. Egli
dedica all’argomento un intero libro, intitolandolo difatti “De Libero Arbitrio”, in
cui condensa buona parte delle sue riflessioni. Secondo Sant’Agostino, Dio ha
creato il mondo senza il male: questo è in realtà frutto della volontà dell’uomo,
che proprio in virtù della sua libertà può decidere anche di peccare. Solo che
compiere il male corrompe l’uomo, non solo allontanandolo da Dio, ma anche
indebolendo il suo libero arbitrio sempre più votato al peccato. Per salvarsi e
redimersi, l’uomo necessita perciò dell’intervento della Grazia divina.19
17 Id., Fedone (a cura di N. Marziano), Garzanti, Milano, 2008, 108 a-b.18 Aristotele, Etica Nicomachea (a cura di C. Mazzarelli), Bompiani, Milano, 2000, 1111a 23.19 Agostino d’Ippona, Il libero arbitrio (a cura di R. Melillo), Città Nuova, Roma, 2011.
15
Un’obiezione che spesso viene rivolta alla dottrina cristiana è l’apparente
inconciliabilità del libero arbitrio umano con la prescienza di Dio. A tale
questione diede risposta San Tommaso d’Aquino, che concepisce il libero arbitrio
sia come presupposto della morale sia come conseguenza della natura razionale
dell’uomo.20 Secondo San Tommaso, infatti, la libertà umana è compatibile con la
Provvidenza divina e con la predestinazione alla salvezza: Dio ha creato l’uomo
dotandolo di una naturale tendenza e conoscenza al Bene, nonché della capacità di
orientare la sua volontà al raggiungimento di fini. Dato che il fine ultimo
dell’uomo è il Bene in sé, che coincide con lo scopo della Provvidenza divina, egli
orienta la sua volontà verso di esso, in modo tale da coincidere con lo stesso
progetto teleologico di Dio.21
Durante il Medioevo, la riflessione teologica prosegue concentrandosi sulle
condizioni di libertà dell’uomo e sulla sua capacità di scegliere il Bene. Il
protestantesimo e in particolare Martin Lutero infiammano la disputa affermando
l’impossibilità dell’uomo di liberarsi del peccato solo con le proprie opere e
quindi il necessario intervento della Grazia.22
Parallelamente allo scontro tra le confessioni cristiane, la filosofia “secolare”
affronta il tema del libero arbitrio alla luce della nuova visione offerta dalla
scienza: come può la libertà essere compatibile con un mondo governato dalle
leggi della causalità?
Ed è qui che assistiamo ad un punto di svolta epocale per la questione del rapporto
mente-corpo: il pensiero di Cartesio e la sua concezione dualistica dell’uomo.
Cartesio, infatti, è considerato il padre del dualismo, la dottrina metafisica che
predica l’uomo come composto da due sostanze: il pensiero, o res cogitans, e la
materia, o res extensa. Tra questi due elementi vi è assoluta diversità e
opposizione: il pensiero non ha una dimensione spaziale, è consapevole di sé ed è
libero; mentre la materia ha sempre un’estensione, è inserita nello spazio, non ha
coscienza di sé e non è libera, bensì è determinata meccanicamente.23 L’unico
20 Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de Veritate (a cura di R. Spiazzi), Marietti editore, Milano, Vol. 1, 2000.21 Id., Summa theologiae (a cura di P. Caramello), 3 voll., Marietti editore, Milano, 1986.22 Martin Lutero, La libertà del cristiano (1520) – Lettera a Leone X (a cura di P. Ricca), Claudiana, Torino, 2005.23 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, Parigi, 1647.
16
punto di incontro tra le impressioni sensibili del corpo e la mente è individuato
nella ghiandola pineale, situata nel cervello.
Indagando sul rapporto anima-corpo, Cartesio precorre la psicologia affermando:
“Che cosa è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che vede, che vuole e che
non vuole, che immagina e che sente”.24 E questa idea della mente pensante e
dubitante lo porta alla straordinaria formulazione: Cogito, ergo sum25.
Per Cartesio l’intelletto è spesso equiparato alla mente e compie due tipi di atti
naturali: l’intuito e la deduzione. Con quest’ultimi, esso è il primo motore della
conoscenza: “Nulla può essere conosciuto prima dell’intelletto, perché da questo
dipende la conoscenza di tutte le altre cose”.26
Il difetto maggiore della concezione dualistica cartesiana si rivela proprio
affrontando il concetto di libertà: concependo libera soltanto la res cogitans,
l’uomo si configura autonomo a livello spirituale, ma asservito al meccanicismo
del corpo.
Ed è su questo punto che la posizione di Cartesio viene criticata aspramente da
Spinoza, fervente assertore del determinismo. Secondo Spinoza27, infatti, la
sensazione di essere liberi è pura illusione, dovuta al fatto che gli uomini sono
consci esclusivamente delle loro azioni e sono ignoranti della catena di cause che
li precede. Non solo nel corpo, ma anche nella mente vi è una serie infinita di
cause, che determinano la volontà stessa dell’uomo verso certi desideri anziché
altri. Per Spinoza, l’unica “sostanza” libera è quella divina, perché non sottoposta
ad alcuna necessità superiore ad essa: Dio è libero dato che agisce secondo le
proprie leggi.
Allo stesso modo, il libero arbitrio esula anche dal pensiero del filosofo inglese
Thomas Hobbes28: la realtà obbedisce ad un rigido nesso di causalità, in un
meccanicismo a cui non sfuggono nemmeno il corpo e la mente. Hobbes usa
significativamente il termine latino ratio, che ha tra i suoi significati “calcolo”,
per indicare la mente: dall’uomo al mondo, tutto obbedisce a rigorose leggi
matematiche. Sulla natura dell’uomo e delle sue funzioni psichiche più elevate,
24 Id., Les passions de l’âme, Parigi-Amsterdam, 1649.25 Id., Principia philosophiae, 1, 7 e 10, 1644.26 Id., Regulae ad directionem ingenii, Amsterdam, 1684.27 B. Spinoza, Ethica Ordine Geometrico Demonstrata, Amsterdam, 1677. 28 T. Hobbes, Leviathan, Londra, 1651.
17
ritiene che la mente sia essenzialmente matematica e le operazioni mentali un
puro calcolo aritmetico, con addizioni e sottrazioni di concetti. La stessa volontà
si qualifica come un “appetito”, che risponde al meccanismo di attrazione o
repulsione delle esigenze vitali del corpo. Per Hobbes, l’uomo libero è colui che
non è impedito a compiere le azioni che realizzano la sua volontà. Ai suoi occhi,
ogni evento ha una causa esterna, perché niente ha origine da se stesso, così pure
la volontà umana dipende da cause al di là del potere dell’uomo: le azioni
volontarie sono in realtà determinate e necessitate.29
Più complessa è la concezione del tedesco Gottfried Leibniz. La libertà non
consiste nel libero arbitrio, ma è rinvenibile nella “spontaneità” delle nostre
azioni: esaminandole esse avranno sempre una causa antecedente che le ha
determinate. A differenza di Hobbes, però, Leibniz ritiene che l’agire dell’uomo è
sì determinato da ragioni, ma non è necessariamente destinato ad accadere: una
determinata azione può avvenire o non avvenire, l’unica cosa di cui siamo certi è
che se è avvenuta, vi è un motivo anteriore. Leibniz concepisce una sorta di
“determinismo morbido”: dal momento in cui Dio ha creato il mondo, ha avuto
inizio una determinata concatenazione di eventi, che corrisponde alla storia
universale. L’uomo è libero di agire, ma le sue azioni si inseriscono in un disegno
preformato. Tale sviluppo della creazione viene chiamata da Leibniz mathesis
universalis, che caratterizza sia l’organizzazione del mondo, sia la capacità delle
funzioni intellettuali umane di cogliere tale mathesis.30 La mente possiede un
potere conoscitivo autonomo maggiore rispetto a quello dei sensi e facoltà non
derivabili dalla semplice esperienza empirica: “Nulla è nell’intelletto che non fu
prima nei sensi, se non l’intelletto stesso”.31
Con il “Saggio sull’intelletto umano”32, John Locke (privatamente detestabile:
approvava la schiavitù e si arricchì con la tratta degli schiavi) si rivela
fondamentale nell’analisi della mente e delle implicazioni di questa sul libero
arbitrio. Locke è convinto che non esista un determinismo meccanicistico, come
lo intendeva Hobbes, bensì un determinismo psicologico. Innanzitutto, egli
29 Id., Of Liberty and Necessity, Londra, 1654.30 G. Leibniz, Monadologie, Parigi, 1714.31 Id., Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origin du mal , Amsterdam, 1710.32 J. Locke, An Essay Concerning Human Responsibility, Londra, 1690.
18
sostiene che non vi siano idee innate: partendo dalla mente incontaminata di un
neonato, tutto nasce e si sviluppa in base all’esperienza. La mente dell’uomo è
costituita da idee, trasmesse dal mondo esterno attraverso i sensi all’intelletto, poi
elaborate appunto dalla mente. Il complesso psico-cognitivo umano è dunque
prodotto dalla collaborazione tra i sensi e l’intelletto. Da ciò deriva il complesso
di desideri: la volontà persegue precisi scopi, la cui scelta però sfugge all’uomo.
La volontà è non solo determinata, ma addirittura necessitata: Locke all’inizio
indica come obiettivo ultimo dell’uomo la felicità, in seguito invece individua
come motore dell’azione il disagio del desiderio da soddisfare. L’uomo, perciò, è
determinato dalla sua mente, dai suoi desideri, e può dirsi libero soltanto se non è
impedito ad agire in accordo alla sua volontà.
Anche lo scozzese David Hume ritiene che la libertà consista solo nel potere di
agire o non agire, secondo la determinazione della volontà.33 Nella sua concezione
empirista, la volontà è un processo naturale, necessitata dall’insieme di motivi e
desideri dell’uomo. In virtù di ciò, il comportamento umano è prevedibile, una
volta analizzati motivi, carattere e situazioni. Ma proprio per il legame con i
moventi e il carattere personale, Hume ritiene conciliabile l’imputabilità
soggettiva dell’azione e la responsabilità con una visione deterministica,
ponendosi perciò nella corrente del compatibilismo: l’uomo subisce la necessità
della scelta, ma è libero di non agire.34
A proposito della mente, egli distingue tra impressioni, che sono sentimenti e
immagini già presenti nella mente, e idee, che delle impressioni sono soltanto
copie. Le idee si associano secondo tre principi: di somiglianza, di contiguità nello
spazio e nel tempo, di rapporto tra causa ed effetto. La mente è una specie di
teatro, dove le diverse percezioni appaiono una di seguito all’altra, rapidamente,
in un perpetuo flusso e movimento. A dare una certa consistenza alla mente sono
solo la memoria e l’abitudine, anche se talvolta possono essere ingannevoli.35
Nella “Critica della ragion pura”36, Immanuel Kant coglie la contraddizione
intrinseca nel predicare azioni libere sottoposte però ad una concatenazione di
33 D. Hume, Enquiries Concerning Human Understanding and Concerning the Principles of Morals, Londra, 1751.34 Id., Treatise of Human Nature, Londra, 1739-1740.35 Id., Enquiries Concerning Human Understanding and Concerning the Principles of Morals, Londra, 1751.36 I. Kant, Kritik der rainen Vernunft, Riga, 1781.
19
cause antecedenti. Secondo Kant, la realtà si distingue nel mondo fenomenico, il
piano materiale, osservabile e determinato, e nel mondo noumenico, il piano
trascendentale, inintelligibile. La libertà è una condizione di possibilità che si
pone ad un livello trascendentale, slegata da tutto ciò che è empirico. Nella
“Critica della ragion pratica”37, Kant sostiene che essa sia un “postulato della
ragion pura pratica”, in base al quale determinare la propria volontà per obbedire
alla legge morale. In tal senso, la libertà coincide con la volontà: l’uomo possiede
il libero arbitrio, concepito come facoltà tra il bene e il male, con cui l’uomo può
elevare le proprie azioni all’universale o abbassarle all’individuale.
Contrariamente a Kant, Arthur Schopenhauer nega in maniera assoluta la libertà:
ogni cosa, organica o inorganica, è sottomessa ad una causalità deterministica,
dovuta a fattori esterni o interni. In particolare, l’uomo è costituito da un
“carattere”, stabile e immodificabile, a cui non può sfuggire. Tale carattere
determina la volontà attraverso la motivazione. La libertà di scelta rimane pura
illusione: non è esercizio del libero arbitrio, bensì è solo il confronto dei numerosi
motivi personali. Dal loro scontro, emerge la motivazione più forte, che determina
necessariamente la volontà. La ragione può soltanto scegliere i mezzi con cui
attuarla, in modo tale che l’uomo rimane pur sempre responsabile delle sue
azioni.38
Parallelamente, nell’ambito scientifico, predomina la concezione materialistica,
tra i cui esponenti maggiori vi è il medico e filosofo francese Julien De La
Mettrie. Forte contestatore del dualismo cartesiano, egli sostiene non solo che
l’anima sia indistinta dal corpo, ma che essa sia un principio attivo diffuso nella
sostanza midollare, con sede nel cervello. Per molti versi vicino al pensiero
empiristico moderno, egli afferma che l’unica conoscenza valida sia quella
sperimentale e che solo i medici possono comprendere appieno la natura
dell’uomo, paragonato ad una “macchina”.39
Sempre da una prospettiva materialistica, è interessante la corrente illuministica
dell’ideologismo, affermatosi in Francia tra Settecento e Ottocento, che vede tra i
suoi rappresentanti il medico francese Pierre Cabanis. Egli si occupa del rapporto
37 Id., Kritik der praktischen Vernunft, Riga, 1788.38 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig, 1819.39 J.O. de La Mettrie, Histoire de l’âme, Parigi, 1745.
20
mente-corpo e dell’analisi di sensazioni e idee. Cabanis ritiene le facoltà
intellettuali legate alla struttura fisica dell’uomo. In particolare, afferma che le
impressioni possono avere origine in due modi diversi: o giungere alla psiche da
oggetti esterni oppure essere generate da organi interni. Nel secondo caso, le
impressioni, spesso molto intense, non sono coscienti.40 Cabanis pose in tal modo
le basi per la futura concettualizzazione del subconscio.
Un’esaltazione del determinismo proviene dal movimento filosofico del
positivismo, che privilegia lo studio della realtà concreta sperimentabile. Da
riconoscere è il vasto contributo allo studio della mente dato dai positivisti: molti
analizzarono le interrelazioni tra mente e cervello, il modus essendi e il modus
operandi della mente, l’influenza della volontà e dei sentimenti nell’attività
cognitiva. Il più noto è John Stuart Mill, che individua due tipi di ragionamento:
quello induttivo, che va dal particolare all’universale, e quello deduttivo, dal
generale al particolare.41 Egli è anche difensore dei tre diritti fondamentali
dell’uomo: la libertà di coscienza, pensiero e parola; la libertà dei gusti e dei
desideri; la libertà di associazione.42
Il francese Henri Bergson, anch’egli determinista, reputa che la libertà non
consista nel libero arbitrio, ma nell’autodeterminazione della propria totalità
spirituale. Le azioni veramente volontarie sono solo quelle che esprimono la
personalità intera. Bergson, inoltre, esamina le facoltà di istinto, intelligenza e
intuizione. Le prime due rappresentano soluzioni diverse, entrambe efficaci, allo
stesso problema. Ma la modalità migliore in assoluto è l’intuizione, ossia quel
momento luminoso in cui l’intelligenza si fonde nell’istinto.43
Affrontando il dibattito filosofico del Novecento, ai nostri fini conviene
concentrarsi sulle correnti filosofiche e scientifiche che hanno analizzato in
maniera stringente il problema della mente e del cervello, nonché le implicazioni
sul libero arbitrio. Il XX secolo, infatti, si può affermare che sia il periodo storico
in cui il cosiddetto mind-body problem è stato studiato in ogni suo aspetto.
Ed è proprio nel Novecento che viene coniato il termine “neuroscienze”,
indicando l’insieme di discipline scientifiche che si occupano dello studio del
40 P.J.G. Cabanis, Rapports du physique et du moral de l’homme, Parigi, 1802.41 J. Stuart Mill, A System of Logic, Londra, 1843.42 Id., On Liberty, Londra, 1859.43 H. Bergson, Essai sur le données immédiates de la conscience, Parigi, 1889.
21
sistema nervoso e degli stati mentali, ognuna con una propria prospettiva e con
differenti approcci. Filosofi e scienziati adottano un metodo di indagine
interdisciplinare, che include in un quadro unitario le risultanze delle più diverse
branche: la neurobiologia, la neuropatologia, la neuropsicologia, la
neuropsicanalisi e infine la neurofilosofia.
Nel mondo anglosassone, in particolare, si sviluppa la filosofia della mente, che,
privilegiando questioni di natura teoretico-fondazionale ed epistemologica, studia
la natura dei fenomeni mentali e il ruolo che occupano nella struttura causale della
realtà. La problematica che tuttora persiste dello studio degli stati mentali è data
dalla loro natura, sperimentabile solo nell’esperienza cosciente soggettiva, non
valutabile scientificamente. I fenomeni mentali possono essere osservati
indirettamente attraverso gli effetti che essi provocano come cause mentali.
Negli Anni 30, il filosofo neoempirista Herbert Feigl44 è stato il primo a ricorrere
all’espressione the mind-brain problem o mind-body problem, ossia il problema
del rapporto tra mente e corpo. Feigl cercava una caratterizzazione della mente
rigorosamente scientifica, eliminando ogni concezione metafisica della mente
concepita in modo metafisico e riportandola in un ambito fisico-naturale,
indispensabile per giungere a una conoscenza scientifica dei fenomeni mentali.
Con lo studioso australiano David Malet Armstrong45, Feigl elabora la teoria
dell’identità, per cui i fenomeni mentali sono identificabili con fenomeni neuro-
cerebrali. Stati mentali come l’intenzione e la volontà hanno un ruolo causale, ma
non perché esista una realtà mentale autonoma, bensì perché gli stati mentali sono
identici agli stati fisici. I processi mentali agiscono sul comportamento fisico
perché sono uguali ai processi neuronali nel cervello. Per Feigl e Armstrong,
dunque, la scienza della mente si identifica con la scienza dei processi
neurocerebrali.
Contemporaneamente, in psicologia l’americano John Broadus Watson fonda il
“comportamentismo”, che avrebbe avuto un ruolo preminente per tutta la prima
metà del Novecento. Watson riduce le funzioni della mente a semplici
comportamenti esterni, esaminabili con procedure sperimentali.46
44 H. Feigl, The «Mental» and the «Physical», Minneapolis, 1958.45 D.M. Armstrong, A Materialist Theory of Mind, Londra, 1968.46 J.B. Watson, Psychology as the Behaviorist Views, in “Psychological Review”, n. 20, 1913, p. 158-177; Id., Behaviorism, University of Chicago Press, Chicago, 1930.
22
Suo oppositore è Gilbert Ryle, che con il suo “The concept of mind” del 194947
segna una rivalutazione dei processi mentali e della loro efficacia causale. Ryle
ritiene che per spiegare e prevedere un’azione umana non basta la semplice
descrizione del comportamento umano. È necessario presupporre l’esistenza e
l’efficacia causale di stati e processi mentali non osservabili quanto i
comportamenti fisici.
Ryle dà inizio a quella che è stata definita “rivoluzione cognitiva”, riportando
d’attualità la questione metafisica della natura degli stati mentali.
In ambito filosofico, si affermano così due posizioni fondamentali: il dualismo
psicofisico e le teorie dell’identità.
Il dualismo psicofisico ritiene che esista una realtà mentale, non fisica. Gli stati
mentali o psichici, però, appaiono incompatibili con la realtà fisica. Emerge di
conseguenza la concezione dell’interazionismo causale che predica il dualismo di
proprietà: pur esistendo solo una realtà, essa possiede proprietà sia fisiche sia non
fisiche, correlate tra loro. L’interazionismo causale si fonda sul principio per cui
gli eventi mentali hanno un effetto causale sugli eventi fisici e gli stati fisici lo
hanno sugli stati mentali. La maggior obiezione all’interazionismo è il principio di
chiusura causale del mondo fisico, secondo il quale gli eventi fisici possono essere
causati solo da eventi fisici. Tuttavia, un argomento a favore proviene dalla teoria
dei quanti: in un processo fisico, a livello micro, avviene una indeterminazione,
che potrebbe essere provocata da cause mentali. In tal caso, le cause mentali
potrebbero aver effetto sul mondo fisico senza violare alcuna legge.
In contrapposizione, negli Anni 60, il viennese Paul Kail Feyerabend, con altri
studiosi, elabora la teoria eliminativa, o teoria della scomparsa48: egli rifiuta
sistematicamente di identificare la realtà mentale con la realtà cerebrale e intende
eliminarla del tutto. Per Feyerabend, la scienza “seria” (in questo caso, la scienza
neurocerebrale) deve smascherare la pseudoscienza della mente ed eliminarla.
Sempre negli anni 60, numerosi filosofi della mente reagiscono criticamente alle
teorie identitiste ed eliminazioniste, unendosi sotto il nome di “mentalisti”, ma
dividendosi subito dopo in varie correnti: le due principali hanno, come capofila,
47 G. Ryle, The Concept of Mind, University of Chicago Press, Chicago, 1949.48 P.K. Feyerabend, Explanation, reduction, and empiricism, in H. Feigl, G. Maxwell, Minnesota studies in the philosophy of science: Scientification explanation, space and time, Vol. 3, Minneapolis, 1962, p. 28-97.
23
una il filosofo Karl Raimund Popper e il neurofisiologo e Premio Nobel John
Carew Eccles (che proseguono lungo il filone del dualismo interazionista), l’altra i
filosofi americani Hilary Putnam e Jerry Fodor (che danno vita al “mentalismo
funzionalistico”, che si riavvicina per molti versi alle teorie dell’identità).
In “L’io e il suo cervello”49, Popper e Eccles affermano che la mente è un vero e
proprio mondo autonomo, distinto da altri due mondi; insieme, i tre mondi
costituiscono l’uomo. Il primo mondo è di natura fisica e comprende tutti i
processi neurofisiologici; il secondo è di natura mentale e riguarda tutti i fenomeni
d’esperienza dell’uomo in quanto essere senziente e pensante; il terzo racchiude
l’insieme dei concetti e delle teorie intellettuali ed è autonomo nei confronti sia
della dimensione corporeo-oggettiva, sia di quella psico-soggettiva. Karl Popper e
John Eccles difendono, con la dottrina dei tre mondi, l’autonomia della realtà
mentale da quella fisica, inquadrando il loro pensiero nella corrente
dell’interazionismo causale. Eccles ipotizza che l’interazione tra realtà mentale e
realtà fisica si realizzi nella struttura micro del cervello, poiché i processi
indeterministici dei quanti lascerebbero spazio all’intervento di cause mentali. A
livello di questi micro-processi sarebbe possibile un’interazione tra mente e corpo,
che non implichi la violazione del principio di conservazione dell’energia. La
realtà mentale che interagisce causalmente con la realtà fisica sarebbe costituita
dai cosiddetti “psiconi”, entità mentali elementari, che influirebbero sull’attività
dei neurotrasmettitori. Tuttavia la teoria di Eccles è puramente speculativa e non
fornisce dati empirici che confermino l’esistenza degli psiconi. Per interagire con i
neurotrasmettitori, le entità mentali dovrebbero necessariamente occupare un
luogo determinato nello spazio-tempo: ciò però non è compatibile con la
caratteristica della realtà mentale di non avere estensione nello spazio e nel tempo.
L’altra corrente mentalistica, fondata da Putnam50 e Fodor51 e chiamata
funzionalismo, propone una radicale trasformazione del concetto di mente: non
più una res, una cosa, bensì una funzione. Per i due filosofi, la funzione-mente
può essere realizzata in vari modi, ma rimane sempre la funzione.
49 K. Popper, J. Eccles, The Self and its Brain: An Argument for Interactionism, Springer International, Berlino-Heidelberg-Londra-New York, 1977.50 H. Putnam, Mind, Language and Reality. Philosophical Papers, Vol. 2, Cambridge University Press, Cambridge, 1975.51 J. Fodor, The Language of Thought, Harvard University Press, Cambridge, 1975.
24
Il mentalismo funzionalistico ha trovato uno stimolante riscontro nella computer
science: in ogni sistema di computer si opera la distinzione tra software e
hardware, entrambi indispensabili, ma con funzioni assolutamente diverse;
cosicché si è potuto ragionevolmente azzardare la proporzione “la mente sta al
software come il cervello sta all’hardware”. La mente si può dunque considerare
come un insieme aperto delle più diverse funzioni, tutte però sottoposte al vincolo
della compatibilità con il cervello-hardware.
Fodor si è poi spostato dal funzionalismo verso il cognitivismo e il modularismo.
Per il cognitivismo, nessuno studio dell’umano può prescindere dalla mente; tale
studio va concepito come ricerca ed elaborazione di dati per aumentare le
conoscenze del soggetto; lo studio deve realizzare sia l’inventario di strutture e
funzioni nelle attività psichiche, sia la costruzione di modelli per spiegare il
funzionamento del sistema-mente. Secondo Fodor, nella mente c’è un numero
ampio ma non infinito di moduli, capaci sia di interpretare i messaggi giunti al
cervello sia di aggregarsi in maniera così varia da giustificare la complessità del
rapporto pensiero-azione.52 In seguito Fodor rivolgerà forti critiche contro il non
realistico linguaggio mentalistico, gli altrettanto non realistici principi della
scienza cognitiva e le eccessive ambizioni del computazionalismo.
Molti studiosi, tra cui Margaret Boden (fondatrice all’Università del Sussex della
School of Cognitive and Computing Sciences), Roger Schank e John Haugeland,
hanno ripensato i fenomeni mentali attraverso la novità della computer science,
dando vita alla filosofia computazionale della mente: la mente viene trattata come
un vero computer naturale, come un sistema le cui operazioni sono spiegabili con
modelli ricavati da operazioni di computer.
Il filosofo californiano Hubert Dreyfus53 ha confutato questa teoria, rilevando i
limiti del computer rispetto all’uomo dotato di una mente. Anche Joseph
Weizenbaum54, pur essendo uno studioso della computer science, ha espresso
riserve sui rapporti tra il computer, l’uomo e la sua mente: dopo aver costruito un
52 Id., The Modularity of Mind: An Essay on Faculty Psychology, MIT Press, Cambridge, 1983.53 H. Dreyfus, What Computers Can’t Do, MIT Press, New York, 1972.54 J. Weizenbaum, Computers Power and Human Reason, W.H. Freeman, San Francisco, 1976.
25
computer particolarmente sofisticato, Weizenbaum ha interrotto la sua attività
tecnologica e ha scritto un saggio contro le erronee analogie tra uomo e computer.
Posizioni molto critiche nei confronti di certe interpretazioni della computer
science sono state assunte da John Searle55, che negli anni 70 è passato dagli studi
sugli atti linguistici alla filosofia della mente. Secondo Searle l’uomo con la sua
mente si configura come un ente biologico e semantico, capace di produrre, con i
propri atti biologico-intenzionali, azioni impossibili per i sistemi computazionali.
Nel 1976, nel saggio “Cognition and reality”56, il filosofo americano d’origine
tedesca Ulric Neisser, che nel decennio precedente aveva definito l’uomo come
“un elaboratore di informazioni”, volle fare autocritica, ammettendo che si
tendeva troppo a interpretare la mente con costruzioni astratte e modelli solo
ipotetici, incapaci di cogliere gli stati mentali reali e le interazioni mente-mondo.
Per lo psicologo svizzero Jean Piaget57, la mente non può essere in alcun modo
“cancellata”: non ha una essenza sua propria, ma è una componente dell’umano
correlata non solo col cervello, ma almeno tendenzialmente con l’intero
organismo, rispetto al quale ha una funzione unificatrice e organizzatrice. La
mente agisce e si evolve secondo leggi costanti e autonome rispetto all’individuo
e all’ambiente.
Dopo aver ricevuto nel 1972 il premio Nobel per i suoi studi sul sistema
immunitario, Gerald M. Edelman si è occupato delle relazioni mente-cervello.
Respinte le tesi mentalistiche e quelle materialistico-neurocomputazionali,
afferma che i fenomeni mentali vanno affrontati in una prospettiva biologico-
naturalistica ed elabora il cosiddetto darwinismo neurale58: le funzioni psichiche
superiori non si spiegano con modelli uniformi e costanti di localizzazione e
azione neuro-cerebrale, ma tenendo conto di una selezione competitiva tra gruppi
neuronali. Edelman, insieme con lo psichiatra e neuroscienziato italiano Giulio
Tononi, nega l’identità tra tipi di eventi mentali e fisici sostenuta dal
55 J. Searle, Minds, Brains and Programs, in “Behavioral and Brain Sciences”, n. 3, Cambridge, 1984, p. 417-457.56 U. Neisser, Cognition and Reality: Principles and Implications of Cognitive Psychology, W.H. Freeman, San Francisco, 1976.57 J. Piaget, La construction du réel chez l’enfant, Delachaux et Niestlé, Parigi, 1937; Id., Biologie et connaissence; essai sur les relations entre les regulations organiques et les processus cognitifs, Éditions de la Pléiade, Parigi, 1967.58 G. Edelman, Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, Basic Books, New York, 1987.
26
riduzionismo. Insieme, hanno accertato che alla realizzazione di un’esperienza
cosciente contribuiscono gruppi di neuroni che si trovano in aree del cervello
molto distanti; e che non è lecito parlare di identità o correlazione fra un
determinato tipo di attività neurale e un determinato tipo mentale. L’evidenza
scientifica contraddice il riduzionismo: l’ordine temporale dei processi fisici nel
cervello e la loro distribuzione spaziale negano la possibilità che ci siano strutture
fisiche identificabili con stati mentali.
Thomas Nagel, filosofo americano d’origine serba, professore di Filosofia del
Diritto alla New York University, si è occupato in particolare di filosofia della
mente e di filosofia morale ed è uno dei maggiori esponenti della teoria internista,
convinto che la coscienza e l’esperienza soggettiva non possano essere ridotti ad
un’attività cerebrale basata su impulsi e sensazioni. La sua fama mondiale è
dovuta a un suo saggio del 197459 e al suo felicissimo titolo, “Che cosa si prova ad
essere un pipistrello?”, nel quale egli critica le pretese riduzionistiche di
ricondurre gli stati mentali ai processi oggettivamente rilevabili all’interno del
cervello. Nel 2008, a Roma, ha ricevuto dal presidente Giorgio Napolitano il
Premio Balzan. A proposito del libero arbitrio, ha affermato con ironia: “Cambio
idea sul problema del libero arbitrio ogni volta che ci penso, e quindi non posso
proporre alcun punto di vista, neanche con sicurezza moderata; ma la mia
opinione attuale è che nulla che possa essere una soluzione è stato finora
descritto”.
Lo studioso americano Daniel Dennett ha elaborato una concezione, ispirata a un
realismo intenzionale debole, in cui la mente, la coscienza e l’intenzionalità sono
modi per organizzare e dare un senso a funzioni e comportamenti reali; perciò non
vanno cancellati, ma neppure sono realtà oggettive. Nel suo libro “Brainstorms”
del 197860, Dennett ritiene che l'intenzionalità si basa su nozioni che possono
essere definite pseudospiegazioni, poiché le convinzioni, i desideri o gli atti
volitivi a cui essa fa riferimento, non costituiscono la vera causa del
comportamento umano, ma sono semplici etichette per descrivere ed,
59 T. Nagel, What Is It Like to Be a Bat?, in “The Philosophical Review”, Vol. 83, n. 4, 1974, p. 435-450; Id., What Is It Like to Be a Bat?, in Id., Mortal Questions, Cambridge University Press, Cambridge, 1979, p. 166.60 D. Dennett, Brainstorms: Philosophical Essays on Mind and Psychology, MIT Press, Cambridge, 1981.
27
eventualmente, prevedere il comportamento stesso. L'intenzionalità, che deriva
dalla psicologia del senso comune, non rappresenta un adeguato concetto
esplicativo, dal momento che non può fare a meno di evocare una sorta di
homunculus, posto alla base del nostro agire intenzionale e cosciente.
Riguardo alla coscienza, in una prospettiva chiaramente funzionalistica, non
ritiene che ci sia una sostanziale differenza tra il modo di operare di un calcolatore
e quello del cervello umano. In entrambi i casi si tratta di sistemi fisici (composti
da un certo numero di sottosistemi). La qualità dell'essere coscienti, per Dennett
deriva unicamente da un certo tipo di organizzazione funzionale e non dal fatto
che si abbia a che fare con un cervello organico piuttosto che con un cervello
costituito da un calcolatore elettronico. Le esperienze coscienti si identificano
totalmente con gli eventi portatori di informazione al loro interno.61
Negli anni 80, prosegue la corrente della filosofia computazionale della mente,
con il contributo del neuroscienziato e psicologo inglese David Marr. Egli è
l’autore dell’importante saggio “Vision: A Computational Investigation into the
Human Representation and Processing of Visual Information”, pubblicato nel
198262, purtroppo solo dopo la sua prematura scomparsa (a 35 anni, ucciso da una
leucemia). In esso Marr compie un’analisi dei sistemi cognitivi utile per
ricostruire la relazione tra processi mentali e fisici nel modello
rappresentazionale-simbolico della mente: al primo livello si ha la sequenza degli
stati mentali proposizionali; la sequenza si realizza al secondo livello, il livello
algoritmico delle relazioni inferenziali-sintattiche, dove si esprimono le regole
formali che governano la computazione degli stati cognitivi; al terzo livello si ha
la realizzazione fisica di questa connessione sintattica. Fra i tre livelli c’è una
relazione di implementazione: i processi del secondo livello implementano quelli
del primo e i processi fisici del terzo livello implementano quelli algoritmici del
secondo.
La brillante costruzione di Marr presenta però un problema. C’è una radicale
differenza fra il primo livello della sequenza degli stati mentali propositivi e il
terzo livello dell’implementazione fisica. Nella sua struttura fisica, la mente
61 Id., D. Hofstadter, The Mind’s I, Bantam Books, New York, 1982.62 D. Marr, Vision: A Computational Investigation into the Human Representation and Processing of Visual Information, Freeman and Co., New York, 1982.
28
umana non è un computer che elabora le informazioni in serie: è piuttosto una rete
neuronale, in cui l’elaborazione di informazioni è distribuita parallelamente.
Il problema sembra risolto con il connessionismo, i cui maggiori esponenti sono
David Rumelhart e James McClelland63, in cui il modello computazionale è la rete
neuronale. Rumelhart e McClelland hanno immaginato il connessionismo al
secondo livello, algoritmico, dello schema di Marr. Tale corrente studia i processi
cognitivi attraverso l’elaborazione di modelli astratti e di programmi
implementabili su elaboratore che, essendo dotati di una struttura analoga a quella
delle reti neurali, sono in grado di simulare il funzionamento del sistema nervoso.
Il connessionismo ricrea il processo di elaborazione e trasferimento delle
informazioni. È costituito da tre strati: uno strato di unità di input trasmette
l’informazione allo strato delle unità nascoste, che trasmettono allo strato delle
unità di output. La trasmissione di un’informazione da un’unità all’altra dipende
anche dal suo stato di attivazione e dal suo “peso”. Tale peso, secondo Paul
Smolensky, professore di scienze cognitive alla Johns Hopkins University di
Baltimora, non è fisso ma può variare per diverse cause.
Alcuni studiosi aderenti al connessionismo sostengono che esso sia incompatibile
con la cosiddetta folk psychology, la “psicologia del senso comune”. William
Ramsey, Stephen Stich e Joseph Garon64 ritengono che la folk psychology, come
teoria sullo svolgimento dei processi cognitivi, richiederebbe stati funzionali
discreti con efficacia causale anche a livello algoritmico. Ma in un sistema a
elaborazione parallela distribuita non esistono entità del genere. Perciò, negando
l’efficacia causale degli stati mentali, il connessionismo diviene incompatibile con
la folk psychology. Ne consegue che le entità presupposte nella folk psychology
non avrebbero un fondamento nella realtà cognitiva.
Paul Churchland e Patricia Smith Churchland, marito e moglie canadesi
naturalizzati statunitensi, sono i maggiori esponenti di una forma estrema di
materialismo: il materialismo eliminativista o eliminativismo. I Churchland
sostengono che i fenomeni mentali semplicemente non esistono e che i discorsi
63 D.E. Rumelhart, J. McClelland, Parallel Distributed Processing: Explorations in the Microstructure of Cognition, MIT Press, Cambridge, 1987.64 W. Ramsey, S. Stich, J. Garon, Connectionism, Eliminativism, and the Future of Folk Psychology, in J. Tomberlin (a cura di), Action theory and philosophy of mind philosophical, Atascadero, 1990, p. 499-533.
29
sulla mente riflettono una illegittima “psicologia popolare”, la folk psychology, di
cui già si è detto, che semplicemente non ha alcuna base fattuale. Secondo Paul
Churchland65, tutte le osservazioni empiriche sono un “sovraccarico di teoria”, e
tali sono anche i nostri giudizi percettivi provenienti dal “senso interno”, ossia
dall’introspezione; e poiché la folk psychology interpreta i dati del senso interno
alla luce di una concezione dell’uomo che è frutto di una particolare tradizione
storico-culturale, se ci liberassimo da questa immagine potremmo considerare i
nostri stati mentali in termini completamente nuovi.
Churchland sviluppa la sua critica in due punti essenziali: la psicologia del senso
comune è una teoria, probabilmente falsa, che non ha compiuto alcun progresso e
non riesce a spiegare la maggior parte dei fenomeni psicologici come il sonno, il
coordinamento senso-motorio, le malattie mentali, l'intelligenza, la creatività.
Essendo la psicologia del senso comune una teoria falsa, essa non può costituire la
base della psicologia scientifica. Inoltre è presumibile che anche le entità che
costituiscono i riferimenti dei suoi concetti teorici (desideri, opinioni, intenzioni,
passioni) siano inesistenti.
Patricia Smith Churchland66, distinguendosi dal marito, si è concentrata
soprattutto sul rapporto fra neuroscienze e filosofia: per capire il mentale
dobbiamo comprendere il funzionamento del cervello.
Alvin Goldman67 e Robert Gordon68 hanno messo sotto accusa l’eliminativismo
dei coniugi Churchland. Per loro la psicologia del senso comune non è affatto da
eliminare, anche se non può essere messa sullo stesso piano di una teoria
scientifica: la capacità di spiegare e prevedere il comportamento umano consiste
in meccanismi di carattere non teorico. Per Goldman e Gordon si possono ottenere
risultati migliori ricorrendo all’empatia, la forma di immedesimazione negli stati
psicologici altrui, per spiegarne il comportamento. L’empatia è stata accolta nella
65 P.M. Churchland, Reduction, Qualia and Direct Introspection of Brain States, in “Journal of Philosophy”, Vol. 82, n. 1, 1985, pp. 8-28.66 P. Smith-Churchland, Neurophilosophy: Toward a Unified Science of the Mind-Brain, MIT Press, Cambridge, 1986.67 A.I. Goldman, Simulating Minds: The Philosophy, Psychology and Neuroscience of Mindreading, Oxford University Press, New York, 2006.68 R.M. Gordon, Sympathy, Simulation, and the Impartial Spectator, in “Ethics”, Vol. 105, n. 4, University of Chicago Press, 1995, p. 727-742; Id., Simulation and Reason Explanation: The Radical View, in “Philosophical Topics”, n. 29, University of Arkansas, 2001, p. 175-192.
30
filosofia della mente grazie a una tesi di Willard van Orman Quine69, il quale
aveva ipotizzato che l’attribuzione dei cosiddetti “atteggiamenti proposizionali” o
stati intenzionali (opinioni, desideri, speranze), attraverso i quali la psicologia del
senso comune spiega il comportamento dei nostri simili, si basi essenzialmente su
una simulazione di tipo empatico. Tale simulazione empatica costituisce per
Quine una modalità conoscitiva naturale con la quale normalmente, e spesso
inconsciamente, immedesimandoci in un’altra persona, le attribuiamo pensieri e
atteggiamenti che avremmo noi se ci trovassimo al suo posto.
Lo psichiatra italiano Giovanni Jervis, che è stato professore di psicologia
dinamica all’Università La Sapienza, ha criticato sia gli eccessi riduzionistici di
molti psicologi e neurofilosofi, sia il modularismo di Fodor. Jervis ritiene, infatti,
che non si possa parlare di teorie modulari della mente, dato che l’idea di
modularità è stata scoperta a livello strettamente neurologico, non psicologico,
ossia che è il cervello a funzionare per moduli. Jervis ha anche analizzato il tema
dell'autorità, della depressione, delle illusioni, dell’identità. Nel suo saggio “La
conquista dell'identità” del 199770, sostiene che la ricerca dell’identità va collegata
al quadro storico attuale, che vede il dissolversi dei modelli ereditati dalla famiglia
e dalla tradizione.
Il filosofo australiano David John Chalmers, nel suo libro “The Conscious Mind”
del 199671, si concentra soprattutto sui problemi della coscienza, che divide in
“facili” e “difficili”. Un easy problem, un problema facile, è l’individuazione di
modelli neurobiologici della coscienza. Un hard problem, un problema difficile, è
la spiegazione degli aspetti qualitativi e soggettivi dell’esperienza cosciente, che
sfuggono ad un’analisi fisicalista e materialista. La tesi di Chalmers si inserisce
nel filone dell’antiriduzionismo, affermando che l’esperienza cosciente non è
riducibile ai fenomeni elettrochimici che hanno luogo nel cervello. Lo spiega con
un paradosso, ipotizzando la possibilità teorica dell’esistenza degli zombi,
creature identiche agli esseri umani, sia nell’aspetto fisico che nel comportamento,
69 W. Van Orman Quine, Quantifiers and Propositional Attitudes, in “Journal of Philosophy”, Vol. 53, n. 5, 1956, p. 177-187; ristampato in Id., The Ways of Paradox and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge, 1976, p. 185-196.70 G. Jervis, La conquista dell’identità: essere se stessi, essere diversi, Feltrinelli, Milano, 1997.71 D.J. Chalmers, The Conscious Mind: In search of a Fundamental Theory, Oxford University Press, Oxford, 1996.
