Federico Podestà
MODELLI DI POLICY-MAKING ECATEGORIE OCCUPAZIONALI NELLE POLITICHE
DI RIFORMA DEI SISTEMI PENSIONISTICI.UN CONFRONTO FRA IL CASO FRANCESE
E QUELLO ITALIANO
DSS PAPERS SOC 2-03
INDICE
1. La “nuova politica del welfare state” e la riforma
dei sistemi pensionistici ............................................................ Pag. 06
2. Il caso francese .................................................................................. 17
2.1. I tentativi di riforma dei governi Rocard e
Bérégovoy ..................................................................................... 17
2.2. La riforma del governo Balladur ............................................... 18
2.3. La politica pensionistica del governo Juppé .............................. 19
3. Il caso italiano .................................................................................... 21
3.1. La riforma del governo Amato .................................................. 21
3.2. La politica pensionistica del governo Berlusconi ...................... 22
3.3. La riforma del governo Dini ....................................................... 24
4.4. La riforma del governo Prodi ...................................................... 26
4. L'eredità dei modelli di policy-making ........................................... 28
5. Il ruolo delle categorie occupazionali .............................................. 34
6. Conclusione ........................................................................................ 41
Bibliografia ........................................................................................ 45
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 5
Nel corso degli ultimi due decenni del ‘900 i governi dei paesi sviluppati
hanno avviato una stagione di interventi restrittivi che ha determinato una
storica inversione di tendenza nell’ormai secolare politica di espansione del
welfare state. Tuttavia, non sempre i tentativi di intervenire in senso
restrittivo si sono tradotti in riforme dei diversi apparati di protezione
sociale. L’impopolarità di tali programmi e le resistenze sociali, che sono
seguite alla loro presentazione, hanno fatto sì che in molti casi i governi
siano stati costretti a modificare i loro progetti iniziali o addirittura ad
abbandonare i loro piani di riforma. I diversi tentativi compiuti dai policy-
makers delle democrazie avanzate per riformare i sistemi pensionistici e
risolverne, di conseguenza, la crisi finanziaria costituiscono un tipico
esempio di questa nuova fase politica. Ma quali fattori sono stati alla base
del successo e dell’insuccesso dei diversi tentativi di riforma dei sistemi
pensionistici? Perché in alcuni casi i processi decisionali di questi progetti
di intervento in senso restrittivo si sono risolti in un nulla di fatto mentre in
altri casi hanno dato luogo ad un riordino del sistema previdenziale?
In questo saggio si è cercato di rispondere a questi interrogativi
ponendo a confronto i processi decisionali dei progetti di riforma
previdenziale portati avanti in Francia ed in Italia nel corso degli anni ’90.
La principale conclusione è stata che l’esito di tali processi è dipeso dal
modello di policy-making adottato e da quali categorie occupazionali sono
state chiamate in causa dalle misure restrittive.
L’articolo è suddiviso nelle seguenti parti: nel primo paragrafo viene
presentata una breve rassegna della letteratura sulle politiche di restrizione
del welfare state, in generale, e dei sistemi pensionistici, in particolare, per
formulare poi specifiche ipotesi di ricerca; nel secondo e nel terzo paragrafo
vengono descritti i processi decisionali dei due casi nazionali posti a
confronto; nel quarto e nel quinto paragrafo, attraverso un esame
6 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
comparativo, vengono sottoposte a verifica le ipotesi precedentemente
formulate; nel sesto paragrafo, infine, vengono esposte alcune riflessioni
conclusive.
1. La “nuova politica del welfare state” e la riforma dei sistemi
pensionistici
In conseguenza dell’ormai più che ventennale crisi del welfare state, la
totalità dei paesi avanzati sembra aver definitivamente abbandonato la
politica di espansione dei programmi sociali in favore di una politica
caratterizzata essenzialmente da interventi restrittivi. Come ha osservato
Pierson nei suoi celebri lavori, la fase contemporanea è caratterizzata da una
“nuova politica del welfare state” che segue proprie regole non assimilabili a
quelle operanti nel corso della lunga fase di sviluppo dello stato sociale. Gli
aspetti che distinguono questa nuova fase politica sono essenzialmente due:
il mutamento degli obiettivi dei policy-makers e l’emergere di un nuovo
contesto socio-politico. Più in particolare, i policy-makers hanno mutato i
loro fini passando dalla produzione di interventi popolari, come erano per
l’appunto le politiche di espansione del welfare state, alla produzione di
interventi restrittivi ed impopolari. D’altra parte, la “nuova politica del
welfare state” si colloca in un ambiente caratterizzato da fitte reti di
interessi, fortemente intrecciate ai diversi programmi sociali e pronte a
mobilitarsi in difesa dei benefici acquisiti durante la precedente fase di
espansione (Pierson 1994; 1996). Per queste ragioni, secondo Pierson, i
modelli di welfare risultano altamente resistenti a qualsiasi tentativo di
smantellamento. I network associati ai singoli programmi sociali e
l’impopolarità delle stesse politiche restrittive, oltre a costituire un ostacolo
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 7
contro ogni progetto di cambiamento radicale, fanno sì che l’esito dei
processi decisionali di riforma dei singoli programmi sociali non appaia mai
scontato. Analogamente a quanto ci si è prefissi in questo articolo, l’autore
si interroga sul perché in alcuni casi i tentativi dei policy-makers di
intervenire in senso restrittivo hanno successo mentre in altri i governi sono
costretti a rinunciare ai loro progetti politici. Dalla comparazione delle
politiche portate avanti dai governi Reagan e Thatcher durante gli anni ’80,
Pierson (1994) conclude che il successo o l’insuccesso di un intervento
restrittivo dipende dalla capacità delle organizzazioni di interesse, legate ai
singoli programmi di welfare, di difendere i diritti sociali acquisiti. Pertanto,
se i policy-makers decidono di agire su programmi che hanno sviluppato
solide reti di interessi nel corso della loro espansione, incontreranno
maggiori difficoltà nel portare avanti i loro progetti di riforma. Viceversa, se
decidono di intervenire su programmi scarsamente sviluppati e, di
conseguenza, contornati da deboli network di interessi, è più probabile che i
loro tentativi abbiano successo.
Un discorso analogo viene sviluppato da Pierson in un più recente
articolo scritto in collaborazione con Myles sulle politiche di riforma dei
sistemi pensionistici realizzate negli ultimi due decenni. I due autori
sostengono che i contenuti di tali riforme sono dipesi dal grado di sviluppo
degli stessi sistemi pensionistici. In paesi, come Australia, Irlanda, Olanda e
Nuova Zelanda, dove i sistemi previdenziali a ripartizione sono stati
introdotti tardivamente, le recenti riforme hanno determinato cambiamenti
sostanziali ridefinendo l’intero modello di welfare per gli anziani.1
1 I sistemi pensionistici a ripartizione prevedono che coloro che si trovano attualmente
occupati finanzino, attraverso i contributi previdenziali, le rendite di coloro che hannogià concluso la propria carriera lavorativa. Viceversa nei sistemi pensionistici acapitalizzazione le rendite percepite dai pensionati sono il frutto dei contributi che essistessi hanno versato durante la loro carriera lavorativa.
8 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
Viceversa, nella maggior parte dei paesi dell’Europa continentale e
dell’Europa del Nord, dove esistono sistemi a ripartizione maturi, le recenti
riforme sono state caratterizzate da limitati aggiustamenti dettati da esigenze
di austerità. In sostanza, si è trattato di interventi che hanno colpito in modo
lieve i benefici degli attuali pensionati e dei lavoratori che sono prossimi al
pensionamento, mentre hanno inciso in modo più significativo su regole e
prestazioni destinate alle nuove generazioni (Myles e Pierson (2001).
Inoltre, per garantire un esisto consensuale ai processi decisionali di
questo tipo di interventi, si è dato vita a pratiche concertative fra governo e
organizzazioni sindacali. Myles e Pierson (2001, 322) sostengono che nei
paesi dell’Europa continentale e del Nord Europa il consenso sindacale è
stato una condizione necessaria, se non addirittura sufficiente, per realizzare
un riordino dei sistemi pensionistici. La tesi avanzata dai due autori prevede
quindi che in questo gruppo di paesi, mentre la portata delle riforme dei
sistemi pensionistici è stata determinata dal percorso di sviluppo degli stessi
sistemi, l’esito dei relativi processi decisionali è stato condizionato dal
coinvolgimento di soggetti in grado di offrire (o ritirare) consenso.