31
tanto da essere indistinguibili da questi. Ma lo zombi non è un uomo perché
manca completamente di esperienza cosciente: agisce meccanicamente senza la
minima consapevolezza di ciò che fa. Chalmers ammette che gli zombi
ovviamente non esistono, ma potrebbero esistere, da un punto di vista logico; e
ciò prova che le esperienze coscienti non sono riducibili agli stati fisici del
cervello.
David Chalmers e Andy Clark, nel loro articolo “The Extended Mind” del 199872,
descrivono i confini della mente ed elaborano la cosiddetta teoria della mente
estesa, rientrante nella posizione dell’esternalismo. Secondo Chalmers e Clark, la
mente non è “contenuta” solo nel cervello, ma si “estende” oltre la scatola cranica:
essa si compone di tutto ciò che l’arricchisce, dall’ambiente al linguaggio ai libri,
e via dicendo. Ogni strumento che potenzia le capacità intellettive diventa parte
integrante della mente stessa, ossia un “veicolo cognitivo”.
Il neuroscienziato portoghese Antonio Rosa Damasio, attraverso l’osservazione di
diversi casi clinici, ha rivalutato il valore delle emozioni e dei sentimenti,
ipotizzando nel saggio del 1994 “L’errore di Cartesio”73 la tesi secondo cui in
molti processi decisionali forniscono una sorta di percorso abbreviato, bypassando
i dubbi e la ragione. Il processo decisionale non è sempre un’analisi minuziosa dei
pro e contro, ma spesso ricorre ad una strategia semplificata. Si fa riferimento agli
esiti di passate esperienze, analoghe con la situazione presente. Dette esperienze
hanno lasciato delle “tracce”, non necessariamente coscienti, che richiamano in
noi emozioni e sentimenti, con connotazioni negative o positive. Damasio chiama
queste tracce “marcatori somatici”. In tale processo, la scelta è quindi
condizionata dalle risposte somatiche emotive, avvertite a livello soggettivo,
utilizzate, non necessariamente in maniera consapevole, come indicatori del
possibile esito delle varie opzioni. In altre parole, i sentimenti fanno parte del
contrassegno posto sulle varie opzioni; in tal modo i marcatori somatici fungono
da strumento automatico che facilita il compito di fare la scelta giusta dal punto di
vista biologico.
72 D.J. Chalmers, A. Clark, The Extended Mind, in “Analysis”, n. 58, Blackwell Publishing, 1998, p. 7-19.73 A. Damasio, Descartes’ Error: Emotion, Reason, and the Human Brain, Putnam Publishing, New York, 1994.
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Oggi, dunque, il panorama neuroscientifico presenta un variegato insieme di
approcci filosofici. Nonostante ancora molti tra ricercatori e studiosi adottino
posizioni materialistiche, è sempre più ampia l’adesione ad un approccio
metodologico che non neghi la consistenza della realtà mentale. Anzi, i più recenti
studi fanno emergere come la tesi interazionista avesse colto nel segno: i processi
psichici influenzano e vengono influenzati dagli stati fisici, sia in condizioni
patologiche sia in condizioni normali. Ricerche sulla cura della depressione, sulle
modalità dell’apprendimento, sulla formazione dei giudizi morali, sulla
neuroplasticità dimostrano la nostra capacità di influenzare non soltanto la nostra
dimensione mentale, ma addirittura la conformazione anatomica del cervello.
Anche solo in forma indiretta, manteniamo un controllo su noi stessi ad ogni
livello, identitario, psichico, cerebrale. E ciò si traduce, in altri termini, in libero
arbitrio.
Etica e neuroscienze
La nascita della neuroetica e del neurodiritto
La neuroetica nasce come una branca specializzata della bioetica74, occupandosi
delle questioni etiche emergenti dai progressi nello studio del cervello umano.
Ovviamente, le neuroscienze rappresentano il campo di maggior rilievo per i
cosiddetti “neuroeticisti”, date le loro implicazioni prettamente pratiche. Oggi
assistiamo all’introduzione in ambito biomedico di innovative terapie
psicofarmacologiche, interventi di nanochirurgia neurologica e tecnologie di
neuroimaging all’avanguardia. Lo studio dei correlati neurali ha condotto ad una
rivisitazione del ruolo delle diverse funzioni cognitive: gli stati di coscienza sia in
74J. Illes, Neuroethics: Defining the Issues in Theory, Practice and Policy, Oxford University Press, Oxford, 2006.
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soggetti sani sia in soggetti malati; l’intervento delle emozioni; la formazione di
giudizi morali; il funzionamento della memoria; la correlazione tra lesioni
cerebrali e comportamenti; e via dicendo.
Non solo i progressi neuroscientifici hanno riportato alla ribalta alcuni vecchi
interrogativi filosofici (uno per tutti: dove inizia la nostra libertà e finisce quella
del nostro cervello?), ma ci hanno anche reso consapevoli di quanto queste
pratiche necessitino di un insieme di regole etiche. Data la “giovinezza” delle
neuroscienze e delle tecnologie più recenti, i limiti morali di intervento sono
ancora vaghi e poco definiti. In ragione di ciò, la comunità scientifica e il mondo
accademico hanno mostrato la loro sensibilità al tema: nell’ultimo decennio,
intorno all’argomento è sorta una vasta letteratura, hanno avuto luogo convegni e
raduni di esperti e sono stati fondati comitati e associazioni.
La stessa nascita del termine “neuroetica” coincide con la conferenza
“Neuroethics: mapping the field”, svoltasi il 13-14 giugno 2002 a San Francisco,
su iniziativa della Stanford University e della University of California. Gli
organizzatori della conferenza definirono la “neuroetica” come: “Lo studio delle
questioni etiche, giuridiche e sociali che sorgono quando le scoperte scientifiche
sul cervello vengono portate nella pratica medica, nelle interpretazioni giuridiche
e nella politica sanitaria e sociale. Queste scoperte stanno avvenendo nel campo
della genetica, del brain imaging e nella diagnosi e predizione delle malattie. La
neuroetica ha il compito di esaminare come i medici, i giudici e gli avvocati, gli
assicuratori e i politici, così come il pubblico si occupano di questi temi”.75
In seguito, William Safire, editorialista del New York Times, diede questa
definizione di “neuroetica”: “L’esame di ciò che è giusto o sbagliato, di ciò che è
buono o cattivo in relazione al trattamento, al perfezionamento, alle intrusioni
indesiderate e alle preoccupanti manipolazioni del cervello umano”.76
Intorno al 2002, dunque, possiamo localizzare temporalmente la presa di
coscienza, di cui accennavo, sulla necessità di una organica riflessione etica in
ambito neuroscientifico.
75S.J. Marcus, Neuroethics. Mapping the Field, atti della “Dana Foundation Conference”, University of Chicago Press, Chicago, 2002.76W. Safire, The but-what-if factor, in “The New York Times”, 16 maggio 2002.
34
Curiosamente, però, molto prima del termine “neuroetica” fu coniato quello di
“neuroeticista”: Roland Cranford lo utilizzò nel 1989 per riferirsi a quei neurologi
che, presenti nei comitati etici ospedalieri, ricoprivano il ruolo di consulenti per
affrontare diversi dilemmi etici, quali la morte cerebrale, la locked-in syndrome, lo
stato vegetativo persistente e l’uso di respiratori artificiali per il trattamento delle
malattie neurodegenerative.77
Similmente alla bioetica, lo scopo originario della neuroetica era di affrontare i
problemi relativi alle applicazioni pratiche delle neuroscienze. Come dicevamo,
alcuni di essi sono ad esempio gli interventi di psicofarmacologia e di
neurochirurgia, la cosiddetta “privacy cerebrale”, nonché il potenziamento
cerebrale tramite farmaci (ossia la loro somministrazione in soggetti sani non a
scopo terapeutico).
Ben presto, però, la riflessione neuroetica si è allargata a tematiche più
speculative, pertinenti tradizionalmente alla filosofia e al diritto: dall’esistenza del
libero arbitrio allo statuto della coscienza fino alla concezione stessa della persona
e della natura umana. Le scienze cognitive, infatti, si pongono l’obiettivo più
elevato di scoprire le basi fisiologiche di ogni comportamento umano e di
dimostrare la connessione tra le aree cerebrali e le funzioni intellettive dell’uomo.
Appaiono alla portata sperimentale concetti e qualità astratte che fino a poco
tempo fa si reputavano peculiari della sola personalità individuale: i giudizi
morali, l’idea di libertà, le scelte e i comportamenti, i mutamenti d’umore,
l’altruismo, l’empatia, la menzogna, la fede in una divinità.
Una distinzione dei campi d’indagine della neuroetica, che ha incontrato un
diffuso consenso nella comunità internazionale, è quella proposta dalla filosofa e
neuroscienziata Adina Roskies, sempre nel 2002: “l’etica delle neuroscienze” e le
“neuroscienze dell’etica”.78
L’etica delle neuroscienze si prefigge di sviluppare un quadro di riferimento etico
in base al quale regolare la condotta della ricerca scientifica.
Le neuroscienze dell’etica, invece, riguardano gli effetti che la conoscenza
neuroscientifica ha sull’etica stessa.
77R.E. Cranford, The neurologist as ethics consultant and as a member of the institutional ethics committee, in “Neurologic clinics”, n. 7, 1989, p. 697-713.78A. Roskies, Neuroethics for the new millennium, in “Neuron”, n. 35, 2002, p. 21-23.
35
La peculiarità degli studi neuroscientifici, infatti, consiste non solo nell’apprestare
nuovi strumenti con cui intervenire materialmente sul corpo umano, ma anche nel
fornire una maggiore comprensione dell’interazione mente-cervello-
comportamento e, di conseguenza, una nuova prospettiva della natura umana sul
piano etico.
Come suggeriscono Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori, “la ricerca delle scienze
della mente ci offre il punto di partenza per una nuova immagine dell’essere
umano”. Si può affermare dunque che la questione diventa “non tanto ‘ciò che
possiamo fare’ sulla base di progressi tecnici nelle abilità manipolative e di
intervento, ma ‘ciò che veniamo a sapere’ circa il nostro stesso funzionamento”.79
Le neuroscienze dell’etica possono così offrirci le loro riflessioni sulle basi neurali
dell’agire morale. Possono spiegare come desideri ed azioni vengano controllati e
quando questo controllo può sfuggire.
Come dice Blakemore80: “Al progredire della comprensione delle funzioni
cerebrali, è certamente ragionevole chiedersi in che modo tale conoscenza illumini
temi che in passato sono stati espressi, formulati o spiegati in modi diversi.
L’epistemologia, i principi legali, i concetti sociali e politici dei diritti e della
responsabilità, le credenze e il comportamento religiosi, i presupposti filosofici
della scienza: tutto ciò è un prodotto dei nostri cervelli e necessita una
riconsiderazione della cornice costituita dalla nostra conoscenza del cervello”.
Ma a cosa possono portare questi contributi della scienza? Mentre le nuove
tecnologie e le conoscenze prettamente “pratiche” possono essere controllate, o
con il libero consenso o attraverso normative ad hoc, le acquisizioni
neuroscientifiche di stampo filosofico (dal “su cosa siamo” al “come decidiamo di
agire”) una volta acquisite producono effetti inevitabili sul piano sociale, politico
e giuridico.
Come afferma Gilberto Corbellini81, attraverso la neuroetica si può recuperare una
tra le diverse ispirazioni culturali che stimolarono l’emergere della bioetica: la
79A. Lavazza, G. Sartori, Introduzione, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 11.80C. Blakemore, Foreword, in J. Illes, Neuroethics. Defining the Issues in Theory, Practice, and Policy, Oxford University Press, Oxford, 2006.81G. Corbellini, Quale neurofilosofia per la neuroetica?, in A. Santosuosso (a cura di), Le neuroscienze e il diritto, cit., p. 64.
36
riflessione circa la possibilità che le innovazioni scientifiche e tecnologiche
entrassero in conflitto con i valori morali tradizionali.
Molti filosofi, infatti, temono che l’individuazione delle basi neurali del
comportamento volontario e del senso morale potrebbe diffondere la convinzione
che “tutto sia determinato” e quindi condurre ad una “crisi della morale” e minare
la nostra visione di individui autonomi e responsabili.
Ma altrettanti autori ritengono che tale preoccupazione sia eccessiva e che anzi le
nozioni delle neuroscienze (per esempio, gli studi sulle predisposizioni morali
umane) possono rivelarsi utili per elaborare innovative strategie educative e un
miglior funzionamento della società.
Adina Roskies fa notare come le neuroscienze non siano state di certo le prime a
mettere in discussione la nozione di libero arbitrio: è una discussione che impegna
teologia e filosofia da millenni. Inoltre, Roskies sostiene che i nostri giudizi sulla
responsabilità morale non verrebbero influenzati più di tanto se le neuroscienze e
la filosofia dimostrassero che le nostre menti funzionano in maniera
meccanicistica e che le nostre scelte sono determinate. In un suo esperimento,
condotto in collaborazione con Shaun Nichols, chiese ai soggetti se reputavano
che il nostro universo fosse determinato da leggi fisiche di base. Questi
rispondevano positivamente sia alla prima domanda, sia al quesito successivo,
ossia sulla possibilità di essere liberi, e quindi responsabili moralmente, nel nostro
universo. Curiosamente, il giudizio dei soggetti cambiava completamente quando
gli si chiedeva se fosse possibile essere responsabili in un universo “parallelo”
deterministico: in quel caso, i soggetti dell’esperimento rispondevano che in un
tale universo non sarebbe possibile essere liberi. Questo per evidenziare come le
persone (o almeno i soggetti esaminati in tale esperimento) ritengono in ogni caso
persistente la responsabilità delle proprie azioni, a prescindere dal fatto che il
nostro universo sia determinato o indeterminato.82
Eddy Nahmias invece sostiene che le neuroscienze potrebbero minare le nostre
nozioni di libertà non tanto con la dimostrazione che il nostro cervello è
determinato, quanto con una diversa spiegazione di “come” prendiamo le nostre
decisioni. In altre parole, ciò che ci porterebbe a negare la responsabilità morale
82A. Roskies, S. Nichols, Bringing Moral Responsability Down to Earth, in “Journal of Philosophy”, n. 105 (7), 2008, p. 371-388.
37
sarebbe l’impressione che a controllare la nostra vita mentale cosciente siano le
cause cerebrali del comportamento. Perciò, il vero nemico del libero arbitrio
sarebbe il riduzionismo e non il determinismo, in quanto non lascerebbe alcuno
spazio per gli stati mentali consapevoli. Per il senso comune, sarebbe più
importante la nozione di “controllo” delle singole azioni, rispetto a quella di
“libertà” in un quadro più generale.83
Più drastico sull’argomento è il filosofo americano Robert Kane84, il cui pensiero
è inquadrabile nella corrente “incompatibilista libertaria”, secondo il quale
semplicemente le neuroscienze non potranno mai dimostrare se il nostro universo
sia deterministico o indeterministico. Esse però possono dimostrarci (e così stanno
facendo) che la fisiologia del cervello è caratterizzata da fenomeni probabilistici e
che il cervello è un sistema deterministico in termini di possibilità: le azioni future
di un individuo sono percepite come imprevedibili, in ragione della complessità
delle interazioni tra le diverse parti cerebrali, la cui integrazione dà luogo agli
output del cervello.
Il discorso etico nascente dalle scoperte neuroscientifiche ha investito numerosi
campi delle scienze sociali, portando all’emergere di nuovissime discipline che si
occupano del “retroscena cerebrale” dei più disparati comportamenti umani: la
neuropolitica (le ragioni delle scelte politiche), il neuromarketing (il successo o il
fallimento delle campagne pubblicitarie), la neuroeconomia (l’analisi psicologica
dell’azione economica), la neuroestetica (le conseguenze prodotte dall’arte e dalla
musica), la neurocultura (l’origine e l’impatto delle diversità culturali), la
neuroteologia (gli effetti delle differenze religiose). L’emergere di tutti questi
diversi campi d’indagine manifesta come sia in atto una confluenza tra il pensiero
scientifico e il pensiero “umanistico”.
In tale contesto, non poteva mancare ovviamente una presa di coscienza anche da
parte del mondo del diritto, che anzi si mostra un terreno particolarmente fertile
per molte delle suggestioni proposte da neuroscienziati e filosofi della mente.
Sempre intorno ai primi anni 2000, assistiamo alla nascita di quello che viene
definito “neurodiritto”, termine mutuato dal più risalente “biodiritto” (o
83E. Nahmias, Folk fears about freedom and responsability: determinism vs. reductionism, in “Journal of Cognition and Culture”, n. 6, p. 215-237, 2006. 84R. Kane, The Oxford Handbook on Free Will, Oxford University Press, Oxford, 2002.
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“biogiuridica”), nato in seno alla bioetica. Perciò, in perfetto parallelismo, dalla
neuroetica si è distaccata la riflessione giuridica sulle neuroscienze, ritagliandosi
un proprio territorio di studio, dai confini molto ampi.
Il neurodiritto, innanzitutto, si incentra sull’analisi di come il cervello forma e
utilizza i concetti giuridici, quali il dovere, la giustizia, la responsabilità personale
e via dicendo (in modo simile a come in neuroetica vengono studiate le basi
cerebrali dei giudizi morali), nonché i correlati neurali del comportamento umano,
sia in individui sani sia in condizioni patologiche. In tale contesto, prendono corpo
diverse problematiche che vanno a toccare molti rami del diritto: per esempio, in
ambito civile, come stabilire la maturità mentale di un adolescente; in ambito
penale, quali siano i caratteri e i limiti dell’imputabilità e dell’infermità mentale;
o, ancora, in ambito processuale, quando si possa dire attendibile un testimone o
quanto valore oggettivo si possa dare alle cosiddette “prove neuroscientifiche”.85
In secondo luogo, il neurodiritto riguarda il diritto positivo vero e proprio, ossia la
normativa concernente gli utilizzi pratici delle neuroscienze: i neurofarmaci, gli
interventi di chirurgia cerebrale, le metodologie di brain imaging, ecc.86
Pur essendo ancora esigua la letteratura sull’argomento, non mancano i tentativi
da parte di diversi autori di dare una configurazione sistematica al neurodiritto e di
delinearne meglio i caratteri.
A tale proposito, Henry T. Greely87, docente di diritto alla Stanford University, nel
2005 ha proposto una suddivisione del neurodiritto (in inglese, neurolaw) in tre
categorie d’indagine: il “diritto delle neuroscienze” (the law of neuroscience), che
riguarda temi come il consenso informato, i doveri dei medici e la tutela della
salute; la “scienza del pensiero e del comportamento” (the science of thought and
behaviour), di interesse per il diritto, che studia i fenomeni criminali, anormali e
patologici, nonché la base mentale di valori e concetti quali l’onestà, il rispetto
della proprietà, la buona fede, ecc.; la “neuroscienza del diritto” (the neuroscience
of law), ossia quali sono i processi cognitivi e cerebrali coinvolti quando ci
85E. Picozza, Neuroscienze, scienze della natura e scienze sociali, in E. Picozza, L. Capraro, V. Cuzzocrea, D. Terracina, Neurodiritto. Una introduzione, Giappichelli editore, Torino, 2011, p. 8.86Ivi, p. 9.87H. T. Greely, Frontier Issues: Neuroscience, presentato al Where are Law, Ethics & the Life Sciences Headed? Frontier Issues, University of Minnesota Law School, in data 20 maggio 2005.
39
rapportiamo con il diritto (dalla percezione della legge alle regole giuridiche che
utilizziamo nel giudicare il nostro comportamento).
Un’altra ipotesi su come strutturare le interazioni tra il diritto e le neuroscienze è
quella proposta da Luca Sammicheli e Giuseppe Sartori, due esponenti di rilievo
degli studi neuroscientifici in Italia, che ricorrono innanzitutto alla definizione di
“neuroscienze giuridiche” per indicare “i diversi filoni di ricerca accomunati dalla
applicazione delle metodologie neuroscientifiche allo studio e alla pratica del
diritto”88. Partendo da ciò, hanno elaborato tre categorie fondamentali: le
“neuroscienze forensi”, che si occupano della prova neuroscientifica nel processo;
le “neuroscienze criminali”, ossia lo studio neuroscientifico del soggetto
criminale; le “neuroscienze normative e della cognizione morale”, ovvero l’analisi
neuroscientifica del “senso di giustizia” e del ragionamento morale.89
Come dicevamo, il neurodiritto è ancora una disciplina “giovane”, dai confini
labili, le cui tematiche si sono affacciate solo di recente nella realtà giuridica
pratica: alcune, in particolare le questioni attinenti ai profili processuali, hanno già
messo alla prova il diritto; altre, invece, appaiono de jure condendo, ma obbligano
sin da ora i giuristi a riflettere e a mettere in discussione istituti e categorie, per
mantenere il diritto al passo con le scoperte e le acquisizioni delle neuroscienze.
L’identità dell’Io e il concetto di “persona”
L’identità dell’Io è uno, se non il fondamentale, tra i maggiori misteri che le
neuroscienze e le scienze cognitive in generale cercano di risolvere. L’Io, in altre
parole la coscienza, ha messo in difficoltà ogni teoria scientifica fino ad oggi
proposta in virtù della caratteristica più lampante: la sua esperibilità
esclusivamente in prima persona, non sottoponibile a verifiche empiriche.
Per il senso comune, la percezione immediata di noi stessi ci dice che siamo
possessori di una coscienza, concepita come una sorta di “centro di controllo” (un
88L. Sammicheli, G. Sartori, Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano, 2009, p. 15-16.89 Ivi, p. 17.
40
homunculus, in termini filosofici), adibito allo smistamento di sensazioni,
emozioni, idee e decisioni. Con la coscienza tendiamo ad identificare la nostra
personalità, la nostra identità, prodotta dall’insieme di ricordi, esperienze, gusti e
aspirazioni. Infine, il senso comune ci dice che il cervello e le sue lesioni possono
sì influenzare la mente, addirittura menomarla, ma questa rimane pur sempre
“distinta” da esso. Abbiamo consapevolezza dei nostri pensieri, vi siamo
“immersi”, mentre non “percepiamo” il nostro cervello: la sua esistenza è un dato
acquisito a livello cognitivo, non a livello sensoriale.
Le scienze cognitive e le neuroscienze negano questa concezione “monistica” e
“astratta” della mente. Al quesito “che cos’è la coscienza” sono state offerte
diverse spiegazioni, nessuna delle quali però raggiunge un assoluto grado di
certezza. Come afferma il filosofo J. Levine, pur raggiungendo una conoscenza
completa del funzionamento del sistema nervoso centrale, non saremmo in grado
di spiegare il “perché” proviamo un certo stato mentale in una certa situazione:
sappiamo che in relazione ad ogni stato mentale cosciente ha luogo un processo
neurofisiologico, detto “correlato neurale”, ma ci sfugge il legame funzionale tra i
due.90
Diverse correnti riduzionistiche hanno risolto il problema semplicemente negando
l’esistenza autonoma della mente: è stata descritta come una mera illusione,
prodotta dall’attività neuronale allo scopo di permettere un’analisi “centralizzata”
delle informazioni acquisite. Una spiegazione che in realtà si limita ad evitare il
problema, anziché risolverlo.
Altri, invece, hanno concepito la mente come un “epifenomeno”: gli stati fisici del
cervello sono causa di quelli mentali, mentre questi ultimi sono privi di efficacia
causale. Tale teoria, però, si scontra con l’evidenza che noi invece esperiamo ogni
giorno gli effetti degli stati mentali su oggetti fisici (ad esempio, la semplice
intenzione di muoversi attiva i neuroni della corteccia motoria adibiti al
movimento).91
Oggi, una delle certezze raggiunte è che l’Io affonda le sue radici nell’interazione
tra fattori genetici e ambientali: essi modellano il sistema nervoso centrale e di
90J. Levine, Materialism and qualia: The explanatory gap, in “Pacific Philosophical Quarterly”, n. 64, 1983, p. 354-361.91A. Oliverio, Prima lezione di neuroscienze, Editori Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 80.
41
conseguenza producono effetti sia a livello psicologico, sia a livello anatomico-
cerebrale.92 L’estrema plasticità del sistema nervoso centrale consente ad ogni
individuo di possedere un cervello “unico”, con specifiche conformazioni fisiche
delle aree cerebrali e delle reti neuronali: quello che si può definire una sorta di
“individualismo cerebrale”. Le aree cerebrali, soprattutto quelle sensoriali e
motorie, si modificano con il loro utilizzo e il ripetuto esercizio e questi
cambiamenti influiscono sulle nostre capacità. Ad esempio, con tecniche di
neuroimaging si è osservato che chi suona strumenti ad arco ha una
rappresentazione corticale più dettagliata delle dita della mano sinistra, di modo
che possiedono una maggiore sensibilità e precisione rispetto a persone che invece
non suonano93; un altro studio ha mostrato come i tassisti londinesi abbiano la
porzione posteriore dell’ippocampo (che immagazzina l’informazione spaziale)
più ampia rispetto a guidatori comuni94. L’Io si rivela, perciò, il derivato degli
stadi di formazione dell’individualità, a loro volta legati allo sviluppo del cervello
e del comportamento. Gerald Edelman afferma che già dalle prime fasi dello
sviluppo i segnali dal corpo al cervello e quelli tra aree cerebrali creano la
possibilità dell’emergere della coscienza, che si manifesta come un processo
graduale.
Il legame tra coscienza e cervello è perciò biunivoco: le modificazioni dell’uno si
rispecchiano nell’altro.
Ma è possibile localizzare anatomicamente un “centro della coscienza”? Alla luce
delle attuali conoscenze, la risposta è no. I più recenti studi sulle funzioni
esecutive che sono assimilabili all’Io (memoria, apprendimento, decisioni,
linguaggio, senso di gratificazione, formulazione di obiettivi) mostrano come un
ruolo fondamentale è ricoperto dalla corteccia frontale e prefrontale.95 Altri studi
però ci dicono anche che aree cruciali per la coscienza sono quelle maggiormente
coinvolte nelle emozioni, ossia le strutture subcorticali, di cui il sistema limbico
(talamo, amigdala, ippocampo).96 Ciò che emerge dunque è che il manifestarsi di
92Ivi, p. 67.93E. R. Kandel, Psychiatry, Psychoanalisis and the New Biology of Mind, American Psychiatric Publishing, Washington, DC., 2005. 94N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit..95A. Oliverio, Prima lezione di neuroscienze, Editori Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 82.96M. Marraffa, A. Paternoster, Persone, menti, cervelli, Mondadori, Milano, 2012, p. 185-186.
42
stati mentali coscienti richiede l’attivazione simultanea di diverse aree cerebrali.
La coscienza non è qualificabile come una singola funzione mentale, bensì essa
interseca differenti funzioni psicologiche: si può distinguere una coscienza
uditiva, visiva, e via dicendo, ma sono tutti meri aspetti specifici di un fenomeno
più ampio e irriducibile.97 Secondo Daniel Dennet, gli stati mentali di cui siamo
coscienti sono quelli che hanno “conquistato” l’attenzione consapevole a discapito
di altri: nel suo modello delle “molteplici versioni”, vi sono una miriade di
“agenzie cognitive subpersonali” parallelamente attive che competono per
guadagnare il centro della consapevolezza. Chi vince è quel contenuto mentale
che ha una maggiore capacità di influenzare altri contenuti, entrando in diversi
processi. Per Dennet, perciò, la coscienza non è una proprietà dei processi
cerebrali, ma la “misura” dei contenuti mentali più influenti ed è distribuita nei
circuiti cerebrali preposti alle varie funzioni cognitive.98
Un approccio interessante alla mente e allo sviluppo dell’identità è quello del
cosiddetto “esternismo”: esso postula che la coscienza, pur avendo un’origine
neurologica, costruisce l’Io attraverso l’interazione con il mondo esterno, sia
fisico sia sociale. Per questo, si utilizza l’espressione di “estensione” della mente
nel mondo.
Sia Gerald Edelman99, sia Antonio Damasio100 hanno elaborato tesi molto simili
sui livelli della coscienza, in cui il linguaggio ricopre un ruolo cruciale. Entrambi
distinguono una coscienza “primaria” o “nucleare”, che non richiede una
componente linguistica e dà un senso di sé nel momento presente, ed una
coscienza “estesa”, che invece emerge nel momento in cui si acquisisce un
linguaggio e consente un elaborato senso di sé, un’identità, perché fornisce la
consapevolezza sia dei momenti passati, sia di quelli futuri. Il linguaggio permette
narrazioni verbali su un piano interiore (l’autonarrazione) e su un piano sociale:
l’interazione con gli altri individui consente di distinguere meglio noi stessi, di
conseguenza un livello maggiore di autocoscienza.
97Ivi, p. 177.98Ivi, p. 181.99G. Edelman, The Remembered Present, Basic Books, New York, 1989.100A. Damasio, The Feeling of What Happens, Harcourt Brace, New York, 1999.
43
Il neuroscienziato italiano Giulio Tononi, che ha collaborato per molto tempo con
Edelman, ha proposto che l’emergenza dell’esperienza cosciente sia strettamente
associata all’integrazione delle informazioni, la caratteristica che determina il
senso di unità dell’esperienza e del sistema stesso.101
Un modello esternista che sta raccogliendo molti consensi nella comunità
internazionale è la “tesi della mente estesa”, elaborata da David Chalmers e Andy
Clark, delineata in un loro articolo, “The Extended Mind”.102 In tale modello,
vengono ripensati i confini della mente: essa non è completamente contenuta
all’interno della scatola cranica, bensì la trascende e “si riversa” nel mondo.
Secondo Chalmers e Clark, la mente si compone di tutto ciò che l’arricchisce: ne
diventano parte integrante l’ambiente con cui interagiamo ed ogni strumento
utilizzato. Dal linguaggio ai calcolatori, dai libri ai computer, ciascuno
contribuisce a formare e potenziare i processi cognitivi: permettendo una
“rappresentazione esterna” dei nostri pensieri, possiamo ulteriormente elaborarli,
in modo tale da consentire un “rientro” dell’informazione, che modifica la loro
originaria “rappresentazione interna”. L’intelletto dell’uomo si configura come
una “macchina cognitiva distribuita”103: l’utilizzo di strumenti porta a “pensare”
con essi104.
Inoltre, secondo Clark, l’uomo è un animale che per natura vive in società,
dunque, per comprendere le dinamiche mentali umane bisogna tener conto anche
del contesto socio-culturale di appartenenza. In tale ottica, le comunità e le
strutture della società in generale si rivelano “ambienti cognitivi”105, in cui la
conoscenza viene “accumulata” e “condivisa” tra i membri che vi partecipano.
Di simile opinione è Alva Noë, secondo il quale la coscienza non sopravviene al
solo cervello, ma alla complessa struttura di relazioni dinamiche tra cervello,
corpo e mondo.106
101G. Tononi, The information and integration theory of consciousness, in M. Velmans, S. Schneider (a cura di), The Blackwell Companion to Consciousness, Blackwell, Oxford, 2007, p. 287-299.102D. Chalmers, A. Clark, The Extended Mind, in “Analysis”, n. 58, cit., p. 7-19.103A. Clark, Being There, Cambridge, MA, MIT Press, 1997.104N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 47.105Ivi, p. 50.106A. Noë, Out of our Heads. Why You Are Not your Brain and Other Lessons from the Biology of Consciousness, MacMillan, New York, 2009.
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Negli ultimi anni, si è delineata la cosiddetta “psicologia evoluzionistico-
culturale”, che ipotizza un’influenza sull’identità, con effetti a livello neurologico,
da parte della cultura da cui si proviene. Si ritiene che la variazione culturale abbia
effetti sui processi cognitivi preposti all’utilizzo delle strategie per svolgere una
data funzione psicologica (l’uso di categorie, il ragionamento induttivo, ecc.).
Dato che ogni strategia non è adatta a qualsiasi tipo di ambiente, gli individui
ricorrono a strategie “più efficienti” a seconda del contesto ambientale. Membri di
differenti culture fanno uso di strategie diverse, in quanto più adatte a svolgere
una determinata funzione nell’ambiente d’origine.
Recenti ricerche hanno evidenziato due principali strategie di elaborazione di
informazioni: lo stile “olistico” (che comporta l’attenzione per il contesto in cui
un oggetto è collocato, la focalizzazione sulle relazioni fra gli oggetti, il ricorso
alla somiglianza per la classificazione e il ragionamento) e lo stile “analitico” (che
invece comporta l’estrapolazione dell’oggetto dal suo contesto, la focalizzazione
sulle proprietà del singolo oggetto, il ricorso a regole per la classificazione e il
ragionamento). È emerso dalle ricerche di Norenzayan, Choi e Peng che mentre le
società occidentali ricorrono di preferenza allo stile analitico, la maggior parte
delle culture del resto del mondo ricorre tendenzialmente allo stile olistico.107 Uno
studio di Hedden e colleghi, utilizzando la Risonanza Magnetica funzionale, ha
osservato che vi sono dei correlati neuronali specifici della variabilità culturale. I
soggetti sottoposti all’esperimento (asiatici orientali e americani di origine
europea) hanno mostrato, nel risolvere test che prevedevano la formulazione di
giudizi, una maggiore attività prefrontale e parietale quando ai soggetti veniva
chiesto di risolvere i compiti con la strategia non culturalmente preferita.
Viceversa, vi era un minor utilizzo di risorse neuronali quando i soggetti
ricorrevano alla strategia culturale di preferenza.108 In altri studi, sono emerse
differenze culturali anche nella concezione di sé: soggetti provenienti da culture
“analitiche” definiscono il proprio Io in base a caratteristiche individuali e
indipendenti, mentre chi proviene da culture “olistiche” possiede concetti di sé
107A. Norenzayan, I. Choi, K. Peng, Cognition and perception, in S. Kitayama, D. Cohen (a cura di), Handbook of Cultural Psychology, Guilford, New York, 2007, p. 569-594.108T. Hedden, S. Ketay, A. Aron, H.R. Markus, D.E. Gabrieli, Cultural influences on neural substrates of attentional control, in “Psychological Science”, n. 19, 2008, p. 12-17.
45
legati al ruolo e ai rapporti sociali, in termini di interdipendenza.109 Perciò, la
variazione culturale non solo modella l’identità di un individuo su un piano
psicologico, ma anche a livello neuronale, con l’effetto di approcci cognitivi e
abitudini di pensiero preferenziali a seconda della cultura d’origine.
La coscienza, perciò, ha sì un’origine biologica, ma si sviluppa grazie a fattori
esterni: emerge in un contesto relazionale e si modella attraverso
l’educazione, le abitudini personali, le relazioni sociali e il contesto culturale.110
Neuroscienze e senso comune rimangono divergenti su come la mente sia
configurata strutturalmente: composta da più meccanismi, consci e inconsci, per le
prime; un unico ente omogeneo, per il secondo. Assistiamo, però, ad un
riavvicinamento tra scienze cognitive e senso comune per quanto riguarda la
costruzione dell’identità: la nostra mente subisce gli influssi di eventi e condizioni
ambientali che sono al di là del nostro controllo, dandoci un certo carattere e
determinate abilità, ma possiamo con atti di volontà intervenire per apportare
cambiamenti. L’esercizio fisico o mentale, l’istruzione, le terapie di cura, e via
dicendo, sono strumenti che ci permettono di avere un potere modificativo sulla
coscienza e persino sull’inconscio. Una serie di ricerche hanno dimostrato che
persino la psicoterapia ha un’azione sulla corteccia prefrontale, in grado di
alterare la trasmissione di serotonina (neurotrasmettitore il cui deficit causa la
depressione) e comportare un rimodellamento sinaptico.111
In definitiva, la nostra identità, pur essendo un risultato temporaneo, in continua
evoluzione, è data dall’insieme integrato delle funzioni cognitive di cui
disponiamo: emozioni, ricordi, valori, decisioni, sensazioni. Sia che siamo noi a
guidarle a livello conscio, sia che siano loro a guidare noi a livello inconscio, le
nostre funzioni cognitive integrate sono le manifestazioni del nostro Io più
profondo e autentico. Ma, per l’appunto, la condizione indispensabile per
l’autenticità del nostro Sé è l’integrazione dei processi cognitivi: in mancanza di
essa, siamo di fronte al fenomeno detto “esaurimento o scomparsa dell’Io”,
109M. Marraffa, Evoluzione, cognizione e cultura, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 180-188.110M. Di Francesco, L’Io tra neuroni e mente estesa, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 64.111S. Ferracuti, P. Scarciglia, Prospettive future di sviluppo della psichiatria forense, in M.G. Ruberto, C. Barbieri (a cura di), Il futuro tra noi. Aspetti etici, giuridici e medico-legali della neuroetica, Franco Angeli editore, Milano, 2011, p. 45-61.
46
individui che non sono in grado di pianificare e perseguire uno scopo (come
avviene, secondo Neil Levy, nei tossicodipendenti, in cui l’unità dell’agente è
andata distrutta112) oppure, nei casi più estremi, incapaci di avere una visione
unitaria o reale del mondo esterno (come avviene nelle patologie di dissociazione
della coscienza, quali la anosognosia o il delirio di Capgras). Si ritiene che il
nostro comportamento coordinato e il funzionamento coerente della coscienza
siano dovuti all’evoluzione: un organismo che agisce in maniera non casuale ha
maggiori probabilità di sopravvivenza. A causa di un processo adattivo
filogenetico, si sarebbero così configurati meccanismi mentali che permettono un
lavoro all’unisono dei diversi moduli e aree cerebrali in cui vengono integrate
informazioni e rappresentazioni.113
Una dimostrazione sperimentale della necessaria coordinazione tra aree cerebrali è
rintracciabile nei casi di split brain, dove per necessità mediche ad un soggetto è
stato rimosso il corpo calloso (che collega e permette la comunicazione tra
emisfero destro e sinistro): le informazioni vengono elaborate parallelamente da
entrambi gli emisferi, ma non potendo comunicare tra loro diventano dei “vicoli
ciechi”, elaboratori indipendenti di informazioni, dando luogo alla possibilità in
qualche modo dell’esistenza di due “Io” (si veda per esempio il caso del “conflitto
tra le mani”, in cui una mano esegue un’azione e l’altra la ostacola).
L’origine e la sede dell’identità personale non va posta esclusivamente nella
mente o esclusivamente nel cervello, bensì nel binomio inscindibile di entrambi.
Jean-Pierre Changeux affermava “Noi siamo il nostro cervello”, ma è da
correggere in “Noi siamo il nostro cervello e la nostra mente”.
In un futuro ancora lontano, le tecnologie di neuroimaging potrebbero svilupparsi
a tal punto da permettere non solo rappresentazioni grafiche di aree cerebrali
attivate (come è oggi possibile), ma effettuare un backup delle informazioni, dei
processi cognitivi, dei pensieri, addirittura delle emozioni, contenuti nel nostro
cervello. Si potrebbe effettuare quello che si può definire un download della
nostra identità. Le implicazioni giuridiche sono evidenti: si potrebbe estendere il
diritto di proprietà ai nostri stati mentali; forse una sorta di “diritto d’autore
cerebrale”.
112N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 35.113 Ivi, p. 196.
47
Nella giurisprudenza italiana, è stato elaborato il cosiddetto “diritto all’identità
personale”, ossia il diritto di un individuo ad una descrizione di sé veritiera nella
dimensione sociale, una rappresentazione non distorta della propria personalità,
dei tratti e dei comportamenti che la distinguono. Forse un giorno sarà più corretto
definirlo “diritto alla giusta rappresentazione dell’identità personale”, mentre si
parlerà di “diritto all’identità personale” in relazione al possesso e alla proprietà
effettivi di quest’ultima.
Se queste sono prospettive ai limiti della fantascienza (per ora), già si è
cominciato a parlare di un diritto alla “privacy cerebrale” in relazione alle attuali
tecnologie di scansione cerebrale. Sono stati elaborati, per esempio, test cognitivi
che permettono di evidenziare la presenza di giudizi “razzisti” inconsci, anche in
soggetti che nella vita quotidiana non pongono in essere atteggiamenti
discriminatori (è da aggiungere che sull’affidabilità di tali test vi sono opinioni
discordanti nella comunità internazionale). Secondo alcuni autori, queste tecniche
invasive possono attentare alla privacy del nostro cervello.114 Alcuni rivendicano
la preservazione di un diritto alla “libertà cognitiva”.115 In vista di future
metodologie di “lettura della mente”, c’è da chiedersi se sia il caso di estendere la
libertà di espressione anche alla dimensione mente/cervello.
Una questione ulteriore è rappresentata da quale ruolo si debba attribuire al
concetto di “persona”116, categoria cara al pensiero etico e giuridico, con cui si
114M.J. Farah, P.R. Wolpe, New neuroscience technologies and their ethical implications, in “Hasting Center Report”, n. 34, 2004, p. 35-45.115W. Sententia, Neuroethical considerations: cognitive liberty and converging technologies for improving human cognition, in “Annals of The New York Academy of Sciences”, n. 1013, 2004, p. 221-228.116 Per un’introduzione all’argomento, si segnalano i seguenti testi:
M. Buber, Ich und Du, Insel, Lipsia, 1923;M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos, Otto Reichl, Darmstadt, 1928 (in cui
viene coniata l’espressione di “antropologia filosofica”);A. Carlini, Il problema della personalità nella storia della filosofia, in Id., Il mito del
realismo, Sansoni, Firenze, 1936;G. Marcel, Homo viator, Aubier, Parigi, 1945;G. La Pira, Il valore della persona umana, Istituto di Propaganda Libraria, Milano, 1947;E. Mounier, Le Personnalisme, PUF, Parigi, 1949; J. Maritain, La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer, Parigi, 1949;L. Stefanini, Metafisica della persona e altri saggi, Libreria Liviana, Padova, 1950;E. Levinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, La Haye, M. Nijhoff, 1961;P. Ricœur, Meurt le personnalisme, revient la personne, in “Esprit”, n.1, 1983, p. 113-
119, poi ristampato in Id., Lectures 2. La contrée des philosophes, Seuil, Parigi, 1992; A. Rigobello (a cura di), Lessico della persona umana, Studium, Roma, 1986;V. Melchiorre (a cura di), L’idea di persona, Vita e Pensiero, Milano, 1996.
48
esprime la particolare dignità riconosciuta all’uomo e il dovere di apprestarne una
adeguata tutela.117 La distinzione tra persone e non persone è alla base del nostro
intuitivo modo di concepire il mondo: il concetto di persona viene inevitabilmente
messo in crisi dalle prospettive empiriste degli studi neuroscientifici, in cui
l’identità viene fatta coincidere con una “cosa” quale è il cervello. Martha J. Farah
e Andrea S. Heberlein118 hanno ipotizzato due alternative: o una naturalizzazione
del concetto di persona o un suo definitivo abbandono. La prima prevede
l’individuazione di una “categoria reale di cose” a cui far corrispondere la nozione
di persona, con la necessità di determinare specifici criteri. La seconda opzione
invece ritiene che il concetto di persona non indichi un ente reale, ma sia una mera
modalità di interpretazione della realtà. Farah e Heberlein aderiscono a
quest’ultima ipotesi, sostenendo che l’innata tendenza umana a distinguere tra
persone e cose sia dovuta a processi istintuali, programmati geneticamente e
fissati dall’evoluzione. In particolare, le due autrici indicano la presenza di un
person network, un sistema neuronale automatico preposto all’elaborazione degli
stimoli sensoriali che ci indicano la presenza di nostri consimili, e lo pongono
come sede nelle aree cerebrali dedicate al riconoscimento dei volti. Quest’ultimo
processo cognitivo è effettivamente del tutto distinto e indipendente rispetto al
sistema di riconoscimento delle cose. Questa distinzione funzionale si ritiene che
si sia formata in ragione della sua efficacia come strategia adattativa, per favorire i
vincoli sociali e la natura gregaria dell’uomo. Alla distinzione dei due network di
riconoscimento, Farah e Heberlein riconducono perciò la nostra attitudine a
separare nettamente le persone dalle cose.
Mentre le due autrici si impegnano a dimostrare l’inconsistenza della nozione di
persona, è invece il caso di sottolineare un dato confortante di questa ricerca:
l’evoluzione ci ha programmato favorendo la propensione al legame sociale e alla
tutela reciproca. Possiamo interpretarla come la base filogenetica della
compassione verso i nostri simili; è la dimostrazione che un senso etico è insito in
noi, ad un livello assolutamente intimo quale può essere la conformazione di
117A. Da Re, L. Grion, La persona alla prova delle neuroscienze, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 109.118M.J. Farah, A.S. Heberlein, Personhood and Neuroscience: Naturalizing or Nihilating?, in “American Journal of Bioethics, Neuroscience”, n. 7, 2007, p. 37-48.
49
un’area cerebrale. È dunque innata in noi la tendenza ad accudire gli altri esseri
umani, a riconoscere come “persona” anche chi si trovi in condizioni patologiche
estreme, come lo stato vegetativo: per il nostro istinto ancestrale, meglio che una
non persona venga accudita come se fosse ancora una persona, piuttosto che
correre il rischio che una persona possa essere privata delle cure necessarie.119
Un utilizzo in chiave moderna del termine persona è suggerito da William Grey,
Wayne Hall e Adrian Carter, che propongono di ricorrere a criteri “naturalistici”
per individuare il suo referente reale: ossia la categoria di quegli esseri razionali e
autocoscienti consapevoli di se stessi come agenti con una storia e capaci di
forgiare il proprio futuro.120 In un’ottica simile, Walter Glannon propone come
criteri il possesso di autocoscienza, la capacità di interagire con gli altri e di
comportarsi in conformità a norme sociali comuni.121
Queste prospettive però rimangono nell’ambito della naturalizzazione del concetto
di persona, dove ad essere “concreti” ed “esistenti” sono i criteri, non la nozione.
Inoltre, possono essere contestati con l’accusa riduzionistica che la distinzione
persone-cose si tratti in ogni caso di un “illusione”. Un’ipotesi che sembra
sfuggire alle istanze fisicaliste è una versione di riduzionismo soft: la “teoria della
costituzione” di Lynne Rudder Baker. Secondo Baker, la caratteristica peculiare di
un essere personale è proprio la capacità di avere una “prospettiva in prima
persona”. L’essere umano ha una natura animale, ma possiede un qualcosa in più
rispetto a qualsiasi altro animale: l’unicità umana consiste nell’essere in grado di
porsi la domanda “Chi sono io?”. La “persona” è costituita da un corpo, pur non
essendo identica ad esso: essa dunque è un essere materiale con una prospettiva
soggettiva, in prima persona.122
In quest’ottica, si può così rivendicare non solo la valenza concettuale della
“persona”, ma anche una sua dimensione ontologica, che impone di riconoscere la
sua dignità e di fondare la sua tutela, etica e giuridica.
119A. Da Re, L. Grion, La persona alla prova delle neuroscienze, in A. Lavazza, G. Sartori, Neuroetica, cit., p. 116.120W. Grey, A. Carter, W. Hall, Persons and Personification, in “American Journal of Bioethics”, n. 7, 2007, p. 57-58.121W. Glannon, Persons, metaphysics and ethics, in “American Journal of Bioethics”, n. 7, 2007, p. 68-69.122L.R. Baker, Person and Bodies. A Constitution View, Cambridge University Press, Cambridge, 2000.
50
Autonomia, autocontrollo e autodeterminazione:
le decisioni tra razionalità ed emozioni
Nel precedente capitolo, abbiamo cercato di fare chiarezza sulla coscienza e
sull’identità, presentando le maggiori teorie che tentano di rispondere alla
domanda se esista una coscienza, come si esplichi e come dia forma all’identità
personale. Ma, operando una scelta, l’assunto a cui siamo giunti, ossia che
possediamo un Io cosciente, non dà una risposta diretta ad un altro quesito: chi o
cosa prende le decisioni riguardo alle nostre azioni e scelte in generale. Il timore
che provocano alcune scoperte delle neuroscienze è che a decidere non siamo noi,
ma il nostro cervello, con i suoi meccanismi automatici e inconsci. Un timore solo
in parte fondato, poiché, al contrario, altre ricerche neuroscientifiche dimostrano
che manteniamo un libero potere sul nostro agire. Ciò che innovano, semmai, è il
modo in cui dobbiamo intendere il concetto di libero arbitrio.
Una serie di esperimenti condotti da Benjamin Libet viene presentata come una
prova dell’inesistenza del libero arbitrio. Libet fu il primo ad utilizzare metodi di
indagine neurofisiologica per studiare la relazione tra l’attività cerebrale e
l’intenzione cosciente di un determinato movimento volontario. Libet scoprì che,
pochi istanti prima di compiere un movimento volontario (tra i 500 e 1000
millisecondi prima), si manifesta un’onda di attività cerebrale, il cosiddetto
“potenziale di prontezza”. Libet si propose di trovare in quel lasso minuscolo di
tempo l’istante preciso in cui prendiamo la decisione cosciente.
Misurò l’attività del cervello dei soggetti con la tecnica dell’ERP, ossia i
potenziali evocati (o legati all’evento), nell’istante in cui essi muovevano la mano
in modo volontario e cosciente. Come compito, il soggetto doveva osservare un
orologio, costituito da un cursore luminoso, e decidere in un momento liberamente
scelto di piegare il polso, memorizzando la posizione del cursore nell’istante in
cui avevano sentito l’impulso di compiere il movimento. Libet avrebbe poi
correlato la risposta del soggetto con il potenziale di prontezza registrato.
51
Libet scoprì in tal modo che le regioni cerebrali legate al movimento erano attive
prima ancora che il soggetto prendesse coscienza per la prima volta della
decisione di muovere la mano. Il potenziale di prontezza era già presente nell’area
della corteccia supplementare (zona coinvolta nella preparazione del movimento)
e l’intervallo di tempo tra l’inizio della sua attivazione e il momento della
decisione cosciente era di circa 300 millisecondi. Ne trasse la conclusione che se
il potenziale di prontezza inizia prima della consapevolezza di prendere una
decisione, allora il nostro cervello sa già quali saranno le nostre intenzioni.
Inoltre, dato che il tempo intercorso tra l’inizio del potenziale e il movimento
effettivo della mano è di circa 500 millisecondi e che l’impulso dal cervello alla
mano ne impiega circa 50-100, ne dedusse che l’Io cosciente ha a disposizione
solo 100 millisecondi per proseguire con la decisione inconscia o per impedirla.
Libet, infatti, pur negando che possediamo la libera presa di decisione
“originaria”, attribuisce all’individuo un “potere di veto” sull’attuare o no una
scelta.123
Le critiche agli esperimenti di Libet sono state numerose e fondate. Innanzitutto,
viene contestato che il risultato di Libet possa avere una valenza continua. Libet,
infatti, presentò come dati la media dei risultati di numerose prove. Se vi è in
media un potenziale di prontezza prima dell’impulso al movimento, non significa
che tale circostanza intervenga in ogni singola prova, un dato che invece sarebbe
necessario per stabilire una connessione costante.124
In secondo luogo, gli esperimenti di Libet indagano soltanto i segnali provenienti
dalle regioni cerebrali preposte al movimento. Non viene considerato in che modo
altre zone del cervello potrebbero modificare la presa di decisioni, quando invece
molte ricerche dimostrano un coinvolgimento di diverse aree della corteccia
prefrontale nelle situazioni di libera scelta.125
In terzo luogo, in tali esperimenti ai soggetti in realtà non viene chiesto di
decidere “se” compiere o meno un’azione, bensì di stabilire il “quando” metterla
in atto. La decisione conscia viene presa dal soggetto nel momento stesso in cui
123M.S. Gazzaniga, La mente etica, Codice Edizioni, Torino, 2010, p. 101-102.124J.D. Haynes, Posso prevedere quello che farai, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori, Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, cit., p. 7.125Ivi, p. 8.
52
aderisce all’esperimento.126 Sappiamo infatti che, nel preciso istante in cui
immaginiamo di realizzare un movimento, si attiva la corteccia premotoria, allo
scopo di preparare all’azione i muscoli.127
Inoltre, grazie agli studi di Giacomo Rizzolatti e della sua equipe128, è stato
individuato nel nostro cervello un meccanismo imitativo, che si suppone abbia
origini dovute all’evoluzione: la corteccia premotoria si attiva anche quando ci
limitiamo ad osservare i movimenti compiuti da altri individui, anche se noi non
abbiamo alcuna intenzione di muoverci. Ciò allo scopo di copiare e memorizzarne
lo schema. Tale meccanismo è messo in atto dai cosiddetti neuroni specchio,
presenti nella corteccia premotoria anche dei primati.
Sappiamo, dunque, che la mente è suddivisa in una parte cosciente, la
consapevolezza, e in una parte inconscia, l’insieme dei processi automatici. Una
condizione essenziale dell’agire con consapevolezza è l’esperienza della volontà
cosciente. Quotidianamente, però, viviamo situazioni in cui azione e volontà di
agire possono essere separate. Sono possibili quattro situazioni di base del
rapporto azione-volizione cosciente: la corrispondenza tra azione e sensazione di
agire (compiamo un movimento e ne siamo coscienti), l’inazione (non facciamo
nulla e ne siamo consapevoli), gli automatismi (compiamo azioni all’apparenza
volontarie, in cui invece è assente la volontà di agire) e infine “l’illusione del
controllo” (espressione utilizzata da Ellen Langer129 per indicare le situazioni in
cui si è convinti di agire mentre non si sta compiendo alcuna azione).130
In particolare, la maggiore manifestazione della volontà cosciente è la capacità di
rappresentare obiettivi e di perseguirli con corsi di azione. In altre parole, gli
individui hanno la sensazione di essere agenti causali, data la percezione del
legame tra pensiero e azione.131
126M. De Caro, Libero arbitrio e neuroscienze, in A. Lavazza, G. Sartori, Neuroetica, cit., p. 74.127A. Oliverio, Prima lezione di neuroscienze, cit., p. 45-47.128G. Rizzolatti, L. Craighero, The mirror neuron system, in “Annual Review Neuroscience”, n. 27, 2004, p. 169-192.129E.J. Langer, The Illusion of Control, in “Journal of Personality and Social Psychology”, n. 32, 1975, p. 311-328.130D.M. Wegner, L’illusione della volontà cosciente, in M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori, Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, cit., p. 21-27. 131Ivi, p. 31.
53
Molti esperimenti dimostrano come il cervello compia diverse attività neurali
prima che noi ce ne rendiamo conto, ma non per questo la nostra libertà
decisionale risulta menomata. Ad esempio, il campo visivo ci appare unitario e
continuo grazie all’integrazione delle informazioni, effettuata dai due emisferi
(ciò che è posto alla destra del punto di osservazione viene proiettato alle aree
visive nell’emisfero sinistro, viceversa ciò che si trova a sinistra viene proiettato
alle aree visive di quello destro). Tale processo di integrazione però avviene ad un
livello sub personale: ad esempio, durante la lettura di un testo, gli emisferi
effettuano uno scambio di informazioni al fine di integrarle e solo dopo 80
millisecondi l’informazione integrata arriva alla coscienza e si visualizzano,
nell’esempio, le parole intere.132 Perciò, si può dire che la sensazione di continuità
nella lettura, e nel campo visivo in genere, sia effettivamente un’illusione, per
facilitare la successiva elaborazione cosciente.
In realtà, la maggior parte delle informazioni percepite, non solo quelle visive,
viene elaborata inizialmente da meccanismi sub personali. Un controllo realmente
consapevole lo esercitiamo solo su una minoranza delle nostre azioni.133
La presenza di meccanismi inconsci, però, non deve essere utilizzata a sostegno di
una tesi che neghi la nostra autonomia. Secondo le teorie evoluzionistiche
neodarwiniane, essi sono un prodotto filogenetico della nostra capacità di
adattamento all’ambiente.
Nel corso dell’evoluzione, gli organismi più adatti alla sopravvivenza si sono
rivelati quelli i cui processi di adattamento funzionavano in termini di
“efficienza”: efficienza nel consumo di energia, efficienza nel rispondere
rapidamente a stimoli esterni, e via dicendo. L’evoluzione ha fatto in modo che la
coscienza (intesa come lo stato di consapevolezza) venga percepita dal cervello
come una “risorsa limitata” , da non sprecare con comportamenti “dispendiosi”.
Le azioni che poniamo in essere con consapevolezza e volontà sono più precise,
ma anche più lente rispetto alle azioni che avvengono in maniera automatica. Le
azioni automatiche, infatti, richiedono una minore elaborazione di dati e
consentono una maggiore rapidità di reazione agli stimoli.
132M.S. Gazzaniga, La mente etica, cit., p. 103.133J.A. Bargh, T.L. Chartrand, The Unbearable Automaticity of Being, in “American Psychologist”, n. 54, 1999, p. 462-479.
54
I meccanismi sub personali che le attivano hanno la funzione di permettere
all’organismo una capacità di reazione più veloce in determinate situazioni
ambientali. Inoltre, si occupano anche delle azioni più semplici che l’individuo ha
appreso.134
Un esempio semplice e diretto è la guida di un’automobile: all’inizio, si fa fatica a
coordinare tutto l’insieme di azioni da compiere (frizione, controllo della strada,
specchietti, volante, ecc.). Con l’esercizio, viene appreso come eseguirle
contemporaneamente, poiché alcune di queste azioni vengono demandate a
processi automatici (nell’esempio, coordinare frizione e cambio o frenare davanti
ad un pedone), consentendo di concentrare l’attenzione su altri stimoli che invece
richiedono consapevolezza.
Il nostro sistema nervoso ragiona tuttora in termini di “sopravvivenza”: gli
automatismi, frutto di processi di adattamento all’ambiente, si attivano in
occasione di eventi riconosciuti come pericolosi oppure nel porre in essere azioni
già ampiamente acquisite.
Ciò non toglie che la consapevolezza intervenga in varie occasioni;
semplicemente, il cervello vi ricorre per affrontare compiti più complessi ed
impegnativi, soprattutto quando si tratta di risolvere problemi nuovi. Solo quando
un dato comportamento è stato pienamente appreso, esso può essere demandato a
meccanismi automatici in un’ottica di maggiore “efficienza” e “risparmio”.135
Dall’integrazione dei diversi meccanismi sub personali, emerge l’agente
personale, in grado di comporre e unificare desideri, volontà e azioni secondo una
pianificazione a lungo termine.
Caratteristica peculiare dell’agente è soprattutto l’autonomia. Quest’ultima
richiede diverse condizioni di competenza: uno stato minimo di salute, la capacità
di pensiero razionale, autocontrollo, l’elusione dell’autoinganno. Nonché,
condizioni di autenticità: la capacità di riflettere sui propri desideri e di aderire ai
propri valori.136
Secondo Neil Levy, un esempio di agente “disgregato” è il tossicodipendente, che
seppur sinceramente intenzionato a smettere di assumere droga, non riesce perché
134N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 26-30.135Ibidem.136A. Lavazza, Che cosa è la neuroetica, in A. Lavazza, G. Sartori, Neuroetica, cit., p. 28.
55
incapace di estendere la sua volontà nel tempo e ai sotto-agenti che lo
costituiscono, portandolo dunque a cambiare continuamente propositi.137
A tale proposito, recentemente si è scoperto che la “forza di volontà”, un concetto
percepito dal senso comune come astratto, è una risorsa disponibile in quantità
limitata nel tempo e diminuisce a seguito di un suo sforzo prolungato.138 Si è
osservato, però, in relazione alla capacità di autocontrollo che, mentre dopo un
uso intenso si esaurisce nel breve termine, il suo esercizio ne fa crescere la
diponibilità sul lungo termine.139 Alcune ricerche recenti mostrano il dato
interessante secondo cui i processi consci alla base di azioni volontarie sarebbero
sensibili alle fluttuazioni di glucosio nel sangue, molto di più rispetto ai processi
automatici.140 In particolare, si è scoperto che, tra i processi consapevoli, lo sforzo
di autocontrollo dipende fortemente dalla disponibilità di glucosio e ne comporta
un consumo impressionante.141 Il fenomeno del cosiddetto “esaurimento dell’Io”142
(espressione con cui ci si riferisce alla perdita di controllo di sé) potrebbe perciò
dipendere da cadute di glucosio nel sangue. Inoltre, con l’utilizzo della tomografia
a emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale, si è ipotizzato quale
possa essere la sede cerebrale della forza di volontà, ossia la corteccia del cingolo
anteriore e la corteccia prefrontale (attive durante test di autocontrollo, inerti
invece durante comportamenti automatici).143
Nel caso della tossicodipendenza, una sua interpretazione “organica” è stata
offerta da David Redish: a suo parere, la dipendenza da droghe, come cocaina ed
eroina, provoca un deragliamento del sistema dopaminergico. Il rilascio di
dopamina avviene in occasione di esperienze gratificanti ed ogni nuova scarica di
questo neuromodulatore provoca un rafforzamento nel cervello della valutazione
positiva di quel determinato evento gratificante. Secondo Redish, perciò, ad ogni 137N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 35; 210-214.138A. Lavazza, Che cosa è la neuroetica, in A. Lavazza, G. Sartori, Neuroetica, cit., p. 33.139B.J. Schmeichel, R.F. Baumeister, Self-regulatory strength, in R.F. Baumeister, K.D. Vohs, Handbook of Self-Regulation, Guilford Press, New York, 2004, p. 84-98.140S.H. Fairclough, K. Houston, A metabolic measure of mental effort, in “Biological Psychology”, n. 66, 2004, p. 177-190.141M.T. Gailliot, R.F. Baumeister, C.N. DeWall, J.K. Maner, E.A. Plant, Self-control relies on glucose as limited energy source: willpower is more than a metaphor, in “Journal of Personality and Social Psychology”,n. 92, 2007, p. 325-336.142R.F. Baumeister et al., Ego-depletion: is the active self a limited resource?, in “Journal of Personality and Social Psychology”, n. 74, 1998, p. 1252-1265.143J. Zhu, Locating volition, in “Consciousness and Cognition”, n. 13, 2004, p. 302-322.
56
nuova assunzione di sostanze psicotrope il cervello del tossicodipendente rilascia
ulteriore dopamina, accrescendone la preferenza rispetto ad altri stimoli e
diminuendo in tal modo la volontà di smettere dell’individuo.144
È da chiedersi se i casi in cui assistiamo ad un esaurimento dell’Io, tra i quali la
tossicodipendenza è il più esemplificativo, possano portare ad una esclusione
totale di responsabilità. Secondo Neil Levy, la dipendenza e le altre ipotesi di
scarso autocontrollo possono condurre al massimo ad una riduzione della
responsabilità: ogni individuo, anche il tossicodipendente, mantiene comunque la
possibilità, seppur per brevi periodi di tempo, di modificare l’ambiente
circostante, allo scopo di favorire una reintegrazione del suo autocontrollo.145
Nel pensiero occidentale, è radicata la convinzione che, nell’affrontare problemi e
prendere decisioni, si ricorra a valutazioni razionali e deliberate. Oggi, invece, è
stato assodato che nei processi di giudizio, di decisione e previsione del rischio un
ruolo fondamentale è ricoperto dalla componente emozionale.
Le emozioni sono definibili come “stati complessi dell’organismo, caratterizzati
da modificazioni dell’attività del sistema nervoso autonomo associate a specifiche
tendenze all’azione, distinte espressioni comportamentali e determinate esperienze
affettive soggettive”.146 Nella letteratura di settore, si tende a distinguere due
categorie di emozioni: gli “stati emozionali incidentali” e le “risposte affettive
integrali”. I primi non sono specificamente legati all’oggetto del giudizio o della
decisione, bensì corrispondono allo stato d’animo, al temperamento, alle
disposizioni emozionali o a fattori contestuali.
Le seconde, invece, sono stati affettivi suscitati dalle caratteristiche (reali o anche
solo immaginate) dell’oggetto del giudizio o della decisione.147
144D. Redish, Addiction as a computational process gone awry, in “Science”, n. 306, 2004, p. 1944-1947.145N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 214-220.146K.T. Strongman, The psychology of emotion, Wiley, New York, 1987 (la definizione tradotta è ripresa da R. Rumiati, L. Lotto, Decisioni e decisioni morali, tra razionalità ed emozioni, in A. Lavazza, G. Sartori, Neuroetica, cit., p. 201).147J.B. Cohen, M.T. Pham, E.B. Andrade, The nature and role of affect in consumer judgement and decision making, in C.P. Haugtvedt, P.M. Herr, F.R. Kardes, Handbook of Consumer Psychology, Erlbaum, Mahwah (New Jersey), 2007.
57
Secondo M.T. Pham, le emozioni svolgono un ruolo primario quando le scelte
razionali di comportamento coinvolgono obiettivi sociali, principi morali e in
generale motivazioni altruistiche.148
Confermando un assunto già acquisito a livello di senso comune, gli stati
emozionali incidentali di particolare intensità possono pregiudicare la capacità di
ragionamento logico o di percezione delle qualità di un oggetto. Ad esempio,
individui ansiosi hanno più difficoltà a ricordare e organizzare informazioni149 e a
valutare la validità dei ragionamenti150.
Le risposte emozionali integrate hanno una funzione significativa nella capacità di
valutazione: giudizi e decisioni basati su di esse richiedono un minore impiego di
risorse cognitive e vengono prese più rapidamente151; i comportamenti attuati sono
più intensi quando l’informazione ha un impatto emozionale forte152. Valutazioni e
decisioni “emotive” tendono, però, a distorcere il modo in cui soppesiamo
punizioni e ricompense nel breve e nel lungo termine: si preferisce compiere una
scelta, anche costosa, per goderne benefici immediati, piuttosto che posticipare nel
tempo, pur sapendo che i costi diminuirebbero. Si ritiene che sia dovuta alla
difficoltà di percepire un’esperienza affettiva nel futuro. Inoltre, le risposte con
una forte componente emozionale sono insensibili alle variazioni di grandezza e
probabilità: ad esempio, la consapevolezza di una minaccia imminente crea un
livello di stress identico a prescindere dal fatto che le possibilità effettive che si
realizzi siano del 5%, del 50% o del 100%.153
Uno dei contributi maggiori allo studio delle emozioni nei processi decisionali è
offerto dal neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, che ha condotto ricerche
su pazienti con danni alla corteccia prefrontale ventromediale. In particolare, si è 148M.T. Pham, Emotion and rationality: A critical review and interpretation of empirical evidence , in “Review of General Psychology”, n. 11, 2007, p. 155-178.149J.H. Mueller, Anxiety and cue utilization in human learning and memory, in M. Zuckerman, C.D. Spielberger, Emotions and anxiety: New Concepts, methods and applications, Erlbaum, Potomac (MD), 1976.150S. Darke, Effects of anxiety on inferential reasoning task performance, in “Journal of Personality and Social Psychology”, n. 55, 1988, p. 499-505.151S. Epstein, Cognitive-experiential self-theory, in L.A. Pervin, Handbook of Personality: Theory and Research, Guilford Press, New York-London, 1990.152R. Nisbett, L. Ross, Human Inference: Strategies and Shortcoming of Social Judgement, Prentice Hall, Englewood (NJ), 1980.153A. Monat, J.R. Averill, R.S. Lazarus, Anticipatory stress and coping reactions under various conditions of uncertainty, in “Journal of Personality and Social Psychology”, n. 24, 1972, p. 237-253.
58
dedicato allo studio del caso di Phineas Gage, operaio rimasto ferito in un
incidente ferroviario nel 1848, nel corso del quale una sbarra di ferro si conficcò
nel suo cranio. Sopravvissuto, si riprese in salute, ma riportò un drastico
cambiamento di personalità: da lavoratore coscienzioso divenne dissoluto e
incapace di portare avanti piani a lungo termine.
Dai recenti studi di Damasio, è emerso che mutamenti di carattere sono una
conseguenza tipica nei soggetti con lesioni ventromediali, individui la cui capacità
di prendere decisioni con effetti a lungo termine è fortemente menomata. Il dato
interessante, però, è che ad essere danneggiata non è la razionalità, bensì il
rapporto tra cervello e corpo.
A seguito di un esperimento, in cui i soggetti dovevano partecipare ad un gioco di
carte e contemporaneamente venivano misurate le risposte di conduttanza elettrica
dei loro corpi (una risposta somatica autonomica a stimoli esterni, troppo tenue
perché noi possiamo esserne coscienti), Damasio ha mostrato come le loro
decisioni venissero guidate da intuizioni, prese dal cervello prima che
raggiungessero la consapevolezza. Nell’esperimento, erano le risposte galvaniche,
antecedenti all’intuizione, ad indirizzare verso decisioni con un minor fattore di
rischio. Nel valutare una situazione, la scelta più vantaggiosa viene suggerita dal
corpo, attraverso le risposte somatiche, prima ancora che un individuo abbia una
comprensione esplicita del contesto.
Nello stesso esperimento, è emerso che pazienti con lesioni ventromediali, invece,
non cambiavano comportamento, a differenza dei soggetti sani, come se non
percepissero il fattore di rischio. Questo perché, nonostante il sistema autonomico
non fosse danneggiato (dato che mostravano risposte galvaniche quando durante il
gioco perdevano), a non funzionare correttamente era la risposta galvanica “in
anticipo”, cioè non ricevevano i segnali di preavviso che invece sono presenti nei
soggetti normali e che inducono a non compiere certe azioni.154 Bechara ipotizza
che ciò sia dovuto al fatto che la corteccia prefrontale ventromediale immagazzina
la conoscenza che riflette le inclinazioni del soggetto; conoscenza che attiva parti
del cervello preposte al corretto funzionamento del sistema autonomico. Perciò,
tali pazienti sono privi di una fonte di informazione vitale, che li porta ad
154A. Damasio, Descartes’ Error: Emotion, Reason, and the Human Brain, cit..
59
incontrare molta più difficoltà ad avere intuizioni verso le scelte più
vantaggiose.155
A seguito di questi dati, Damasio ha teorizzato la somatic-marker hypothesis,
l’ipotesi degli indicatori somatici, in base alla quale le risposte sensoriali del corpo
vengono da noi utilizzate nel valutare nuovi modi di agire e ci permettono di
individuare le decisioni più vantaggiose da prendere.
Esiste un contesto in cui razionalità ed emozioni possono entrare in conflitto e
rendere difficoltosa una decisione: si tratta del giudizio morale, che implica
valutazioni etiche su fatti e comportamenti.
Tradizionalmente, il modello di giudizio morale era quello kantiano, in cui la
formulazione del giudizio era basato in modo preminente sulla razionalità. Ad
esempio, secondo Kohlberg156 sono i processi di ragionamento a generare il
ragionamento morale, da cui deriva il giudizio morale; le emozioni morali non
ricoprono alcun ruolo, tranne quello di stimolare il processo di ragionamento.
Attualmente, invece, sempre grazie al contributo di Damasio, è stata rivalutata la
valenza delle emozioni, dell’affettività e delle intuizioni. Secondo il nuovo
orientamento, il giudizio morale è il prodotto di intuizioni automatiche rapide e i
ragionamenti morali sono spesso costruzioni a posteriori, dopo che il giudizio è
stato già formulato. Quando si trovano di fronte a decisioni con implicazioni
etiche, gli individui avvertono innanzitutto una reazione emozionale e solo in
seguito tentano di giustificarla con argomentazioni razionali.
Greene e altri neuroscienziati157 hanno ricercato i meccanismi neuronali alla base
delle decisioni morali, concentrandosi sulle aree cerebrali preposte
all’elaborazione delle emozioni. Utilizzando come test i dilemmi morali discussi
da Thomson158, Greene ha osservato che i giudizi morali variano a seconda che
essi prospettino situazioni personali o situazioni impersonali. Le prime consistono
in situazioni in cui il soggetto deve immaginare di causare un danno grave, verso
una o più persone specifiche, in maniera diretta (ossia, senza la mediazione di
155A. Bechara, H. Damasio, D. Tranel, A. Damasio, Deciding advantageously before knowing the advantageous strategy, in “Science”, n. 275, 1997, p. 1293-1295. 156L. Kohlberg, The Psychology of Moral Development, Harper & Row, San Francisco, 1987.157J.D. Greene, R.B. Sommerville, L.E. Nystrom, J.M. Darley, J.D. Cohen, An fMRI Investigation of emotional engagement in moral judgment, in “Science”, n. 293, 2001, p. 2105-2108.158J.J. Thomson, Rights, Restitution, and Risk, Harvard University Press, Cambridge, 1986.
60
strumenti). Nelle seconde, invece, manca uno dei tre elementi (danno grave, verso
persone, diretto). Dallo studio di Greene è emerso che in situazioni impersonali
prevale una logica costo/beneficio di tipo utilitaristico, per cui la violazione del
principio morale è giustificabile (ad esempio, tirare una leva per deviare un treno
e provocare la morte di una persona per salvarne cinque). Nelle situazioni
personali, invece, i soggetti provano un senso di disagio e incertezza, in cui
prevale la reazione emotiva ed emerge un atteggiamento compassionevole (ad
esempio, per fermare un carrello in corsa, spingere giù da un ponte un uomo
grasso). Si manifesta, in altre parole, l’empatia.
Alcuni studi distinguono la componente emozionale in emozioni di base (paura,
disgusto, ecc.) e in emozioni morali (colpa, vergogna, orgoglio, simpatia/empatia,
gratitudine, ecc.). Quest’ultime si caratterizzano per il loro legame con l’interesse
e il benessere della collettività o di altri individui.159 Le emozioni sono in tal modo
l’innesco della capacità morale a livello neurobiologico.160
Gli studi di Rizzolatti sui neuroni specchio indicano che l’empatia sorge ad un
livello neurobiologico inconscio, ossia quello dell’associazione passiva del corpo
di un soggetto e di quello di un altro nell’azione o espressione percepita.161
L’empatia potrebbe diventare perciò un nuovo fondamento dell’etica, in ragione
delle sue implicazioni intersoggettive e sociali.162
Alla luce di tutto ciò, il nostro libero arbitrio deve essere riletto.
Innanzitutto, abbiamo sfatato il timore che siano i meccanismi inconsci a
comandare il nostro comportamento: i processi automatici sono preposti soltanto
alle azioni più semplici o a quelle abitudinarie. Decisioni complesse e con effetti a
lungo termine sono devolute dal cervello stesso alla coscienza, proprio perché non
richiedono un’elaborazione istantanea. Esempi di scelte di questo tipo vanno
dall’università in cui studiare al tipo di macchina da acquistare. Nessun
meccanismo inconscio comanda decisioni del genere; a guidarle sono le
159J. Moll, R. De Oliveira-Souza, R. Zahn, J. Grafman, The cognitive neuroscience of moral emotions, in W. Sinnot-Armstrong (a cura di), Moral Psychology, vol. 3, The Neuroscience of Morality: Emotion, Brain Disorders, and Development, MIT Press, Cambridge, 2008, p. 1-33.160L. Boella, La morale e la natura, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 103.161G. Rizzolatti, L. Craighero, The mirror neuron system, in “Annual Review Neuroscience”, n. 27, cit., p. 169-192.162L. Boella, La morale e la natura, in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di), Neuroetica, cit., p. 104.
61
preferenze personali, sviluppate nel corso degli anni in relazione alle esperienze
vissute e ai valori individuali.
In secondo luogo, abbiamo avuto la conferma del ruolo delle emozioni nel
formulare giudizi e scelte. Si può dire, come conseguenza negativa, che possono
portarci a compiere gesti avventati, sull’onda di sentimenti intensi. Ma si può
proporre una suggestiva alternativa: essere liberi consiste nello scegliere in base
ad una volizione fredda e puramente logica o in base al nostro vero Sé? A mio
parere, è corretto affermare che gli ideali e i valori di un individuo, in condizioni
normali di salute, vanno ad incidere su tutte le componenti del suo Io, in primo
luogo la componente emozionale. Una persona mossa da convinzioni altruistiche è
portata a giudicare con compassione e comprensione altri individui e determinati
eventi; un’altra, più incline a scopi utilitaristici, è più probabile che davanti alla
medesima situazione guardi al suo tornaconto personale. In entrambi i casi, i
differenti giudizi esprimono comunque l’identità individuale.
Altro discorso se parliamo di individui in stati patologici, di natura mentale o
cerebrale: in questi casi, il libero arbitrio è effettivamente menomato e a seconda
del tipo di malattia o lesione potrebbe essere solo ridotto o del tutto escluso.
Per quanto riguarda le azioni che pongono in essere un crimine, ne parleremo più
avanti, ma è utile introdurre un concetto: la correlazione non è causazione. Il
compimento di un’azione e l’attivazione di un’area cerebrale non comporta
necessariamente un nesso causale. Le cause intese deterministicamente non vanno
identificate con i fattori che possono aver contribuito all’esplicarsi di un
comportamento. Anche in psicopatologia è stata accolta la nozione di
“multifattorialità” e l’anomalia biologica viene intesa come un fattore di rischio,
in termini di probabilità, non di certezza assoluta.163
Parlare di “illusione del libero arbitrio” ha senso solo nel significato che l’essere
umano non gode di una libertà “assoluta”. Esiste esclusivamente una libertà
“condizionata” e i fattori che condizionano sono innumerevoli: stato di salute,
eredità biologica, istruzione, categoria sociale, benessere economico,
appartenenza a sottoculture, e via dicendo. Un maggiore o minor grado di
condizionamento vale per ogni decisione e comportamento. L’uomo è libero, ma
163I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, cit., p. 99.
62
nelle situazioni concrete in cui si viene a trovare ha limitate possibilità di scelta:
più il numero delle possibilità è ampio, più grande è la sua libertà. Ma le sue
scelte, i suoi sforzi di volontà, possono aumentare la quota di libertà di cui
disporre.164 In tal senso si esprime anche Geymonat, quando afferma che la libertà
è costituita dallo “stato di cose”, ossia i condizionamenti biologici, fisici, sociali,
situazionali. L’agire dell’uomo rimane all’interno delle iniziative compatibili con
lo stato di cose: guadagnare la libertà consiste nel lottare per ampliare il campo di
iniziative possibili.165
Tutti questi condizionamenti sono fattori che però si limitano appunto a
condizionare, non a causare le decisioni dell’uomo: diminuiscono le possibilità,
ma non le annullano.
L’uomo deve dunque rinunciare alla presunzione che “libertà” significhi “potere
assoluto” e accettare invece che essere liberi consista nel poter scegliere e nel
poter ampliare con la sua volontà le possibilità di scelta.
Neuroscienze e diritto
Una relazione complessa
164F. Mantovani, Il problema della criminalità, CEDAM, Padova, 1984.165L. Geymonat, La libertà, Rusconi, Milano, 1988.
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Il confronto tra diritto e neuroscienze cui oggi assistiamo deriva dall’identità
dell’oggetto d’indagine di entrambi: l’essere umano e il suo comportamento. Non
è la prima volta che il diritto si trova ad affrontare le risultanze della ricerca
scientifica: già la teoria dell’evoluzione di Darwin prima, la psicoanalisi di Freud
dopo, avevano ribaltato le convinzioni comuni sulla natura e le ragioni della
condotta umana. Nessuno sconvolgimento, però, ne era derivato per la costruzione
giuridica. Al contrario, il sapere neuroscientifico contemporaneo pone in crisi
assunti fondamentali per l’ordinamento giuridico.
Il confronto, che sfocia in conflitto per molti aspetti, nasce infatti dalla diversa
“immagine” dell’essere umano che diritto e scienza possiedono.
L’immagine giuridica si basa su una concezione “intuitiva” dell’uomo e del suo
comportamento, con ipotesi e presunzioni tipiche della cosiddetta “psicologia del
senso comune”, che fa affidamento su entità inosservabili (ad esempio, la mente).
L’immagine scientifica, invece, si basa su concetti empirici, dimostrabili
sperimentalmente, e per certi versi controintuitivi (ad esempio, l’assenza di un sé
integrato o la riduzione degli stati mentali a processi fisici).
Perciò, è proprio a livello concettuale che visione giuridica e visione scientifica si
contrappongono.
“L’uomo scientifico” viene spiegato in base al funzionamento cerebrale, in cui la
mente coincide con il substrato materiale. La coscienza come centro uniforme ed
unico viene definita un’illusione, a fronte di un modello del sé frammentato,
incoerente e mutevole: ne deriva una soggettività indebolita. Azioni e decisioni
non sono “attribuibili” con certezza ad un individuo, dato che la maggior parte di
esse è frutto di processi non controllabili. Molte posizioni scientifiche riprendono
e affermano un rigido nesso di causalità fisica, in cui svanisce ogni spazio di
autonomia; l’individuo viene ridotto e studiato nei suoi minimi termini,
esaminando patrimonio genetico e correlati neurali. La stessa “lucidità” del
processo decisionale viene messa in dubbio, a causa del forte ruolo delle
emozioni, risposte innate, spontanee e preriflessive. Soprattutto, l’approccio
scientifico si distingue per la intrinseca peculiarità di studiare il comportamento
limitandosi a descrizioni e a classificazioni, e non ricorrendo a “valutazioni”.
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“L’uomo giuridico”, al contrario, ha tra i suoi presupposti la presenza di una
mente autonoma (in senso funzionale) dal cervello, pur essendo questo necessario
per la sua sussistenza e potendola influenzare. Ogni persona è dotata di un sé
unitario e stabile, capace di discernere e guidare il suo agire. Tipicamente, il
diritto concepisce le decisioni e le azioni di un soggetto come il prodotto di una
rappresentazione mentale razionale, anteriore al loro compimento, e sulle quali
manteniamo il controllo: in altre parole, un modello di agentività cosciente. La
regola è l’uomo “capace”, in grado di dominare e di imporre la sua signoria sulle
proprie linee di condotta; si manifesta come eccezione, invece, l’uomo incapace di
intendere e di volere. Significativa, inoltre, è la previsione in diritto penale
dell’ininfluenza degli stati emotivi e passionali sull’imputabilità (art. 90 c.p.), pur
essendo configurate alcune fattispecie “emotive”, quali per esempio le attenuanti
della provocazione o della suggestione di una folla in tumulto. Perciò, il diritto
presume che ogni individuo adulto sano di mente sia libero, o meglio abbia la
possibilità di scegliere tra differenti corsi di azione. La presunzione giuridica si
estende anche al possesso di capacità razionali critiche verso le proprie decisioni
in ogni essere umano maggiorenne. Da ciò, deriva la responsabilità personale per
la propria condotta. Infine, il diritto ha la funzione caratteristica di non fermarsi a
mere descrizioni dei comportamenti umani, bensì di valutarli alla luce di ciò che è
lecito o illecito.166
L’attacco mosso dai sostenitori della prospettiva scientifica consiste
nell’evidenziare come molti assunti del modello giuridico siano falsi e infondati,
soprattutto oggi di fronte alle più recenti scoperte neuroscientifiche. In molti, tra
neuroscienziati e giuristi, auspicano un’introduzione massiccia delle neuroscienze
nel diritto ed una conseguente rivisitazione di categorie ed istituti giuridici (se non
addirittura una rivoluzione dell’intero ordinamento). Il rischio, però, è di giungere
a conclusioni non sufficientemente ponderate, nell’atmosfera di un entusiasmo
che nei suoi eccessi si tramuta in una pericolosa “neuromania”. Una regola insita
nello spirito della ricerca scientifica è il principio per cui essa è in continua
evoluzione: concetti e dati oggi considerati fondamentali potrebbero essere
stravolti e negati un domani. Negli ultimi due secoli abbiamo assistito a diverse
166 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, Codice edizioni, Torino, 2012, p. 15.