A nostro avviso, sebbene questo modo di procedere abbia il merito di
tenere conto del peso svolto dal passato negli attuali processi decisionali,
presenta il limite di applicare questa prospettiva esclusivamente al grado di
sviluppo dei programmi pensionistici e non anche alla struttura di
rappresentanza degli interessi ed al modello di policy-making che ne deriva.
Gli attuali policy-makers non ereditano dal passato soltanto la struttura dei
programmi che intendono riformare, ma anche la costellazione di interessi
con la quale sono costretti a confrontarsi per portare avanti i loro progetti di
riforma (Capano 1996). Per questo motivo, benché non ci sia da stupirsi se il
contenuto delle recenti riforme sia stato condizionato dalla maturità degli
stessi sistemi pensionistici, appare meno plausibile che questo tipo di
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 9
interventi siano stati realizzati attraverso pratiche concertative
semplicemente perché i loro fautori avevano la necessità di gestirne seri
costi politici. Affinché si possa giungere ad un tale esito è necessario, infatti,
che ulteriori condizioni vengano soddisfatte. Come suggerisce la letteratura
neo-corporativa, i prerequisiti di assetti concertativi stabili sono
identificabili in una struttura di rappresentanza sindacale non troppo
frammentata e attraversata da logiche competitive e in una strategia
sindacale favorevole a questo metodo di produzione delle politiche
pubbliche (Lehmbruch 1984; Regini 1991). Di conseguenza, se gli attuali
policy-makers ereditano dal passato un modello di rappresentanza che non
soddisfa in alcun modo le suddette condizioni, sarà ben difficile che possano
realizzare interventi restrittivi con il consenso delle organizzazioni sindacali.
Ciò ci porta a sostenere che, sebbene all’interno di ogni paese il
modello di policy-making, ovvero la modalità di interazione fra governo ed
interessi organizzati che si determina nella produzione delle politiche
pubbliche (Regini 1991), non rimanga rigido nel tempo, la “dipendenza da
percorso” fa si che i policy-makers debbano confrontarsi sistematicamente
con i vincoli prodotti dal passato. In altri termini, malgrado i rapporti fra
sedi decisionali ed interessi organizzati non rimangano completamente rigidi
nel tempo, la preesistente struttura di rappresentanza e le strategie sviluppate
in passato dalle varie organizzazioni di interesse, i governi nazionali non
possono produrre le politiche nei modi da essi preferiti. In questo modo c’è
da aspettarsi che, se in passato un paese si è più o meno accostato ad un
particolare modello di policy-making, quale la “concertazione” (le principali
organizzazioni di interesse sono inserite nei processi decisionali), la
“pressione pluralistica” (la pluralità dei gruppi di interessi riesce a plasmare
l’azione dei policy-makers senza essere direttamente incorporata nel
10 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
processo decisionale) o il “governo per decreto” (Salvati 1982) (l’esecutivo
è in grado di condurre unilateralmente il processo decisionale senza subire il
condizionamento delle pressioni delle organizzazioni di interesse), nella fase
attuale i governi nazionali dovranno sottostare ai vincoli prodotti da tali
pratiche decisionali se vorranno avere successo nelle politiche di riforma dei
sistemi pensionistici.
Pertanto, l’ipotesi che si intende qui avanzare prevede che, per
realizzare un intervento restrittivo nei confronti di sistemi pensionistici
maturi, è necessario in primo luogo che i governi avviino processi
decisionali compatibili con la preesistente struttura di interesse e con la
strategia maturata da quei soggetti in grado di offrire (o ritirare) consenso
(sindacati in primis). Più in particolare, l’esito di tali processi decisionali
dipende, anzitutto, dalla misura in cui i policy-makers interagiscono con gli
interessi organizzati sottostando ai vincoli generati dal modello di policy-
making consolidatosi in passato. Se in un determinato paese si è sviluppato
un assetto concertativo stabile, sarà molto improbabile che la realizzazione
di una riforma pensionistica possa avvenire senza il consenso sindacale o
attraverso un’azione unilaterale del governo. Laddove invece la struttura di
rappresentanza continua ad essere frammentata e le organizzazioni sindacali
non hanno maturato una strategia adatta per poter partecipare alla
formazione di interventi restrittivi, sarà ben difficile che i governi potranno
realizzare i loro progetti di riforma coinvolgendo le parti sociali nel processo
decisionale. In questo caso, essi dovranno agire in modo unilaterale o
confrontandosi con le resistenze dei gruppi di interesse chiamati in causa
dalla misure restrittive.
Il rispetto dei vincoli prodotti dai preesistenti modelli di policy-making
non può tuttavia garantire di per sé la realizzazione di questo tipo di
programmi. Una volta che i policy-makers hanno fatto le scelte appropriate a
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 11
riguardo delle modalità di interazione con le organizzazione di interesse, è
necessario che vengano soddisfatte ulteriori condizioni concernenti le
categorie occupazionali nei confronti delle quali vengono avanzate le misure
restrittive. Vanno quindi formulate specifiche ipotesi a seconda di quale tipo
di policy-making è necessario adottare.
Nel caso in cui sussistano le condizioni per dar vita a pratiche
concertative, per far sì che queste producano interventi restrittivi, occorre
che i sindacati che partecipano al processo decisionale possano ottenere
delle contropartite in cambio del loro consenso. Detto in altri termini, è
necessario che le organizzazioni sindacali, oltre ad aver maturato una
strategia favorevole a questa pratica decisionale, possano ottenere da essa
dei vantaggi ogni volta che decidono di parteciparvi. Per garantire il
successo della concertazione non basta, infatti, che le organizzazioni
sindacali percepiscano tale modello di policy-making come una possibile
fonte di benessere per i loro rappresentati, ma occorre altresì che esse
possano ottenere alcuni benefici nel momento in cui decidono di partecipare
ad accordi bi- o tri-partiti.
Ciò pone però un problema di quali sono i “termini dello scambio
politico” che possono soddisfare gli interessi organizzati che partecipano
alla concertazione. Se si applica un tale ragionamento alla formazione di
politiche restrittive adottate per combattere il deficit del bilancio pubblico,
appare evidente che la “logica dello scambio politico” non si possa più
ricondurre alla definizione di Pizzorno (1993), secondo cui il governo ha
beni da distribuire in cambio del consenso offerto da quei soggetti (i
sindacati in primis) in grado di minacciare l’ordine sociale. Infatti,
trovandosi in una situazione di disavanzo finanziario il governo non può
disporre di risorse da offrire come contropartita al consenso sociale. Ne
deriva, pertanto, che la crisi fiscale che attraversano i sistemi pensionistici,
12 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
cosi come molte altre istituzioni pubbliche, ha determinato un’importante
trasformazione della “logica dello scambio politico”. Per questo motivo
possiamo ipotizzare che i sindacati, coinvolti nei processi decisionali,
accetteranno di offrire il loro consenso nella misura in cui le misure
restrittive verranno destinate anche (e soprattutto) a categorie differenti da
quelle da essi rappresentate. In altre parole, ci si può aspettare che le
organizzazioni sindacali saranno disposte a contribuire al risanamento del
sistema previdenziale, quanto più anche le categorie occupazionali da esse
non rappresentate faranno la loro parte. Tuttavia, perché si verifichi una tale
ipotesi, è necessario che i sindacati giungano alla “stagione degli interventi
restrittivi” avendo maturato la convinzione che in una fase di crisi del
welfare state, come quella attuale, la salvaguardia dei sistemi di protezione
sociale costituisca un risultato vantaggioso al cui ottenimento devono però
contribuire tutte le categorie sociali ed, in particolare quelle che non fanno
parte della base sindacale. C’è da supporre quindi che nella fase attuale il
riorientamento strategico dei sindacati che garantiscono il successo di
processi decisionali di interventi restrittive, non consista esclusivamente
nell’accettazione di sacrifici di breve periodo in cambio di benefici di futuri,
come sostengono Ferrera e Gualmini (1999), ma anche nel cercare di far
ricadere i costi del risanamento finanziario su altre categorie di interesse.
Viceversa, nel caso in cui non si possa procedere mediante pratiche
concertative (“pressione pluralistica” o “governo per decreto”), la
realizzazione delle riforme pensionistiche sarà condizionata dalla capacità
del governo di agire unilateralmente e di imporre le proprie scelte o,
specularmene, dalle risorse di potere a disposizione delle organizzazioni di
interesse che difendono le categorie occupazionali a cui sono destinate le
misure restrittive. Ciò significa che, quando i governi decidono di
intervenire in senso restrittivo su sistemi pensionistici laddove non è
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 13
possibile coinvolgere gli interessi organizzati nei processi decisionali, l’esito
di questi ultimi dipenderà da quanto più le sedi decisionali si dimostrano
permeabili alle pressioni che i gruppi di interessi esercitano dall’esterno. Se i
governi sono in grado di condurre i processi decisionali delle riforme
pensionistiche a prescindere dalla pressione di questi gruppi, l’esito del
processo dipenderà esclusivamente dall’azione governativa (“governo per
decreto”). Viceversa, se i governi non sono in grado di resistere alle loro
pressioni, l’esito dei processi decisionali dipenderà dalle risorse di potere a
disposizione di tali gruppi (“pressione pluralistica”). In tal caso, se i governi
decidono di intervenire nei confronti di categorie altamente organizzate e, di
conseguenza, con elevate capacità di mobilitare le proprie risorse di potere, i
programmi restrittivi avranno maggiori probabilità di fallire di quanto non
avvenga se questi vengono destinati a categorie scarsamente organizzate.
Secondo questa prospettiva per spiegare l’esito dei processi decisionali
delle riforme dei sistemi pensionistici maturi, occorre, in primo luogo,
tenere conto se i governi si siano rapportati alle organizzazioni di interesse
in compatibilità con il modello di policy-making consolidatosi in passato ed,
in secondo luogo, come ciò abbia interagito con le categorie occupazionali
chiamate in causa dalle misure restrittive.
Se un tale modo di procedere consente effettivamente di spiegare gli
esiti dei processi decisionali delle riforme pensionistiche, è chiaro che esso
può consentire altresì di spiegare la direzione intrapresa dagli stessi sistemi
pensionistici in termini di equità di trattamento delle diverse categorie
occupazionali. Potendo spiegare l’esito di quei progetti di riforma volti a
ridurre (o aumentare) le disparità di trattamento fra le categorie
occupazionali, che contraddistinguono i sistemi previdenziali di molti paesi
dell’Europa continentale (Esping-Andersen 1990), diventa allo stesso tempo
possibile individuare le ragioni che stanno alla base del percorso che questi
14 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
sistemi hanno intrapreso nella presente fase di riorganizzazione del welfare
state. Questo tipo di argomentazione si basa sul presupposto che, sebbene i
programmi sociali tendano ad evolversi in ragione dei loro precedenti
percorsi di sviluppo, essi non necessariamente mantengono inalterato il loro
modello organizzativo. Non si può infatti dare per scontato che i programmi
sociali che hanno assunto un medesimo modello organizzativo nella loro
fase di espansione debbano inevitabilmente seguire percorsi identici in
conseguenza delle politiche restrittive. L’adozione di un approccio neo-
istituzionalista troppo incentrato sulla struttura organizzativa rischierebbe di
trascurare le (pur limitate) deviazioni di percorso che possono manifestarsi
per effetto dall’azione degli attori sociali e politici coinvolti nei processi di
riorganizzazione istituzionale (Regini 1999). Di conseguenza, sebbene
anche Myles e Pierson (2001) partano da tale presupposto, occorre prendere
con una certa cautela la loro ipotesi secondo la quale, per realizzare riforme
con ridotti costi politici, i governi dei paesi europei ed, in particolare, quelli
dell’Europa continentale avrebbero proceduto in direzione di una
razionalizzazione dei sistemi pensionistici, riducendo proprio le disparità di
trattamento fra le diverse categorie occupazionali. A nostro parere, infatti,
l’attenuazione di tali disparità non può di per sé garantire un esisto positivo
e consensuale dei processi di riforma. Questo perché, come abbiamo
anticipato, la produzione di tali politiche è condizionata dal ruolo svolto
dagli interessi organizzati che non necessariamente sono favorevoli
all’attenuazione delle differenze di trattamento o all’eliminazione di
particolari privilegi, a favore di determinate categorie occupazionali. In altri
termini, se si è potuto realizzare una razionalizzazione dei sistemi
previdenziali, è, a nostro parere, semplicemente perché la struttura di
interesse coinvolta nelle politiche restrittive lo ha consentito.
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 15
Per testare le ipotesi sopra formulate, abbiamo posto a confronto i
processi decisionali dei progetti di riforma pensionistica portati avanti in
Francia ed in Italia nel corso degli anni ’90. Per quanto concerne il caso
francese sono stati presi in esame i tentativi fatti dai governi Rocard e
Bérégovoy fra il 1990 e l’inizio del 1993, la riforma Balladur del 1993 e il
fallimento della riforma avanzata dal governo Juppé nel corso del 1995. Per
quanto concerne il caso italiano sono state considerate la riforma Amato del
1992, il tentativo di riforma del governo Berlusconi del 1994 e le riforme dei
governi Dini e Prodi, realizzate rispettivamente nel 1995 e nel 1997.
La scelta di comparare i processi decisionali di queste politiche
restrittive deriva dal fatto che Francia e Italia sono giunte alla “nuova
politica del welfare state” denotando caratteristiche particolarmente
interessanti per sottoporre a verifica le ipotesi precedentemente formulate.
Sul piano della politica pensionistica entrambi i paesi si sono dotati di
sistemi previdenziali a ripartizione con largo anticipo rispetto all’inizio della
stagione degli interventi restrittivi. Sul piano dei modelli di policy-making,
invece, sebbene per buona parte del secondo dopoguerra i due paesi abbiano
condiviso un “basso grado di neo-corporativismo” e, quindi, uno scarso, se
non addirittura nullo, utilizzo di pratiche concertative, nel corso degli ultimi
decenni essi hanno evidenziato importanti differenze di percorso. Mentre
l’Italia si è progressivamente avvicinata a un modello neo-corporativo più o
meno stabile (Regini e Regalia 1997), la Francia non ha fatto registrare una
tendenza analoga, continuando ad evidenziare elementi tipici del “governo
per decreto” e della “pressione pluralistica” (Salvati 1982; Wilson 1987). La
scelta di comparare i processi decisionali degli interventi restrittivi, portati
avanti in questi due paesi, è stata quindi dettata dal fatto che si trattava di
due casi nazionali con sistemi pensionistici simili, ma con modelli di policy-
making divergenti. Ciò ci ha consentito in pratica di verificare se le recenti
16 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
riforme dei sistemi pensionistici maturi, realizzate in paesi dove non esisteva
una “profonda e radicata tradizione neo-corporativa”, ma si sono al
contempo verificate importanti differenze di percorso, sono state prodotte
attraverso il metodo della concertazione per ragioni di impopolarità, come
sostengono Myles e Pierson (2001), oppure se la loro realizzazione è stata
condizionata dal rispetto dei vincoli ereditati dal passato in materia di
modalità di interazione fra governo e interessi organizzati, come affermato
in precedenza. Una seconda ragione che ci ha spinto a selezionare questi due
paesi deriva dal fatto che, durante la fase di espansione del welfare state,
entrambi si erano dotati di sistemi pensionistici caratterizzati da forti
disparità di trattamento fra le diverse categorie occupazionali. I due sistemi
pensionistici erano quindi giunti alla stagione degli interventi restrittivi
manifestando la tipica struttura del “modello conservatore-corporativo”
dell’Europa continentale. In entrambi i casi i lavoratori del settore pubblico,
ad esempio, erano fra le categorie più privilegiate in termini di benefici e
regole d’accesso alla pensione (Esping-Andersen 1990; Ferrera 1993; André
e Saillard 1994; Pizzuti 1994). Ciò ci ha dunque permesso di verificare se
tali disparità di trattamento sono state attenuate per giustificare gli interventi
restrittivi, come affermano ancora Myles e Pierson (2001), oppure se la loro
accentuazione/attenuazione è dipesa semplicemente dalla configurazione
della struttura di interesse coinvolta nei processi di riforma.