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“rivoluzioni copernicane”, dalla teoria evoluzionistica di Darwin alla psicoanalisi
di Freud fino al modello della relatività di Einstein e alla meccanica quantistica. Si
potrebbe dire che la scienza cerca sempre di contraddire se stessa: la sete di
progresso e il metodo sperimentale portano alla creazione di modelli concepiti ab
origine per essere validi “fino a prova contraria”, fino a quando non vengono
smentiti da ipotesi e costruzioni più affidabili. È proprio questo il concetto chiave:
la scienza ricerca una certezza in chiave di “maggior affidabilità allo stato attuale
delle conoscenze”, non una certezza “assoluta”, che una volta scoperta è data una
volta per tutte. La scienza presuppone la possibilità di progresso, in qualsiasi suo
ambito. Perciò, ricollegandoci con le neuroscienze, è legittimo suggerire di usare
molta cautela nell’accogliere certe risultanze odierne: un domani potrebbero
essere a loro volta negate.
Se effettivamente il diritto ricorre ad un modello psicologico umano
“semplicistico” (paragonato ad altri), ciò non vuol dire che ricorrervi sia
totalmente sbagliato. Quella che si può definire “psicologia del diritto” postula
che l’essere umano sia “un agente razionale, capace di scegliere autonomamente
sulla base delle proprie credenze, desideri ed intenzioni”167. Quello che a molti
sfugge, o che fingono di non notare, è che il ragionamento giuridico possiede
necessità nettamente differenti da quelle della mentalità scientifica. La scienza è
votata alla ricerca continua di nuovi assunti, come dicevamo, più affidabili. Il
diritto, al contrario, ha come scopo la predisposizione di stabili modelli di
riferimento per la società. Il diritto deve essere un punto fermo e sicuro, che
assicuri chiarezza sul quadro normativo e certezza nell’applicazione della legge.
La scienza deve ricercare la “verità ultima” sulla natura del Tutto, e nel farlo è
inevitabile che incorra in errori o incertezze. Il diritto, invece, deve mantenere
l’equilibrio e l’armonia tra i consociati attraverso l’applicazione delle norme, in
una continua aspirazione alla giustizia. Pur potendosi configurare concettualmente
come una “ricerca”, nella realtà fattuale il diritto “tenta” di avvicinare l’apparato
normativo e le esigenze della collettività al principio di giustizia. Ma non si può
parlare (ed è legittimo domandarsi se sarà mai possibile) di una totale
167 A. Bianchi, Introduzione. Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. XX.
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identificazione tra Legge e Giustizia. Sicuramente, però, permane come
aspirazione.
Un’altra differenza fondamentale tra modello scientifico e modello giuridico
dell’uomo la si trova sul piano “lessicale” e “concettuale”. Il diritto opera con
concetti, quali responsabilità e imputabilità, che non appartengono alla realtà
scientifica: sono costrutti strumentali di un procedimento conoscitivo volto a
stabilire l’innocenza o la colpevolezza di un individuo. Un procedimento che
spetta unicamente alla valutazione del giudice.
Il concetto di “responsabilità”, per esempio, sfugge alla comprensione delle
neuroscienze e delle scienze naturali in generale. Esse conoscono la nozione di
“responsabilità” solo nell’accezione di “causazione” (ad esempio, il fattore
genetico x è responsabile/è causa della predisposizione y). Tale categoria in senso
giuridico, invece, va oltre; ha un’ampiezza di significato molto più vasta, cui
possono sì contribuire le neuroscienze, la psicologia, la sociologia, e via dicendo,
ma solo in minima parte. Il diritto richiede responsabilità in termini di
“appartenenza” di certe azioni ad un determinato individuo, non solo in un
semplice senso naturalistico (attribuibilità causale), ma anche in un orizzonte
etico. Posto il caposaldo fondamentale che il diritto non può atteggiarsi a “codice
etico” (ossia, non deve imporre linee di condotta riguardanti ambiti che esulano
dalla sua sfera), il giudice non è una mera bouche de la loi168, ma esprime una
valutazione, il suo giudizio, pregnante del senso etico “minimo” della collettività
cui appartiene. Non deve inficiare il suo pensiero e le sue decisioni con proprie
opinioni o convinzioni, ma deve pur sempre rappresentare il contesto culturale del
suo ordinamento giuridico. E un senso etico “minimo” è presente innegabilmente
in ogni manifestazione del diritto. Si può dire di più: è proprio questa matrice
etica viscerale ad umanizzare il diritto.
Le neuroscienze hanno dimostrato e mostrato l’esistenza di un’intuizione morale
primordiale, comune ad ogni essere umano. Nonostante le scuole di pensiero di
indirizzo neopositivista (secondo cui il diritto dovrebbe disinteressarsi delle
motivazioni ideologiche o culturali della legge; dovrebbe, in un certo senso,
168 C.-L. de Montesquieu, L’Esprit des Lois, Ginevra, 1748.
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“disumanizzarsi”)169, il diritto è forgiato da uomini ed è diretto a uomini (sia come
singoli, sia come gruppi). Non solo: il suo scopo ultimo è e deve essere
l’avvicinarsi il più possibile a “ciò che è giusto” e non fermarsi semplicemente a
“ciò che è lecito”. Uno scopo, la Giustizia, che richiede inevitabilmente un
ragionamento etico. Non un giudizio “materialistico”, di mera causa-effetto, di
“responsabilità oggettiva”; meno che mai un “accertamento scientifico”.
Forse è proprio questo il punto che segna il confine invalicabile per le
neuroscienze: esse non possono scoprire la sede cerebrale di ciò che è giusto e di
ciò che è sbagliato. Possono descriverci cosa succede a livello neurologico quando
assistiamo ad un’ingiustizia o quando la commettiamo, oppure quale regione
cerebrale si attiva mentre formuliamo un giudizio. Ma sfugge dal loro orizzonte
conoscitivo, dalla loro stessa terminologia, la Giustizia. Un meccanismo
neuronale non è giusto o sbagliato: semplicemente avviene. Sono le azioni ad
essere predicabili in termini simili (teoricamente, anche i pensieri, ma il diritto
deve essere rivolto ai comportamenti esterni, realizzati o anche solo tentati; in
questo caso, deve sì disinteressarsi ad una componente umana, ossia l’intenzione
rimasta fantasia). E il diritto possiede l’apparato terminologico e le categorie per
poter esprimere un giudizio in tal senso.
Inoltre, proprio nell’ambito delle scienze cognitive sono state avanzate diverse
ipotesi a favore di un’origine “evoluzionistica” del diritto e di un suo radicamento
a livello cerebrale.
Nell’ambito dell’antropologia giuridica, l’antropologo Alan P. Fiske170 ha
sostenuto che esistono quattro forme elementari di socialità, tra le quali figura la
“gerarchia secondo autorità”171, le quali, secondo il ricercatore, sono radicate nella
struttura dell’architettura cognitiva umana. Ci si ricollega in tal modo all’ipotesi
dell’origine evoluzionistica del diritto, elaborata nell’ambito della prospettiva
neodarwiniana della natura umana: le norme e i valori accolti emergono all’esito
di un processo di adattamento all’ambiente naturale e, soprattutto, sociale.172 Il 169 H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Franz Deuticke, Vienna, 1934.170 A.P. Fiske, Structures of Social Life. The Four Elementary Forms of Human Relations, The Free Press, New York, 1991.171 Le altre tre relazioni sociali fondamentali sono: la condivisione di beni comuni; la valutazione secondo il mercato; la comparazione secondo uguaglianza.172 S. Rose, H. Rose, Alas, Poor Darwin: Arguments against Evolutionary Psychology, Jonathan Cape, Londra, 2000.
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diritto si risolverebbe ad essere una caratteristica relazionale, un meccanismo
adattivo vantaggioso come tecnica di comportamento e di interazione
intersoggettiva.173 A dimostrazione di questo assunto, in biologia e in psicologia
evoluzionistica si afferma che gli esseri umani, in quanto animali sociali,
avrebbero la predisposizione naturale a tre regole fondamentali di comportamento:
il dovere di mantenere promesse reciproche (un concetto primordiale di
“contratto”); la necessaria volontarietà degli scambi reciproci (una base grezza per
il diritto civile e il diritto penale); il desiderio di punire le violazioni dei due
principi precedenti (una sorta di “istinto sanzionatorio”).174
Alcuni autori175 riconnettono l’origine del diritto al senso morale: comuni a tutte le
culture sono tre principi di base, ossia la cura dei propri interessi, la cooperazione
e la reciprocità; da essi derivano i precetti morali, declinati diversamente a
seconda di ogni società. A loro volta, i precetti morali danno vita alle norme, il cui
scopo principale è il mantenimento della coesione sociale e la punizione di chi
viola i codici etici. Perciò, i sistemi legali si sviluppano a partire da intuizioni
morali generali condivise. L’inclinazione umana alla cooperazione e alla
reciprocità avrebbe un’origine evoluzionistica come risposta all’ambiente: chi
coopera trae vantaggio in un contesto ostile. La cooperazione, pur nascendo come
mezzo, è diventata un fine in sé, a seguito della sua interiorizzazione dovuta alla
forte pressione selettiva verso l’interazione sociale.176
Anche il concetto di “sanzione” deriverebbe da meccanismi evolutivi dovuti alla
selezione. Essa nasce come “punizione moralistica”, provocando un
peggioramento della posizione sociale di chi viola la legge. Dapprima esercitata
da singoli individui, viene poi istituzionalizzata, affidando la coercizione ai capi
prima e allo Stato poi, al fine di impedirne l’utilizzo privilegiato da parte di
sottogruppi.177
173 M.B. Hoffman, The Neuroeconomic Path of Law, in S. Zeki, O.R. Goodenough (a cura di), Law and the Brain, Oxford University Press, Oxford, 2004, p. 3-19.174 Ibidem.175 R.A. Hinde, Law and the Sources of Morality, in S. Zeki, O.R. Goodenough (a cura di), Law and the Brain, cit., p. 37-55.176 S. Bowles, H. Gintis, A Cooperative Species: Human Reciprocity and Its Evolution, Princeton University Press, Princeton, 2011.177 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 216-218.
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Molte ricerche neuroscientifiche sembrano indicare la naturale disponibilità delle
persone a punire le violazioni di leggi (pur non ottenendone alcun vantaggio
personale)178, ma hanno anche mostrato, con l’uso della risonanza magnetica
funzionale (fMRI), le regioni del cervello che si attivano quando si giudicano le
punizioni per diverse violazioni. È emerso che la corteccia prefrontale
dorsolaterale destra è l’area maggiormente coinvolta nell’assegnazione di
responsabilità per i crimini; invece, l’amigdala e altre zone subcorticali, legate alle
emozioni, sono correlate al grado di punizione assegnato (curiosamente, maggiore
è l’attivazione, più severa è la sanzione). Tuttavia, la regione corticale opera un
controllo sull’amigdala, in modo tale che ad una prima risposta emotiva
intervenga poi una seconda valutazione, effettuata per l’appunto dalle zone
corticali (formatesi più di recente nell’evoluzione). Gli autori della ricerca, però,
tengono a sottolineare che tale reazione cerebrale non è costante nel tempo, né
uguale in ogni soggetto e in ogni situazione.179 Sarebbe interessante un
esperimento dalle modalità simili, ma avendo come soggetti dei magistrati,
avvezzi a porsi super partes e in uno stato d’animo di imparzialità, anziché
individui comuni.
Si può ipotizzare, dunque, che la concezione retributiva sia un istinto
interiorizzato, un comportamento adattativo verso il rispetto delle norme, prodotto
da meccanismi darwiniani, poi modellato dall’ambiente socio-culturale.
Tra le diverse linee di pensiero che si stanno formando nell’ambito del
neurodiritto, si scontrano da una parte i promotori di una modificazione
dell’assetto del diritto, dall’altra coloro che sostengono fermamente che sarebbe
un azzardo “maladattivo”180 o, più semplicemente, una proposta irrealizzabile.
Tra i primi, troviamo gli scienziati cognitivi Joshua Greene e Jonathan Cohen181,
fermi assertori del determinismo radicale, secondo i quali ogni scelta individuale
non è nient’altro che il risultato di processi cerebrali, a loro volta determinati, ed
178 J. Haushofer, E. Fehr, You Shouldn’t Have: Your Brain on Others’ Crimes, in “Neuron”, n. 60, 2008, p. 738-740.179 J.W. Buckholtz, C.L. Asplund, P.E. Dux, D.H. Zald, J.C. Gore, O.D. Jones, R. Marois, The Neural Correlates of Third-Party Punishment, in “Neuron”, n. 60, 2008, p. 930-940.180 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 220.181 J.D. Greene, J. Cohen, For the Law, Neuroscience Changes Nothing and Everything, in S. Zeki, O.R. Goodenough (a cura di), Law and the Brain, cit., p. 207-226.
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ogni azione è l’inevitabile prodotto finale dell’interazione tra geni e ambiente. A
loro dire, il diritto retributivo dovrebbe lasciare il posto al “consequenzialismo”.
Mentre il retribuzionismo concepisce l’uomo come dotato di libero arbitrio e
quindi meritevole di essere punito quando realizza un crimine, il
consequenzialismo parte da presupposti contrari. Nella sua forma “pura”, di
matrice utilitaristica, la prospettiva consequenzialista (che trova come suoi
antecedenti Bentham, Hobbes, Feuerbach e Franz Liszt) ritiene che il criminale è
privo di autonomia, razionalità e libertà di scelta, perciò la pena trova la sua
giustificazione nel mero raggiungimento del suo fine, qualunque esso sia.182
L’obiettivo devono essere gli effetti benefici futuri: la prevenzione con il
deterrente della pena, la sicurezza e il conforto della società con il contenimento
dei soggetti pericolosi, l’emenda del reo tramite la sanzione e la soddisfazione
delle vittime.183 Il problema tipico emergente in una tale prospettiva è la
sproporzione tra pena e reato: condotte dall’esiguo effetto lesivo vengono punite
con sanzioni esorbitanti. Spesso, inoltre, tale concezione si disinteressa
dell’effettiva colpevolezza di un individuo, avendo più importanza “immolarlo”
come esempio per gli altri consociati.184
Un altro fautore del rinnovamento radicale dei sistemi giuridici è Robert
Sapolsky185, il quale afferma che sia inevitabile, nonché la soluzione più adeguata,
la sottoposizione a isolamento e cure di soggetti antisociali con lesioni alla
corteccia prefrontale. A tale conclusione giunge a seguito delle sue ricerche sul
ruolo della corteccia prefrontale (una complessa area cerebrale preposta
all’esecuzione di comportamenti articolati, tra i quali il controllo delle risposte
emotive, delle reazioni automatiche e dell’impulsività in generale; secondo
Sapolsky, essa potrebbe corrispondere al concetto freudiano di Super-io). In
particolare, in caso di lesione di questa regione corticale, un individuo può
presentare deficit delle funzioni esecutive e l’impulsività può degenerare in
sociopatia acquisita, manifestandosi in comportamenti antisociali. Secondo lo
studioso, persone con lesioni simili non sono in grado di compiere scelte giuste,
182 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 102-105.183 Ibidem.184 Ibidem.185 R. Sapolsky, The Frontal Cortex and the Criminal Justice System, in S. Zeki, O.R. Goodenough (a cura di), Law and the Brain, cit., p. 227-243.
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pur sapendo quali esse siano: la loro perdita di autocontrollo dipende da ragioni
organiche, perciò non ha senso ritenerle “libere” e la “neutralizzazione” appare la
strada più efficace (anche se all’apparenza “disumana”, come lo stesso autore
ammette).
Sul fronte opposto, invece, alcuni giuristi e scienziati cognitivi continuano a
sostenere la validità della concezione retributiva. Tra questi, vi sono Paul H.
Robinson, Robert Kurzban e Owen D. Jones186, secondo i quali la maggior parte
dei giudizi relativi alla responsabilità legale e alla pena per gravi reati sarebbe di
natura intuitiva e non razionale. I giudizi morali, oltre ad avere una base biologica,
rifletterebbero i processi evolutivi cerebrali e anche le intuizioni circa la giustizia
sarebbero esito di meccanismi darwiniani. Perciò, l’ipotesi di Robinson, Kurzban
e Jones consiste nel ritenere che le idee di responsabilità, colpevolezza e
punizione siano sorte in virtù dei vantaggi da loro offerte in termini di stabilità
delle interazioni sociali. In altre parole, sarebbe impossibile scardinare le
intuizioni retributive innate tramite riforme giuridiche, che verrebbero percepite
dalla collettività come controintuitive. Le idee sulla giustizia radicate negli
individui sarebbero inattaccabili sia dalle influenze culturali, sia da
argomentazioni razionali; tali intuizioni, infatti, verrebbero percepite dalle persone
come dati di fatto, non come conclusioni di un ragionamento.
È doveroso, però, annotare che, nei confronti del neurodiritto e delle neuroscienze
in generale, permane forte una linea di pensiero che rifiuta un approccio
neuroscientifico ai fondamenti del diritto.187 Di tale atteggiamento, si possono
distinguere due tipologie: un rifiuto “giuridico”, secondo il quale le neuroscienze
non sono sufficientemente consolidate per dare loro rilievo nel diritto (tranne che
per pochi casi eccezionali ed esclusivamente per un loro uso strumentale-
diagnostico); un rifiuto “filosofico”, il quale respinge il determinismo in ogni sua
variante e sostiene la validità sia di un fondamento metafisico della libertà, sia del
presupposto che gli esseri umani siano agenti razionali, responsabili e, dunque,
imputabili.188
186 P.H. Robinson, R. Kurzban, O.D. Jones, The Origins of Shared Intuitions of Justice, in “Vanderbilt Law Review”, n. 60, 2007, p. 1633-1688; Id., Realism, Punishment, and Reforms, in “University of Chicago Law Review”, n. 77, 2011, p. 1611-1632.187 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 112-115.188 Ibidem.
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Tra gli esponenti della seconda linea di pensiero, possiamo portare ad esempio il
giurista Francesco D’Agostino e alcuni suoi rilievi sull’evoluzionismo
neuroscientifico in rapporto al diritto.189 Egli distingue due categorie del
paradigma evoluzionistico: una versione “debole” e una versione “forte”.
Nella sua versione debole, l’evoluzionismo pone sì come proprio fondamento il
“fatto storico” dell’evoluzione, ma ritiene che possano esservi “proprietà
emergenti” (quale la mente o il diritto) non riducibili al piano meramente
materiale. Inoltre, rimanendo entro i confini del proprio campo conoscitivo,
mantiene i caratteri di una “teoria biologica”, che può così convivere con “teorie
antropologiche”, tra le quali si pone il diritto.190
Al contrario, il paradigma evoluzionistico nella sua versione forte è prettamente
riduzionistico e qualifica come “emergenze casuali meramente psichiche” ogni
dimensione umana, come moralità e senso di giustizia, eliminandone ogni radice
metafisica. In particolare, D’Agostino critica la pretesa di dare un fondamento
neuro-biologico all’altruismo, poiché, qualificandolo come strettamente
“comportamentale”, il paradigma evoluzionistico lo svuota di ogni connotato
etico, soprattutto del connotato etico dell’intenzionalità. Ma i sostenitori di tale
modello cadono in contraddizione nel momento stesso in cui distinguono gli
atteggiamenti animali da quelli umani: mentre dei primi non si può parlare di
“malvagità” per la loro natura predatoria (semmai una “ferocia amorale”), agli
esseri umani gli evoluzionisti attribuiscono la qualità della “crudeltà morale”. Un
giudizio che tradisce il riconoscimento di uno specifico senso morale, che
evidentemente deve avere anche un fondamento metafisico, oltre a quello
biologico.191
Inoltre, D’Agostino osserva come la difficoltà maggiore si proponga sul tema
della “responsabilità”. Essendo irriducibile a categorie scientifiche il concetto di
“libertà”, evoluzionisti e neuroscienziati non sono in grado di comprendere la
nozione di “responsabilità”. E anche fondando tale concetto nel senso morale (di
cui si predica una base neurobiologica), lo svuotano di ogni matrice etica: di
conseguenza, l’individuo che volesse essere “irresponsabile” non sarebbe
189 F. D’Agostino, Lezioni di Filosofia del Diritto, G. Giappichelli editore, Torino, 2006, p. 47-61.190 Ibidem.191 Ibidem.
73
realmente rimproverabile per questa sua scelta. Semmai, risulterebbe intollerabile
a livello sociale. In tal caso, poiché egli porrebbe in atto condotte incoerenti
evoluzionisticamente (e, quindi, sarebbe percepito come un “soggetto anomalo”),
l’unica soluzione sarebbe la sua neutralizzazione al fine della difesa sociale.192
Le neuroscienze, dunque, pur non distruggendo i valori umani, ma studiandoli
come dei “dati”, porterebbe il diritto penale a trasformarsi in un diritto di
“intervento” o, meglio ancora, di “trattamento”.193 La domanda che sorge
spontanea a questo punto è: chi stabilirebbe quale sia il modello di essere umano
“normale”, a cui il trattamento deve riportare l’individuo “anomalo”? Come dice
D’Agostino, a stabilire tali criteri sarebbe chi sta al governo. Ma se a salire al
potere fossero i razzisti? Un’equipe di scienziati avrebbe indicato che il razzismo
avrebbe origine da un’alterazione della zona cerebrale dell’amigdala. I razzisti al
governo potrebbero imporre tale amigdala “alterata” come modello di
“normalità”.194
Per D’Agostino, dunque, solo la teoria tradizionale del diritto permette una
concezione della responsabilità collegata al concetto di “merito” e di “espiazione
della colpa”, al fine di un reinserimento sociale del reo.195
In conclusione, tenendo conto delle più diverse opinioni in merito, sbaglia sia chi
propugna una radicale rivoluzione neuroscientifica, la cosiddetta
“naturalizzazione” del diritto, che porterebbe in extremis ad una “sostituzione” del
giudice con il perito, sia chi all’opposto mostra disinteresse o addirittura ostilità
alle nuove frontiere scientifiche.
Sarebbe invece più corretto parlare di “integrazione” del sapere giuridico con il
sapere scientifico. Il diritto necessita di mantenersi aggiornato con le odierne
scoperte sulla natura dell’uomo, data la sua essenza di “scienza del
comportamento umano”, nelle sue più diverse estrinsecazioni. Se il diritto si
mantenesse distaccato dai contributi offerti dalla scienza, rimarrebbe fossilizzato
in modelli artificiosi eccessivamente lontani dalla realtà. Si dovrebbe pertanto non
192 Ibidem.193 F. D’Agostino, Jus quia justum. Lezioni di filosofia del diritto e della religione, G. Giappichelli editore, Torino, 2012, p. 70-75.194 Ibidem.195 F. D’Agostino, Lezioni di Filosofia del Diritto, cit., p. 47-61.
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eliminare le categorie del diritto, quanto aggiornarle a livello di contenuto e di
applicazione pratica.
Le neuroscienze possono aiutare a definire meglio i confini tra “normalità
psichica” e “patologia mentale” grazie alle neuroimmagini; consentire un
accertamento della veridicità di un testimone attraverso tecniche di lie e memory
detection; fondare certi assunti giuridici su basi empiriche, come la capacità di
agire; predisporre una tutela più efficace per i cosiddetti “soggetti fragili”, quali i
tossicodipendenti o i malati di demenza; delineare trattamenti più attenti e
“personalizzati” nell’applicazione delle misure di sicurezza. Le possibilità sono
molteplici. Il diritto dovrebbe fruire dei contributi neuroscientifici che hanno
ottenuto il riconoscimento da parte della comunità scientifica internazionale, in
un’ottica di arricchimento.
In questa complessa relazione tra neuroscienze e diritto, alcune branche giuridiche
vengono coinvolte in misura maggiore di altre, ovviamente. Il diritto civile e il
diritto penale possono trarre maggior profitto dagli studi neuroscientifici rispetto
ad ambiti come il diritto amministrativo o il diritto commerciale.
In diritto pubblico, per esempio, alcuni autori196 hanno avanzato diverse ipotesi
innovative. In particolare, si potrebbe dare valenza sul piano giuridico alle tesi
neuroscientifiche sul riconoscimento attraverso i neuroni specchio, sull’esistenza
di più “intelligenze” (razionale, sociale, emotiva, ecc.), sull’empatia, sulla
neuroplasticità e sul rapporto mente-ambiente.
In sinergia con gli studi di “neuropolitica” e “neuromarketing”, si potrebbe
apprestare una disciplina giuridica più attenta delle tecniche di manipolazione e
persuasione mass-mediatiche che fanno leva sulla componente emozionale
dell’elettorato e delle categorie dei consumatori. In un possibile futuro, si
potrebbe esaminare neurologicamente l’idoneità e la competenza dei candidati
politici a ricoprire ruoli di potere, mettendo alla prova la loro capacità di
“empatia”, fondamentale per meccanismi come la leale collaborazione e la
cooperazione. Nei concorsi pubblici, accanto ai titoli e agli esami sulla
preparazione individuale, si potrebbero introdurre test cognitivi per stabilire lo
sviluppo delle diverse forme di “intelligenza”; nello stesso contesto concorsuale,
196 E. Picozza, Problemi di carattere applicativo, in E. Picozza, L. Capraro, V. Cuzzocrea, D. Terracina, Neurodiritto. Una introduzione, G. Giappichelli Editore, Torino, 2011, p. 87-126.
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però, si dovrebbe vietare l’assunzione di neurofarmaci (ad esempio, quelli che
aumentano il livello di attenzione o che inibiscono la sensazione di stanchezza), i
quali alterando le prestazioni cognitive possono configurare una sorta di “doping
cerebrale”. Troverebbero conferme da parte delle neuroscienze le ultime
generazioni di diritti e doveri, sia quelli di terza (tra cui, per esempio, il diritto
all’ambiente e al godimento di “beni immateriali”, come la cultura) sia quelli di
quarta (tra i quali i cosiddetti “diritti della specie”, esemplificati dal biodiritto con
i limiti della manipolazione degli embrioni, il divieto di clonazione umana, le
problematiche legate all’eutanasia, ecc.). L’attuale conoscenza neuroscientifica
smentisce la scissione dell’uomo dall’ambiente e dagli altri suoi simili; anzi,
presenta un quadro di stretta e necessaria relazione tra l’individuo e il contesto
ambientale (in tal senso, le teorie della “mente estesa”) e tra il singolo e la
collettività (le teorie sui neuroni specchio e le scoperte sull’empatia e sul senso di
solidarietà umana). Quello che possiamo definire una sorta di “umanesimo
neuroscientifico” può fondare biologicamente ed empiricamente quelle intuizioni
su cui il diritto già si basa: un’umanità che condivide la medesima dignità e che
richiede il rispetto per ogni suo membro. Dalle neuroscienze viene fondato
empiricamente il riconoscimento dell’uguaglianza di tutti (come membri della
stessa specie) e dell’individualità di ognuno (in base alla mutevole ed unica
conformazione cerebrale). Si mostra l’importanza fondamentale del rapporto con
l’altro, come momento di costruzione del sé (l’empatia e l’apprendimento per
imitazione tramite i neuroni specchio).197
Infine, sembra che stia emergendo un ultimo nuovo diritto: l’autonomia cognitiva
o habeas mentem198, intesa come la “capacità degli individui di resistere alla
pressione subliminale dei grandi mezzi di comunicazione di massa”199 o in termini
più specifici come “capacità del soggetto di controllare, filtrare e interpretare
razionalmente le comunicazioni che riceve”200. Norberto Bobbio201 l’ha definita
“autonomia intellettuale”, posta alla base della garanzia giuridica dei diritti di
197 E. Picozza, Problematiche di diritto pubblico e di diritto privato, in E. Picozza, L. Capraro, V. Cuzzocrea, D. Terracina, Neurodiritto. Una introduzione, cit., p. 87-126.198 D. Zolo, Nuovi diritti e globalizzazione, in Enciclopedia del XXI secolo, vol. II, Norme e idee, Istituto della Enciclopedia Giuridica, Roma, 2010, p. 33-34.199 Ibidem.200 Ibidem.201 N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. XV.
76
libertà e dei diritti politici, affermando che nelle attuali società occidentali è in
corso un’inversione del rapporto fra controllori e controllati, in cui grazie all’uso
spregiudicato dei mass media sono gli eletti a controllare gli elettori. Tale
autonomia viene minacciata dal potere persuasivo dei mezzi di comunicazione,
dalle loro tecniche di stimolazione cognitiva ed emotiva e, in generale, dalla
manipolazione dell’informazione. Ad esserne inficiati sono la costituzione di
identità personali, l’autonomia individuale, la formazione dell’opinione pubblica e
i meccanismi decisionali democratici. L’autonomia cognitiva può trovare un suo
sviluppo concettuale prendendo in considerazione gli studi sulla neuroplasticità: il
sistema nervoso centrale, data la sua estrema modificabilità, è estremamente
sensibile al contesto ambientale, in modo tale da essere modellato dalle esperienze
vissute e dalle nozioni acquisite. Per la tutela dell’autonomia cognitiva, dunque,
diviene ancor più fondamentale il ruolo formativo rivestito non solo dalla
famiglia, ma anche e soprattutto dai diversi gradi di istruzione. Si configura come
un obbligo dello Stato l’apprestare un servizio pubblico che consenta il miglior
sviluppo possibile delle capacità personali e la libera formazione delle opinioni
individuali, attraverso l’istruzione, la libera informazione ed un’auspicabile
maggior attenzione alla personalità del singolo.
Le neuroscienze in ambito civilistico
L’individuo come “soggetto di diritto”: capacità giuridica e
capacità d’agire
77
All’interno dell’ordinamento giuridico italiano, l’individuo è qualificato come
“soggetto di diritto”, status che consegue alla cosiddetta “capacità giuridica”.202
Tale capacità è una qualità astratta a priori, di carattere generale, che connota
l’individuo al momento stesso della nascita (art. 1 c.c.): ogni soggetto, in virtù del
principio di uguaglianza, è potenzialmente destinatario di tutte le norme
dell’ordinamento giuridico. Nello specifico, con l’acquisto della capacità giuridica
si diviene titolari di diritti e doveri; in particolare, all’art. 2 della Carta
costituzionale viene statuito il riconoscimento e la garanzia, da parte della
Repubblica, dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. L’utilizzo del termine
“riconoscimento”, inoltre, rivela che l’ordinamento non ha la facoltà di
“attribuire” all’individuo i suoi diritti inviolabili, bensì che li riconosce come già
esistenti.203 Ne deriva che la capacità giuridica è una qualità propria di ogni
individuo, non il risultato di un’attribuzione da parte dell’ordinamento.204 All’art.
22 Cost., essa viene addirittura affiancata alla cittadinanza e al nome nello statuire
il divieto di privarne un individuo per motivi politici; la norma, dunque, sembra
suggerire che l’essere privi di capacità giuridica equivarrebbe all’essere privi di
identità (non a caso, storicamente, si definiva “morte civile” lo status di chi veniva
privato della capacità giuridica, come pena accessoria ad una condanna penale).205
In tale ambito, come è stato suggerito206, gli studi sul cervello umano, nella loro
declinazione di “neuroscienze giuridiche” (riprendendo l’espressione coniata da
Giuseppe Sartori e Luca Sammicheli207), intervengono nel ricercare il
“fondamento supremo” della capacità giuridica e si allineano con la posizione
filosofica del giusnaturalismo, nell’ottica del riconoscimento (e non
dell’attribuzione) della capacità giuridica come qualità quasi “intrinseca”
dell’essere umano. Seguendo una prospettiva neuroscientifica, si potrebbe
202 F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2007, p. 121-122.203 Ibidem.204 Ibidem.205 Ibidem.206 E. Picozza, Problemi di carattere applicativo, in E. Picozza, L. Capraro, V. Cuzzocrea, D. Terracina, Neurodiritto. Una introduzione, cit., p. 103-107.207 L. Sammicheli, G. Sartori, Neuroscienze giuridiche: i diversi livelli di interazione tra diritto e neuroscienze, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 15-36.
78
giungere ad affermare che tale capacità è propria dell’individuo in virtù della sua
stessa appartenenza al genere umano, ricollegandosi ad una cosiddetta “dignità
della specie”.
Inoltre, strettamente collegato con la categoria della “capacità giuridica”, è il
concetto di “soggettività”: l’approccio olistico alla globalità dell’essere umano,
tipico delle scienze cognitive, evidenzia l’intima interconnessione tra la
dimensione neurobiologica dell’uomo (ossia, il substrato materiale) e la
dimensione prettamente funzionale (esplicantesi nelle diverse abilità istintive,
emozionali e logico-analitiche). Una tale visione dell’uomo conduce ad operare un
cambiamento di prospettiva: da un lato, il sostrato materiale della persona reale
non è più individuabile con i tradizionali parametri giuridici; dall’altro, la
qualificazione di soggetto di diritto non può più basarsi esclusivamente su mere
astrazioni logiche, quali sono l’imputazione di una posizione giuridica
complessiva o di singole situazioni giuridiche soggettive. Il neurodiritto porta ad
una definizione della soggettività che si collega direttamente con la realtà
materiale dell’uomo, in un modello che lo definisce come “essere incarnato”,
prendendo in considerazione la sua totalità ontologica nel mondo e nel tempo.208
Una visione che trova tra i suoi ascendenti il filosofo tedesco Martin Heidegger,
che ha elaborato una sua ontologia dell’uomo e ne ha predicato il suo “essere nel
mondo”209, e tra i suoi attuali sostenitori Andy Clark, con il suo modello
dell’embodied, embedded and extended mind210.
L’approccio innovativo proposto dalle neuroscienze giuridiche non è di per sé
rivoluzionario per quanto riguarda il piano sostanziale, bensì offre una
“giustificazione empirica”, una “base reale”, a quelle che sono state finora
categorie giuridiche “astratte”. L’affermazione che l’uomo possiede una capacità
giuridica a priori, ricorrendo semplicemente ad un ragionamento logico (per usare
termini del linguaggio comune, una decisione presa “a tavolino”), è stata
unanimemente accettata fino ad oggi, data la sua utilità pratica di tutela dei diritti
umani. Ma tale affermazione diventa più pressante e maggiormente fondata se si
sostiene che essa deriva da una qualità ontologica quale è l’appartenenza alla
208 Ibidem.209 M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Halle, 1927.210 A. Clark, Being There, cit..
79
specie umana. Quest’ultima, infatti, non necessita di inferenze logiche o
dimostrazioni empiriche: in altri termini, si dimostra da sé. Perciò, compiendo una
traslazione etimologica, la persona ha diritto di essere tutelata giuridicamente
perché appartiene al genere umano e, in quanto tale, gode della dignità peculiare
della specie umana.
Accanto alla capacità giuridica, il nostro ordinamento configura un’altra categoria
fondamentale, ossia la cosiddetta “capacità di agire” (art. 2 c.c.). Essa consiste
nella possibilità di porre in essere atti giuridici capaci di incidere sia sul piano
personale sia su quello patrimoniale; per certi versi, essa corrisponde
all’esplicazione pratica dell’insieme di diritti e doveri conseguenti alla capacità
giuridica.
Mentre la capacità giuridica si acquisisce al momento della nascita, la capacità di
compiere atti giuridici viene riconosciuta al compimento della maggiore età (art. 2
c.c.). Si presume infatti che, con il raggiungimento dei 18 anni, l’individuo sia
pienamente capace di intendere e di volere, ossia che matura la cosiddetta “piena
capacità naturale”.211 A tale regola generale sono previste delle eccezioni: alcuni
atti, infatti, possono essere compiuti anche dal minorenne ultrasedicenne (ad
esempio, riconoscere il figlio naturale, art. 250 c.c., oppure contrarre matrimonio
previa autorizzazione giudiziale, art. 84 c.c., e via dicendo).
Nello specifico, la capacità d’agire “si fonda su determinati presupposti
psicologici, legati al pieno sviluppo della personalità e della capacità
dell’individuo di comprendere la realtà esterna e di esprimere scelte autonome nei
confronti di essa”212. Tra questi presupposti, si inseriscono: la comprensione delle
norme e la loro applicazione; la valutazione delle conseguenze giuridiche,
economiche e morali dei propri atti; la capacità di esprimere il proprio
comportamento in maniera coerente con le norme e le esigenze dell’ambiente,
adattandolo alle situazioni concrete e finalizzandolo al conseguimento dei propri
obiettivi.213
La capacità d’agire, però, non è una “qualità” che, una volta acquisita, rimane
immutabile nel tempo: può infatti risultare diminuita (temporaneamente o
211 F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 132.212 T. Bandini, G. Rocca, Fondamenti di psicopatologia forense, Giuffrè editore, Milano, 2010, p. 212. 213 P. Arbarello, e Coll., Medicina legale, Minerva Medica, Torino, 2005.
80
permanentemente) o addirittura essere persa. Certi individui, invece, fin dal
principio sono considerati non autonomi, in tutto o in parte.
Proprio entrando nel campo delle situazioni in cui la capacità d’agire risulta
carente o mancante, possiamo individuare concetti ed espressioni che ne sono
sinonimi o, ancor meglio, che ne rivelano diversi livelli di significato. Capacità di
autodeterminazione, autonomia, competenza, capacità decisionale: sono tutti
termini la cui origine ed uso sono trasversali a diversi campi, da quello del diritto
a quello sanitario fino a quello filosofico.
In particolare, il diritto all’autodeterminazione è un argomento che impegna da
vicino la filosofia del diritto. Assistiamo, infatti, ad una contrapposizione tra due
diverse esigenze: l’autonomia e la libertà degli individui, da una parte, e
l’intervento limitativo dell’ordinamento, dall’altra. Quest’ultimo si traduce
nell’imposizione di limiti alla libertà individuale, allo scopo precipuo di “garantire
che la libertà di un soggetto non attenti a quella di altri”.214 Un’altra ragione che
può motivare l’intervento limitativo dell’ordinamento è quella di restringere la
libertà di un soggetto nell’interesse di quello stesso individuo (ad esempio, le
norme di sicurezza che prevedono l’uso del casco su motoveicoli); in tal caso, si
configura quello che viene definito “paternalismo giuridico”.
Le due domande fondamentali classiche sul punto sono: fino a che punto è lecito
l’intervento “paternalistico” dell’ordinamento e quando esso diventa
un’interferenza nell’autonomia individuale? Altre due se ne aggiungono, in
ragione degli studi neuroscientifici: se si dimostra che l’essere umano è sottoposto
a limiti neurobiologici, che lo privano di un pieno ed effettivo controllo delle sue
azioni, allora diventa legittimo, se non addirittura necessario, un più ampio
intervento dell’ordinamento? Dato che i limiti al controllo decisionale sono di
diversa entità a seconda dell’individuo, è forse opportuno creare una pluralità di
categorie di “soggetti capaci”, abbandonando la dicotomia “capace-incapace” e
preferendo una sorta di “scala di autonomia”, formata da altrettante “gradazioni”
differenti di capacità?
214 R. Caterina, Paternalismo e autonomia, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, CEDAM, Padova, 2011, p. 3.
81
Prima di articolare una risposta a tali quesiti, è necessario riportare sia l’odierna
disciplina dell’incapace nel nostro ordinamento, sia ciò che effettivamente dicono
e, soprattutto, dimostrano le neuroscienze in tale ambito.
Paternalismo giuridico e diritto all’autodeterminazione
Il concetto di paternalismo giuridico si distingue in due forme principali: una
“procedurale” (in termini anglosassoni, soft paternalism) ed una “sostanziale”
(hard paternalism).
Il paternalismo procedurale reputa “legittima l’interferenza con la scelta di un
individuo solo quando esistono ragioni per dubitare che quella scelta sia
pienamente libera, informata e consapevole”215.
Il paternalismo sostanziale, invece, reputa “legittima l’interferenza con la scelta di
un individuo anche quando essa è pienamente libera, informata e consapevole, se
quella scelta è obiettivamente dannosa per l’individuo”216.
Il paternalismo procedurale parte dal presupposto che la volontarietà, libertà e
consapevolezza di una scelta sono soggette a diverse gradazioni e dall’altro
presupposto per cui, in determinate circostanze, un individuo non è in grado di
valutare correttamente il proprio interesse, al momento della scelta. Perciò, le
scelte viziate da una conoscenza inesatta o da uno stato mentale alterato non
rappresentano la vera volontà di un soggetto. In tali casi, si ritiene opportuno
avvertire la persona o indurla ad una maggior riflessione; in situazioni in cui ciò
non sia possibile, invece, si considera ammissibile una violazione della sua
autonomia. La regola generale comunque impone che se un individuo è nel pieno
delle sue facoltà mentali, ogni sua scelta, anche dannosa per se stesso, va
rispettata.217
Al contrario, il paternalismo sostanziale prevede che si possa limitare o
disattendere la scelta di un individuo sulla base di una valutazione sostanziale dei
215 Ivi, p. 4.216 Ibidem.217 Ivi, p. 4-7.
82
risultati di tale scelta: l’individuo non è libero di recare danno a se stesso e
nemmeno di correre volontariamente dei rischi.218
Sono varie le modalità in cui si esplicano entrambe le forme di paternalismo.