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 17
2. Il caso francese2
2.1. I tentativi di riforma dei governi Rocard e Bérégovoy
I primi tentativi di riordino del sistema pensionistico francese, che
vennero effettuati in Francia nel decennio scorso, furono condotti dai
governi Rocard e Bérégovoy. Entrambi cercarono di coinvolgere le parti
sociali nel processo decisionale senza riuscire però a realizzare alcuna
riforma.
Il 24 aprile del 1991 una commissione tecnica istituita dal governo
Rocard presentò un documento, il Libro bianco, contenente le seguenti
proposte: 1) il passaggio da 37,5 a 40 anni di contribuzione per
l’ottenimento di una rendita pensionistica a tasso pieno, 2) il passaggio dai
migliori 10 ai migliori 25 anni di retribuzione per il calcolo della rendita
pensionistica e 3) la creazione di un fondo pensionistico “universale” per
garantire una pensione a tutti i cittadini francesi.
Dopo la pubblicazione del Libro bianco, il governo avviò una trattativa
con i sindacati per discuterne il contenuto, tuttavia alla fine del confronto
ogni ipotesi di intervenire in senso restrittivo era svanita. Dopo una prima
tornata di incontri, si giunse alla stesura del Rapporto Cottave che metteva
fortemente in discussione le misure tracciate dal Libro bianco accettandone
soltanto l’ipotesi di allungare il periodo contributivo per godere di una
pensione a tasso pieno. Dopo una seconda tornata di incontri venne scartata
anche quest’ultima ipotesi, consentendo al governo Rocard la sola
possibilità di introdurre un fondo di solidarietà previdenziale.
2 Il contenuto di questo paragrafo è tratto da: Ruelland (1993); Depeyroux (1996) e da Le
Monde dal 1 novembre 1992 al 28 febbraio 1993, dal 1 maggio 1993 al 31 luglio 1993e dal 10 dicembre 1995 al 30 maggio 1996.
18 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
Tra la fine del ‘92 e l’inizio del ‘93, anche il governo Bérégovoy cercò
di riformare il sistema pensionistico attraverso il coinvolgimento delle
organizzazioni sindacali. Il governo propose nuovamente il passaggio da
37,5 a 40 anni di contribuzione, l’introduzione di parametri più rigidi per il
calcolo della rendita pensionistica e l’istituzione di una cassa di garanzia per
la copertura dei sussidi minimi di vecchiaia, sino a quel momento a carico
della Sécurité sociale. Sebbene i sindacati sembrassero rendersi conto della
necessità di risanare il bilancio previdenziale e nonostante il governo
offrisse loro misure che richiedevano da tempo, quali la sopracitata cassa di
garanzia, anche in questo caso non si giunse ad alcun accordo per
intervenire in senso restrittivo. Quando poi si avvicinarono le elezioni
legislative del marzo ‘93, Bérégovoy, i suoi ministri e lo stesso presidente
Mitterand smorzarono ancor più i toni del dibattito, determinando di fatto il
blocco di ogni programma di riforma.
2.2. La riforma del governo Balladur
Dopo questa fase caratterizzata dallo stallo decisionale, l’issue
pensionistica passò nelle mani del governo Balladur entrato in carica alla
fine del marzo ’93. Il nuovo esecutivo affrontò la questione inserendola in
una più ampia manovra di risanamento composta da tagli alla spesa e nuove
entrate.
Nella fase di preparazione del piano l’esecutivo proseguì sulla linea di
concertazione portata avanti dai precedenti governi. Tuttavia, dopo alcuni
incontri con le parti sociali, il governo Balladur proseguì agendo in modo
unilaterale. Il 10 maggio 1993 presentò un piano antideficit che includeva un
progetto di riforma previdenziale destinato al Régime générale dei lavoratori
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 19
del settore privato e a quelli ad esso allineati e che riproponeva le principali
misure contenute nel sopracitato Libro bianco. il passaggio da 37,5 a 40 anni
di contribuzione per l’ottenimento di una rendita pensionistica a tasso pieno;
il passaggio dai migliori 10 ai migliori 25 anni di retribuzione per il calcolo
della rendita pensionistica; la creazione del fondo di salvaguardia e di
solidarietà per la vecchiaia (che non era altro che la sopracitata cassa di
garanzia e un intervento sulla rivalutazione delle rendite pensionistiche.
Tutte le principali organizzazioni sindacali si opposero al progetto di
riforma avanzato dal governo. La Cgt, in particolare, indisse per il 27
maggio una giornata di protesta. Tuttavia la scarsa partecipazione alle
manifestazioni di piazza da parte dei lavoratori del settore privato, colpiti
dalle restrizioni pensionistiche, consenti al governo di proseguire nel
processo decisionale senza troppe difficoltà e portare a compimento l’iter
legislativo del piano antideficit e della riforma pensionistica.
2.3. La politica pensionistica del governo Juppé
Anche la politica pensionistica del governo Juppé si inserì in un più
ampio programma di risanamento. Il 15 novembre del 1995 Juppé presentò
all’Assemblea Nazionale un rigoroso piano antideficit che includeva una
riforma dei Régimes spéciaux dei dipendenti pubblici con l’obiettivo di
arrivare ad una maggiore omogeneità delle regole fra i diversi regimi
previdenziali. I punti principali della riforma erano: 1) la creazione di una
cassa previdenziale autonoma per i dipendenti pubblici in modo da liberare
lo stato da ogni onere di finanziamento; 2) l’innalzamento da 37,5 a 40 anni
di contribuzione per l’ottenimento di una rendita pensionistica a tasso pieno,
come era già stato fatto per il Régime générale; 3) l’abolizione del privilegio
20 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
goduto da molte categorie di dipendenti pubblici di poter andare in pensione
in anticipo, ovvero fra i 50 e i 55 anni.
Contro il “piano Juppé” ed, in particolare, contro il progetto di riforma
pensionistica le confederazioni sindacali (in particolare Cgt e Fo) diedero
vita ad una fase di massicce mobilitazioni di protesta che si protrasse per
circa un mese ed ebbe come protagonisti proprio i lavoratori del settore
pubblico. Il governo rimase in un primo momento fermo sulle proprie
posizioni, tuttavia, in conseguenza delle incessanti e sempre più massicce
proteste, fu costretto, dapprima, ad aprire una trattativa con i vertici
confederali e, successivamente, a ritirare la riforma pensionistica dal piano
di risanamento.
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 21
3. Il caso italiano3
3.1. La riforma del governo Amato
La politica pensionistica del governo Amato si inserì in un articolato
programma di risanamento e di lotta all’inflazione che venne portato avanti
nel corso della seconda metà del ’92 attraverso una non semplice trattativa
con i sindacati, interrotta da una fase di netta contrapposizione.
Per quanto concerne nello specifico il riordino del sistema
pensionistico, nel corso dell’estate il governo presentò un progetto di
riforma che i sindacati accolsero senza manifestare alcun dissenso. Il
progetto prevedeva: 1) un’incentivazione all’innalzamento dell’età
pensionabile; 2) una graduale omogeneizzazione delle regole di accesso alla
pensione per diverse categorie professionali che doveva portare alla
progressiva abolizione delle “pensioni-baby” (ovvero della possibilità per i
dipendenti pubblici di accedere alla pensione di anzianità dopo 20 anni di
contribuzione anziché dopo 35 come i lavoratori del settore privato); 3)
l’aumento da 15 a 20 anni del periodo minimo di contribuzione; 4) il
passaggio dagli ultimi 5 agli ultimi 10 anni di retribuzione per il calcolo
della rendita pensionistica; 5) l’affiancamento della pensione
complementare privata al sistema pubblico.