Una forma lampante avviene attraverso l’imposizione di divieti che precludono il
raggiungimento di certi risultati: ad esempio, l’art. 5 c.c., che vieta atti di
disposizione del proprio corpo che ledano l’integrità fisica, oppure l’art. 644 c.p.,
che vieta e punisce la corresponsione di interessi ad un tasso superiore al limite
legale. In questi casi, le norme rispondono ad un’ispirazione paternalistica
sostanziale. Un altro modo in cui si manifesta il paternalismo (in questo caso,
però, procedurale) è l’attenzione posta sul procedimento di formazione della scelta
e di manifestazione della volontà. Ne è un esempio la disciplina codicistica in
materia di contratti.219 Negli ultimi decenni, un altro esempio di paternalismo
procedurale nel nostro ordinamento è rappresentato dalla accentuata tutela dei
consumatori, attraverso l’introduzione con il d.lgs. n. 206/2005 (cosiddetto
“Codice del Consumo”) di “meccanismi volti a garantirne una decisione
ponderata e consapevole”.220
Infine, ne è espressione la specificazione di determinate categorie di soggetti, che
l’ordinamento reputa da proteggere anche da se stesse e a cui sottrae la possibilità
di regolare in maniera autonoma i propri interessi. Ne sono esempi le norme
relative al minore e all’infermo di mente. Si afferma, però, che il paternalismo
verso certe categorie di soggetti potrebbe portare ad una loro esclusione dal
mercato: l’art. 1425 c.c., infatti, prevede che i contratti stipulati dalla persona
incapace siano annullabili, perciò la norma potrebbe scoraggiare gli eventuali
contraenti.221
Gli istituti di tutela dei soggetti non autonomi
In riferimento agli individui non autonomi, il nostro ordinamento configura ben
tre istituti di tutela: l’inabilitazione, l’interdizione e l’amministrazione di sostegno 218 Ibidem.219 Ibidem.220 Ivi, p. 9.221 Ivi, p. 8.
83
(recentemente introdotta dalla l. 9 gennaio 2004, n. 6). Essi sono disciplinati allo
scopo di sostenere, limitare o annullare la capacità d’agire di un soggetto, il quale
non abbia conseguito o abbia perso una piena maturità mentale. Tutti e tre, inoltre,
hanno come finalità comune la protezione adeguata dei diritti e degli interessi
delle persone prive, in tutto o in parte, della propria autonomia.
La loro disciplina è posta nel Titolo XII del codice civile, “Delle misure di
protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia”, così modificato
dall’art. 2 della l. n. 6/2004.
Seguendo un ordine diverso da quello di trattazione del codice, iniziamo dai due
istituti codicistici “storici”.
L’interdizione trova la sua principale sede codicistica all’art. 414 c.c. ed è diretta
al maggiore d’età e al minore emancipato, che si trovino in condizioni di abituale
infermità di mente tale che li rende incapaci di provvedere ai loro interessi. Il
giudice tutelare provvede con sentenza a nominare un tutore. L’interdetto non può
compiere atti né di amministrazione ordinaria, né di quella straordinaria: ciò si
traduce nell’impossibilità di contrarre matrimonio, riconoscere il figlio naturale,
fare testamento, esprimere un valido consenso a trattamenti sanitari, ecc.
L’inabilitazione, posta all’articolo seguente, l’art. 415 c.c., si configura per la
tutela del maggiore d’età infermo di mente, il cui stato non è talmente grave da
richiedere l’interdizione. È prevista anche per coloro che espongono sé o la loro
famiglia a gravi pregiudizi economici, per prodigalità o per uso abituale di
bevande alcoliche o di stupefacenti. Infine, possono essere inabilitati il sordomuto
e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, qualora non abbiano ricevuto
un’eduzione sufficiente, salvo l’applicazione della misura dell’interdizione
qualora l’incapacità sia totale. Il giudice tutelare, sempre con sentenza, provvede
alla nomina di un curatore. L’inabilitato può porre in essere autonomamente gli
atti di ordinaria amministrazione, mentre necessita dell’assistenza di un curatore
per quelli di straordinaria amministrazione.
Il terzo istituto, l’amministrazione di sostegno, pur essendo stato introdotto solo
recentemente, nel 2004, è stato posto per primo nella trattazione codicistica,
all’art. 404 c.c. Come dice la norma, l’amministrazione di sostegno è diretta a
tutelare quei soggetti che, per effetto di una infermità ovvero di menomazione
84
fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di
provvedere ai propri interessi. Il giudice tutelare provvede con decreto motivato a
nominare l’amministratore di sostegno. La peculiarità dell’istituto consiste nella
previsione all’art. 405 c.c., comma 5, nn. 3-4, secondo cui il giudice, all’interno
del medesimo decreto di nomina, deve indicare sia la durata dell’incarico
(eventualmente anche a tempo indeterminato), sia specificatamente gli atti che
l’amministratore ha il potere di compiere in rappresentanza del beneficiario,
nonché gli atti che il soggetto amministrato può porre in essere solo con
l’assistenza dell’amministratore di sostegno. Permane in tal modo in capo al
beneficiario la capacità d’agire, che opera in termini residuali per tutti gli atti non
indicati nel provvedimento giudiziale.
Più interessante, però, è riportare il testo dell’art 1 della l. n. 6/2004, in cui si
esplicita come finalità quella di “tutelare, con la minore limitazione possibile della
capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia
nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di
sostegno temporaneo o permanenti”.
Si comprende così maggiormente la portata dell’istituto e il suo più profondo
significato: l’intenzione del Legislatore di introdurre forme di tutela meno rigide e
penalizzanti rispetto all’interdizione e all’inabilitazione, “valorizzando gli spazi
residui di autonomia e di scelta”222 dell’individuo.
Come affermato da Paolo Cendon (tra i promotori dell’istituto fin dagli anni 80 e
autore della “bozza Cendon 2007”, divenuta proposta di legge), l’amministrazione
di sostegno è un “regime di protezione” tale da “comprimere al minimo i diritti e
le possibilità di iniziativa della persona disabile”, ma atta ad offrire “tutti gli
strumenti di assistenza o di sostituzione che possano occorrere volta a volta
colmare i momenti più o meno lunghi di crisi, di inerzia, di inettitudine del
disabile stesso”223.
L’amministrazione di sostegno trova, dunque, un’applicabilità di grandissima
ampiezza: tutti quei casi in cui un individuo, pur non soffrendo di una malattia in
222 T. Bandini, G. Rocca, Fondamenti di psicopatologia forense, cit., p. 214.223 P. Cendon, Infermi di mente e altri “disabili” in una proposta di riforma del codice civile, in “Politica del diritto”, 1987, p. 624.
85
senso stretto, presenti una semplice menomazione fisica o psichica che si
ripercuota sulle sue facoltà intellettive.
La cerchia dei soggetti che necessitano tutela risulta in tal modo ampliata, potendo
esserne beneficiari quegli individui che non richiederebbero l’applicazione
dell’interdizione o dell’inabilitazione. In giurisprudenza, si è affermato che tra i
beneficiari rientrerebbero “soggetti affetti da patologie mentali transitorie o
cicliche, quelli in condizioni di mera debolezza psichica anche se non affetti da
patologie mentali, i soggetti depressi, gli alcolisti, i tossicodipendenti, i
lungodegenti, i portatori di handicap fisici, i disadattati sociali, gli anziani in
situazione di disagio anche soltanto fisico, ecc.”224. Allo stesso tempo, però, il
soggetto amministrato conserva la propria capacità d’agire e divengono
l’eccezione gli atti che richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza
necessaria dell’amministratore.
Si sgretola così la precedente dicotomia tra pienamente capaci e incapaci e si
impone, invece, “un giudizio meno stilizzato sulle capacità cognitive e decisionali
dei soggetti e sulle specifiche difficoltà insite nei diversi compiti cognitivi e
decisionali”225. Si può, quindi, affermare che potenzialmente ogni individuo può
ritrovarsi, in alcune circostanze, in uno stato di “semicapacità”, in cui si configura
un bisogno di protezione, ma non si perde il diritto di autodeterminazione.
La l. n. 6/2004 non solo ha introdotto il nuovo istituto, ma ha rivisto anche la
disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione. In una norma comune ad
entrambi gli istituti, l’art. 427 c.c., comma 1 (quest’ultimo introdotto dalla l. n.
6/2004), è previsto che l’autorità giudiziaria può stabilire la possibilità per
l’interdetto di compiere alcuni atti di ordinaria amministrazione senza l’intervento
del tutore e per l’inabilitato alcuni atti di straordinaria amministrazione senza
l’assistenza del curatore. Grazie a tale previsione, anche l’interdetto e l’inabilitato
possono godere di un maggiore spazio di autonomia.
Al centro dell’attuale normativa di tutela è posto il principio di
autodeterminazione e la scelta concreta dell’amministratore, nonché del tutore e
224 Tribunale di Pinerolo, decreto 4/11/2004, in collana Nuova Giurisprudenza di Diritto civile e commerciale, vol. I, n. 1, Utet, Torino, 2005, p. 3.225 R. Caterina, Paternalismo e autonomia, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 12.
86
del curatore, “avviene con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della
persona del beneficiario” (art. 408 c.c.).
Sul punto è intervenuta anche la Corte Costituzionale226, chiamata ad esprimersi
sulla costituzionalità dell’esistenza di misure concorrenti, prive di indici di
selezione: veniva rilevato nella questione di legittimità che l’ampiezza della sfera
di applicazione dell’amministrazione di sostegno la rende sovrapponibile agli altri
due istituti e per tale motivo sembrerebbe configurarsi un’eccessiva
discrezionalità del giudice nella scelta della misura da applicare. La Corte ha
dichiarato infondata la questione, statuendo che l’interdizione opera in termini
esclusivamente residuali, trattandosi di una misura più invasiva e incapacitante, a
cui ricorrere, ai sensi dell’art. 414 c.c., solo quando ciò sia necessario per
assicurare una protezione adeguata alla persona.
In tal modo, l’amministrazione di sostegno si configura come la misura ordinaria
e preferibile di tutela delle persone non autonome.
Il modello neuroscientifico della capacità di agire e la sua
valutazione neuropsicologica
Nell’ambito della valutazione della capacità di agire, le neuroscienze non sono le
prime a poter offrire un loro contributo. Nel corso degli anni, sono già intervenute
altre branche extragiuridiche con i rispettivi contributi, in modo tale da realizzare
un approccio interdisciplinare alla valutazione della capacità di agire. La medicina
legale, la criminologia, la psicologia giuridica, la psichiatria forense, e via
dicendo, arricchiscono il corredo di conoscenze dei giuristi già da alcuni decenni
(se non addirittura secoli, nel caso della medicina legale). In ambito civile, il
giudice (così come gli avvocati delle parti e il Pubblico Ministero), infatti, ha il
potere di disporre l’esecuzione di indagini di carattere peritale, la “consulenza
tecnica” (d’ufficio o di parte), qualora sia necessario acquisire dati o valutazioni
che richiedono cognizioni tecniche riguardanti specifiche scienze o arti. Pur
rimanendo una prerogativa del giudice il giudizio conclusivo (egli ricopre sempre
226 Corte Costituzionale, sentenza 9 dicembre 2005, n. 440.
87
la funzione di peritus peritorum), può integrare le proprie conoscenze con
l’apporto di figure esterne al mondo giuridico, che entrano a far parte della
dinamica del processo solo in maniera occasionale.
Ritornando all’argomento in questione, la capacità di agire è un costrutto di natura
giuridica, ma è possibile trovare un suo parallelismo con le ricerche
neuroscientifiche.
Traducendosi nella facoltà di esercitare autonomamente i propri diritti e doveri, la
capacità di agire presuppone l’integrità e l’esercizio efficace di un insieme di
abilità e funzioni cognitive, emozionali e sociali,227 riassunte normalmente con la
locuzione di “capacità di intendere e di volere”. L’accertamento di quest’ultima
viene riservata di solito a figure professionali biomediche, anche se il giudizio
finale relativo al venir meno di essa spetta esclusivamente al giudice.
La capacità di agire viene comunemente considerata in relazione alle circostanze
concrete in cui se ne richiede l’utilizzo: la cura di sé, la capacità di provvedere ai
propri interessi patrimoniali, la capacità di autodeterminazione in ambito sanitario,
ecc.228 Perciò, si sta facendo largo in dottrina, perlopiù in quella anglo-americana,
la convinzione che sia più corretto parlare non di una capacità, unica e monolitica,
bensì di più capacità, tutte indispensabili per la gestione e lo svolgimento della
vita quotidiana, ma isolabili e indipendenti.229
Da parte loro, gli studi neuroscientifici non possono che confermare la concezione
dell’individuo che emerge dalla disciplina dell’amministrazione di sostegno: la
capacità d’agire non si pone in un’alternativa binaria di “presenza-assenza”, bensì
è il risultato di una serie di abilità, o, in termini neuroscientifici, di un’ampia rete
di funzioni cognitive modulari, indipendenti ma interconnesse, soggette a
molteplici fonti di vulnerabilità (sia di tipo biologico, sia di tipo psico-sociale).230
Ciò che viene evidenziato dagli studi neuroscientifici e biomedici in generale è
che al decadere di una capacità non vengono necessariamente meno anche le altre
227 A. Bianchi, C. Beni, A. Magi, Neuropsicologia cognitiva delle capacità di agire, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 157-185.228 A. Bianchi, P.G. Macrì, Introduzione, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. XIX.229 M. Zettin, M. Zorniotti, Capacità e competenze residue nelle gravi cerebrolesioni acquisite, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 351-358.230 F. Bilotta, A. Bianchi, L’amministrazione di sostegno e gli altri istituti di tutela giuridica, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 22.
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(già qui appare un’assoluta coerenza con l’apparato normativo dell’istituto
dell’amministrazione di sostegno). A titolo esemplificativo, un elenco di capacità
è stato redatto da Moye e Marson231: la capacità di vivere in modo indipendente;
di gestire le proprie finanze; di dare il consenso ad eventuali trattamenti medici; di
redigere un testamento, di gestire una vita sentimentale e sessuale; di votare; di
guidare. A mio parere, però, tale elenco pecca di una ricerca di tassatività
impossibile da raggiungere, dato che andrebbe inserita ogni capacità relativa a
ciascun ambito della vita di un individuo, perdendo in termini di utilità pratica.
Più interessante, invece, è il possibile parallelismo che gli attuali studi sul cervello
umano consentono tra le capacità individuali e le funzioni cognitive.
Possiamo affermare che, in linea generale, la capacità di agire dipende da ciò che
comunemente chiamiamo “razionalità”232; quest’ultima viene frazionata dalle
neuroscienze e identificata con il “funzionamento efficace ed integrato di una
vasta famiglia di capacità, tra loro funzionalmente ed anatomicamente
indipendenti, ancorché interconnesse”233.
Al pari di una concezione “modulare” del sistema nervoso centrale, così si
configura un quadro delle capacità a sua volta dai connotati “modulari”: ogni
settore della vita quotidiana richiede un insieme di azioni, che fanno capo a
distinte capacità.
Le funzioni cognitive umane possono essere suddivise in 6 classi principali, che
corrispondono alle fasi logiche dell’elaborazione dell’informazione.234 Va
premesso che, come risulta dalle attuali risultanze scientifiche, ogni funzione
trova sì una sede cerebrale principale, ma può coinvolgere anche aree adiacenti e
in certi casi pure regioni anatomicamente distanti.
Abbiamo, perciò, le seguenti classi distintive 235:
- funzioni ricettive, adibite alla raccolta, riconoscimento ed organizzazione
degli stimoli in entrata; corrispondono alle funzioni percettive sensoriali e
alla comprensione del linguaggio; la sede neuroanatomica principale sono
231 J. Moye, D.C. Marson, Assessment of decision making capacity in older adults: an emerging area of practice and research, “Psychological Sciences”, n. 62 B, 2007, p. 3-11.232 A. Bianchi, C. Beni, A. Magi, Neuropsicologia cognitiva delle capacità di agire, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 157-185.233 Ibidem.234 Ibidem.235 Ibidem.
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le cortecce retrorolandiche ed ampie porzioni dei lobi occipitali, parietali e
temporali laterali;
- funzioni attenzionali o attentive, ossia l’attenzione come capacità di
distribuire le risorse cognitive in funzione del compito da realizzare; il
substrato neuroanatomico è diffuso (ampie regioni neocorticali,
diencefaliche e del tronco dell’encefalo); essa si distingue in 3
componenti: mantenimento dello stato di veglia e attivazione per la
risposta agli stimoli; orientamento verso fonti specifiche di stimoli;
selezione tra stimoli confliggenti;
- funzioni di memoria, implicate nella codifica, conservazione e recupero
dell’informazione; si distingue in memoria a breve e a lungo termine; in
neuropsicologia, si suddividono le memorie inconsce da quelle consce: le
prime compongono la cosiddetta memoria implicita o procedurale, le
seconde invece la memoria dichiarativa (a sua volta distinta in
autobiografica, episodica e semantica); in ambito clinico, si parla di
memoria retrograda per i ricordi precedenti ad un trauma e di memoria
anterograda per quelli successivi; per il consolidamento dei ricordi sono
coinvolte le cortecce temporali mediali (ippocampo e regioni entorinali),
mentre per la conservazione a lungo termine le cortecce associative
retrolandiche;
- funzioni di elaborazione, implicate nello svolgimento di operazioni
superiori, corrispondono alle classiche capacità di ragionamento e al
concetto di intelligenza; le regioni cerebrali coinvolte sono le cortecce
associative prerolandiche e retrorolandiche;
- funzioni espressive, adibite alla realizzazione delle risposte in uscita,
costituiscono nel loro insieme il comportamento; ne fanno parte le abilità
di comunicazione verbale (orale e scritta) e non verbale (gestuale, mimica,
ecc.) e le abilità di controllo della motricità volontaria; le zone cerebrali
preposte sono le aree motorie e premotorie dei lobi frontali;
- funzioni esecutive, impiegate nel monitoraggio cosciente, nel
coordinamento e nella realizzazione del comportamento; le abilità
concretamente coinvolte sono un insieme eterogeneo, che va
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dall’attenzione esecutiva alla memoria di lavoro; un elenco esaustivo di
tali funzioni è ancora oggetto di studio.
A capo di tutte le funzioni cognitive, la possibilità di avere consapevolezza del
proprio vissuto soggettivo e la sensazione di un certo grado di controllo volontario
sulle proprie azioni costituiscono gli aspetti di livello gerarchico più elevato,
nonché i fenomeni mentali di maggior complessità strutturale e funzionale. Il loro
substrato anatomico viene individuato nelle regioni prefrontali di entrambi gli
emisferi, aree evolutivamente più recenti e più sviluppate, e sono forse il carattere
distintivo dell’essere umano rispetto al mondo animale.236
La consapevolezza e l’impegno volontario, però, vengono percepite dal cervello
come risorse limitate e dispendiose di energia: perciò può accadere che, se il
controllo cosciente è protratto nel tempo o molto elevato, l’azione di un individuo
possa sfuggire al suo controllo e portarlo o ad agire impulsivamente o secondo
schemi rigidi abitudinari oppure conformandosi alle pressioni ambientali.237
Accanto alle funzioni cognitive, ricoprono un ruolo fondamentale i processi
emozionali: diversi studi, in primis quelli condotti da Antonio Damasio, hanno
mostrato come la capacità decisionale dipenda non solo dai processi cognitivi
logici, ma anche e soprattutto dai processi emozionali, che incidono attraverso il
sistema dei markers somatici. Viceversa, negli individui con lesioni delle aree
cerebrali preposte all’emozione, risulta menomata la capacità di prendere
decisioni a lungo termine e coerenti, nonché di controllare i propri impulsi.
Inoltre, come sostenuto dagli psicologi cognitivi Herbert Simon e Daniel
Kahneman, l’agire dell’uomo è tutt’altro che all’insegna della massima
razionalità: in realtà, il concreto esercizio della razionalità umana è caratterizzato
da una serie di vincoli, limitazioni e distorsioni. La razionalità presenta dei limiti
non per stati patologici, ma per la natura stessa dei processi cognitivi che ne sono
alla base. Fra le fonti di disturbo della razionalità, emergono sia quelle di natura
prettamente cognitiva (ossia, i limiti strutturali dell’attenzione, della memoria e
delle altre funzioni), quelle di natura emozionale (i connotati emotivi della
situazione, dell’azione, ecc.) e quelle di natura contestuale (il modo in cui si
presenta la situazione). Da ciò, si deduce che l’individuo viene perturbato
236 Ibidem.237 Ibidem.
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continuamente nelle sue scelte: anche un individuo sano può presentare una
capacità decisionale temporaneamente diminuita. In tale ottica, dunque, non è da
pretendere un comportamento umano perfettamente razionale, bensì
sufficientemente ragionevole.238
Appare dimostrata dagli studi sul sistema nervoso anche la scelta ordinamentale di
considerare i minori come incapaci d’agire per presunzione assoluta (tranne il
caso del minore emancipato, conseguenza automatica all’autorizzazione giudiziale
a contrarre il matrimonio prima dei diciotto anni; in tal caso, il minore viene
affiancato da un curatore per gli atti di straordinaria amministrazione). È, infatti,
ormai un assunto acquisito e riconosciuto che il cervello completa la sua
“maturazione” soltanto tra i 20 e i 25 anni. Soltanto con il raggiungimento di
questa età si sviluppano appieno le fibre nervose che pongono in contatto la
corteccia frontale con le altre aree cerebrali.239 Ossia, soltanto in tarda adolescenza
l’individuo avrà un completo controllo di ogni funzione cognitiva: movimenti
corporei, reazione alle sensazioni, elaborazione di linguaggio parlato e scritto,
organizzazione delle nozioni apprese, uso del pensiero astratto, comprensione e,
soprattutto, governo delle emozioni.240 In particolare, si spiegherebbe in tal modo
perché nella maggior parte degli adolescenti sarebbe più “instabile”, rispetto ad un
adulto, la capacità di regolare l’impulsività e il discernimento tra rischi e
vantaggi.241 Come è stato definito, il cervello di un adolescente sarebbe “come una
macchina con un ottimo acceleratore ma con dei freni deboli”. Tale metafora è
stata usata precisamente dal professor Laurence Steinberg e, ai nostri fini, più che
il contenuto è rilevante il contesto in cui è stata espressa: egli l’ha utilizzata nel
suo rapporto per la Suprema Corte statunitense nel 2005, in relazione alla richiesta
di un parere specialistico concernente la legittimità o meno della pena capitale per
reati commessi da individui al di sotto dei 18 anni.242 Diverse ricerche, infatti,
hanno mostrato come sia possibile visualizzare, tramite risonanza magnetica
funzionale (fMRI), qual è il grado effettivo di maturità (in termini
238 Ibidem.239 A. Oliverio, Prima lezione di neuroscienze, cit., p. 27.240 Ibidem.241 G. Gulotta, G. Zara, La neuropsicologia criminale e dell’imputabilità minorile, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 109-148.242 Ivi, p. 136, nota a piè di pagina.
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neuroanatomici) del cervello di un adolescente.243 E proprio in ragione di ciò, la
Corte Suprema federale degli Stati Uniti ha escluso la pena di morte per i rei
minorenni, facendo esplicito riferimento nel testo della sentenza allo sviluppo
cerebrale dell’adolescente.244
Perciò, molti autori245 considerano le neuroscienze e le tecnologie di brain
imaging un ottimo strumento per stabilire il grado di maturità di un adolescente,
soprattutto per quanto riguarda il contesto penale, al fine di dimostrare
l’impossibilità di considerare pienamente responsabile un minorenne.
Tornando al discorso generale, la lesione di un’area cerebrale può portare ad una
conseguente disabilità cognitiva, più o meno grave e più o meno estesa,
eventualmente inficiante una o più specifiche abilità funzionali (componenti della
capacità di agire). Da una o più disabilità cognitive, può derivare un handicap,
ossia la limitazione nello svolgimento delle prestazioni sociali e lavorative della
persona, anche se l’effetto invalidante di una disabilità neurologica è condizionata
da numerosi ed eterogenei fattori (clinici, socio-culturali ed ambientali).246
Le condizioni neurologiche e psichiatriche causanti una compromissione
cognitiva sono molteplici, per non parlare del numero di condizioni mediche
generali, non neurologiche, invalidanti a livello cognitivo. Al di là degli stati
patologici, lo stesso invecchiamento provoca un declino cognitivo.247
In molti casi, patologie neurologiche provocano conseguentemente una
menomazione della capacità di agire: la demenza alcolica, la malattia di
Alzheimer, il disturbo bipolare, lo stato confusionale acuto, la depressione
maggiore, la malattia di Parkinson, la schizofrenia, l’ictus, il trauma cranico, la
demenza vascolare, ecc.
Con riferimento ai pazienti con disabilità cognitiva, la valutazione
neuropsicologica della capacità di esprimere scelte autonome e consapevoli
richiede alcuni parametri fondamentali: capacità di manifestare una scelta, di
comprendere le informazioni relative a tale scelta, di dare un giusto peso alla 243 A.A. Baird, J.A. Fugelsang, The Emergence of Consequential Thought: Evidence from Neuroscience, in S. Zeki, O.R. Goodenough (a cura di), Law and the Brain, cit., p. 245-258. 244 US Supreme Court, “Roper v. Simmons”, n. 03-633, 1° marzo del 2005.245 M. Beckman, Crime, culpability, and the adolescent brain, in “Science”, n. 305, 2004, p. 596-599.246 A. Stracciari, La disabilità cognitive di origine neurologica, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 157-185.247 Ibidem.
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situazione e alle sue possibili conseguenze, di utilizzare razionalmente le
informazioni.248 La valutazione procede con dapprima un’analisi dello stato
cognitivo generale, che include la somministrazione di test di screening; poi, con
l’analisi della capacità specifica, attraverso test selezionati per le singole aree
cognitive.
In un’ottica più generale, i disturbi patologici della capacità di agire possono
essere riassunti in tre categorie principali: i disturbi da dipendenza ambientale; i
disturbi dell’autocontrollo; i disturbi del ragionamento sociale.249
Nella prima categoria, rientrano forme di diversa gravità, tutte attivate da stimoli
ambientali. Vi sono alcuni quadri clinici gravi, spesso riscontrabili nelle forme più
gravi di deterioramento demenziale o post-traumatico, ad esempio, il
comportamento di utilizzazione e di imitazione (compimento di azioni
incontrollate in relazione ad uno stimolo esterno, in cui è assente la coscienza del
comportamento) o la sindrome della mano anarchica (un arto sfugge al controllo
volontario e agisce in maniera indipendente; la coscienza è presente e vi è la
volontà di fermare l’azione). Alcune forme meno gravi di decadimento cognitivo
sono i lapsus comportamentali (dimenticanze notevoli, ma con mantenimento
dell’autonomia). Infine, le forme più lievi in assoluto, presenti quotidianamente,
sono le azioni compiute in automatico secondo schemi abitudinari.
Tra i disturbi dell’autocontrollo, vi sono le diverse forme di automatismo
(sonnambulismo, epilessia, trance da sostanze o da ipnosi, ecc.), in cui l’azione è
totalmente priva di coscienza; i disturbi ossessivo-compulsivi (in cui la coscienza
è presente, ma incapace di resistere all’impulso); tutti gli altri disturbi
comportamentali, come alcuni disturbi dell’alimentazione e le dipendenze.
Infine, i disturbi del ragionamento sociale racchiudono tutte quelle patologie che
incidono su aspetti prettamente cognitivi dell’azione (come l’anticipare
conseguenze future, ipotizzare corsi d’azione differenti, ecc.) e che risultano in
un’accentuata vulnerabilità sociale. Vi rientrano i ritardi mentali congeniti o della
prima infanzia, le forme di autismo, i disturbi psicotici, molte patologie
neurologiche acquisite (traumi cranici, deterioramento demenziale e sindromi
248 L. Ganzini, L. Volicer, W. Nelson, A. Derse, Pitfalls in assessment of decision-making capacity, in “Psychosomatics”, n. 44, 2003, p. 237-243.249 A. Bianchi, C. Beni, A. Magi, Neuropsicologia cognitiva delle capacità di agire, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 157-185.
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neuropsicologiche focali), ecc. In tali casi, la capacità d’agire va valutata di volta
in volta.250
Nella valutazione della capacità di agire, il consulente del giudice tutelare deve
compiere un’indagine di tipo clinico della “disfunzionalità”, con l’osservazione e
la misurazione dei concreti impedimenti e delle difficoltà, che riducono
l’autonomia della persona, nel compimento degli atti funzionali ai diversi ambiti
della vita quotidiana.251 Soprattutto, deve avere ad oggetto le capacità individuali,
individuando i deficit (psicologici, fisici o sociali) ed evidenziando le capacità
residue: la capacità finanziaria, di fare testamento, di fare donazioni, di dare un
valido consenso per il matrimonio, per i trattamenti sanitari, di guidare un
autoveicolo, di svolgere una professione, ecc.252
L’obiettivo finale del consulente deve essere quello di indicare “gli atti o le
categorie di atti la cui esecuzione è preclusa in maniera assoluta oppure resa
soltanto difficoltosa dalla menomazione o dall’infermità”253 del soggetto. Deve
essere attuata un’indagine volta alla rilevazione non solo delle debolezze, ma
anche dei punti di forza del soggetto e del suo contesto quotidiano.
In particolare, per una valutazione neuropsicologica della capacità d’agire, i
tradizionali strumenti di indagine neuropsicologica devono essere affiancati da
una valutazione funzionale di ciò che l’individuo è effettivamente in grado di fare
in situazioni concrete.
La procedura da seguire generalmente dovrebbe prevedere tre momenti distinti.254
Innanzitutto, un colloquio approfondito con il soggetto ed altri informatori
attendibili; il dato raccolto è di tipo propriamente clinico, basato su un resoconto
soggettivo ed un’osservazione parziale del comportamento, perciò non sufficiente
da solo per una stima affidabile delle capacità. Per il consulente, sono disponibili
molte rating scales, utili per raccogliere informazioni dal soggetto, da suoi
familiari o altre figure vicine: la Iowa Scale of Personality Change, il
Neuropsychiatric Inventory e il Dysexecutive Questionnaire.
250 Ibidem.251 T. Bandini, G. Rocca, Fondamenti di psicopatologia forense, cit., p. 220-223.252 Ibidem.253 Ibidem.254 A. Bianchi, C. Beni, A. Magi, Neuropsicologia cognitiva delle capacità di agire, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 157-185.
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In secondo luogo, una valutazione neuropsicologica formale, con la selezione di
test psicometrici per indagare specifiche funzioni cognitive (ragionamento,
memoria, funzioni esecutive, ecc.).
Infine, una valutazione funzionale per rilevare aspetti circoscritti della capacità di
agire, legati alle esigenze specifiche del caso concreto (capacità di vivere
autonomamente in casa propria, capacità di dare un valido consenso a trattamenti
sanitari proposti, ecc.). Gli strumenti a disposizione sono solitamente di natura
osservativa diretta oppure basati sulla prestazione di compiti determinati.
Ancora meglio, una valutazione in concreto della capacità di agire potrebbe essere
ulteriormente articolata in cinque elementi di indagine, con la previsione del
ricorso ai diversi strumenti messi a disposizione dalle neuroscienze cognitive.255
Il primo elemento di valutazione consiste nell’analisi clinica delle condizioni
mediche del soggetto, previsto dalla legge all’art. 404 c.c. (“infermità o
menomazione fisica o psichica”). La condizione medica rileva, però, soltanto in
quanto capace di determinare una condizione di disabilità decisionale, non quindi
in senso nosografico astratto. Fra quelle in grado di compromettere la capacità
decisionale, risaltano le condizioni neurologiche, neuropsicologiche e
psichiatriche.
Il secondo elemento di valutazione riguarda il funzionamento cognitivo, ossia
l’insieme di abilità di raccolta, elaborazione ed utilizzo dell’informazione, di cui
abbiamo trattato in precedenza le sei aree principali rilevanti per la capacità di
agire. Esistono diversi strumenti basati su test diretti a indagare su ogni specifica
competenza cognitiva.
Il terzo elemento di valutazione è il funzionamento emozionale, il cui scopo è una
descrizione dei sintomi psicopatologici e dei disturbi comportamentali che
possono interferire con la capacità di autodeterminazione. Gli aspetti considerati
maggiormente rilevanti sono: pensiero disorganizzato, allucinazioni, deliri, ansia,
mania, umore depresso, mancanza di consapevolezza, impulsività, apatia,
inadeguata compliance e aggressività.
Il quarto aspetto riguarda la valutazione delle attività di vita quotidiana che la
persona è in grado di porre in essere. Questo è un criterio fondamentale, dato che
255 S. Cantelli, C. La Mastra, S. Peruzzi, Strumenti tecnici per la valutazione delle capacità, in A. Bianchi, P.G. Macrì (a cura di), La valutazione delle capacità di agire, cit., p. 239-266.
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vi sono soggetti che, pur presentando un grave deterioramento cognitivo o un
ritardo mentale, sono in grado di condurre una vita autonoma. Un esempio di aree
relative al funzionamento nella vita quotidiana da valutare prevede: la cura di sé;
l’ambito finanziario; l’area sanitaria; la vita indipendente; l’area giuridico-legale;
l’uso di trasporti. Esistono anche per la valutazione di questo elemento diversi
indici e scale, quali l’Indice di Barthel, la scala delle attività di base di Katz, il
Disability Assessment Schedule e il MacArthur Competence Assessment Tool.
Il quinto ed ultimo elemento da valutare consiste nel rilevare la presenza di
coerenza tra le scelte attuali del soggetto e i suoi valori e preferenze precedenti. Il
compito del consulente non è di esprimere un giudizio di valore sulle credenze
dell’individuo esaminato, ma solo di assicurarsi che egli agisca libero da
condizionamenti esterni o interni patologici.
Infine, si può aggiungere che un elemento di valutazione a posteriori ad un
concreto accertamento di capacità di agire ridotta è il rischio di danno o di abuso,
in cui possono incorrere i soggetti rivelatesi “fragili”. Può tradursi, infatti, in
rischi di sfruttamento o di maltrattamenti a danno sia di giovani, sia di anziani.256
La nuova prospettiva così delineata mira a verificare ciò che concretamente la
persona è in grado di fare, al fine di contribuire alla realizzazione di un progetto di
tutela realmente diretto alla persona. Si scongiura in tal modo il ricorso alle
misure classiche di tutela, che finiscono per incidere spesso in maniera invalidante
sulla dimensione esistenziale dell’individuo.
Inoltre, proprio nel panorama neuroscientifico, è stata elaborata una forma di
“riabilitazione neuropsicologica”, che porta al massimo grado di significato
l’attenzione per la persona. È ormai acquisizione comune che individui con lesioni
cerebrali gravi, causate da trauma cranico o da altre patologie, possono aspirare ad
un recupero totale, o almeno parziale, attraverso percorsi riabilitativi specifici e
mirati.257
La neuropsicologia cognitiva ci ha reso edotti di alcune caratteristiche peculiari
del tessuto cerebrale: la modularità, ossia la divisione del cervello in moduli,
separati ma interdipendenti, ognuno preposto ad una funzione; la corrispondenza
256 Ibidem.257 M. Zettin, M. Zorniotti, Capacità e competenze residue nelle gravi cerebrolesioni acquisite, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 366-371.
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tra l’organizzazione funzionale della mente e quella neurologica del cervello; la
costanza con cui le prestazioni del paziente riflettono l’attività di tutte le
componenti cognitive, tranne quella danneggiata dalla lesione.258
Infine, la più importante e fondamentale: la plasticità cerebrale, grazie alla quale il
cervello è in grado di modificarsi strutturalmente e funzionalmente, in modo
naturale o con l’esercizio. Ciò si traduce nella possibilità di compensazione delle
funzionalità perse durante tutta la vita, non solo nell’infanzia e nella giovinezza.
Sia la compensazione, sia il recupero dei deficit sensoriali, motori e cognitivi
possono essere attuate tramite un’adeguata stimolazione mirata: un input
sensoriale strutturato, infatti, può accrescere il numero di connessioni dei circuiti
neuronali, aumentandone l’attivazione259
I meccanismi neuroplastici possono operare in diversi modi: attraverso la
riorganizzazione funzionale (circuiti neuronali differenti, anche lontani,
riproducono la funzione lesa) oppure con una modificazione dell’attività sinaptica
(i neuroni sopravvissuti alla lesione sviluppano dendriti per ricollegarsi ad altri
neuroni). In caso di lesioni parziali del tessuto, è possibile assistere ad un recupero
della funzione compromessa. In caso di danno totale, invece, è impossibile un
recupero e si deve mirare piuttosto ad una compensazione.260
Nella pratica riabilitativa odierna, si tende comunque ad utilizzare entrambi i
metodi, date alcune evidenze cliniche che hanno mostrato come con
l’applicazione di tecniche di compensazione sia poi seguito un recupero
funzionale. La prassi riabilitativa consiste nell’aiutare il paziente ad esercitare i
meccanismi del processo di apprendimento, piuttosto che quelli di attenzione o
memoria: invece di tentare di far “ricordare” al cervello una certa funzione, si fa
in modo che la “impari” di nuovo.261
In alcuni casi, invece, il processo di stimolazione deve provvedere a ridurre
l’attivazione di determinati circuiti neuronali, poiché un loro rinforzo potrebbe
provocare connessioni non ecologiche (ad esempio, l’afasia fluente con
258 Ibidem.259 Ibidem.260 Ibidem.261 Ibidem.
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anosognosia, in cui l’individuo parla in maniera fluente, ma fa discorsi insensati
senza rendersene conto).262
Per un’integrazione delle tecniche di compensazione e recupero, Robertson e
Murre263 hanno elaborato un programma di riabilitazione strutturato su due
approcci operativi: il training Bottom-up e il training Top-down. Il primo è rivolto
a stimolare processi specifici di un singolo modulo, per riattivare ciascuna
funzione in modo settoriale. Il secondo, invece, è diretto ai centri cerebrali
superiori, nel lobo frontale e nel talamo, predisposti alla selezione
dell’informazione e al suo indirizzamento verso aree specifiche, in maniera tale da
rafforzare i processi dell’attenzione, fondamentale per qualsiasi altro compito.
Il percorso riabilitativo ha come punto di partenza il soggetto nella sua interezza:
dopo un’accurata valutazione neuropsicologica della persona (la medesima con
cui si rileva la capacità di agire), viene preparato anche il suo contesto ambientale
e relazionale, ossia la famiglia e gli altri individui appartenenti alla sua vita.264
Quello che avviene è un percorso di reintegrazione, sia dell’individuo nel suo
corpo, nelle sue capacità e nella sua quotidianità, sia delle persone della sua vita
familiare e sociale, che dovranno affrontare insieme a lui situazioni difficili e
stressanti emotivamente.
Rilievi critici
A mio parere, alla luce delle scoperte sul sistema nervoso, piuttosto che creare
nuove categorie soggettive di “capaci” o di “incapaci”, è invece opportuno
cogliere l’occasione per rivisitare quelle categorie già acquisite, per dare maggior
profondità e significato ad istituti propri del diritto.
Inoltre, in ambito civilistico, le neuroscienze possono dare un contributo non solo
al giudice di per sé, ma anche e soprattutto al consulente tecnico, come abbiamo
262 Ibidem.263 I.H. Robertson, J.M.J. Murre, Rehabilitation of brain damage: brain plasticity and principles of guided recovery, in “Psychological Bolletin”, n. 125, 1999, p. 544-575.264 M. Zettin, M. Zorniotti, Capacità e competenze residue nelle gravi cerebrolesioni acquisite, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 351-358.
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visto. Possono aiutare a scoprire e a delineare meglio le abilità indebolite o assenti
di un soggetto incapace, ma ancor più importante possono individuarne i punti di
forza delle capacità rimaste; in tal modo, i provvedimenti giudiziali di nomina
dell’amministratore di sostegno (l’unico istituto che non cancella in toto la
capacità di agire di una persona) godrebbero di una ancor maggiore
“personalizzazione” e, soprattutto, di una ulteriore “umanizzazione”, necessaria
per quei soggetti definiti significativamente “fragili”.
Come sopra esposto, gli studi sul cervello possono suggerire nuovi modi di attuare
il trattamento riabilitativo, nel segno di terapie mirate a far riemergere capacità
perse o rafforzare quelle di cui si è ancora in possesso. In tal senso, risultano di
straordinario contributo per il futuro le scoperte sui neuroni specchio, nonché sul
ruolo formativo della componente emozionale.
Ragionando in tal modo, ci si rende conto che le ricerche neuroscientifiche non
minacciano il diritto: al contrario, gli offrono nuovi livelli di profondità
concettuale ed applicativa, nonché una “calibrazione umana” dei suoi istituti.
Si può accennare, ovviamente, a quelli che sono gli spauracchi evocati dalle
neuroscienze nell’immaginario collettivo, panorami su cui ci hanno già messo in
guardia la letteratura e il cinema di fantascienza. Ad esempio, un’orribile
prospettiva può essere l’idea di un ordinamento giuridico che, da “figura paterna”
che aiuta i suoi “figli” più deboli, si trasformi in un controllore assoluto, con la
facoltà di imporre “discriminazioni giuridiche” in base non al credo religioso o al
colore della pelle (come in un recente passato), bensì alla configurazione
anatomica del cervello e al corredo genetico. Si potrebbe venir a creare una
società a caste, ognuna con l’accesso a professioni specifiche (solo i “migliori” in
termini di standard cerebrali alle cariche di vertice). Teoricamente, sarebbero
caste non rigidamente chiuse, data la capacità plastica e flessibile del cervello; si
creerebbero, semmai, discriminazioni in fatto di accesso alle possibilità di
“educazione” e “forgiatura” cerebrali, in base allo status economico (anche se c’è
chi sostiene che, in un certo qual modo, già avviene una tale discriminazione e si
100
arriva a parlare di “digital apartheid”265). Si verrebbe a formare una sorta di
“meritocrazia neurobiologica”.