Tuttavia, quando la Lira uscì dallo Sme e il governo dovette, di
conseguenza, inasprire le misure della manovra economica, la trattativa con
i sindacati fu interrotta da una prolungata fase di conflitto. Gli inasprimenti
apportati al progetto di riforma pensionistico riguardavano: 1)
3 Il contenuto di questo paragrafo è tratto da: Il Corriere della Sera e La Stampa dal 1
luglio 1992 al 31 marzo 1993, dal 1 luglio 1994 al 31 dicembre 1994, dal 1 gennaio1995 al 10 agosto 1995 e dal 1 settembre 1997 al 31 dicembre 1997.
22 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
l’innalzamento obbligatorio dell’età pensionabile da 60 a 65 anni per gli
uomini e da 55 a 60 anni per le donne, 2) un taglio sui rendimenti delle
pensioni superiori a 52 milioni di Lire l’anno; 3) l’estensione all’intera
carriera lavorativa per il calcolo della rendita pensionistica dei nuovi assunti.
Durante la fase di conflitto il governo rimase in un primo tempo fermo
sulle proprie posizioni, tuttavia, dopo lo sciopero generale del 13 novembre,
fu costretto a scendere a compromessi con Cgil, Cisl e Uil. In un incontro
tenutosi all’indomani dello sciopero generale accettò di conteggiare
l’adeguamento delle pensioni al tasso inflazionistico programmato e
assicurò di mantenere a 35 anni il diritto per il conseguimento della pensione
di anzianità. Fu, in ogni modo, in materia fiscale che i sindacati ottennero i
maggiori successi: il governo stabilì infatti l’introduzione della tanto
acclamata minimun tax che, attraverso un sistema di coefficienti presuntivi,
si prefiggeva di combattere l’evasione fiscale dei lavoratori autonomi.
Con queste concessioni il governo riuscì a placare la protesta sindacale.
Cisl e Uil tornarono immediatamente su posizioni consensuali mentre la
Cgil, dopo aver dato il proprio sostegno alla protesta di alcune centinaia di
consigli di fabbrica del Nord Italia, diede anch’essa fine alla fase di
conflitto. La manovra antideficit, e con essa la riforma pensionistica,
poterono così concludere il loro percorso legislativo in un clima più disteso.
3.2. La politica pensionistica del governo Berlusconi
L’inizio del processo decisionale della politica pensionistica del
governo Berlusconi può essere fatto risalire all’inizio del settembre 1994,
quando l’esecutivo presentò la Legge finanziaria per il 1995. Il riordino del
sistema pensionistico costituiva il fulcro di questa legge e prevedeva le
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 23
seguenti misure: 1) la sospensione per un anno delle pensioni d’anzianità e
della scala mobile sulla rendita pensionistica; 2) il rilancio dei fondi
pensione privati attraverso l’utilizzo del Trattamento di fine rapporto; 3)
l’accelerazione dei processi di innalzamento dell’età pensionabile e di
eliminazione delle “pensioni-baby”, già avviati dalla riforma Amato; 4) il
taglio di mezzo punto percentuale del tasso di rendimento per il calcolo della
rendita di quiescenza; 5) l’innalzamento graduale da 35 a 40 degli anni di
contribuzione necessari per ottenere la pensione di anzianità.
I sindacati manifestarono immediatamente un forte dissenso nei
confronti della manovra governativa. Per quanto concerneva l’impostazione
generale della manovra, essi avanzarono la richiesta di scorporare la riforma
previdenziale dalla Legge finanziaria, in quanto sostenevano che le
restrizioni pensionistiche non potevano da sole farsi carico del risanamento
delle casse dello stato, ma dovevano essere accompagnate da nuove entrate.
Rispetto alle singole misure, essi si opposero, invece, alle restrizioni relative
al coefficiente di rendimento, alle pensioni d’anzianità e all’indicizzazione
pensionistica.
Alla fine di settembre, quando il governo presentò in Parlamento la
Legge finanziaria, vennero fatte alcune concessioni ai sindacati.4 Tuttavia,
poiché lo scorporo della riforma pensionistica dalla Legge finanziaria non
rientrava fra le concessioni governative, le organizzazioni sindacali diedero
inizio ad una fase di mobilitazione che si protrasse per ben due mesi e che
culminò con lo sciopero generale del 14 ottobre e la manifestazione
nazionale del 12 novembre. 4 Il taglio del coefficiente di rendimento per il calcolo della rendita pensionistica venne
ridotto e rinviato di un anno, i contributi per la pensione d’anzianità vennero mantenutia 35 anni, anche se fu introdotta una penalità sulle rendite pensionistiche per coloroche decidevano di ritirarsi dal lavoro prima di aver raggiunto i requisiti stabiliti per la
24 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
Le difficoltà per l’esecutivo non vennero tuttavia soltanto dal versante
sindacale. All’interno della stessa maggioranza di governo la Lega nord
manifestò un profondo dissenso nei confronti della politica pensionistica
votando in più occasioni a sfavore del governo durante l’iter parlamentare
della Legge finanziaria.
Ciononostante in un primo momento il governo cercò di portare a
compimento la propria manovra di risanamento agendo in modo unilaterale.
Tuttavia, dopo la manifestazione nazionale del 12 novembre il governo si
trovò di fronte ad una situazione che non condizionò in modo irrimediabile
soltanto il percorso della sua politica economica, ma che risultò
determinante anche per la sua stessa sopravvivenza. La minaccia di nuovi
scioperi e la scelta della Lega nord di uscire dalla maggioranza costrinsero
l’esecutivo ad abbandonare, dapprima, le proprie intenzioni di riformare il
sistema pensionistico e, subito dopo, a rimettere il proprio mandato in
Parlamento.
3.3. La riforma del governo Dini
In virtù dell’accordo firmato l’1 dicembre del 1994 dal governo
Berlusconi e da Cgil, Cisl e Uil per lo scorporo della riforma pensionistica
dalla Legge finanziaria, il riordino del sistema previdenziale divenne uno dei
punti principali del programma del governo Dini. Durante la prima metà del
1995 il nuovo esecutivo diede vita ad un’intensa fase di concertazione con le
organizzazione sindacali che portò alla realizzazione della cosiddetta
riforma Dini.
pensione di vecchiaia. Infine il pagamento della contingenza all’inflazione reale venneritardato.
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 25
Il primo punto su cui si confrontarono e si accordarono governo e
sindacati fu la separazione fra previdenza e assistenza ed il trasferimento di
quest’ultima alla fiscalità generale. Nel mese di marzo venne poi concordato
un processo di omogeneizzazione dei carichi contributivi relativi alle diverse
gestioni previdenziali e delle regole d’accesso alla pensione per quanto
concerne i dipendenti pubblici e privati ed i lavoratori autonomi. All’inizio
di aprile governo e Cgil, Cisl, e Uil trovarono un’intesa per rilanciare,
attraverso agevolazioni fiscali, la pensione integrativa privata già prevista
dalla riforma Amato. Successivamente fu stabilito il passaggio dal metodo
di calcolo retributivo a quello contributivo. Così a partire dal 2013, al
termine di un periodo transitorio, le rendite pensionistiche non sarebbero
state più calcolate sulle retribuzioni ma sui contributi versati.
Dopo tali intese il confronto si fece più complicato poiché si dovette
affrontare la questione relativa alla pensione di anzianità che, già all’epoca
del governo Berlusconi, si era dimostrata uno dei punti più difficili da
riformare date le resistenze dei lavoratori dell’industria del Nord Italia. Per
cercare di ovviare a tale problema, il governo Dini e le organizzazioni
sindacali optarono per l’introduzione di un vincolo anagrafico da affiancare
alla condizione dei 35 anni di contribuzione. Essi concordarono, inoltre, un
progressivo innalzamento di tali requisiti che raggiungerà il suo
completamento nel 2008. A partire da quell’anno i lavoratori avranno così la
possibilità di andare in pensione con 57 anni di età e 35 anni di
contribuzione oppure con 40 anni di contribuzione indipendentemente
dall’età anagrafica. L’8 maggio 1995 si concluse così la trattativa fra
governo e sindacati con la firma di un protocollo comprendente i punti
precedentemente concordati e successivamente approvato dal Parlamento
senza particolari modifiche.
26 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
3.4. La riforma del governo Prodi
Il governo Prodi realizzò una riforma pensionistica che ricalcava in
sostanza le linee tracciate dalla riforma Dini. Il processo decisionale di
questa nuova riforma avvenne nel corso dell’ultimo quadrimestre del 1997 e
fu caratterizzato da un nuovo negoziato fra governo e sindacati. Le ipotesi
sulle quali venne avviato il confronto riguardarono: un’accelerazione del
processo di omogeneizzazione delle regole d’accesso alla pensione per
dipendenti pubblici e privati; un accorciamento del periodo di transizione,
previsto dalla riforma Dini per l’abolizione delle pensioni di anzianità; un
allineamento dei cosiddetti “fondi speciali”, a beneficio di particolari
categorie professionali, a quelli degli altri lavoratori ed un aumento
dell’aliquota contributiva a carico di commercianti ed artigiani per attenuare
le disparità fra lavoratori dipendenti ed autonomi.
Tuttavia, prima ancora che sindacati e governo entrassero nel merito
della discussione, Rifondazione comunista pose come condizione
all’appoggio alla maggioranza di governo e per il proseguimento del
programma di riforma previdenziale l’esclusione di ogni tipo intervento
restrittivo nei confronti dei requisiti previsti per “operai” e “categorie
equivalenti” per godere della pensioni di anzianità. Una volta stabilito
questo vincolo e scongiurata la crisi di governo, il confronto fra esecutivo e
sindacati proseguì senza intoppi sino alla firma di un protocollo di intesa
avvenuta l’1 novembre 1997. Il protocollo prevedeva: 1) un blocco dei
pensionamenti di anzianità di sei mesi; 2) l’abolizione definitiva delle
“pensioni-baby”, obbligando i dipendenti pubblici a seguire a partire dall’1
gennaio 1998, le stesse regole previste per i dipendenti del settore privato; 3)
un’accelerazione del periodo di transizione previsto dalla riforma Dini per
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 27
l’abolizione delle pensioni di anzianità, attraverso un inasprimento dei
vincoli anagrafici da combinare agli anni di contribuzione maturati; 4) un
taglio sulla contingenza delle rendite pensionistiche corrispondenti ad un
ammontare pari a cinque volte quello delle pensioni minime; 5)
l’allineamento dei “fondi speciali” a beneficio di particolari categorie
professionali (dipendenti della Banca di Italia, magistrati, docenti
universitari, ecc.) a quelli degli altri lavoratori. Con l’aggiunta di un
provvedimento riguardante l’aumento dei contributi dei lavoratori autonomi,
tale protocollo di intesa fu approvato dal Parlamento nel quadro dell’iter
legislativo della Legge finanziaria per il 1998.
28 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
4. L’eredità dei modelli di policy-making
Come si può constatare da questa rapida descrizione, gli esiti dei
processi decisionali dei tentativi di riordino del sistema pensionistico
francese ed italiano sono stati alquanto dissimili. In Francia è stata realizzata
soltanto la riforma avanzata dal governo Balladur mentre sono falliti i
tentativi portati avanti dai governi Rocard, Bérégovoy e Juppé. Per contro in
Italia soltanto il governo Berlusconi ha fallito laddove sono invece riusciti i
governi Amato, Dini e Prodi. Quali fattori stanno dunque alla base della
diversità di questi esiti? Perché nei due paesi alcuni progetti di riforma sono
andati a buon fine mentre altri si sono risolti in un nulla di fatto?
Per rispondere a tali interrogativi è necessario, come abbiamo
anticipato nel primo paragrafo, fare innanzitutto riferimento alle modalità di
interazione fra governo ed interessi organizzati. Ponendo a confronto i
tentativi di riforma in esame, emerge chiaramente che il modello di policy-
making messo in pratica dai vari governi ha avuto un peso notevole sugli
esiti dei diversi processi decisionali. Mentre in Italia l’adozione di pratiche
concertative si è dimostrata una condizione necessaria per poter realizzare
interventi restrittivi, in Francia i governi hanno dovuto fare a meno di questa
soluzione ed agire in modo unilaterale. Ciò trova conferma nel fatto che, se
le riforme Amato, Dini e Prodi sono state realizzate attraverso la
concertazione fra governo e sindacati, in Francia l’unico tentativo di riforma
andato a buon fine, ovvero quello portato avanti dal governo Balladur, è
stato realizzato procedendo in modo unilaterale e senza preoccuparsi di
ottenere il consenso delle parti sociali.
Il riferimento al modello di policy-making adottato non consente
tuttavia di offrire una spiegazione esaustiva circa i possibili esiti dei processi
decisionali messi a confronto. In Italia, infatti, il fallimento della politica
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 29
pensionistica del governo Berlusconi non è da ricondurre semplicemente al
mancato tentativo di concordare con le organizzazioni sindacali la riforma
pensionistica, ma, come ha sottolineato Pitruzello (1997), anche al fatto che
l’esecutivo non fosse sostenuto in Parlamento da una maggioranza compatta.
Come si è cercato di evidenziare nel precedente paragrafo, la Lega nord ha
ostacolato il progetto di riforma del governo per gran parte del suo percorso
legislativo provocando perfino la caduta dell’esecutivo. Parallelamente, per
quanto concerne il caso francese, non si può sostenere che un’azione
unilaterale da parte del governo costituisca una condizione sufficiente per
realizzare una riforma pensionistica. L’esecutivo guidato da Juppé, infatti,
pur avendo escluso, come il governo Balladur, le parti sociali dal processo
decisionale è stato costretto a ritirare il proprio progetto di riforma a causa
delle massicce mobilitazioni di piazza.
Fatte queste precisazioni, possiamo sostenere che, sebbene la
concertazione, per quanto concerne il caso italiano, e l’azione unilaterale del
governo, per quanto riguarda il caso francese, possano costituire una
condizione necessaria per la realizzazione di politiche pensionistiche
restrittive, fare riferimento ad esse non è sufficiente per spiegare il
fallimento di alcune di tali politiche.
Resta comunque da stabilire perché in Francia la concertazione non ha
consentito di produrre politiche restrittive mentre lo ha consentito un’azione
unilaterale del governo e per quali ragioni in Italia si è venuta a creare una
situazione opposta. Per affrontare tale questione è necessario fare
riferimento ai vincoli che i policy-makers dei due paesi hanno ereditato dal
passato in materia di modelli di policy-making, ovvero alla struttura di
rappresentanza consolidatasi nei due paesi e alle strategie che i rispettivi
movimenti sindacali hanno maturato nel corso dei precedenti decenni.
30 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
Per quanto riguarda il caso francese, possiamo osservare che il modello
di policy-making che si è andato via via affermando nel corso della Quinta
repubblica si è avvicinato al “governo per decreto” (Salvati 1982), in quanto
l’esecutivo tendeva a condurre il processo decisionale agendo in modo
unilaterale senza cercare di coinvolgere i maggiori interessi organizzati.
Come ha osservato Wilson (1987), il governo ha concepito per molto tempo
la promulgazione delle politiche pubbliche, in generale, e delle politiche
sociali, in particolare, come una sua prerogativa esclusiva da espletare in
“privato” e da annunciare in pubblico soltanto quando questa fosse già stata
effettuata. Inoltre, gli interessi organizzati francesi sono da sempre troppo
deboli, troppo numerosi e troppo poco coesi per inserirsi in modo stabile nei
processi decisionali. Ogni tentativo fatto in passato per promuovere la
concertazione fra governo e sindacati si è sistematicamente risolto nello
stallo decisionale. I tavoli di confronto istituiti nel corso della seconda metà
degli anni ’80 per la riorganizzazione dello stato sociale non sono andati al
di là della mera elaborazione di progetti di riforma (Freeman 1990), come
avvenne nel caso dei governi Rocard e Bérégovoy.
Viceversa, sebbene nel corso del primo quarto di secolo successivo alla
seconda guerra mondiale anche l’Italia abbia presentato una struttura di
rappresentanza fortemente frammentata e nel corso dei successivi decenni il
suo modello neo-corporativo abbia più volte evidenziato segnali di forte
instabilità, il metodo della concertazione ha dimostrato comunque di poter
garantire il successo di processi decisionali di importanti politiche
economiche e sociali. Con gli accordi bi- e tri-partiti, effettuati fra la fine
degli ’60 e la prima metà degli anni ’80, le principali organizzazioni
sindacali hanno dimostrato di essere interlocutori da non trascurare per poter
intervenire sulle principali variabili macroeconomiche (Regini 1991).