Lontani da scenari simili, nel nostro presente possiamo invece attuare e favorire
questo intreccio tra scienze naturali e scienze umane, traendo spunti di riflessione
e miglioramenti per le une e le altre. Sembra profilarsi una sorta di “nuovo
umanesimo”, in cui la ricerca scientifica addirittura conferma molti assunti del
senso comune: la visione di un uomo in parte razionale, in parte emotivo, in parte
istintivo, dotato di molteplici capacità, in grado di imparare dalle proprie
esperienze, indissolubilmente legato agli altri membri della sua specie.
Quella che deve essere auspicata è una “visione antropologicamente integrale”266
dell’uomo e della sua relazione corpo-mente, che unisce scienza, etica, medicina,
diritto, psicologia e filosofia.
265 E. Picozza, Problematiche di diritto pubblico e di diritto privato, in E. Picozza, L. Capraro, V. Cuzzocrea, D. Terracina, Neurodiritto. Una introduzione, cit., p. 153-160; D. Zolo, Nuovi diritti e globalizzazione, in Enciclopedia del XXI secolo, vol. II, Norme e idee, cit., p. 33-34.266 T. Bandini, G. Rocca, Fondamenti di psicopatologia forense, cit., p. 268.
101
Le neuroscienze in ambito penalistico
Il diritto penale italiano tra categorie consolidate e nuove sfide
Il diritto penale è sicuramente l’ambito giuridico in cui le neuroscienze possono
non solo contribuire ad una migliore conoscenza dell’uomo, ma soprattutto
condurre a rivedere, in una visione aggiornata, categorie ed istituti a fondamento
del sistema.
Tuttavia, se da un lato sono contributi di grande valore sia la conoscenza dei
correlati neurali delle capacità umane, sia la possibile rilevazione a livello
neurobiologico di una patologia, dall’altro si profila l’inquietante ipotesi di un
determinismo cerebrale della condotta umana. In altre parole, le posizioni
neuroscientifiche più radicali negano il libero arbitrio, non solo degli individui in
condizioni di malattia, ma anche delle stesse persone cosiddette “sane”.
Viene, in tal modo, frantumato quello che è un cardine, se non addirittura una
ragion d’essere, del diritto: la capacità di compiere scelte libere e consapevoli, che
potendo tramutarsi in condotte criminose sono suscettibili di rimprovero e
punizione. Il diritto penale nasce, infatti, con un’originaria funzione sanzionatoria:
la condotta che lede o pone in pericolo un bene, considerato meritevole di tutela,
deve essere punita.
102
Ma se l’uomo non è libero di decidere quale scelta compiere, quale corso d’azione
perseguire, se egli è “obbligato” a comportarsi in un certo modo, allora perde
senso la pena in se stessa.
Il diritto penale ha tra i suoi fondamenti la responsabilità personale, la
colpevolezza, la volontà e la coscienza dell’agire, nonché l’intenzionalità della
condotta. Ne conseguono poi i concetti di rimproverabilità, di imputabilità e, non
ultimo, la rieducazione del reo. Ma alla base, come premessa implicita, vi è la
libera autodeterminazione dell’uomo.
Affermando l’illusorietà del libero arbitrio, vi è chi giunge ad affermare che gli
uomini non possono essere oggetti di biasimo o di lode più di quanto lo possa
essere un mattone267. Viene a perdersi la stessa possibilità di “giudicare” un
individuo.
Al che, viene da chiedersi: il libero arbitrio è una qualità umana, che richiede di
conseguenza uno strumento di guida e di tutela quale è il diritto, o è il diritto,
insieme con filosofia ed etica, a “costruirlo” artificialmente, in risposta ad un
disperato bisogno dell’uomo di reputarsi libero?
Come abbiamo già affrontato in precedenza, sono diversi gli orientamenti, sia in
filosofia, sia specificatamente nelle scienze cognitive, che si scontrano sul tema; e
sembrano essere attualmente “in vantaggio” le opinioni a favore di una libertà
decisionale, almeno parziale, dell’uomo; almeno fino a quando non sarà
dimostrata con certezza la tesi a favore del determinismo.
Data la sua natura di “scienza del comportamento umano”, il diritto non può
ignorare le scoperte extragiuridiche sull’uomo e sui fattori che incidono la sua
condotta. Proprio in ragione del suo essere una scienza che nasce dall’uomo ed è a
lui rivolta, non può esimersi dall’adeguarsi alla nuova prospettiva che si sta
delineando: un modello comportamentale dell’individuo in cui confluiscono
molteplici cause e variabili, di origini genetiche, ambientali, culturali e cerebrali.
Possiamo, perciò, analizzare le basi concettuali del nostro sistema giuridico, come
esse possano reggere il confronto con l’ipotesi di un determinismo neurobiologico
ed eventualmente in che modo possano essere rivisitate alla luce del modello
neuroscientifico.
267 J.D. Greene, J. Cohen, For the Law, Neuroscience Changes Nothing and Everything, in “Philosophical Transactions of the Royal Societies B”, n. 359, 2004, p. 1775-1785.
103
Il sistema penale: caratteristiche generali e ispirazioni di fondo
Innanzitutto, il nostro diritto penale assume un modello cosiddetto “misto”, ossia
in cui vengono presi in pari considerazione sia il fatto materiale costituente reato,
sia l’elemento psicologico caratterizzante il reo al momento in cui ha posto in
essere la condotto criminosa.268 Si configura, in tal modo, un diritto penale del
fatto (nel senso di “fatto che sia espressione di consapevole, rimproverabile
contrasto con i valori della convivenza, espressi dalle norme penali”269). In
concreto, ad essere rilevanti ed oggetto di giudizio sono sia la capacità di
intendere e di volere (presupposto dell’imputabilità), sia la pericolosità sociale
dell’individuo: in presenza della prima, vi sarà assoggettabilità alla pena; in
presenza della seconda, vi sarà l’applicazione di una misura di sicurezza. Questa
descrizione a grandi linee delinea la logica del cosiddetto “sistema del doppio
binario”, schema fondamentale in cui si articola il nostro diritto penale.
Per comprendere come si è giunti a tale architettura è necessario rievocare le due
scuole di pensiero che hanno principalmente caratterizzato la storia della scienza
penalistica italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento: la Scuola Classica e la
Scuola Positiva.
Secondo la Scuola Classica, sviluppatasi nella seconda metà del XIX secolo, il
reato è un ente concettuale giuridico (e non un mero fenomeno empirico o
sociale), consistente in un’azione umana prodotta dalla libera volontà di un
soggetto moralmente responsabile o pienamente imputabile. L’uomo viene
considerato, di principio, come dotato di libero arbitrio, perciò il delitto non può
essere la conseguenza di circostanze casuali o ambientali, bensì sempre il frutto
di una scelta personale e, di conseguenza, colpevole. La valutazione del diritto
penale deve indirizzarsi non alla personalità del reo, ma al singolo fatto delittuoso,
nella sua oggettiva gravità commisurata alla rilevanza del bene leso. In tale ottica,
la maggior parte degli esponenti della Scuola Classica aderivano ad una
268 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p.38-39.269 Corte Cost., sent. 24 marzo 1988, n. 364.
104
concezione della pena “retribuzionistica” (a differenza, però, di Francesco
Carrara, il quale, rifiutando la commistione di valutazioni etiche e giuridiche,
poneva come scopo principale della pena il ristabilimento dell’ordine sociale).270
Per la Scuola Positiva (in riferimento al “positivismo criminologico”), sorta negli
ultimi trent’anni dell’Ottocento, il delitto deve essere concepito come un
fenomeno naturale, bio-psicologico e sociale, e l’uomo stesso appare esposto ai
più diversi condizionamenti, che arrivano ad annullarne una volontà libera. Il
delinquente non può scegliere né discriminare tra bene e male o giusto e sbagliato,
poiché soggetto ad un determinismo naturale che lo costringe senza scampo a
tenere una condotta criminosa. Il reato rappresenta la manifestazione esplicita
della “naturale” pericolosità dell’individuo. Non esistendo la possibilità del libero
arbitrio, vengono meno i principi di imputabilità e colpevolezza individuale; non
solo: la stessa pena non può più essere retributiva. Viene, perciò, predicata una
“responsabilità sociale” della propria condotta e, soprattutto, la cosiddetta
“pericolosità sociale” dell’individuo, di cui il reato rappresenta una
manifestazione esplicita; sul piano sanzionatorio, la pena retributiva lascia il posto
alla “misura di sicurezza”, di durata temporale indeterminata. Il diritto penale non
può che essere uno strumento di difesa sociale, atto a neutralizzare i criminali, e
da scienza normativa si tramuta in una scienza empirico-sociale. Da giudicare,
perciò, non è tanto il fatto, quanto la personalità del soggetto, da cui la società
deve difendersi. In aiuto del diritto penale, vengono realizzati diversi studi
criminologici dell’“uomo delinquente”, in particolare quelli di Cesare Lombroso e
di Enrico Ferri, giungendo a classificazioni dei fattori causali e a suddivisioni per
tipi dei soggetti criminali.271
Per molti versi, un compromesso tra le prospettive delle due scuole si ebbe con la
codificazione penale del ’30, il “codice Rocco”, dal nome del Guardasigilli
dell’epoca, il giurista Alfredo Rocco, aderente all’indirizzo del tecnicismo
giuridico. Pur essendo presenti in alcune sue parti inevitabili influenze del regime
fascista, il codice presenta ascendenze culturali e ideologiche diverse (in
particolare quella liberale) e, nel corso dei decenni, è stato sottoposto a numerosi
270 G. Fiandaca, E. Musco, Introduzione. Origine ed evoluzione del diritto penale moderno, in Id., Diritto penale. Parte generale, Zanichelli editore, Bologna, 2008, p. XXI-XXIII.271 Ibidem, p. XXIV-XXIX.
105
interventi riformatori all’insegna, prima, della coerenza con i principi
costituzionali e, in tempi recenti, della depenalizzazione di molti illeciti, nel solco
di una tendenziale “umanizzazione” del diritto penale.
Le principali caratteristiche del nostro codice e del sistema penale italiano sono: i
tre principi del reato (materialità, necessaria offensività e colpevolezza), nonché la
sua concezione bipartita (elemento soggettivo ed elemento oggettivo) o tripartita
(tipicità, antigiuridicità e colpevolezza); l’ispirazione al principio di colpevolezza
(con il dolo e la colpa come criteri di imputazione); il carattere personale della
responsabilità (nonostante la sopravvivenza di alcune ipotesi di responsabilità
oggettiva); la tutela dei beni giuridici costituzionalmente orientata; sul piano
sanzionatorio, il sistema del doppio binario (un’assoluta novità al tempo della sua
introduzione nel ’30), articolato in pena e misura di sicurezza, e la finalità
rieducativa e risocializzante della sanzione.
Non potendoci soffermare approfonditamente su ognuna delle caratteristiche del
diritto penale, prendiamo in considerazione solo quelle categorie e quegli istituti
rilevanti ai fini della nostra trattazione.
L’azione umana dal punto di vista giuridico: suitas, responsabilità
e colpevolezza
Ancor prima di addentrarsi nel concetto di colpevolezza, è da rilevare come il
diritto penale opera una scelta filosofica di fondo, ossia l’adesione ad una
concezione dell’uomo come capace di autodeterminarsi. Pur non entrando
apertamente nella disputa etica al riguardo, il sistema penale concepisce
l’individuo come dotato di libero arbitrio, in grado di scegliere tra diversi corsi
d’azione, e lo pone come fondamento a priori del concetto di responsabilità
personale. Il diritto si accontenta del semplice dato esperienziale che ognuno fa
nel corso della sua vita cosciente, senza pretenderne alcuna dimostrazione
empirica. Addirittura, il diritto penale si rende garante della libertà di scelta
personale, richiedendo ai fini della punibilità la presenza di coefficienti soggettivi,
ossia il dolo e la colpa. Chiunque verrà chiamato a rispondere penalmente soltanto
106
delle azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo casualmente
hanno prodotto conseguenze penali.272
A partire da queste premesse, il diritto penale costruisce un proprio modello
dell’essere umano e dell’azione rilevante giuridicamente, prendendo in
considerazione proprio “ciò che accade nella mente del soggetto attivo del
reato”273.
Il diritto penale tiene in alta considerazione ciò che avviene a livello mentale di un
individuo. La mente del soggetto che pone in essere un’azione criminosa, infatti,
deve avere tre requisiti fondamentali: essere presente (art. 42, comma 1, c.p.,
“nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge
come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”), essere
rimproverabile (art. 43 c.p., che disciplina l’elemento psicologico del reato nelle
forme di dolo, colpa e preterintenzione, in particolare “il delitto è doloso o
secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell’azione od omissione […], è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza
della propria azione od omissione”) ed essere sana (art. 85 c.p., comma 1,
“nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al
momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”, e comma 2, “è imputabile
chi ha la capacità di intendere e di volere”).
Nell’ambito del processo, avvengono infatti tre valutazioni delle condizioni
psichiche dell’individuo, corrispondenti ai richiami codicistici appena fatti:
nell’alveo dell’accertamento della colpevolezza, devono avvenire innanzitutto
l’accertamento della suitas e l’accertamento dell’imputabilità.
Con il termine di suitas, ci si riferisce all’indagine sulla “riconducibilità o
attribuibilità di una condotta materiale al suo autore”274, ossia il porre in essere
un’azione o un’omissione con la partecipazione effettiva della “coscienza e
volontà”.
Con quest’ultima espressione (concettualmente distinta dalla “capacità di
intendere e di volere”) viene utilizzata per indicare la “presenza di un minimo
272 Corte Cost., sent. 24 marzo 1988, n. 364.273 D. Terracina, Problematiche del diritto penale, in E. Picozza, L. Capraro, V. Cuzzocrea, D. Terracina, Neurodiritto. Una introduzione, cit., p. 206.274 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p.38-41.
107
coefficiente di mente umana all’interno di un accadimento”275, per distinguerlo da
meri fenomeni naturali.
La condotta, ancora prima che essere dolosa o colposa, deve essere “umana” ed è
tale solo quella rientrante nella “signoria della volontà”, ciò che la differenzia
dagli accadimenti naturali e dalle mere inerzie meccaniche.276
Si badi bene: la suitas si riferisce esclusivamente all’attribuibilità dell’azione e
non agli effetti da essa prodotti (considerati, invece, in sede di giudizio di
colpevolezza).
Ciò che a noi interessa è, ovviamente, il caso in cui sia assente il requisito di
“coscienza e volontà”. Definita come “mancanza del nesso psichico”, essa viene
ricondotta tra le cause di esclusione del reato, dato che, facendo venir meno
l’elemento soggettivo, la condotta non integra il fatto tipico previsto dalla legge.
Secondo l’Antolisei277, le circostanze che eliminano il nesso psichico
appartengono a tre categorie: forza maggiore; costringimento fisico; incoscienza
indipendente dalla volontà.
Nelle prime due, il nesso psichico tra volontà e comportamento è spezzato da una
forza fisica (naturale nel primo caso, umana nel secondo). La terza, invece,
configura tutte quelle situazioni in cui un soggetto commette un reato in uno stato
mentale patologico non derivante da infermità (sonnambulismo, ipnosi, ecc.).
Secondo Romano278, invece, si può parlare di presenza del nesso psichico (e si
può, dunque, ancora parlare di comportamento umano): fatti compiuti in stato
emotivo; atti “semiautomatici”, compiuti per una certa parte in forma
inconsapevole, ma di per sé dominabili (quelli che, in termini freudiani, si
definiscono “preconsci”).
Vi è invece assenza del nesso psichico nei casi di: atti o movimenti corporei
indotti da forza maggiore o costringimento fisico irresistibile (ossia, una violenza
che annulla ogni volontà); atti o movimenti corporei in stato di piena incoscienza
(sonno, ipnosi, svenimento, ecc.); puri atti o movimenti riflessi, indotti da una
stimolazione diretta del sistema nervoso.
275 Ibidem.276 F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, CEDAM, Padova, 2007.277 F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1991, p. 357.278 M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Vol. 1, Giuffrè, Milano, 2004, p. 422.
108
Parliamo, quindi, in generale, di comportamenti forzati dall’esterno oppure
dall’interno.
Basandoci su ciò che affermano le neuroscienze, ossia che la maggior parte delle
nostre azioni viene originata da meccanismi inconsci, sfuggenti dunque sia a
volontà sia a coscienza, sembra corretto ipotizzare che si potrebbero configurare
casi molto più numerosi di assenza del nesso psichico. Ricordiamo gli esperimenti
di Libet (tralasciando momentaneamente le obiezioni ai suoi studi, esposte nel II
capitolo della trattazione), secondo il quale l’intenzione di compiere una qualsiasi
azione provoca un’attività a livello cerebrale ancor prima della decisione di porla
in essere: potremmo ancora parlare di “coscienza e volontà dell’azione”? Libet
sostiene che possediamo solo un “potere di veto” sull’azione, cioè decidere se
proseguire il movimento o meno: dovremmo forse mutare la suitas in una
indagine per constatare se il soggetto aveva o no posto resistenza all’intenzione
“cerebrale” di agire?
Lo stesso neuroscienziato Michael Gazzaniga279 afferma che sarebbe più
opportuno parlare di “libero veto”, anziché di “libero arbitrio”: l’uomo è libero
non perché capace di autodeterminarsi, quanto per la facoltà di bloccare e
controllare i suoi impulsi deterministicamente generati. Vi è già chi ipotizza che,
considerate le recenti scoperte sulla correlazione tra comportamenti violenti
incontrollati e compromissioni di circuiti cerebrali inibitori, il criminale non sia
altro che un individuo che ha perso la sua capacità di veto.280
Il diritto già chiarisce che solo le azioni dotate di intenzionalità sono rilevanti
giuridicamente e che riflessi ed automatismi non rientrano tra i fatti umani. I
comportamenti del cervello sarebbero, quindi, fatti naturali, paragonabili
all’esempio di scuola della tegola che cade dal tetto? Dobbiamo forse cercare
nuovi criteri per stabilire quando un atto appartiene realmente al suo autore?
È da aggiungere, però, una riflessione: l’imputazione penale si configura solo
quando un individuo sia in grado di dominare gli eventi. Detto in altri termini, è
configurabile ogni volta che un soggetto ha la possibilità di agire diversamente:
279 M.S. Gazzaniga, La mente etica, cit..280 P. Pietrini, V. Bambini, Homo Ferox: il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei comportamenti aggressivi e criminali, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 60.
109
potremmo incastonare in questo assunto giuridico il “potere di veto” di cui parla
Libet e reinterpretarlo come la “possibilità di fare altrimenti”.
Affrontiamo ora il tema della colpevolezza e della responsabilità personale.
L’elemento psicologico del reato, la colpevolezza, consiste nel concorso della
volontà al fatto materiale. Essa si può anche definire come il “parametro
valutativo della relazione psicologica fatto-autore”281, presentando due forme
diverse di partecipazione interiore al fatto: la distinzione tra dolo, ossia la
volontarietà del fatto, e colpa, cioè l’involontarietà di esso.
Inoltre, l’art. 27 Cost. afferma il carattere “personale” della responsabilità penale,
limitando quest’ultima al fatto proprio e colpevole e rendendo rimproverabile la
condotta illecita.
Trattandosi della partecipazione psicologica al compimento del fatto, il giudizio di
colpevolezza si risolve in una valutazione etico-normativa dell’atteggiamento
psicologico del reo.282
Analizzando più specificatamente l’istituto cardine del sistema penale, la
categoria della colpevolezza rappresenta l’espressione del convincimento, da parte
del diritto, che l’uomo sia dotato di libero arbitrio. L’atteggiamento in relazione
ad un comportamento è rimproverabile solo nella misura in cui tale atteggiamento
nasce libero (in ciò consiste la base della concezione retributiva della pena).
Di fondamentale importanza è ricordare che il giudizio di colpevolezza rimane un
giudizio sul fatto, e non sull’autore: ad essere valutato è l’atteggiamento in
relazione ad una certa condotta, non la personalità del soggetto. Essendo il nostro
un diritto penale del fatto, è inammissibile la figura della “colpa d’autore”, come
colpevolezza per il carattere o per la condotta di vita.283 Il principio è espresso
all’art. 220, comma 2, c.p.p., con il divieto di perizia psicologica o criminologica,
salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di
sicurezza.
Il giudizio di colpevolezza è un giudizio psicologico di assoluta competenza del
giudice: non deve mai essere permesso ad un perito o a un consulente di andare
281 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 309.282 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p.38-47.283 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 310.
110
oltre la valutazione della capacità di intendere e di volere, sconfinando in una
valutazione del dolo e della colpa.
In capo al giudice, vi è il difficile compito di stabilire se il soggetto innanzi a lui è
responsabile e, dunque, colpevole per la condotta posta in essere: entrambi i
concetti sono costrutti giuridici e sociali che non hanno una controparte fisica nel
mondo empirico.
Il compito del giudice è di natura prettamente epistemologica, è una ricerca della
verità riguardo ad un fatto storico e alla persona-agente che ha leso o posto in
pericolo un bene giuridico. A rilevare, in tale contesto, non sono dati meramente
empirici, bensì valori.
Per questo motivo è futile qualsiasi confronto tra la concezione normativa di
responsabilità e qualsiasi tentativo, da parte di altri saperi, di elaborare una
versione neurologica, genetica o genericamente biologica della responsabilità.
Ad impedire ciò è la natura ontologica del concetto, imperniato di valenze etico-
filosofiche e normative sconosciute e insondabili per le scienze (cognitive e non).
Si possono cercare le sedi neurologiche del giudizio morale e dell’empatia, per
spiegare il disprezzo o la compassione. Ma non possono andare oltre e ricercare
parimenti le basi biologiche di singoli concetti e costrutti. Come è stato fatto
notare dal neuroscienziato Neil Levy, è e rimarrà impossibile riuscire a rilevare il
correlato neurale distintivo di un singolo pensiero.284 Come si può pretendere di
riuscirvi con un concetto etico quale la responsabilità personale?
E l’esito di un giudizio confermativo di colpevolezza è, allo stesso modo, intriso
di eticità e valore: l’inflizione della pena avviene all’insegna della rieducazione
del reo ai valori sociali condivisi, in vista del suo futuro ritorno nella società,
come sancito all’art. 27, comma 2, della Costituzione.
Ciò su cui possono illuminarci i saperi extragiuridici, quali le neuroscienze, è,
semmai, in fase di esecuzione della pena, quale può essere il trattamento più
adatto per il reo, in una visione di personalizzazione della pena. Se e quale
potrebbe essere una misura alternativa migliore della detenzione, dando spazio ad
una maggior comprensione delle problematiche individuali. Possono qui rivelarsi
utili le recenti acquisizioni sulla componente emotiva dei processi decisionali: un
284 N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 143-148.
111
eventuale “deficit emotivo” potrebbe richiedere un’assistenza mirata al fine di
rieducare ai valori sociali. Senza dimenticare le dinamiche che vedono
protagonisti sia i neuroni specchi di emulazione del comportamento dell’Altro, sia
l’empatia come sensazione umana di base.
Quelle che si offrono sono prospettive di ampliamento e umanizzazione di un
dialogo, spesso trascurato, con il reo.
Sono ovvi e palesi gli attuali problemi della carcerazione in Italia, da risolvere con
più urgenza rispetto all’introduzione di metodiche di trattamento umane.
Ritengo, comunque, che il Legislatore dovrebbe non solo esser sempre
consapevole della necessaria funzione rieducativa della pena, ma anche aspirare a
trovare concrete attuazioni di tale principio, nell’ottica di un diritto penale umano.
L’imputabilità e l’infermità secondo il nuovo modello
neuroscientifico
L’imputabilità si configura come il presupposto della colpevolezza, nonché della
rimproverabilità individuale.
Nessuno, infatti, può essere punito per un fatto che, al momento in cui lo ha
commesso, non era imputabile. La possibilità di muovere un rimprovero ha senso
solo se è rivolto ad un individuo dotato della capacità di determinarsi in modo
libero, autonomo e consapevole.
Dal punto di vista sostanziale, il nostro ordinamento prevede, all’art. 85 c.p., che
“è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere” al momento della
commissione del fatto. Vi è chi ha affermato che il Legislatore avrebbe accolto un
concetto di “imputabilità psicologica”, ravvisabile quando esiste “autonomia
psichica”, come processo cognitivo e volitivo non inficiato da cause
psicopatologiche.285
Secondo la giurisprudenza di legittimità, come “capacità di intendere” è da
ritenersi l’idoneità psichica del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie
azioni, ad orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della
285 R.A. Frosali, Sistema penale italiano, Utet, Torino, 1958.
112
realtà, e quindi di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di
valutarne conseguenze e ripercussioni.286
La “capacità di volere”, invece, viene definita come la libertà di scegliere in modo
selettivo fra due o più azioni egualmente attuabili e come il potere di controllare
gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più
ragionevole e preferibile.287
Nel rapportarsi con i precedenti istituti esaminati, la colpevolezza e la suitas, sono
rilevabili delle incertezze e delle contraddizioni in ambito applicativo.288
In rapporto alla colpevolezza, spesso si crea una confusione inammissibile tra
l’esame dell’elemento psicologico del reato e l’indagine sullo stato di mente del
reo: il perito può far vertere la sua valutazione su una capacità del soggetto di
compiere il reato o, addirittura, sullo stesso elemento soggettivo.289
In relazione alla suitas, invece, è da evidenziare quella che può sembrare una
contraddizione: l’assenza del nesso psichico in un’azione determinata dal cervello
non viene ritenuta neppure un fatto umano; l’azione frutto di una mente malata è
comunque reputata umana, seppur priva di libero arbitrio. Mentre alla seconda
l’ordinamento può prevedere l’irrogazione di una misura di sicurezza, per la prima
invece non è prevista alcuna forma di reazione.290
L’ordinamento prevede, accanto ad una presunzione di imputabilità per ogni
individuo maggiorenne, una serie di cause tipiche di esclusione della capacità di
intendere e di volere: la minore età, il vizio di mente parziale o totale, la cronica
intossicazione da alcool o stupefacenti, l’ubriachezza accidentale, il
sordomutismo.
Tuttavia, tale elenco non è tassativo, essendo considerate altrettanto escludenti
l’imputabilità anche altre cause che abbiano in concreto l’effetto di escludere la
capacità di intendere e di volere.
In tal senso, l’indagine sull’imputabilità richiede un accertamento sulla presenza
delle capacità richieste dalla legge e su qualsiasi fenomeno che le faccia venir
meno.
286 Cass. pen., sez. I, 1 giugno 1990, n. 13202.287 Ibidem.288 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 52-54.289 Ibidem.290 Ibidem.
113
Il giudizio di imputabilità è costruito su due piani: uno patologico e l’altro
psicologico-normativo.291
Il primo livello rappresenta il momento diagnostico, di accertamento e
inquadramento del disturbo psichico.
Il secondo, invece, attiene all’indagine sulla rilevanza da attribuire al disturbo
psichico, ossia la sua effettiva incidenza sulla capacità di intendere e di volere.
A sua volta, il piano psicologico-normativo si articola nelle due fasi:
psicopatologica e normativa.
La fase psicopatologica vede protagonista l’esperto, il quale deve offrire al
giudice, in base alle proprie conoscenze scientifiche, una spiegazione relativa alle
caratteristiche dell’infermità mentale e alla sua idoneità ad annientare o solo
compromettere la capacità di intendere e di volere dell’imputato.
La fase normativa, invece, spetta esclusivamente al giudice, che dovrà risolvere la
questione della responsabilità del soggetto alla luce della perizia.
Fondamentale ai fini del giudizio dell’imputabilità è una pronuncia delle sezioni
unite della Corte di Cassazione, la sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005, che ha
ampliato i confini dell’infermità mentale, accogliendo anche le ipotesi più
controverse: i disturbi della personalità, dando rilievo in tal modo anche alle
psicopatie, alle nevrosi e ai disturbi affettivi. La loro rilevanza ai fini
dell’imputabilità, però, è subordinata all’accertamento, da parte del giudice, della
loro gravità e intensità, tali da escludere o far scemare grandemente la capacità di
intendere e di volere e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa. Non
solo: la giurisprudenza di legittimità, nella medesima sentenza, afferma che
l’idoneità a far venir meno la capacità di intendere e di volere può essere rilevata
anche in uno stato emotivo e passionale, nel caso particolare dovuto allo stress
conseguente alla crisi del rapporto coniugale, associato ad uno status patologico
anche transitorio. In tal modo, si permette alla categoria dell’imputabilità di
divenire propriamente la condizione dell’autore, che rende possibile la
rimproverabilità del fatto.
L’importanza di tale pronuncia va ancora oltre: affermando la presenza di un
“collegamento ‘aperto’ con un sapere scientifico in evoluzione”, vengono
291 M. Bertolino, Il “breve” cammino del vizio di mente. Un ritorno al paradigma organicistico?, in A. Santosuosso (a cura di), Le neuroscienze e il diritto, cit., p. 121-136.
114
riconosciuti la necessaria collaborazione tra giuristi e scienziati, il principio di
decisioni scientificamente fondate per il giudice, nonché quello di pareri ad alta
affidabilità scientifica per l’esperto.292 Inoltre, viene sottolineato il duplice piano
dell’imputabilità, empirico e normativo, e il dovere di valorizzare, per una sua
ridefinizione, le più aggiornate acquisizioni scientifiche, nonostante la pluralità di
paradigmi interpretativi psichiatrici esistenti. Il giudice deve considerare le
acquisizioni scientifiche che siano, da un lato, quelle più aggiornate e, dall’altro,
quelle più generalmente accolte e condivise, con una prassi generalizzata dei loro
protocolli.293
Tra le cause di esclusione dell’imputabilità, il concetto di vizio di mente
rappresenta la più controversa e dibattuta. Previsto a livello normativo all’art. 88
c.p., il vizio di mente derivante da infermità può rendere non imputabile soltanto
qualora sia di tale entità da escluderne la capacità di intendere e di volere.
Il problema che si è profilato in sede di accertamento è che il concetto di “malattia
mentale” non è univoco, dato che i disturbi che integrano una patologia possono
mutare a seconda del paradigma psichiatrico adottato dall’esperto.
Nel corso del Novecento, la stessa scienza psicopatologica ha operato diversi
cambiamenti di paradigma, causando un’ulteriore confusione in ambito giuridico
in relazione al suo accertamento.294
Originariamente, la nozione di malattia mentale faceva riferimento al modello
“medico”, che la delineava secondo criteri clinico-organicistici e, dunque, si aveva
malattia mentale solo in presenza di un substrato biologico. A questo paradigma si
era ispirato il Legislatore del ’30.
In seguito, si impose un modello “psicologico”, che offriva un concetto di malattia
mentale più ampio, ricomprendente anche disturbi psichici a carattere non
patologico. Tale paradigma nasceva dal progressivo processo di
demedicalizzazione del disturbo psichico, sganciato da cause organico-genetiche.
Si profilava in tal modo una prospettiva “pluricausale” della malattia mentale, non
più “monocausale”.295
292 M. Bertolino, Imputabilità: scienze, neuroscienze e diritto penale, comunicazione personale con il prof. Roberto Zannotti.293 Ibidem.294 Ibidem.295 Ibidem.
115
Parallelamente, anche in ambito giurisprudenziale il concetto di “infermità”
assumeva un significato più ampio di quello di “malattia”, considerando ai fini
dell’imputabilità anche le cosiddette “anomalie psichiche”, disturbi non
psichiatrici e di natura transitoria, ma riconducibili alla psicopatologia clinica.
Tuttavia, rimaneva il dubbio se le nevrosi, le psicopatie e, in generale, le
abnormità psichiche avrebbero potuto essere ricondotte al concetto di “infermità
di mente”. Il paradigma psicologico, infatti, non riconosceva loro una condizione
di patologicità: venivano considerate mere anomalie del carattere o della sfera
affettiva, perciò irrilevanti per il giudizio di imputabilità.296
A sua volta, il modello “psicologico” venne messo in crisi dal modello successivo,
definito “diagnostico-sintomatologico”, basato sul Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders (DSM), redatto nel 1952 dall’American Psychiatric
Association (APA). Aggiornato nel corso dei decenni, è prevista la sua quinta
edizione, il DSM-V, per il 2013. La peculiarità di tale paradigma è l’abbandono
della ricerca delle cause del disturbo psichico, limitandosi a prenderne in
considerazione i sintomi statisticamente riconosciuti.
Il pregio del DSM, però, si rivela anche il suo difetto maggiore: la connotazione
meramente descrittiva e la ateoreticità non gli permette di offrire sufficienti
garanzie di scientificità in ambito forense. La sua utilità a livello operativo non
integra le necessità presenti, invece, in un giudizio di imputabilità, in cui è
richiesta una spiegazione causale della malattia mentale.297
Contemporaneamente, emerge un ulteriore modello interpretativo della malattia
mentale, cosiddetto “integrato”, secondo il quale il disturbo psichico viene
originato da più fattori (biologici, sociali, psicologici, relazionali), secondo una
prospettiva “multifattoriale” integrata.
Infine, giungiamo al più recente paradigma esplicativo della malattia mentale,
ossia quello delle neuroscienze, definito “scientifico-tecnologico”. La visione
neuroscientifica del disturbo psichico possiede un alto coefficiente di scientificità,
dato che è in grado di identificare le zone del cervello che, in presenza di una
neuropatologia, funzionano in maniera anomala. In particolare, gli attuali studi
296 Ibidem.297 Ibidem.
116
delle neuroscienze sembrano in grado di individuare un substrato cerebrale anche
per i disturbi della personalità, come nel caso del criminale psicopatico.298
La caratteristica più rilevante del modello neuroscientifico consiste proprio
nell’impiego di tecnologie all’avanguardia di scansione cerebrale, o
neuroimaging.299
Ad esempio, attraverso la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la
risonanza magnetica funzionale (fMRI), si può misurare l’attività cerebrale in vivo
di un individuo mentre svolge un determinato compito cognitivo. La misurazione
si basa sulla scoperta che le regioni cerebrali in cui aumenta l’attività sinaptica
(perché impegnate in un certo compito) richiedono maggior energia (glucosio e
ossigeno) e, di conseguenza, aumenta il flusso ematico in quelle zone.
Un’altra tecnologia di brain imaging è la Voxel Based Morphometry (VBM), che
permette di studiare la densità della materia grigia e bianca nel cervello,
individuando alterazioni anatomiche anche minime.300
Inoltre, accanto a tecniche prettamente di indagine cerebrale, sono stati ideati
diversi test neurocognitivi diretti a mostrare i meccanismi psicologici e cerebrali
sottostanti le funzioni di interesse. Ricorrendovi nell’ambito di un esame
neuropsicologico, tali compiti cognitivi possono essere applicati per valutare la
presenza di complessi stati mentali o di abilità: simulazione/dissimulazione,
capacità di pianificazione, capacità di comprendere e provare emozioni, abilità di
ragionamento e giudizio morale.301
Il modello neuroscientifico potrebbe rivelarsi utile per una rivisitazione del
concetto di “capacità di intendere”. Abbiamo già visto la teoria dei markers
somatici di Antonio Damasio e la sua dimostrazione sull’importanza della
componente emotiva nel processo decisionale. Sulla medesima linea di ricerca,
una tematica interessante è la cosiddetta “intelligenza sociale”, cioè l’insieme
delle capacità che permettono all’individuo di tenere un comportamento adeguato
in un contesto sociale.
Se consideriamo la “capacità di intendere” come la facoltà di prevedere le
conseguenze delle proprie azioni e di “fare altrimenti”, allora tale capacità risulta
298 Ibidem.299 A. Stracciari, A. Bianchi, G. Sartori, Neuropsicologia forense, cit., p. 117-149.300 Ibidem.301 Ibidem.
117
gravemente menomata in diversi disturbi psichici nei quali, pur mantenendosi
integre le abilità logico-razionali, si presentano alterazioni dell’intelligenza
sociale. Esse possono tradursi o in una carenza (per esempio, un deficit
dell’empatia) o in un eccesso (ipersocialità).302
Tra gli aspetti dell’intelligenza sociale, quello che riveste un ruolo maggiore è
l’empatia. Ciò che è emerso da numerosi studi è che tale abilità permette il
riconoscimento, la comprensione e l’apprendimento dei sentimenti altrui.303
Possedere capacità empatiche minime è fondamentale per costruire relazioni
interpersonali e per mantenere un comportamento sociale adeguato. L’abilità di
comprendere la sofferenza altrui permette di guidare le proprie azioni allo scopo
di evitare azioni che provochino sofferenza.
L’empatia la si può apprezzare meglio se consideriamo i soggetti che invece ne
risultano sprovvisti (per patologie congenite o acquisite): questi, infatti, non sono
in grado di interpretare in maniera adeguata i segnali di sofferenza e disagio
nell’altro e non riescono ad adattare il proprio comportamento al fine di diminuire
la sofferenza dell’altro. Inoltre, si ritiene che, quando si assiste ad una riduzione
dell’empatia, viene a mancare la controspinta inibitoria della risposta aggressiva e
impulsiva. Alcune patologie, pur diversissime tra loro, sono caratterizzate da
ridotte capacità empatiche: autismo, schizofrenia, psicopatia e degenerazione
fronto-temporale. Si è osservato che in tali soggetti siano presenti delle anomalie
strutturali o funzionali delle regioni cerebrali preposte alla mediazione dei
comportamenti empatici. Per esempio, negli individui con psicopatia congenita è
stata trovata una riduzione del volume dell’amigdala.304
In tal modo, sarebbe preclusa la facoltà di porre in essere comportamenti
prosociali e verrebbe, invece, favorito il mantenimento di una condotta aggressiva
e violenta. Perciò, il reo portatore di una malattia psichica e con una ridotta
empatia può non comprendere lo stato emotivo delle vittime e, di conseguenza,
impossibilitato a fermarsi davanti a sofferenza e paura.305
Un altro aspetto dell’intelligenza sociale è il “pensiero morale”, inteso come la
capacità di identificare il disvalore sociale di una certa condotta. Attraverso la
302 Ibidem.303 Ibidem.304 Ibidem.305 Ibidem.
118
registrazione tramite fMRI, sono state individuate quelle che sarebbero le aree
cerebrali sedi dei giudizi morali. In particolare, effettuando studi su pazienti con
lesioni nelle medesime aree, è emerso che tali individui possiedono un pensiero
morale eccessivamente utilitaristico e una ridotta sensibilità alle informazioni
emotive, che incidono sui processi di decisione di tipo etico.306
Un’ulteriore facoltà dell’intelligenza sociale è quella del cosiddetto
“ragionamento controfattuale”, ossia di rappresentarsi mentalmente possibili
comportamenti e scenari alternativi. Mentre normalmente con tale espressione ci
si riferisce al processo di ricostruzione a posteriori dell’evento criminoso da parte
del giudice, in questo contesto essa indica lo stesso meccanismo di pensiero ma
rivolto al futuro. Nella psichiatria forense, il suo accertamento è un aspetto critico
dell’intera valutazione, poiché il ragionamento controfattuale indica la capacità
nel soggetto di alterare intenzionalmente gli eventi.307
Se a causa di una patologia tale facoltà risulta carente, la conseguenza pratica sarà
un individuo che immagina un numero inferiore al normale di alternative
comportamentali e la sua scelta ricadrà su un numero più ristretto di possibilità. In
altre parole, uno spazio ridotto di libero arbitrio. Tra le regioni cerebrali coinvolte,
in particolare vi è l’area orbito-frontale (situata nella corteccia prefrontale),
coinvolta anche nelle funzioni di controllo esecutivo e nell’integrazione di
emozioni e processi cognitivi durante la pianificazione di una condotta. Lesioni a
tali regioni producono nell’individuo una diminuita produzione spontanea di
pensieri controfattuali e l’incapacità di anticipare le eventuali conseguenze
negative delle loro azioni. Alterazioni del ragionamento controfattuale si
riscontrano in numerosi disturbi psichiatrici: ad esempio, un suo eccesso è
presente nei disturbi d’ansia e nella depressione, mentre un deficit è riscontrabile
nella schizofrenia.308
Un’abilità, invece, che il modello neuroscientifico riconduce alla “capacità di
volere” è la facoltà di controllo volontario sulle proprie azioni, o meglio di blocco.
306 Ibidem.307 Ibidem.308 Ibidem.
119
In diverse patologie risulta gravemente compromessa, se non assente, (ad esempio
il disturbo ossessivo-compulsivo o il disturbo borderline di personalità) e si
manifesta, al contrario, impulsività in ogni azione e l’incapacità di bloccarla.
In relazione alla citata sentenza della Cassazione del 2005 e all’inclusione dei
gravi disturbi di personalità nella categoria di “infermità mentale”, il paradigma
neuroscientifico potrebbe rivelarsi anche in questo caso utile, allo scopo di
rilevare i correlati anatomo-funzionali dei disturbi di personalità. Nella loro forma
grave, i disturbi di personalità hanno, infatti, una maggior probabilità di avere dei
correlati microstrutturali (più è intensa la sintomatologia, più è alta la possibilità
di alterazioni microstrutturali), individuabili tramite la Voxel Base Morphometry
(VBM). Nella loro forma lieve, invece, non è rilevabile alcunché. Potrebbe
rivelarsi un approccio molto utile, ai fini della dimostrazione della presenza o
meno dello stato di malattia, soprattutto in quei casi in cui manchi un’anamnesi
significativa e storica.309
Anche gli Event-Related Potentials (ERP) e la risonanza magnetica funzionale,
altri due strumenti di neuroimmagine, potrebbero essere utilizzati in relazione ai
disturbi della personalità, ma a differenza della VBM non si basano su una
immagine di risonanza magnetica standard e richiedono un’analisi molto più
complessa.