Occorre, poi, sottolineare che la più importante riforma del sistema
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 31
previdenziale, realizzata in Italia prima della fase degli interventi restrittivi
(nel 1969), è stata prodotta in accordo con i sindacati (Regini e Regonini
1981). Infine, in conseguenza degli sconvolgimenti del sistema partitico
italiano avvenuti all’inizio degli anni ’90, le organizzazioni sindacali hanno
guadagnato ampi spazi per inserirsi nei processi di formazione delle
politiche pubbliche (Ferrera e Gualmini 1999).
Ma come si può spiegare questa diversità di percorso fra il modello di
policy-making francese e quello italiano? Per quali ragioni, malgrado
entrambi i paesi siano stati accomunati in passato da una struttura di
rappresentanza fortemente frammentata, i sindacati italiani si sono
progressivamente inseriti nel processo decisionale, mentre i sindacati
francesi, pur essendovi stati coinvolti in qualche occasione, non ne hanno
garantito mai il successo? Una risposta a tali interrogativi è rinvenibile nella
differente strategia maturata dai due movimenti sindacali nel corso del
secondo dopoguerra. Come hanno osservato Lange, Ross e Vannicelli,
sebbene nei primi venticinque anni successivi alla seconda guerra mondiale i
movimenti sindacali dei due paesi abbiano conservato caratteristiche
sorprendentemente simili quanto a composizione, posizione nel mercato del
lavoro e strutture organizzative, le loro risposte alla crisi degli anni ’70 sono
state radicalmente diverse. La risposta del movimento sindacale francese si
può definire “massimalista”, in quanto le principali confederazioni, se pur
denotando importanti differenze, sostenevano che la sola risposta praticabile
alla crisi fosse la rottura con il capitalismo ed il superamento dell’assetto
sociale ed economico esistente. I sindacati francesi avevano ben poche idee
che dessero al modello di regolazione francese maggiori probabilità di
successo di fronte alle trasformazioni economiche in atto. I sindacati italiani
invece propendevano per una risposta “interventista”. Essi non muovevano
critiche astratte al capitalismo, ma criticavano specifiche scelte politiche
32 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
compiute dallo stato e dal capitale. Le confederazioni italiane si fecero
quindi promotrici di specifici interventi per far uscire il paese dalla crisi.
Scelsero infine di disporre delle proprie risorse di potere per pesare sul
processo decisionale (Lange, Ross e Vannicelli 1988, 47-8). Questa diversa
evoluzione delle strategie sindacali appare quindi utile per comprendere la
persistente reticenza delle confederazioni sindacali francesi a partecipare
alla formazione di puntuali proposte di riforma e, d’altra parte,
l’accettazione del metodo della concertazione, come mezzo per affrontare le
problematiche economiche e sociali, da parte delle organizzazioni sindacali
italiane.
Il riferimento al passato ed in particolare ai modelli di policy-making
sviluppatisi nei decenni precedenti l’attuale fase di riforma dei sistemi
pensionistici, consente di offrire una prima spiegazione dei diversi esiti dei
processi decisionali avviati dai governi francesi ed italiani. In altri termini,
le differenze che Francia ed Italia hanno manifestato nel corso del secondo
dopoguerra in materia di rappresentanza sindacale e di interazione fra
governo ed interessi organizzati ci consente di spiegare, da un lato, perché il
governo Balladur è riuscito a realizzare una riforma pensionistica agendo in
modo unilaterale, mentre sono falliti i tentativi dei governi Rocard e
Bérégovoy di concordare con le parti sociali un riordino del sistema
pensionistico e, dall’altro, perché in Italia si sono potute realizzare tre
riforme pensionistiche attraverso la concertazione fra governo e sindacati.
Una tale prospettiva non consente tuttavia di spiegare perché il governo
Berlusconi, in Italia, e i governi Rocard e Bérégovoy, in Francia, hanno
cercato di realizzare un intervento restrittivo adottando un modello
decisionale che si scontrava con i vincoli ereditati dai preesistenti modelli di
policy-making. Per quanto concerne il caso italiano, è evidente che l’azione
unilaterale del governo Berlusconi è da ricondurre, in parte, alla sua
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 33
vocazione liberista ed, in parte, al fatto di essere sostenuto da forze politiche
che non potevano aver assimilato i vincoli derivanti dal passato. Il governo
Berlusconi, infatti, aveva la peculiarità di essere espressamente contrario
all’intervento pubblico ed alla gestione concertata dell’economia e di essere
composto da forze politiche con una scarsissima esperienza governativa (An
e Lega nord) e parlamentare (Forza Italia). Non è quindi un caso che tali
forze, tornate al governo nel 2001 dopo l’esperienza governativa del 1994 e
quella maturata all’opposizione, abbiano adottare un atteggiamento più
“cauto” nei confronti della riforma pensionistica e delle confederazioni
sindacali.5 Per quanto concerne, invece, le scelte dei governi Rocard e
Bérégovoy, c'è da aspettarsi che abbiano optato per una soluzione
concertativa, in continuità con l’esperienza dei governi della seconda metà
degli anni ’80, poiché prima di allora non si era mai tentato di intervenire in
senso restrittivo nei confronti del sistema previdenziale. Detto in altri
termini, sebbene i policy-makers francesi fossero abituati a confrontarsi con
le manifestazioni di piazza, a cui fanno in genere ricorso i vari gruppi di
pressione per difendere i loro interessi (Godt 1987; cfr. anche oltre), c’è da
aspettarsi che di fronte alla prospettiva di dover realizzare interventi così
impopolari, essi abbiano preferito optare per una soluzione che si scontrasse
con la prassi consolidatasi in passato, ma che potesse garantire maggiore
consenso.
5 Sebbene il secondo governo Berlusconi abbia subito una nuova e massiccia protesta
sindacale in conseguenza delle proprie intenzioni di riforma del mercato del lavoro, vasottolineato che ha firmato con Cisl e Uil il cosiddetto “patto per l’Italia” determinandola riapertura di una frattura sindacale (con Cisl e Uil, da una parte, e Cgil, dall’altra)che non si manifestava dalla metà degli anni ’80.
34 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
5. Il ruolo delle categorie occupazionali
Stabilito che un’azione unilaterale da parte del governo e la
concertazione fra governo e sindacati costituiscono una condizione
necessaria per la realizzazione di interventi restrittivi nei confronti del
sistema pensionistico francese ed italiano, è necessario a questo punto
individuare le ragioni che determinano gli esiti di quei processi decisionali
condotti attraverso la messa in pratica di questi modelli di policy-making.
Infatti, il fatto che la concertazione, in Italia, e un’azione unilaterale da parte
del governo, in Francia, abbiano costituito una condizione necessaria per
effettuare una riforma del sistema pensionistico non può garantire di per sé
un esito positivo dei processi decisionali degli interventi restrittivi. In altri
termini, quali fattori hanno garantito il successo delle pratiche concertative
avviate dai governi Amato, Dini e Prodi? E per quali ragioni, sebbene sia il
governo Balladur che quello Juppé abbiano portato avanti i loro progetti di
riforma agendo in modo unilaterale, soltanto il primo è riuscito a realizzare
un riordino del sistema previdenziale?
Come abbiamo ipotizzato nel primo paragrafo, per rispondere a tali
interrogativi occorre fare riferimento al ruolo svolto dalle categorie
occupazionali verso le quali sono stati previste di volta in volta le misure
restrittive. Una tale prospettiva dovrebbe peraltro consentire di capire perché
il sistema pensionistico francese e quello italiano hanno intrapreso differenti
percorsi in termini di trattamento proprio delle categorie occupazionali dopo
le politiche di riforma degli anni ‘90. Ma procediamo con ordine.