In definitiva, il paradigma neuroscientifico rappresenta un valido supporto per
l’esame psicopatologico forense tradizionale. Risulta molto utile per
l’accertamento del rapporto tra disfunzioni mentali e capacità di intendere e di
volere e consente l’identificazione con una maggior precisione delle conseguenze
di una patologia sia sul piano cognitivo, sia sul piano comportamentale.
Inoltre, nell’ambito della genetica molecolare, l’individuazione di polimorfismi,
che determinano un’aumentata vulnerabilità psichiatrica nel soggetto, ha condotto
ad ipotizzare spiegazioni di causazione probabilistica del comportamento
patologico.310
Come abbiamo visto, la “capacità di intendere e di volere”, tradizionalmente
dotata di connotati prettamente logico-razionali, può essere declinata, secondo
l’approccio neuroscientifico, in un insieme di abilità funzionali che rispecchiano
309 Ibidem.310 Ibidem.
120
le diverse componenti mentali dell’uomo, come si è fatto in ambito civile in
relazione alla capacità d’agire.
È da notare, inoltre, che le funzioni che configurano la “capacità di intendere e di
volere” sono tutte riconducibili alla funzionalità del lobo frontale, la zona
cerebrale evolutivamente più recente e caratterizzante l’essere umano rispetto al
mondo animale. Già attualmente, molte delle patologie neurologiche e
psichiatriche che si rilevano ai fini dell’imputabilità implicano delle disfunzioni di
tali aree cerebrali. Di conseguenza, potrebbero diventare altrettanto rilevanti per
un giudizio di non imputabilità altre patologie che parimenti alterino i lobi
frontali.311
Allo stesso modo, il paradigma neuroscientifico può contribuire ad una
valutazione di un’altra capacità, ossia quella di stare in giudizio. In tal caso, viene
considerato sufficiente, per ritenere un individuo in grado di assistere
consapevolmente al processo e di comprendere gli atti compiuti, il possesso nella
norma delle abilità cognitive di attenzione, funzioni esecutive, espressione e
comprensione verbale, cognizione spaziale e percezione visiva.312
Un invito alla prudenza è, però, necessario: rimane un dato empirico confermato
che il grado di correlazione anatomo-clinica di condizioni patologiche del cervello
non produce necessariamente disfunzioni cognitive. In altre parole, non sempre e
non tutte le lesioni cerebrali producono un vizio di mente. Inoltre, un difetto delle
tecniche di neuroimmagine è quello di mettere in relazione un’area specifica ad
una funzione, trascurando il ruolo svolto anche da altre zone cerebrali che,
preposte ad operazioni comuni a più compiti, possono influenzare l’esito finale.313
È quindi imprescindibile una valutazione accurata caso per caso, non essendo
sufficiente basarsi su dati statistici ricorrenti.
La prova neuroscientifica: le tecniche di lie e memory detection
311 Ibidem.312 Ibidem.313 P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuromania. Il cervello non spiega chi siamo, il Mulino, Bologna, 2009.
121
Uno dei più grandi desideri dell’umanità sarebbe sicuramente la capacità di
“leggere” il pensiero altrui, sia per motivi nobili (prevenire un omicidio), sia per
motivi più “bassi” (scoprire gli intimi segreti di una persona).
La ricerca neuroscientifica sembrerebbe aver compiuto i primi passi verso la
lettura della mente. Sono state create, infatti, diverse metodiche di lie-detection
(rilevazione della menzogna) e memory-detection (rilevazione della memoria),
basate sulle tecnologie di brain-imaging.
Premettiamo che vi sono degli storici antecedenti delle “macchine della verità”.
Cesare Lombroso aveva inventato uno strumento, l’idrosismografo, con cui si
poteva rilevare l’aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca,
sul presupposto che un individuo “menzognero” sarebbe identificabile dall’ansia
che prova mentre parla.314 Un altro italiano, lo scienziato Vittorio Benussi, mise a
punto una metodologia con cui registrava le variazioni dell’attività respiratoria,
sempre al fine di identificare la persona “bugiarda”.315
Un terzo “antenato” è il più conosciuto (e altrettanto criticato) poligrafo, una
macchina che consente di misurare i valori di una serie di parametri
neurofisiologici (pressione sanguigna, frequenza di respirazione, battito cardiaco,
sudorazione). Anch’esso, fondamentalmente, è uno strumento atto a rilevare la
presenza non della menzogna in sé, ma dell’emozione (ansia, paura, panico)
manifestata durante il colloquio. Ad essere criticabile è proprio il presupposto di
partenza: si suppone che ansia e paura dovrebbero essere provate soltanto da un
individuo colpevole, mentre un innocente non dovrebbe temere alcunché. E per
chi è in grado di mentire con un assoluto sangue freddo? È, infatti, molto alto il
rischio di manipolazione delle risposte del poligrafo. Per queste ragioni, la sua
validità è già stata messa in dubbio da vari esperti, nonostante venga ancora
utilizzato negli Stati Uniti, in Canada e altri paesi. Si può aggiungere una semplice
osservazione: per superare un test al poligrafo è sufficiente assumere prima una
dose di Valium.
314 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 183-184.315 G. Sartori, S. Agosta, Menzogna, cervello e lie detection, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 164.
122
Tornando al discorso principale, il tema della memoria e delle sue alterazioni è un
campo di grande interesse per le discipline neuroscientifiche, perseguendo sia
obiettivi clinico-terapeutici, sia ipotetiche applicazioni pratiche differenti.
La memoria, però, è l’esempio più evidente del divario tra la percezione di
un’informazione e la sua rielaborazione mentale: spesso i ricordi sono soltanto
ombre delle esperienze originarie.316
Infatti, da diversi studi317 è emerso che il meccanismo del ricordo non è
paragonabile alla consultazione di un libro da uno scaffale, in cui viene poi riposto
tale e quale. Ogni volta che ricordiamo un certo evento, una persona, un oggetto e
via dicendo, parte del ricordo viene “ricostruito”, a partire dagli indizi che ne
avevano favorito la memorizzazione, e viene influenzato dal contesto (motivi,
emozioni, ecc.) della sua rievocazione. In altri termini, ogni volta che ricordiamo,
il ricordo passato viene influenzato e modificato dai fatti presenti.
Potrebbe, perciò, essere messa in dubbio la reale validità della testimonianza come
prova di un certo fatto. Sono numerosi i casi di testimoni convinti della veridicità
dei loro ricordi, poi rivelatisi difettosi o addirittura falsi. Questo perché il cervello
tendenzialmente utilizza la memoria in maniera “selettiva”, “efficiente” e
“riassuntiva”, tralasciando di norma i dettagli e fondendo i ricordi di situazioni
simili.
Su questa linea, Daniel Schacter ha svolto studi approfonditi sugli errori e le
distorsioni della memoria. Egli ha delineato i principali errori di omissione (la
dimenticanza o l’esclusione di parte dell’informazione) e di commistione
(l’aggiunta di una falsa informazione) del ricordo. Schacter ha stilato un elenco
dei, così da lui definiti, “sette peccati della memoria”: labilità (evanescenza nel
tempo), distrazione (dimenticanza dovuta a scarsa attenzione), blocco
(impedimento temporaneo), errata attribuzione (confusione su soggetti, cose o
luoghi), suggestionabilità (distorsione del ricordo da parte di fattori esterni),
distorsione (influenza dei pregiudizi) e persistenza (richiamo costante di ricordi
indesiderati).318 L’esito del suo studio si rivela essere una guida pratica su come
316 A. Oliverio, Prima lezione di neuroscienze, cit., p. 56.317 D.L. Schacter, Searching for the memory: The Brain, the Mind, and the Past, Basic Books, New York, 1996.318 D. Schacter, The Seven Sins of Memory: How the Mind Forgets and Remembers, Houghton Mifflin, Boston, 2001.
123
condurre l’interrogatorio di un testimone oculare, al fine di non influenzarne la
memoria.
Errori della memoria sono spesso dovuti a mancanza di informazione, perché
andata persa nel tempo, non codificata adeguatamente oppure ostacolata da
un’informazione antagonista.
La distorsione del ricordo è di norma causata dalla sua labilità, che lo inizia a
consumare da subito. Anche eventi rilevanti o connotati da emozioni vengono
erosi dal tempo. Per questo motivo, la deposizione di una testimonianza oculare
dovrebbe avvenire il prima possibile dopo l’episodio e non dopo anni, come
spesso avviene in processi che si dilatano per anni.
Nel blocco (il cosiddetto effetto della parola “sulla punta della lingua”), si ritiene
che ad impedire il ricordo di una parola o di un evento possa essere un termine o
un fatto correlato che si pone in antagonismo. Nella raccolta della testimonianza,
la prima deposizione su determinati dettagli di un fatto potrebbe bloccare il
ricordo di altri durante una seconda deposizione. Il ricordo dei primi inibirebbe il
ricordo dei secondi.319
L’errata attribuzione consiste in false aggiunte che si infiltrano nella memoria,
ricordando cose mai accadute. Elizabeth Loftus, professoressa di psicologia e
criminologia all’Università della California a Irvine, ha mostrato come chiedere ai
soggetti di immaginare un evento aumenta la probabilità che essi in seguito lo
ricordino come realmente accaduto. I soggetti tendono a confondere la fonte del
ricordo e la semplice ripetizione dell’informazione erronea ne rafforza la
convinzione.320
Un esempio di falsa attribuzione è lo studio sull’innesto di falsi ricordi di H.L.
Roediger e K.B. McDermott, da cui hanno sviluppato il paradigma DRM (Deese-
Roediger-McDermott): consiste nel far memorizzare ad un soggetto un elenco di
termini correlati tra loro (ad esempio, “letto, riposo, sveglio, sogno, coperta,
sonno”); i termini nella lista evocano una parola, detta “critica” (nell’esempio,
“dormire”), che pur essendo assente dall’elenco, viene ricordata falsamente dai
319 W. Koutstall, D.L. Schacter, M.K. Johnson, L. Galluccio, Facilitation and Impairment of Event Memory Produced by Photograph Review, in “Memory and Cognition”, n. 27 (3), 1999, pp. 478-493.320 A. Koriat, M. Goldsmith, A. Pansky, Toward a Psychology of Memory Accuracy, in “Annual Review of Psychology”, n. 51, 2000, pp. 481-537.
124
soggetti. Maggiore è il numero di parole correlate, maggiore è la probabilità del
falso richiamo della parola critica.321
La falsa attribuzione può influire sulla testimonianza oculare soprattutto per
quanto riguarda l’identificazione dei volti. Una ricerca ha mostrato come
testimoni che hanno materialmente visto solo parte del viso di un presunto
criminale spesso ricordano di averlo visualizzato per intero. Ciò avviene per un
meccanismo cerebrale automatico che completa le parti mancanti di
un’informazione, integrandola con l’immaginazione oppure con dati già
archiviati.322
Un altro errore tipico della memoria è dovuto alla suggestionabilità, ossia la
tendenza ad incorporare informazioni fornite da altri mezzi o persone nel ricordo
di certi eventi.
Una ricerca in tal senso di Elizabeth Loftus indica come persino ricordi d’infanzia
possono essere alterati a seguito di suggestione. Chiese ai familiari dei soggetti
sottoposti all’esperimento (a loro insaputa ovviamente) di raccontare un “falso
evento”, risalente all’infanzia, in tono convincente; circa il 25% dei soggetti finiva
per crederci e diceva di “ricordarselo”. In uno studio simile, sempre la Loftus
falsificò alcune fotografie dei soggetti, che mostravano loro bambini in posti dove
non erano mai stati; dopo tre sessioni in cui gliele mostrava, il 50% dei soggetti
era in grado di descrivere il ricordo dell’evento con dovizia di particolari.
Uno studio di A. Koriat ha riscontrato che anche solo il porre una domanda in
modo allusivo instilla nella persona il falso ricordo oppure ne altera l’accuratezza.
Perciò, è sconsigliabile durante un interrogatorio porre una domanda quale “Che
tipo di pistola aveva il rapinatore?”: il testimone potrebbe visualizzare un
revolver, anche se in realtà era un coltello.
Cosa succede a livello cerebrale quando inganniamo altre persone è stato oggetto
di ricerca di Daniel Langleben323, che nel 2002 ha riferito al congresso annuale
della Society for Neuroscience di aver rilevato differenze di attivazione del 321 H.L. Roediger, K.B. McDermott, Tricks of Memory, in “Current Directions in Psychological Science”, n. 9, 2000, pp. 123-127.322 M.A. Foley, H.J. Foley, A Study of Face Identification: Are People Looking Beyond Disguises?, in M.J. Intons, D.L. Best (a cura di), Memory Distortions and Their Prevention, Erlbaum Mahwah, 1998.323 D. Langleben, L. Schroeder, J. Maldjian, R. Gur, S. McDonald, J. Ragland, C. O’Brien, A. Childress, Brain Activity during Simulated Deception: An Event-Related Functional Magnetic Resonance Study, in “NeuroImage”, n. 15, 2002, p. 727-732.
125
cervello delle persone che mentivano rispetto a quando dicevano la verità. I
soggetti venivano sottoposti al Guilty Knowledge Test, il “test del riconoscimento
della colpevolezza”, mentre si osservava il loro cervello con la risonanza
magnetica. Il test richiedeva che il soggetto rubasse una carta da gioco e che poi,
durante la risonanza, rispondesse alle domande del ricercatore. Le risposte da dare
erano di tre tipi, veritiere, false e ingannevoli, false ma non ingannevoli. I risultati
ottenuti hanno mostrato che durante le risposte ingannevoli si attivano cinque aree
del cervello (la corteccia anteriore del cingolo, il giro superiore frontale e le
cortecce premotoria, motoria e parietale anteriore). Invece, durante le risposte
veritiere e quelle false non ingannevoli tali aree risultavano a riposo. Inoltre,
Langley ha ipotizzato che per porre in essere l’inganno volontario sia necessario
“inibire” la risposta sincera, ipotesi basata sul fatto che vi era un’attività maggiore
nelle aree inibitorie del giro del cingolo anteriore.
Sarebbe così verificabile a livello cerebrale l’atto di mentire.
Lo psicologo Paul Ekman, invece, ha studiato dettagliatamente le espressioni
facciali delle persone che mentono e i suoi risultati verranno utilizzati da Terry
Sejnowski, studioso di “neurocomputazione”, che sta sviluppando un processore
con videocamera integrata, allo scopo di rivelare i minimi movimenti facciali e di
conseguenza la sincerità di una persona.324
Per quanto riguarda le moderne tecnologie neuroscientifiche, esse si distinguono
in due classificazioni: tecniche di lie-detection, indirizzare a valutare la risposta
del soggetto come veritiera o menzognera, e di memory-detection, finalizzate ad
identificare una traccia di memoria.325
Le metodologie utilizzate sono quelle di neuroimmagine strutturale326 e
funzionale327, nonché le tecniche di registrazione dell’attività elettrica del
cervello328.
324 P. Wen, Scientist Eyeing High-Tech Upgrade for Lie Detectors, in “Boston Globe”, 16 giugno 2001.325 G. Sartori, S. Agosta, Menzogna, cervello e lie detection, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 168.326 Visualizzano le strutture anatomiche cerebrali; esse sono la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica (RM).327 Consentono di visualizzare l’attivazione di aree cerebrali durante l’esecuzione di certi compiti; esse sono la tomografia a emissione di positroni (PET), la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT), la risonanza magnetica funzionale (fRMI).328 Tra esse, le più importanti sono l’elettroencefalogramma (EEG) e le tecniche di misurazione dei potenziali evento evocati (ERP).
126
Il presupposto è che i pensieri abbiano correlati neurali e, di conseguenza, che
anche una menzogna dovrebbe avere una propria correlazione neurologica
individuabile. Il problema è che non ogni “tipo” di pensiero possiede
necessariamente un “distinto” correlato neurale.329 Alcune delle tecnologie oggi
disponibili cercano di aggirare il problema evidenziando non il correlato neurale
di una singola bugia, ma i correlati neurali dell’intera classe delle bugie deliberate.
Una delle più note è la brain fingerprinting, che mira ad individuare non la bugia
intenzionale, bensì la conoscenza colpevole. Il vantaggio consisterebbe nel
rilevare la risposta cerebrale dell’inganno, senza che sia necessaria la risposta
verbale del soggetto. Altrimenti nota come Computerized Knowledge Assessment
(CKA), la “valutazione computerizzata della conoscenza”, essa misura con
l’elettroencefalogramma l’aumento e la diminuzione dell’onda cerebrale P300 (il
nome deriva dal fatto che si verifica 300 millisecondi dopo la presentazione dello
stimolo). I dati vengono poi rielaborati dal software MERMER (memory and
encoding related multifaced electroencephalographic response). L’onda P300 fu
scoperta già negli anni ’60 e la sua ampiezza varia quando riconosciamo un
suono, un odore o un’immagine a noi familiare. Tale tecnica può essere utilizzata
durante l’interrogatorio di un sospettato, per verificare la sua “familiarità” con una
scena del delitto, con un altro sospettato o addirittura con una organizzazione
criminale.
L’attività del cervello del soggetto viene misurata, mentre a questi vengono poste
domande o mostrate fotografie. Se il soggetto riconosce come familiare il
contenuto, mostra una risposta caratteristica, ossia l’ampliamento dell’onda P300.
Se il soggetto non riconosce, l’ampiezza dell’onda rimarrà piccola.
La CKA e il software MERMER sono stati sviluppati negli anni ’80 dal dottor
Lawrence Farwell330, che l’ha commercializzata attraverso la sua azienda Brain
Fingerprinting Laboratories. I vantaggi rispetto al poligrafo sono la non
necessaria collaborazione del soggetto (l’onda è involontaria), che si deve limitare
a stare seduto immobile, e la sua non manipolabilità (l’onda non è controllabile).
329 N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 137-160.330 L. A. Farwell, S.S. Smith, Using brain MERMER testing to detect concealed knowledge despite efforts to conceal, in “Journal of Forensic Sciences”, n. 46 (1), 2001, p. 1-19.
127
La brain fingerprinting ha destato l’interesse di FBI e CIA e dal 2004 l’India ha
introdotto la tecnologia in tribunale. Nel 1993, in collaborazione con il Bureau,
Farwell ha usato la CKA per identificare (correttamente) 11 agenti dell’FBI e 4
impostori, misurando le risposte di P300 ad immagini conoscibili solo da chi era
stato addestrato dall’FBI. Nel 2001, la CIA ha cominciato a servirsene. Nel 1998,
Farwell e i suoi collaboratori hanno fornito alla polizia del Missouri la prova a
sostegno della condanna di James Grinder per uno stupro con omicidio del 1984
(anche se la tecnologia non era presente materialmente in tribunale).331 Nel 2000,
l’impronta cerebrale è stata ammessa dal giudice Timothy O’Grady della Corte
distrettuale della Contea di Pottawattamie (Iowa), in un’udienza sulla richiesta di
rivedere il processo di Terry Harrington (condannato all’ergastolo per un delitto
del 1997). Ricorrendo al criterio Daubert (un precedente giuridico statunitense che
permette l’ammissione di prove scientifiche solo dopo che siano state verificate e
approvate dalla comunità scientifica), l’ammissione della prova è stata giustificata
dal giudice O’Grady in base all’attendibilità dei dati delle onde P300,
specificando che non si esprimeva invece sull’attendibilità della tecnica CKA in
sé. In seguito, il giudice avrebbe stabilito che le prove presentate dagli avvocati
non erano sufficienti per mutare l’esito del processo di primo grado, negando la
richiesta di un nuovo dibattimento.332 In ogni caso, l’ammissione dei dati P300
come strumento probatorio in un’aula di tribunale ha creato il precedente
giudiziario.
Negli Stati Uniti, la tecnica della CKA sta riscuotendo molto interesse e in diversi
ne auspicano l’utilizzo contro il terrorismo. Steven Kirsch, politico e filantropo
della Silicon Valley, ne ha suggerito l’uso combinato con la scansione dell’iride
per identificare i terroristi negli aeroporti. Con Kirsch si trova d’accordo Howard
Simon, direttore esecutivo dell’American Civil Liberties Union della Florida,
affermando che la tecnologia CKA è di certo meno lesiva delle libertà civili di
altri tipi di controlli già in atto, facendo dipendere i propri risultati dalla
registrazione di attività cerebrale, e non da criteri quali razza, nazionalità o
lingua.333
331 B. Feder, Truth and Justice, by the Blip of a Brain Wave, in “New York Times”, 9 ottobre 2001.332 M.S. Gazzaniga, La mente etica, cit., p. 120.333 Ibidem.
128
Tale tecnologia presenta però alcuni problemi. Innanzitutto, il metodo di analisi è
privato e segreto. Le poche prove esistenti provengono dai laboratori dell’azienda
di Farwell, mentre sarebbero necessarie osservazioni indipendenti. Secondo, il
campione offerto è di dimensioni troppo piccole per assicurarne la certezza.
Terzo, vi sono difficoltà riguardo alla validità ecologica di questa tecnica; essa
infatti richiede situazioni sperimentali molto controllate, in particolare che lo
sperimentatore sia a conoscenza dell’informazione di cui si deve stabilire se il
soggetto ha familiarità. Inoltre è discutibile il grado di accuratezza: se un soggetto
produce un aumento dell’onda in relazione alla foto di un campo di addestramento
per terroristi, niente ci può confermare che non abbia visto foto simili in
televisione o sul web.334
Inoltre, contro l’affermazione di Farwell della non manipolabilità della sua
tecnica, Rosenfeld335 ha ideato un metodo per falsarne gli esiti. L’onda P300 è una
risposta a stimoli che hanno un significato per il soggetto. Rosenfield è riuscito a
dimostrare che è possibile rendere significativi per i soggetti quelli che sono
stimoli irrilevanti: muovere le dita dei piedi, premere una mano contro la gamba e
immaginare che lo sperimentatore li stia schiaffeggiando è sufficiente per alterare
l’onda P300.
Un’altra tecnica di memory detection è rappresentata dal Brain electrical
oscillations signatur (Beos), ideato dal neurologo indiano Champadi Raman
Mukundan. Tale metodologia utilizza l’elettroencefalogramma per rilevare non
l’onda P300, ma l’attività di alcune aree cerebrali, corrispondenti al ricordo di un
soggetto. La lettura ad alta voce della descrizione di un evento e dei suoi dettagli,
per esempio un crimine, attiverebbe alcune zone del cervello, che indicherebbero
la presenza di ricordi specifici e quindi l’esperienza diretta di tale evento. La
tecnologia del Beos è tuttora molto controversa, dato che i risultati dei test non
sono ancora stati sottoposti al vaglio della comunità scientifica per una revisione
paritaria. L’uso di tali risultanze è stato alla base di diverse sentenze indiane, in
particolare, la recente condanna all’ergastolo nel 2008 di Aditi Sharma, 23 anni,
accusata dell’omicidio per avvelenamento del suo ex fidanzato; nel secondo grado
334 Y. Miyake, M. Mizutani, T. Yamamura, Event-related potentials as an indicator of detecting information in field polygraph examinations, in “Polygraph”, n. 22, 1993, p. 131-149.335 J.P. Rosenfeld, M. Soskins, G. Bosh, A. Ryan, Simple effective countermeasures to P300-based tests of detection of concealed information, in “Psychophysiology”, n. 4, 2004, p. 205-219.
129
di giudizio, però, la donna è stata scarcerata dalla Corte d’Appello per
insufficienza di prove.
Recentemente, è stato sviluppato dal neuroscienziato italiano Giuseppe Sartori
uno strumento di rilevazione del ricordo autobiografico, l’autobiographical-IAT
(a-IAT), attualmente sottoposto al vaglio della comunità scientifica
internazionale.336 Basandosi sull’Implicit Association Test (IAT) di Greenwald,
McGhee e Schwartz337, esso utilizza la latenza delle risposte per stabilire la forza
dell’associazione tra concetti: registra i diversi tempi di reazione di un soggetto,
che classificare una serie di frasi davanti ad un computer, permettendo di
identificare quale sia la conoscenza fattuale riguardo a determinati eventi
biografici.338
Per quanto riguarda invece la rilevazione di stati mentali e disposizioni emotive,
non vi sono grandi passi avanti. Phelps339 nel 2000 ha usato la fMRI per studiare
come soggetti bianchi valutassero facce di individui afroamericani e hanno
rilevato una correlazione tra l’attivazione dell’amigdala e la valutazione negativa
dei volti.
Al di là dei limiti e dei difetti strutturali di tali strumenti, il quesito che ci
dobbiamo porre è in che modo tali tecnologie possono essere compatibili con il
sistema processuale italiano.
Nel nostro codice di procedura penale, all’art. 188 viene sancita la libertà morale
della persona nell’assunzione della prova, tutelata con il divieto secondo cui:
“Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata,
metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad
alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti”. Inoltre, all’art. 189 viene
indicato che, “quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice
può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei e non
336 G. Sartori, S. Agosta, C. Zogmaister, S.D. Ferrara, U. Castiello, How to accuratly detect autobiographical events, in “Psychological Science”, n. 19, 2008, p. 772-780.337 A.G. Greenwald, D.E. McGhee, J.K.L. Schwartz, Measuring Individual Differences in Implicit Cognition: The Implicit Association Test, in “Journal of Personality and Social Psychology”, n. 74, 1998, p. 1464-1680.338 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 206-207.339 E.A. Phelps, K.J. O’Connor, Cunningham et al., Performance on indirect measures of race evaluation predicts amygdala activity, in “Journal of Cognitive Neuroscience”, n. 12, 2000, p. 1-10.
130
pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione,
sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova”.
Tali norme hanno spesso in passato impedito l’ingresso nel nostro processo di
diversi mezzi di prova, quali il poligrafo e l’ipnosi.340
Ma, in riferimento alle tecniche di memory e lie-detection, si potrebbe parlare di
un’alterazione della memoria o di un intervento inopportuno
sull’autodeterminazione della persona? Ossia, di una violazione della sua libertà
morale?
Effettivamente, tali tecnologie si limitano a “individuare” e a “registrare” tracce di
memoria, in modo non invasivo (molte si esplicano attraverso l’applicazione di
elettrodi) e senza modificare il ricordo specifico. Sono, come dire, strumenti di
“visualizzazione”, per certi versi “descrittivi”. Proprio in ragione di ciò, come tipo
di prova esse non possono essere qualificate come “testimonianza”, data l’assenza
di una dichiarazione volontaria da parte del soggetto.
Potrebbero, semmai, essere paragonate ai prelievi di campioni biologici,
traducendosi in prelievi di campioni “mnestici”, rientranti perciò nelle perizie
“che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale”,
all’art. 224bis c.p.p. Al pari del sangue e del DNA, diverrebbero una prova i
pattern neuronali di un ricordo.341
Riguardo ad uno degli strumenti esaminati, l’autobiographical-IAT di Giuseppe
Sartori è stato non solo ammesso in un processo, ma addirittura utilizzato tra le
prove d’accusa per giungere alla condanna di un imputato. Nel 2010, davanti al
giudice per l’udienza preliminare Guido Salvini del Tribunale di Cremona si
presentò il caso di una ragazza, vittima delle molestie sessuali di un
commercialista, presso il quale la donna svolgeva uno stage. Il magistrato
convocò il dottor Giuseppe Sartori in qualità di perito, al fine di “… verificare se
la **** da un lato avesse dentro di sé il ricordo di quanto aveva ripetutamente
narrato e d’altro lato quella di verificare se tale evento fosse stato potenziale causa
di un danno post-traumatico da stress, soddisfacendo in tal modo non solo
un’esigenza di approfondimento ma anche, se del caso, quella di una più precisa
340 C. Intrieri, Le neuroscienze ed il paradigma della nuova prova neuroscientifica, in A. Bianchi, G. Gulotta, G. Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 210.341 A. Lavazza, L. Sammicheli, Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 208.
131
valutazione della richiesta di risarcimento formulata dalla parte civile”.342 Il
magistrato concluse per la condanna dell’imputato, facendo esplicito riferimento
alla perizia di Sartori. In particolare, riguardo al test IAT e ad altri cui fu
sottoposta la ragazza, affermò che “non provano di per sé la verità storica di un
fatto ma hanno il compito più limitato di far emergere, grazie ad una metodologia
scientifica e controllabile e non in base ad apprezzamenti soggettivi, quale sia il
‘ricordo’ cioè la ‘verità’ propria di un soggetto in merito ad un determinato
fatto.”343
Inoltre, è da evidenziare che il GUP, a proposito della validità del test IAT, fa
riferimento ai criteri fissati dalla sentenza statunitense “Daubert v. Merrell Dow
Pharmaceuticals” del 1993, utilizzata negli Stati Uniti come canone di verifica
epistemologica per l’ammissibilità di una prova scientifica: “precedenti verifiche
e cioè falsificabilità della teoria in senso popperiano e quindi resistenza del
metodo a tentativi di smentita, controllo dei lavori pubblicati da parte di revisori
qualificati (‘peer review’), accettabilità dei limiti di errore, accoglimento da parte
della comunità scientifica.”344
Alcune considerazioni sul paradigma neuroscientifico
Il modello neuroscientifico, perciò, può essere accolto con grande favore, in
ragione della elevata scientificità di metodo e per l’alto grado di
“individualizzazione” della valutazione del singolo caso.
In relazione alle neuroscienze e alle loro scoperte, ritengo che si possa condividere
una riflessione piuttosto nota: non sono gli strumenti ad essere buoni o cattivi, ma
l’uso che se ne fa. Perché le discipline cognitive sono questo: uno strumento a
disposizione del diritto. Spetta al giurista, all’avvocato, al giudice e al Legislatore
ricorrervi con assennatezza e prudenza.
Il loro contributo è marcatamente “esplicativo”, al pari di altre discipline
scientifiche, che permettono di descrivere quei fenomeni che sfuggono al
342 Tribunale di Cremona, sent. 19 luglio 2011.343 Ibidem.344 Ibidem.
132
conoscitore del diritto per ragioni di strumenti pratici e di specificità dei saperi. Le
discipline cognitive risultano spesso utili per fornire una spiegazione descrittiva
delle ragioni neurobiologiche e antecedenti dei comportamenti umani, ma deve
essere ben chiaro che ogni loro contributo non deve necessariamente oltrepassare
il confine speculativo e tradursi in una rivisitazione di regole sociali o giuridiche.
Al più, si può dire che, di quelle risultanze neuroscientifiche non ancora
pienamente condivise dalla comunità scientifica internazionale, il giurista può
tenerne conto per “comprendere”, ma non di certo per “valutare”.
Non si può pretendere che il giurista abbia una conoscenza approfondita di
ingegneria biomolecolare o di psichiatria. Si può, invece, richiedere che egli
interpelli gli esperti di tali materie in qualità di consulenti, sottoponendo le loro
perizie alla propria valutazione normativa.
Ma tutto ciò già avviene. La novità neuroscientifica di per sé non cambia nulla a
livello strutturale del sistema giuridico. Al pari di altre scienze del comportamento
umano, esse ampliano la conoscenza dell’uomo che il diritto esperisce.
Sta al giurista non farsi sopraffare da valutazioni descrittive meccanicistiche.
Come il giudice non deve rinchiudersi in una scienza giuridica autoreferenziale e
a rischio di eccessiva astrazione, non deve nemmeno immergersi esclusivamente
nel sapere neuroscientifico. Proprio la possibilità di avere più interlocutori
extragiuridici, gli consente di tirare le fila di un processo di valutazione che tiene
conto della “multifattorialità” all’origine di una condotta criminosa.
Tra gli stessi neuroscienziati, si conferma che in ogni azione umana vi è la pari
influenza di geni, conformazione cerebrale, ambiente e vissuto personale. Il tutto,
però, nella tipica prospettiva del metodo scientifico: ossia, ogni elemento
interviene e incide in termini di “probabilità” e non di “certezza”.
Il possesso di un gene che predispone ad esplosioni aggressive in situazioni di
stress incrementa le possibilità che ciò avvenga. Una compromissione della
corteccia frontale aumenta le probabilità che un individuo abbia un minor
controllo degli impulsi. Nascere in un quartiere malfamato accresce le possibilità
che un ragazzino intraprenda una carriera criminale. Un tracollo finanziario e il
fallimento della propria impresa possono aumentare le probabilità che un uomo
compia un gesto disperato, contro altri o contro se stesso.
133
Rimane, perciò, compito del giudice dare una valutazione etico-normativa delle
risultanze della perizia neuropsicologica.
In riferimento a ciò, è opportuno fare un appello al giudice: si sta affermando un
modello integrato di causazione del comportamento umano, in cui rilevano fattori
di varia natura. Di conseguenza, diventa ancor più forte l’esigenza che una
prospettiva “integrata” e interdisciplinare venga assunta nel bagaglio conoscitivo e
metodologico del giurista. Le scienze cognitive possono operare per un
ampliamento della “visione del mondo” del diritto e, in specifico, del giudice.
Le neuroscienze rappresentano l’ennesimo caso in cui discipline extragiuridiche
invocano l’attenzione dei giuristi. In passato, già la psicologia, la sociologia, la
dottrina evoluzionistica, la psicoanalisi, e così via (l’elenco corrisponderebbe a
tutte le branche che studiano l’uomo), hanno rivendicato dei risvolti giuridici per
le loro teorie e supposizioni, alcune con più successo di altre; forse il
riconoscimento mancato o solo parziale degli assunti di certe discipline è dovuto
alla mancanza di “dimostrabilità” empirica e di certezza, elementi invece
fondamentali per il diritto (un esempio per tutti: il concetto di inconscio in termini
prettamente psicoanalitici è un assunto fondamentale, ma tuttora solamente
“ipotizzato”, lungi dal poter essere verificato in una dimensione empirica e
sensibile).
Il messaggio implicito dell’interesse suscitato dalle neuroscienze è dunque il
seguente: il giurista, studioso delle norme e, necessariamente, del comportamento
umano, e più nello specifico il giudice, che non solo esamina e giudica un
comportamento umano, ma ricopre anche il ruolo di peritus peritorum, devono
ampliare i loro orizzonti conoscitivi e assumere i risultati delle altre scienze come
strumenti ulteriori del loro operato.
Il diritto non è altro che una specifica sfaccettatura del comportamento umano:
come la medicina rappresenta quello che possiamo definire il “momento
terapeutico” dello studio dell’uomo, operante più incisivamente nella sfera
individuale, il diritto rappresenta un “momento sociale” dello studio dell’uomo,
quando quest’ultimo entra in relazione con l’Altro (un altro individuo o una
persona giuridica o lo Stato) oppure compie un atto comunque dotato di riflessi e
conseguenze sugli altri consociati. Il giurista, dunque, è allo stesso tempo uno
134
scienziato; in ragione di ciò ha il dovere di non rinchiudersi in una metaforica
“‘Città proibita’ del Diritto”. Azzardando un discorso dai toni utopistici, il giurista
dovrebbe atteggiarsi a “uomo rinascimentale”: un esperto del diritto che allo
stesso tempo è conoscitore dei fondamenti delle altre branche dello scibile, che
pongono al loro centro l’uomo e il suo agire. Non in termini di onniscienza, ma di
capacità di riconoscere e dialogare con i nuovi saperi che entrano a far parte delle
dinamiche del diritto.
In risposta, invece, ai timori che si affermi un “neuroriduzionismo”, legittimante
la prospettiva di un determinismo dell’uomo, è interessante riportare una
riflessione sul libero arbitrio offerta dal neuroscienziato e filosofo Neil Levy345.
Egli afferma, molto laconicamente, che è vero, noi non siamo liberi nelle nostre
scelte e decisioni. Il suo ragionamento si pone su un piano prettamente filosofico e
non giuridico, ma risulta comunque “illuminante” sulla prospettiva da assumere.
Egli lo argomenta, premettendo che ogni nostra scelta viene presa ed ogni nostra
più banale azione viene compiuta in base ad una riflessione (più o meno
superficiale, a seconda del caso) sui nostri valori, sulle condotte passate, sui
desideri attuali e sulle aspettative a lungo termine. Perciò, ogni nostra decisione
viene, in effetti, determinata da ciò che siamo al momento e da ciò che siamo
stati, nel senso più intimo possibile.
Ed è qui che Levy ci espone un pensiero suggestivo: dato che ogni nostra scelta è
pregna di noi stessi, ogni nostra azione (tranne quelle derivate da stati patologici,
ovviamente) rappresenta il nostro Io più vero ed autentico. Quale modo di essere
liberi è più effettivo dell’essere noi stessi?
Perché se davvero potessimo essere totalmente liberi di scegliere quale azione
compiere, prescindendo da qualsiasi fattore, decideremmo in base a criteri che non
ci apparterrebbero per davvero. Forse li sceglieremmo caso per caso, con una
preferenza per il calcolo utilitaristico. Sceglieremmo in base, per esempio, alla
compassione? Ma dato che sappiamo che essa deriva da un meccanismo
evolutivo, perfezionatosi poi in quadri etici più complessi, non interverrebbe,
perché si configurerebbe in ogni caso come un fattore d’influenza esterno alla
scelta. Compiremmo, in altri termini, delle scelte “amorali” (non “immorali”, si
345 N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, cit., p. 231-237.
135
badi bene). In tal modo, però, perderemmo la nostra autenticità e la possibilità di
esprimere noi stessi.
È inutile paventare un libertarismo senza confini: noi siamo il nostro carattere, i
nostri ricordi, le nostre esperienze, i nostri valori. In ogni azione e decisione, noi
traduciamo il bagaglio personale e culturale che abbiamo costruito nel tempo. E in
particolare con quest’ultima riflessione il diritto ci si confronta ogni giorno: il
padre musulmano che uccide la figlia, perché lei vuole adeguarsi ai costumi
occidentali, sceglie di compiere un gesto in base ad un retroterra culturale ben
preciso, ma è responsabile di ciò che ha compiuto, senza scusanti. Non solo per la
scelta del gesto più estremo che esista, ma soprattutto perché altri individui come
lui, padri e musulmani, non arrivano a compiere un atto del genere. Se il contesto
culturale delinea la cornice valoriale di un uomo, rimane pur sempre la possibilità
per l’individuo sia di apprendere nuove regole morali, sia più in generale di agire
altrimenti, salvo il caso della presenza di uno stato patologico che infici la sua
volontà.
In realtà, le neuroscienze possono aiutare ad individuare le cause ulteriori che
portano al compimento di un reato. In nessun modo le scienze cognitive arrivano a
giustificare azioni criminose. Anzi, per certi versi, aggravano la situazione di un
individuo che agisce illecitamente: se un uomo sano compie un reato,
quest’azione gli appartiene ancor più profondamente come scelta. L’unica ipotesi
in cui le neuroscienze possono scusare il comportamento di una persona è solo il
caso in cui siano presenti lesioni o danni alla sua integrità psico-fisica.
Le neuroscienze in pratica:
due sentenze italiane
136
Negli Stati Uniti è dal 1981 che le neuroscienze hanno fatto il loro ingresso in
un’aula di tribunale con il “caso Hinckley”, l’attentatore del presidente Ronald
Reagan, che fu dichiarato non colpevole per infermità mentale, grazie a una Tac
che rivelava l’atrofizzazione di una determinata parte del suo cervello.
Nel 1994, invece, fu la volta della genetica comportamentale, sia pure con una
sconfitta, nel “caso Stephen Mobley”, in un tribunale della Georgia. L’avvocato
difensore dimostrò che Mobley, assassino di un pizzaiolo durante una rapina, era
geneticamente portato alla violenza: il giudice, però, rifiutò di considerarla una
valida attenuante, la giuria lo ritenne colpevole e fu condannato a morte. In
seguito sei dei giurati si pentirono e presentarono un’istanza perché la sentenza
fosse commutata in una pena detentiva. La richiesta fu respinta e Mobley fu
giustiziato con un’iniezione letale il 1° marzo 2005, dopo aver trascorso oltre
dieci anni nel braccio della morte della prigione di Jackson. Da allora
l’atteggiamento nei confronti della genetica comportamentale è cambiato
completamente: è accettata nei tribunali e addirittura è citata con disinvoltura nelle
più popolari serie di telefilm.
In Italia è entrata da protagonista in due casi giudiziari, a Trieste nel 2009 e a
Como nel 2011. Il caso di Trieste ebbe una risonanza mondiale: la rivista
“Nature”, nell’ottobre 2009, pubblicò un articolo con il titolo Una sentenza più
lieve per un assassino con “cattivi geni”, in cui si sottolineava che era “la prima
volta che in Europa la genetica comportamentale riesce a influenzare una
sentenza” al punto da consentire una significativa riduzione di pena a un
condannato per omicidio.346 I magistrati italiani, dunque, hanno aperto la strada ai
colleghi di tutta l’Europa.
La sentenza di Trieste
Il fatto. Una vicenda di cronaca nera, una rissa tra extracomunitari, che si
conclude con una coltellata mortale: assomiglia purtroppo a tante altre, che non si
meritano più di qualche riga nelle “brevi di cronaca” sui giornali locali. Questa,
346 E. Feresin, Lighter sentence for murdered with “bad genes”, in “Nature”, Macmillan, Londra, 30 ottobre 2009.
137
invece, è destinata a diventare un caso mondiale, con articoli, commenti, saggi,
dibattiti. Il protagonista è un cittadino algerino, Abdelmalek Bayout, che da molti
anni vive in Italia, a Udine. Abdelmalek ha un’esistenza tormentata, è stato
ricoverato diverse volte per problemi psichiatrici (ha allucinazioni, sente delle
voci). È un musulmano fervente e per “motivi religiosi”, come spiega, è solito
truccarsi col kajal gli occhi. Ma viene schernito da un gruppo di sudamericani, che
non credono alla sua religiosità; in particolare, un boliviano lo accusa di essere
omosessuale. Abdelmalek, offeso, si allontana, ma non considera chiuso
l’incidente. Va ad acquistare un coltello e torna indietro, per colpire chi lo aveva
insultato. Ma si sbaglia e invece del boliviano accoltella una persona che gli
somiglia, il giovane colombiano Walter Felipe Novoa Peréz. Il ferito muore,
l’algerino viene arrestato e subito confessa il delitto.
Nel corso del giudizio di primo grado, l’avvocato difensore Tania Cattarossi, dato
che il suo assistito è reo confesso, chiede una perizia che non può essere volta a
determinare la responsabilità di Bayout, ma a stabilire un quadro più preciso sul
suo stato mentale al momento del delitto. I periti riscontrano una patologia
psichiatrica di tipo psicotico, nonché un disturbo psicotico di tipo delirante in un
soggetto con disturbo della personalità con tratti impulsivi-asociali e con ridotte
capacità cognitive-intellettive. L’imputato viene giudicato persona socialmente
pericolosa e parzialmente incapace d’intendere e di volere (non viene accolta la
richiesta dalla difesa di quella totale). L’imputato è condannato alla pena di 22
anni e 6 mesi di reclusione, ridotta per le attenuanti generiche a 18 anni, con
un’ulteriore riduzione per la diminuita imputabilità a 13 anni e 6 mesi di
reclusione, aumentata per la ritenuta continuazione a 13 anni e 9 mesi di
reclusione e con un’ultima riduzione per il rito prescelto. La pena finale consiste
in 9 anni e 2 mesi di reclusione.
L’avvocato Cattarossi ricorre in appello, adducendo come motivo l’erronea
valutazione in ordine alla capacità di intendere e di volere e la mancata
applicazione della riduzione della pena per la seminfermità mentale nel suo
massimo, non essendo stato conferito rilievo adeguato alla gravità della patologia
da cui è affetto l’imputato.
138
Il presidente della Corte d’appello di Trieste è il dottor Pier Valerio Reinotti,
scrittore oltre che magistrato, è pronto a richiedere nuove perizie più approfondite,
chiamando ad esprimersi sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato due
periti di particolare valore: il professor Giuseppe Sartori, ordinario di
neuroscienze cognitive e di neuropsicologia clinica all'Università di Padova, e il
professor Pietro Pietrini, ordinario presso il dipartimento di patologia
sperimentale, biotecnologie mediche, infettivologia ed epidemiologia
dell'Università di Pisa.
La valutazione finale dei periti presenta una capacità di intendere e di volere
dell’imputato grandemente scemata, in ragione di un quadro psichiatrico
caratterizzato da una tipologia di personalità di tipo dipendente-negativistico, con
un importante disturbo ansioso-depressivo, accompagnato da pensieri deliranti ed
alterazione del pensiero, associata a disturbi cognitivi di interpretare correttamente
la situazione nella quale si trova, pur non risultando tali deficit di livello talmente
grave da abolire la capacità di intendere.
In sede di valutazione normativa, la Corte ravvisa che la “vulnerabilità genetica”
risultante dalla perizia aveva reso l’imputato “particolarmente reattivo in termini
di aggressività - e, conseguentemente, vulnerabile - in presenza di situazioni di
stress”.
Il giudice reputa applicabile la riduzione della pena nella misura massima di un
terzo, per la parziale incapacità di intendere e di volere. Le attenuanti generiche
non vengono concesse nella misura massima, in ragione dell’efferatezza della
condotta dell’imputato, avendo avuto questi uno “spazio di tempo non trascurabile
per riflettere, pur tenuto conto dei limiti in ordine alla sua capacità, sull’azione che
andava a compiere”. Inoltre, in relazione al differente contesto religioso e sociale
a cui l’imputato apparteneva, la Corte afferma che non potevano in alcun modo
essere considerate “fondamento giustificativo per un’aggressione a fini omicidi”.
L’imputato è condannato alla pena di 22 anni e 6 mesi di reclusione, ridotta a 18
anni per le concessione delle attenuanti generiche e con un’ulteriore riduzione a
12 anni per diminuita imputabilità. Vengono aggiunti 3 mesi per la
contravvenzione data dal possesso, fuori dalla sua abitazione, del coltello
139
acquistato al fine di commettere l’omicidio. Infine, la pena è ulteriormente ridotta
per il rito prescelto, giungendo ad una pena finale di 8 anni e 2 mesi di reclusione.
In sede di motivazione della sentenza, la Corte afferma che le indagini peritali
svolte “si sono dimostrate particolarmente accurate ed immuni da illogicità sul
piano procedimentale o di argomentazioni antinomiche”. Inoltre, “qualora
l’indagine psichiatrica abbia evidenziato una importante patologia di stampo
psicotico, in un soggetto con disturbo di personalità con tratti impulsivi-asociali e
con capacità cognitivo-intellettive ai limiti inferiori della norma, possono risultare
importanti ulteriori indagini (diagnosi descrittiva, diagnosi di sede, diagnosi di
natura) tali da restituire un quadro coerente e credibile della condizione mentale
dell’imputato. A tal fine può essere utile la somministrazione di test
neuropsicologici ed il ricorso alla risonanza magnetica funzionale dell’encefalo.
Particolarmente indicative possono risultare le indagini genetiche, alla ricerca di
polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni a variabili ambientali,
fra i quali quello che interessa, nel caso di specie, l’esposizione ad eventi
stressanti ed a reagire agli stessi con comportamento di tipo impulsivo”.
La sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste del 1° ottobre 2009, n. 5, è
entrata nella storia, suscitando entusiasmi e critiche, perché rappresenta il primo
caso in Italia, e in Europa, in cui viene fatto ricorso anche a indagini genetiche e
tecniche di imaging funzionale del cervello, al fine di determinare il grado di
incapacità di intendere e di volere dell’imputato.
Giuseppe Sartori spiega che “la riduzione della pena è stata data sulla base di una
perizia che comprendeva ‘anche’ un’analisi genetica… Questa non è la prima
volta in cui usiamo ‘la cassetta degli attrezzi’ delle neuroscienze - genetica più
tecniche di imaging e neuropsicologia -, è però vero che mai una sentenza aveva
fatto riferimento in modo così esplicito al contributo della genetica. Ma se il
giudice della Corte d’Appello di Trieste si è rivolto a me, e al collega Pietro
Pietrini, era perché voleva qualcosa in più rispetto alle perizie presentate in primo
grado - che pure avevano accertata la seminfermità mentale -, qualcosa che le
oggettivasse maggiormente. Chiariamo però: la perizia è servita per inquadrare in
modo più preciso l'infermità dell'imputato e non per giustificare
deterministicamente il reato”. Così si è svolto l’esame: “Intervista clinica e test
140
psicodiagnostici, che ci hanno permesso di confermare un quadro psicotico. E poi:
esame neuropsicologico con cui abbiamo diagnosticato livello cognitivo basso,
deficit d'attenzione, impulsività”. Poi: “Risonanza magnetica e risonanza
funzionale: abbiamo esaminato il paziente mentre si sottoponeva a un test che
valuta la capacità di bloccare le azioni impulsive e abbiamo visto che le carenze
nel rispondere al test erano accompagnate da un’alterata funzione frontale tipica
dei quadri psicotici. È stata una conferma oggettiva di quanto già diagnosticato.
Noi dovevamo escludere ogni possibilità di simulazione: il paziente diceva di
sentire gli angeli, come sapere se mentiva? Per escluderlo l’occhio clinico non
basta, servono anche neuroimaging e genetica”.
Genetica: la parola a Pietro Pietrini, psichiatra e ordinario di biochimica clinica
all' università di Pisa. “Non vedo perché scandalizzarsi per questo ricorso a
un’indagine sul DNA. Come la genetica ci serve per individuare meglio una
patologia, o per impostare trattamenti farmacologici diversi per persone
geneticamente diverse, può venirci in aiuto in un’aula di tribunale”. Si è indagato
su cinque geni: “Due legati alla trasmissione serotoninergica che regola il tono
dell’umore e due per il metabolismo delle catecolamine, neurotrasmettitori
cerebrali legati anche alla risposta allo stress. In tutti i casi nel paziente erano
presenti varianti ‘sfavorevoli’ di questi geni. Ad esempio, la variante ‘MAOA’
che determina livelli dell' enzima monoaminossidasi più bassi della media. Più
studi hanno dimostrato che livelli ridotti, se l’ambiente è negativo, facilitano
l’aggressività... Abbiamo analizzato anche quello che codifica per il recettore
della dopamina DRD4 e abbiamo verificato la presenza della variante legata a
iperattività e aggressività… La presenza di certi geni non è condizione né
necessaria, né sufficiente perché si presenti una malattia o un comportamento, ma
aumenta significativamente la possibilità che si manifesti, specie se l’individuo
cresce in un ambiente sfavorevole e vive in isolamento sociale, come il nostro
paziente”.347
Di fronte alle polemiche e a certe “paure” suscitate, Giuseppe Sartori puntualizza:
“Quella perizia non ha giustificato deterministicamente il comportamento
deviante, ma ha detto che si può avere un cervello ‘senza sicura’, ovvero con
347 D. Natali, I colpevoli del crimine sono i geni “cattivi”?, in “Corriere della Sera”, Milano, 8 novembre 2009, pag. 55.
141
predisposizione genetica, e col ‘colpo in canna’, ovvero con alterazioni cerebrali
conseguenti. Se però non arriva un dito a premere il grilletto (particolari eventi
della vita) la psicopatologia non si manifesta”.
La Sentenza di Como
La sentenza emessa dal Gup di Como Luisa Lo Gatto, il 25 maggio 2011,
rappresenta il secondo caso in cui un tribunale italiano si avvale, oltre che di
accertamenti psichiatrici tradizionali, anche di analisi neuroscientifiche, che hanno
rivelato la morfologia del cervello e il patrimonio genetico dell’imputato,
portando ad una riduzione di pena, da trent’anni a venti, sulla base della parziale
incapacità di intendere e di volere dell’imputato.
Il caso è quello di T.B., ventottenne, arrestata nell’ottobre 2009, mentre cercava di
uccidere la madre.348 La tempestività con cui i carabinieri erano intervenuti,
salvando la vittima in extremis era dovuto al fatto che B. era sospettata di avere
già ucciso la sorella, ed era pertanto monitorata attraverso intercettazioni
ambientali. I carabinieri, insomma, avevano potuto assistere al tentato matricidio
in diretta. Per anni l’imputata aveva sottratto fondi all’azienda di famiglia,
causandone il dissesto, cercando poi di far ricadere la colpa sulla sorella C. Le
incongruenze della denuncia e una falsa confessione con cui aveva tentato di
incolparla avevano, però, insospettito gli inquirenti.349
Una perquisizione effettuata in una casa di proprietà della famiglia aveva quindi
consentito di rinvenire il cadavere carbonizzato della sorella: le condizioni del
corpo non permettevano di determinare le cause della morte, ma le analisi
tossicologiche rilevavano tracce di benzodiazepine, la cui presenza poteva aver
influito sulle capacità psicomotorie e reattive della vittima. Non bastasse, T.B.
aveva anche effettuato un tentativo, peraltro piuttosto maldestro, di omicidio nei
confronti di entrambi i genitori, incendiando l’autovettura su cui li aveva fatti
salire.350
348 I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, cit., pag. 203.349 Ibidem.350 Ibidem.
142
La donna viene sottoposta a una prima perizia psichiatrica, che sulla base di due
colloqui accerta una parziale infermità mentale, senza fornire però una diagnosi
specifica. Il tribunale chiede quindi una ulteriore perizia e un secondo psichiatra
fornisce un parere opposto, dichiarando la donna sana di mente.
Per la difesa, l’avvocato Guglielmo Gulotta di Milano chiede allora una terza
perizia, che viene affidata a Giuseppe Sartori, psicologo dell’Università di
Padova, e a Pietro Pietrini, psichiatra, docente di biochimica a Pisa ed esperto di
genetica comportamentale. Lo staff di Sartori e Pietrini sottopone l’imputata a
nove colloqui ed effettua un preciso lavoro di riscontro tra ciò che l’imputata
racconta e ciò che è stato accertato dall’indagine per verificare quanto la donna sia
attendibile.
A tutto ciò, i periti affiancano una valutazione neuropsicologica, che dimostra
come l’imputata abbia difficoltà di memoria e soprattutto di planning e di
valutazione del rischio. Sottoposta all’Iowa Gambling Test (un test in cui il
soggetto viene invitato a partecipare a un gioco dal quale si traggono vantaggi sul
lungo termine se si accetta di perdere nell’immediato), l’imputata dimostra di non
avere nessuna capacità di rimandare nel tempo la ricompensa, pensa solo al
beneficio immediato. Al test di Hayling, che misura l’impulsività di un soggetto,
l’imputata appare incapace di controllarsi. A prove di teoria della mente (test che
richiedono di interpretare emozioni e pensieri altrui), la donna ottiene risultati al
di sotto della norma, perché priva di empatia (non in grado di classificare sulla
base della gravità alcune violazioni di comuni norme morali).
I due periti concludono quindi che la donna è affetta da psicosi dissociativa e che
sia legittimo riconoscerle un parziale vizio di mente.
Per corroborare la propria diagnosi aggiungono altri tre esami.
Dato che la donna afferma di non ricordare nulla del crimine, la sottopongono allo
IAT (Implicit Association Test), tecnica che, misurando i tempi di reazione di un
soggetto di fronte a un’affermazione, è in grado di discriminare con una buona
precisione se esistono, nei confronti di quella affermazione, dei meccanismi di
difesa. Lo IAT (ideato per studiare le reazioni di piacere e disgusto, oppure i
pregiudizi impliciti) viene qui utilizzato per uno scopo ancora sperimentale:
verificare se una certa informazione è codificata nel cervello come traccia
143
mnestica oppure no. I periti sono in grado di confermare che quando la donna
afferma di non ricordare i particolari del crimine, dice la verità, perché non vi è
alcun rallentamento nei suoi tempi di reazione (un rallentamento che sarebbe
lecito aspettarsi se mentisse scientemente). Questo test dimostra che la donna ha
davvero una amnesia dissociativa e non è una simulatrice.
L’imputata è sottoposta a una risonanza magnetica per verificare la morfologia del
suo cervello: risulta avere una riduzione del volume del cingolo anteriore, un’area
importante per il controllo degli impulsi.
Infine è sottoposta a un’analisi genetica, da cui risulta portatrice di una variante di
tre geni: quello per la serotonina, quello delle monoaminossidasi e quello per il
metabolismo delle catecolamine, noti perché associati a un aumento del rischio di
comportamenti violenti.
Nella sentenza emessa dal giudice Luisa Lo Gatto, con cui si condanna l’imputata
a vent’anni (ma con il successivo ricovero in una casa di cura per almeno tre
anni), si sottolinea che “l’indagine svolta dai consulenti della difesa si è composta
di procedure valutative complesse e, a conforto, anche di procedure maggiormente
fondate sull'obiettività e sull'evidenza dei dati perché corroborate dalle risultanze
dell'imaging cerebrale e di genetica molecolare e, per ciò stesso, in grado di
ridurre la variabilità diagnostica e di offrire risposte meno discrezionali rispetto a
quelle ottenibili col solo metodo di indagine tradizionale clinico”. Ma, se “della
perizia psichiatrica il giudice non può fare a meno visto e considerato che
l'imputabilità di un soggetto può essere esclusa o grandemente scemata a cagione
di una infermità mentale”, allo stesso tempo “le conclusioni psichiatriche
costituiscono un parere tecnico che non fornisce verità ma solo conoscenza,
comprensione dell'accaduto e, spesso, tentativi di comprensione dell'accaduto e,
nella vigenza dell'attuale quadro normativo, esercita una funzione di supporto
della decisione giudiziaria che è il prodotto di una valutazione complessiva, logica
e coordinata delle emergenze psichiatriche e di quelle processuali”. Alla fine, “una
volta ottenuto l'ausilio della scienza psichiatrica che individua i requisiti bio-
psicologici di una eventuale anomalia mentale, resta al giudice il compito di
valutare la rilevanza giuridica dei dati forniti dalla scienza ai fini della
rimproverabilità dei fatti commessi al suo autore, sulla base del complesso delle
144
risultanze processuali e della valutazione logica e coordinata di tutte le
emergenze”.
Inoltre, tiene a precisare il giudice Lo Gatto, richiamandosi alle riflessioni del
neuroscienziato Michael Gazzaniga, fra i primi della comunità scientifica
internazionale a occuparsi di problemi di neuroetica, “non si tratta di introdurre
una rivoluzione copernicana in tema di accertamento, valutazione e diagnosi della
patologie mentali, né tantomeno di introdurre criteri deterministici da cui inferire
automaticamente che ad una certa alterazione morfologica del cervello
conseguono certi comportamenti e non altri, bensì di far tesoro delle condivise
acquisizioni in tema di morfologia cerebrale e di assetto genetico, alla ricerca di
possibili correlazioni tra le anomalie di certe aree sensibili del cervello ed il
rischio, ad esempio, di sviluppare comportamenti aggressivi o di discontrollo
dell'impulsività, oppure tra la presenza di determinati alleli di geni ed il rischio di
maggiore vulnerabilità allo sviluppo di comportamenti socialmente inaccettabili
perché più esposti all'effetto di fattori ambientali stressogeni”. Prosegue la
Sentenza: “Tutto questo consente di concludere, in armonia con quanto rilevato
dai consulenti tecnici della difesa, che l'imputata nel periodo in cui ha commesso i
crimini, fosse affetta da problemi psichiatrici, e che questi problemi psichiatrici,
abbiano, almeno in parte, avuto diretta efficienza causale sui crimini commessi,
facendo scemare la capacità critica sui gesti compiuti e inibendo in parte il
controllo sul proprio comportamento”. Al che, “sia le emergenze psichiatriche,
completate dalle risultanze dell'imaging cerebrale e di genetica molecolare, che
quelle processuali consentono di rilevare gravi segni di disfunzionalità psichica,
eterogenei ma convergenti nell'indicare un nesso causale tra i disturbi
dell'imputata ed i suoi comportamenti illeciti”.351
Si può infine notare una curiosità: che i periti scelti sono stati gli stessi al tribunale
di Trieste e a quello di Como. Ma con una differenza: a Trieste erano periti del
tribunale, a Como della difesa.
Rilievi critici
351 M. Mozzoni, Neuroscienze in tribunale: la sentenza di Como, in “Brainfactor”, Brainfactor cervello e neuroscienze, Milano, 8 settembre 2011.
145
Una prima osservazione da compiere è che entrambe le sentenze appena esposte
danno una loro risposta alla domanda “le prove neuroscientifiche dimostrano che
siamo uomini innocenti con cervelli e geni colpevoli?”.
Nel dibattito degli ultimi decenni riguardante le scienze del cervello e, soprattutto,
le conseguenze delle loro scoperte, si era insinuato il timore che, in relazione a chi
commette un reato, non si potesse più parlare di criminali e rei, ma che si dovesse
“accettare l’evidenza” che in realtà si trattasse di incapaci e malati di mente.
Ci si poneva (e tutt’ora ci si pone) un quesito dalla rigida dicotomia: chi compie
un illecito, è un criminale libero nel volere o una persona malata con
menomazioni cognitive e a volte anche genetiche? I rei sono liberi o determinati?
Compiono azioni illecite perché è ciò che vogliono o perché devono?
Riassumendo, dunque, la querelle gira intorno a questi due poli, che ricordano a
tratti lo scontro filosofico tra determinismo e indeterminismo e le varianti di essi.
Come ogni scoperta che possiede più “nature” (nel caso di quelle
neuroscientifiche, una natura scientifica e una etico-filosofica), l’impatto che può
avere nella realtà quotidiana tende ad essere ingigantito e vengono persi di vista i
reali confini empirici ed epistemologici.
Anziché pretendere (o temere) che neuroscienze e genetica comportamentale
possano dimostrare la nostra “schiavitù biologica” e trasporre per intero su un
piano filosofico le loro ipotesi, dobbiamo renderci conto che entrambe le
discipline si limitano ad indagare le reali dimensioni della patologia e dei suoi
effetti sul comportamento umano e non sono idonee a risolvere “da sole” alcune
delle più grandi questioni della filosofia e dell’etica.
A mio avviso, sono da considerare in questa linea di pensiero sia la sentenza di
Trieste, sia quella di Como. È ravvisabile tale orientamento nelle motivazioni di
entrambe le sentenze: indagini neuroscientifiche e genetiche possono “aiutare” il
giudice a comprendere i confini della malattia, senza “sostituirlo” nel valutare se e
quanto sia “colpevole” un individuo.
Le due pronunce, anziché destare clamore e proteste, avrebbero dovuto far
riflettere non tanto l’opinione pubblica, quanto la giurisprudenza e la dottrina di
altri paesi.
146
Nella giurisprudenza e dottrina statunitensi, infatti, molti sono giunti a conclusioni
radicali ed opposte tra loro. Vi è chi afferma la scusabilità di psicopatici e altri
malati mentali, poiché non in grado di comprendere appieno ciò che stanno
facendo.352 Altri, invece, ne affermano l’accresciuta pericolosità, in ragione della
quasi impossibilità di curarli. Come esempio, si veda il “caso Penry v. Lynaugh”
del 1989: a seguito della perizia psichiatrica presentata dalla difesa, la Corte
distrettuale del Texas aveva dichiarato sì una diminuita capacità di intendere e di
volere dell’imputato, ma si era avvalsa della perizia per fondare l’aggravante della
sua pericolosità sociale, che aveva portato alla condanna a morte di Penry. La
Corte Suprema, investita del caso dalla difesa di Penry, confermò la sentenza,
definendo la perizia una “spada a doppia lama” (two-edged sword).353
La nostra giurisprudenza, invece, non ha accettato tali posizioni estreme e ha
scelto (almeno per ora) una più corretta soluzione mediana: entrambe le sentenze,
infatti, si concludono con una dichiarazione di “semi-imputabilità” e con delle
riduzioni della pena detentiva.
A mio parere, i giudici in questione sono riusciti a comprendere e ad utilizzare al
meglio le evenienze delle due perizie e, più in generale, “ciò che ci dicono”
neuroscienze e genetica: se presenti certi fattori (neurologici e genetici), un
individuo si ritrova con uno spazio di libero arbitrio ulteriormente diminuito,
poiché già in condizioni normali una persona si trova ad affrontare fattori
ambientali, culturali e, aggiungiamo pure, caratteriali, nel tentativo di limitarne
l’influenza causale.
La nostra giurisprudenza (sempre, per ora) non ha sposato né un giudizio di
assoluta “scusabilità”, né uno di “aggravata pericolosità”, bensì ha scelto di
comprendere meglio quali potessero essere i limiti della loro responsabilità. Un
individuo nelle stesse condizioni dei due imputati è sì in parte “svantaggiato” e di
conseguenza più “vulnerabile” rispetto ad una persona “normale”, ma rimane pur
sempre colpevole (almeno in parte) della sua condotta. Il suo comportamento è
influenzato dal suo status neuro-genetico, ma anche dovuto alla sua volontà. E
352 S.J. Morse, Psychopathy and the Law: The United States Experience, in L. Malatesti, J. MacMillan (a cura di), Responsibility and Psycopathy, Oxford University Press, Oxford, 2010, p. 41-61. 353 A. Santosuosso, B. Bottalico, Neuroscienze e diritto: una prima mappa, in A. Santosuosso, Le neuroscienze e il diritto, cit., p. 35-36.
147
infatti in entrambi casi la pena detentiva è stata inflitta, seppur ridotta, e, nel caso
dell’imputata di Como, accompagnata pure dalla misura di sicurezza dell’ospedale
psichiatrico (che, come sappiamo, è temporalmente determinata nel minimo, ma
non nel massimo, ed è riapplicabile più volte).
E tali conclusioni sono coerenti con il modello “integrato” che ha preso piede in
varie discipline scientifiche: esistono più fattori causali di ogni evento (nel nostro
caso, di ogni comportamento), che intervengono in termini di maggiori probabilità
(e non di certezza!) che tale evento (o comportamento) si realizzi. Si parla,
dunque, di una “concatenazione” di fattori, al cui centro viene a trovarsi
l’individuo.
Conclusioni
Abbiamo analizzato il fenomeno delle neuroscienze e delle loro scoperte più
rilevanti. Abbiamo visto anche come la relazione tra scienze cognitive e diritto sia
ancora ai suoi albori. Vari campi di ricerca che intersecano le due discipline si
stanno delineando. Pur mantenendo dei confini ancora vaghi, sono stati posti
diversi obiettivi: indagare il senso morale della Giustizia, rivelare la personalità
criminale, ampliare gli attuali strumenti giuridici e crearne di nuovi, e altro
ancora.
148
Tirando le fila del nostro discorso, non posso che iniziare dal dilemma oscillante
tra determinismo e indeterminismo. Abbandonando la pura speculazione
filosofica, bisogna trovare quale potrebbe essere la soluzione pragmatica di questa
“eterna lotta” e come potrebbe profilarsi una sua applicazione reale.
Il libero arbitrio è il presupposto fondamentale per la maggior parte delle
esplicazioni esistenziali dell’uomo e in particolare, dal punto di vista giuridico, del
concetto di “responsabilità”.
A mio parere, l’errore di filosofi e scienziati consiste nel voler definire l’intero
universo come un sistema o determinato o indeterminato, con le conseguenze già
osservate che discendono dalla scelta dell’una posizione o dell’altra.
Forse l’errore sta proprio nel ritenere l’universo come un sistema unico. È
ravvisabile nell’essere umano, infatti, una tipica ed intrinseca tendenza
all’unificazione: distinguere e concepire eventi e cose attraverso lo schema
mentale di “semplice” e “complesso” e ricorrere alla logica deduttiva per “ridurre”
ogni cosa dal complesso al semplice e a quella induttiva per il processo inverso. In
altre parole, l’uomo tende a vedere un tutto, un insieme, in cui far ricomporre le
singole parti. Lungi da me criticare questa nostra pratica mentale: è probabilmente
il miglior metodo di comprensione, sicuramente il più pratico.
Ma può portare a delle incongruenze epistemologiche. Non è detto che più cose
od eventi, per il fatto che siano simili, mentalmente “accomunabili” in un insieme,
ed appartenenti al medesimo universo, debbano necessariamente obbedire alle
medesime leggi fisiche. A dimostrazione di ciò, basti pensare alle teorie della
meccanica classica e della meccanica quantistica: pur essendo incompatibili
concettualmente, esse sono entrambe valide nella realtà fisica. Mentre la prima
trova la sua applicazione nel macrocosmo (dalla biosfera in poi), l’altra
rappresenta un modello ottimale e funzionante per il microcosmo (il livello sub-
atomico). Come è possibile ciò? Forse la ragione potrebbe essere che l’universo
sia composto da più sistemi paralleli indipendenti, non soltanto con differenze
quantitative di grandezza. Ogni sistema risponde a proprie regole fisse e ricorrenti,
che lo rendono determinato (o quanto meno determinabile). Ma ogni sistema entra
inevitabilmente in contatto con gli altri, in una reciproca influenza: o provocando
la modificazione di un corso di eventi già in atto o addirittura dando vita ad uno
149
nuovo. Ed è qui che si crea l’elemento di indeterminazione: è casuale (o
comunque soltanto probabile) quando e come un sistema entrerà in contatto con
un altro.
In tal modo, concependo un universo “multisistemico”, entrambe le concezioni,
determinismo ed indeterminismo, si mantengono valide ed operanti: perciò,
possiamo prevedere gli eventi delle singole componenti dell’universo, fino a
quando non vi sarà su di loro l’intervento di altre, ma di certo non possiamo
prevedere il corso “universale” degli eventi.
E quindi, ritornando ad un livello “umano”, se non è prevedibile con certezza la
catena di eventi dell’universo, come possiamo pretendere di prevedere come un
uomo agirà? Oltretutto, come abbiamo già detto, l’uomo agisce ad un livello di
realtà in cui i fattori causali o, comunque, le fonti di influenza sono innumerevoli.
Abbiamo potuto rendere scienza lo studio di tutti questi elementi: contesto
culturale, corredo genetico, stato di salute, condizioni economiche, accesso
all’educazione, ambiente familiare, cerchia di amici, esperienze, e via dicendo.
Ma permane sempre un approccio probabilistico: anche il miglior criminologo,
pur in possesso di una vasta conoscenza interdisciplinare, non potrà mai dire con
certezza se un uomo compirà un delitto.
Ogni disciplina ha formato il proprio insieme di regole e di casi ricorrenti a partire
da un’osservazione a posteriori e tuttora si spiega un delitto ricercandone a ritroso
le cause e i motivi. E questo è un metodo progressivo di “rivelazione”, di indagine
in senso puro: la cosiddetta “ricerca della verità”, intrinseca del processo, si
riferisce al doveroso atteggiamento epistemologico del giudice e dei suoi
“collaboratori”.
Se fosse possibile una previsione certa di ogni gesto umano, il diritto stesso
sarebbe configurato in modo completamente diverso. Attualmente, le norme
giuridiche seguono lo schema basilare del “quando avviene tale evento o quando
un uomo compie tale azione, ne deriva come conseguenza tale risposta da parte
dell’ordinamento”. Se invece fosse tutto prevedibile con certezza, le norme
seguirebbero un altro schema, ossia “date queste condizioni antecedenti, avverrà
questo evento o un uomo compirà tale azione”. Il diritto sarebbe configurato come
una scienza matematica, composto da una serie di a priori.
150
Al contrario, il diritto rappresenta la raccolta delle più ricorrenti situazioni in cui
si inquadrano certi eventi o in cui può versare un individuo e delinea quali sono le
risposte consequenziali dell’ordinamento: il sistema giuridico è stato costruito
tramite un’osservazione a posteriori della realtà. La stessa creazione di leggi
avviene tenendo conto dei mutamenti della sensibilità culturale e della prassi dopo
che si sono affermati nella società. È un processo di costruzione che mira a
disciplinare gli effetti di eventi ed azioni. È in questo che consiste il “diritto
vivente”: adeguarsi alla collettività umana cui è diretto e disciplinarla ai fini di
ordine ed equità nel rispetto dei valori di tale collettività.
Arriviamo ora al nocciolo della questione: le neuroscienze davvero possono
minare l’attuale concezione del diritto? Possono tramutarlo, nei termini anzidetti,
da “scienza sociale” a “scienza matematica”?
Effettivamente, prendendo alla lettera le scoperte sul cervello, sulla sua natura
deterministica e sulle conseguenze del possesso di certe modifiche strutturali
(congenite o patologiche), sembrerebbe di trovarsi di fronte ad una “vecchia
conoscenza” del diritto: Cesare Lombroso e la sua Scuola Positiva.
Le premesse di entrambi (neuroscienze e Lombroso) appaiono simili: in base a
precise conformazioni fisiche, si può determinare il carattere ed il comportamento
degli individui. Tralascio di elencare le specifiche convinzioni di Lombroso, dato
che sfociavano in una concezione razzista e misogina ai limiti dell’inverosimile.
Quelle che, invece, ci interessano (e potrebbero preoccuparci) sono per l’appunto
le somiglianze “concettuali”: Lombroso considerava tratti del viso e
conformazioni del corpo; le neuroscienze, invece, l’anatomia delle regioni
cerebrali.
Inoltre, ad assomigliarsi sono anche le “conclusioni giuridiche” riguardo al
trattamento sanzionatorio: come già abbiamo visto, molti neuroscienziati
propongono, come Lombroso, l’abbandono della concezione “retributiva” della
pena a favore di una concezione “trattamentale”, nonché “preventiva”. Il reo non è
salvabile (o meglio, il “malato” non è curabile), perciò bisogna solo preoccuparsi
di difendere la società da un suo ritorno a delinquere: e quale modo migliore della
“neutralizzazione”, con la pena capitale o la reclusione a vita?
151
Nonostante queste similitudini, è davvero corretto parlare, in riferimento alle
neuroscienze, di un “neopositivismo”, di un “neolombrosianesimo” o ancora di un
“neuroriduzionismo”? Le definizioni e i nomi si sprecano, ma il timore è lo stesso.
Un timore che, invero, si accompagna ad una conoscenza superficiale della
materia. È assolutamente fuori luogo paragonare le neuroscienze a quelli che sono
stati abbagli o vere e proprie aberrazioni della psichiatria, come furono la
frenologia o la pratica della lobotomia.
Innanzitutto, è discutibile la reazione di sgomento che molti esprimono ad ogni
scoperta neuroscientifica: dimenticano, infatti, che elemento tipico del progresso
scientifico è il non avere limiti di ricerca (tranne limiti di matrice etica). La
scienza non ama oziare su scoperte solide e valide: una volta acquisite, le mette
alla prova, le critica, le pone in dubbio e le supera, cercandone altre più solide e
valide. Il metodo scientifico si esplica non tanto in termini di “costruzione”,
quanto semmai di “esplorazione”. Perciò, va presa con il dovuto senso critico e
con scrupolosa prudenza ogni scoperta dai tratti “sensazionali”. In particolare, il
giurista, per stabilire la validità di un’ipotesi scientifica, non può che servirsi
innanzitutto dell’approvazione di essa da parte della comunità scientifica
internazionale, e in seguito, nel caso concreto, dei suoi strumenti logici di
deduzione e induzione per stabilirne l’inerenza e l’applicabilità.
In secondo luogo, Lombroso e la sua Scuola si differenziano dalle attuali
neurodiscipline per quello che potremmo chiamare “approccio semantico”: essi,
infatti, parlavano in termini di “certezza assoluta”, ossia se una persona aveva un
certo elemento fisico, era destinata ad essere un criminale, senza alcuna via di
scampo. I neuroscienziati, invece, persino quelli più radicali, si esprimono e
ragionano in un quadro di “probabilità” che ad una certa causa consegua un certo
effetto. La differenza tra un neuroscienziato e l’altro consiste proprio nella diversa
“quantità” di possibilità che attribuisce a tale nesso di causalità (dove,
ovviamente, i più rigidi la considerano elevatissima). Ma comunque si mantiene,
seppur ridotto, uno spazio di “alternativa”: che ad una certa causa non consegua
alcun effetto o ne derivi uno diverso.
Per spiegare meglio in quale prospettiva operano gli studi sul cervello umano,
possiamo fare un paragone: come da un’analisi genetica può emergere una
152
predisposizione ad una certa malattia (ad esempio, cardiologica o tumorale), così
può esservi una predisposizione all’aggressività o alla perdita di freni inibitori.
Voglio riportare i dati del documentario Il gene dell’ultraviolenza (in originale,
Explorer: Born To Rage), della Edge West Productions, in collaborazione con
National Geographic Television, in cui diversi individui sono stati sottoposti a
vari test e ad un’indagine genetica, al fine di individuare il gene MAOA. Questo
gene, infatti, è coinvolto nella regolazione del tono dell’umore e nella
modulazione del comportamento e, se la sua attività è eccessiva, può portare a
sviluppare comportamenti violenti. Nel documentario, in particolare, tra i vari
soggetti sono stati selezionati una gang di motociclisti e tre monaci buddisti (la
cui “diversità” è stata scelta, molto probabilmente, per motivi di appeal sul
pubblico).
Ciò che è emerso è che, tra i motociclisti, avvezzi quasi tutti a condotte al limite
del lecito (alcuni di essi addirittura con un passato criminale), soltanto due erano
in possesso del gene MAOA. Invece, la presenza di tale gene è stata riscontrata in
tutti e tre i monaci buddisti. Che cosa se ne deduce?
La conclusione, a cui giungono anche gli autori del documentario, è che non solo
non è detto che un individuo dalla personalità aggressiva possieda una
predisposizione genetica a tali comportamenti, ma che, se anche la si possieda,
non è detto che le proprie scelte di vita ne saranno condizionate.
È forse da suggerire che, come quando si scopre una vulnerabilità a certe
patologie si devono prendere i dovuti provvedimenti per prevenirne l’insorgere,
chi scopre una propria predisposizione a reazioni aggressive in situazioni di stress
debba sviluppare una maggior “difesa”, un “rafforzamento”, del proprio carattere?
Ma, per fare ciò, diventa allora lecito parlare di screening genetici di massa a
scopo preventivo? La motivazione potrebbe essere il consentire ai singoli
individui una maggior consapevolezza di sé e dei propri limiti.
Ma su un piano etico? Esiste, o dovrebbe esistere, una privacy del proprio genoma
e della propria configurazione cerebrale? Anche presupponendo il segreto
professionale del medico in relazione a tali indagini, quali sarebbero i limiti di
disponibilità di tali informazioni? Che fine farebbero queste informazioni?
153
Sarebbe possibile e, se sì, giusto che uno Stato crei una sorta di “archivio” delle
condizioni neuro-genetiche della sua popolazione?
E a livello esistenziale del singolo individuo? Non si creerebbe la “paura” di
essere (nel senso più profondo possibile) una “bomba ad orologeria” o,
riprendendo la metafora di Sartori, una “pistola senza sicura e con il colpo in
canna”? Le proprie scelte di vita, uno dei diritti più intimi che si possano
concepire (si veda il nostro stesso testo costituzionale quando parla di sviluppo e
svolgimento della personalità umana, agli artt. 2 e 3 Cost., e di cui è comunque
imperniata l’intera Parte I, sui “Diritti e doveri dei cittadini”), non ne
risulterebbero inficiate? Potrebbe una persona in tali condizioni sentirsi
moralmente costretta ad evitare, per esempio, di avere una famiglia, per timore di
trasmettere le sue “vulnerabilità” ai propri figli? I quesiti etici potrebbero
continuare.
Spostandoci in campo penale e adottando una prospettiva “fantascientifica”, si
possono immaginare possibili conseguenze terrificanti. Premettiamo che le lesioni
cerebrali più profonde non possono essere curate completamente attraverso
trattamenti riabilitativi e, nel caso di alcune configurazioni cerebrali congenite,
non è possibile intervenire per modificarle. Potrebbe allora uno Stato predisporre,
come misure preventive, dei luoghi di detenzione ad vitam per chi possiede un
certo genoma o un certo cervello? O, forse, obbligare tali persone a vivere in
“comunità” distinte, impedendogli di “mescolarsi” con i cittadini “normali”, e con
un “divieto di procreazione”? O ancora, nell’ipotesi più estrema, attuare una
selezione eugenetica ed “eucerebrale” alla nascita?
Prima di azzardare una risposta, non posso che ricordare il film Minority Report
del 2002, tratto dall’omonimo racconto di Philip K. Dick, in cui a “legittimare”
l’intervento dell’autorità era il fatto stesso di “pensare” di commettere un delitto:
in tal caso, non era un’indagine neuro-genetica, ma la telepatia a rivelare le
intenzioni dei “futuri” criminali. Il nesso con la mente, però, ci induce a
paragonarle.
Quello che mi preme sottolineare è proprio la scelta del titolo, che tradotto suona
come “rapporto di minoranza”. Ciò di cui si rendono conto i protagonisti della
vicenda è che, anche all’esito di un’indagine “telepatica”, esiste, per l’appunto, un
154
“rapporto di minoranza”, una percentuale di casi, in cui il delitto non viene
effettivamente commesso. Non vi è, dunque, la certezza che un gesto criminoso
venga poi realmente posto in essere. Non è detto che si dia seguito ad ogni
pensiero, anche se accompagnato da un solido convincimento razionale o dotato
di un forte coinvolgimento emotivo.
Possiamo, perciò, trarne un monito: se anche una predisposizione genetica o una
data configurazione cerebrale possono indurci verso certi “pensieri” (consci o
inconsci), non è detto che impronteremo su di essi le nostre scelte di vita o le
nostre azioni.
In particolare, vi è una schiera di neuroscienziati che negano il libero arbitrio
attribuendo a meccanismi inconsci, attivati a livello cerebrale, l’origine di ogni
decisione e comportamento umani. In tal modo, eliminano qualsiasi rilevanza
della coscienza e trattano l’individuo come un “paziente” da studiare solo a livello
neurobiologico. Rimandando ai capitoli precedenti le diverse opinioni sulla
coscienza, mi preme di suggerire una riflessione: ammesso che sia vera questa
visione dell’uomo come mero insieme di automatismi, come è possibile che
quotidianamente ci troviamo in dubbio di fronte alle più diverse scelte? Può un
meccanismo inconscio dubitare? Può un cervello avere incertezze? Teoricamente,
il dubbio non dovrebbe emergere a livello di coscienza, ma essere risolto ad un
livello inconsapevole. Non penso, dunque, che si possa parlare di un
determinismo cerebrale da parte dei nostri automatismi. Mi sembra, invece, che
l’incertezza e il dubitare siano qualità proprie di una mente cosciente, dotata di
volontà e raziocinio propri.
È lecito, perciò, adeguandoci allo spirito del nostro ordinamento, concedere il
beneficio del dubbio, fino a quando non verrà dissipato dal compimento effettivo
di una certa condotta (o dal tentativo attraverso atti idonei a porla in essere). Non
dimentichiamoci, inoltre, che il nostro diritto penale pone, tra i caratteri necessari
del reato, il principio di materialità. La risposta punitiva ha ragion d’essere
soltanto in relazione a condotte reali, e non ipotetiche, che possano ledere o
mettere in pericolo i beni giuridici protetti. Gli esami neurologici e le indagini
genetiche, perciò, possono mostrare la presenza di fattori “ulteriori”, che
potrebbero portare un individuo a compiere un gesto non accettabile dalla società.
155
Neuroscienze e genetica comportamentale sono degli “indicatori” di una
condizione biologica. Sono esclusivamente degli “strumenti”, a cui il giudice può
ricorrere per “comprendere” meglio un individuo e giudicarlo in un’ottica più
personale e umana. Possono aiutarlo nella sua “ricerca della verità”.
L’esortazione che dobbiamo fare nostra è, dunque, quella di adottare una “visione
antropologica integrata”, al fine di “umanizzare” il più possibile il diritto, in ogni
suo aspetto, soprattutto nella sua declinazione penale. Senza dimenticare che la
Giustizia va oltre a geni e cervello.
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