Per quanto riguarda le pratiche concertative promosse dai governi
italiani, il riferimento alle categorie occupazionali si dimostra utile per
identificare i “termini dello scambio politico” fra governo e sindacati. Come
abbiamo sottolineato in precedenza, quando vengono concertate politiche
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 35
restrittive, al fine di risolvere squilibri finanziari di istituzioni pubbliche
come i sistemi previdenziali, lo “scambio politico” avrà probabilmente
successo se i sacrifici richiesti a tale scopo non ricadranno unicamente sulle
categorie rappresentate dalle organizzazioni sindacali, ma si estenderanno
anche ad altre categorie occupazionali. Detto in altri termini, le
organizzazioni sindacali accetteranno di dare il loro consenso soltanto a
quegli interventi che prevedono misure restrittive anche a carico di categorie
occupazionali da esse non rappresentate, quali i lavoratori autonomi. Non è
quindi un caso che Cgil, Cisl e Uil abbiano posto fine alla fase di
mobilitazione contro la manovra finanziaria del governo Amato dopo che
quest’ultimo decise di introdurre la minimun tax a carico dei lavoratori
autonomi. Analogamente, nelle fasi di trattativa per la riforma del sistema
pensionistico con i governi Dini e Prodi, le tre confederazioni sindacali
condizionarono il loro consenso all’introduzione di misure che riducessero
le disparità fra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti. In particolare i
sindacati italiani richiesero, e ottennero, da questi governi un incremento
delle aliquote contributive a carico di artigiani e commercianti, in modo da
eliminare il privilegio goduto da queste categorie in termini di contributi
versati e prestazioni godute.6 Per quanto riguarda infine il conflitto fra il
governo Berlusconi e i sindacati, possiamo osservare che questi ultimi si
opposero alla manovra finanziaria del governo sino a quando da essa non
furono scorporate le restrizioni pensionistiche che dovevano da sole farsi
carico del risanamento del deficit pubblico senza peraltro intaccare i 6 Questo tipo di proposta in realtà era già stata avanzata dai sindacati italiani nel 1978
quando fu tentato di sviluppare (senza peraltro ottenere rilevanti risultati) un assetto diconcertazione stabile. Come ha osservato Regini (1991), con questo tipo di proposta leconfederazioni italiane dimostrarono di essere passate da una strategia dei “beneficidiretti” ad una strategia volta a “razionalizzare il sistema”. Ciò fornisce una confermaal fatto che, diversi anni prima della più recente fase di riorganizzazione del welfarestate, le organizzazioni sindacali italiane avevano maturato una strategia favorevole per
36 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
privilegi dei lavoratori autonomi. Cgil, Cisl e Uil si opposero alla Legge
finanziaria avanzata dal governo Berlusconi poiché ritenevano che essa
mirava al risanamento del bilancio statale nel suo complesso (e non del solo
sistema previdenziale) mediante una riforma pensionistica che avrebbe
lasciato inalterate le disparità di trattamento fra lavoratori autonomi e
lavoratori dipendenti.
Combinando questo discorso sui “termini dello scambio politico” con
quanto detto in precedenza sulla strategia maturata dalle organizzazioni
italiane, possiamo sostenere che, da quanto è emerso dall’esame dei processi
decisionali entro cui si sono andati ad inserire i progetti di riforma
pensionistica, avanzati dai governi italiani nel corso degli anni ’90, sebbene
le confederazioni italiane si siano dimostrate in generale disponibili a
partecipare alla definizione di questo tipo di interventi, hanno condizionato
il loro consenso all’introduzione di misure a svantaggio dei lavoratori
autonomi per redistribuire i carichi del risanamento del sistema
pensionistico e, più in generale, del bilancio statale. In altri termini, se si
associano le considerazioni fatte nel paragrafo precedente con quanto
appena affermato, si può concludere che in Italia la realizzazione di
interventi restrittivi nei confronti del sistema pensionistico è stata
condizionata all’attivazione di pratiche concertative il cui esito è dipeso
dalla misura in cui le stesse restrizioni non sono ricadute esclusivamente su
quelle categorie rappresentate dalle organizzazioni che sono risultate
maggiormente in grado di offrire o ritirare il consenso sociale.
Venendo al caso francese, possiamo osservare che, per comprendere i
motivi del successo del governo Balladur e del fallimento del governo
Juppé, occorre tenere conto che, mentre la riforma realizzata dal primo è
stata destinata al Régime générale, e quindi ai lavoratori del settore privato
partecipare alla formazione di politiche di riforma non necessariamente espansive.
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 37
(lavoratori dipendenti e automi), il progetto avanzato dal secondo prevedeva
un intervento restrittivo nei confronti dei Régimes spéciaux dei dipendenti
pubblici. Di conseguenza, il governo Balladur ha dovuto confrontarsi con
una debolissima protesta dei lavoratori del settore privato, mentre il governo
Juppé ha dovuto subire imponenti e prolungate manifestazioni che hanno
avuto come protagonisti i dipendenti pubblici. Questa differente propensione
alla mobilitazione è riconducibile, con buona probabilità, al diverso tasso di
sindacalizzazione che fanno registrare le due categorie occupazionali. Come
si vede dalla tab. 1, le percentuali relative ai lavoratori del settore pubblico
(ottenuti sommando i funzionari pubblici con i lavoratori a statuto legale)
iscritti alle tre principali confederazione sindacali sono nettamente superiori
a quelle relative ai lavoratori del settore privato. Inoltre, come ha
sottolineato Labbè (1995), la Cgt (ovvero la confederazione promotrice delle
manifestazioni sia contro il governo Balladur sia contro il governo Juppé)
raccoglie le maggiori adesioni fra i ferrovieri della Sncf e fra i lavoratori del
settore elettrico, vale a dire fra quelle categorie che hanno determinato il
fallimento del progetto di riforma avanzato dal governo Juppé.
Tab. 1: Iscritti a Cgt, Fo e Cfdt per settori occupazionali relativi al 1993
Fo Cgt Cfdt
Settore privato 33 34 42
Lavoratori a statuto legale* 24 35 23
Funzionari pubblici 43 31 35
Totale 100 100 100
Fonte: Labbé (1995).
* I lavoratori a statuto legale corrispondono a quelli delle grandi industrie
statali: ferrovie, elettricità ecc.
38 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
Tab. 2: Lavoratori attivi iscritti a Cgil, Cisl e Uil per settore produttivo,
1994
Cgil Cisl Uil
Agricoltura 12,4 12,5 12,4
Industria 48,0 34,2 34,1
Servizi destinati alla vendita 20,4 22,9 23,9
Servizi non destinati alla vendita** 19,2 30,4 29,6
Totale 100,0 100,0 100,0
Fonte: Codara (1994-95).
** I servizi non destinati alla vendita corrispondono sostanzialmente al
settore pubblico.
Ciò significa che, sebbene un’azione unilaterale da parte del governo
possa costituire una condizione necessaria per realizzare in Francia politiche
restrittive, il successo di queste pratiche decisionali è condizionato dal
“grado di organizzazione” e, quindi, dalla capacità di mobilitazione delle
categorie occupazionali nei confronti delle quali si prevede di intervenire.
Questo tipo di ragionamento si concilia, peraltro, con la tesi di coloro
che sostengono che il modello di policy-making francese sia in realtà un
ibrido fra il “governo per decreto” e la “prassi pluralista”. In molti casi,
infatti, sebbene il governo elabori le proprie decisioni senza interpellare le
organizzazioni di interesse, una volta rese pubbliche, i vari gruppi di
interesse si mobilitano affinché le scelte governative vengano modificate in
favore dei propri interessi (Wilson 1987). A ciò va aggiunto il fatto che la
protesta di piazza costituisce una caratteristica tipica del modello di policy-
making francese: alle mobilitazioni di piazza ricorrono normalmente tutte le
organizzazioni di interesse, anche quelle maggiormente legate alle coalizioni
di governo e, attraverso questo strumento i diversi gruppi cercano di
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 39
conservare i propri privilegi ed ottenere maggiori benefici (Godt 1987; Hall
1990). Non c’è quindi da stupirsi se le organizzazioni sindacali hanno fatto
ricorso alla protesta di piazza per bloccare i progetti di riforma
previdenziale. Non avendo sviluppato una strategia analoga a quella delle
confederazioni italiane ed essendo ben inserite in questo modello di policy-
making, le confederazioni francesi hanno adottato tali comportamenti per
cercare di difendere gli interessi delle categorie da esse rappresentate. Va,
tuttavia, sottolineato che il successo della loro azione è dipeso, come hanno
dimostrato i due processi decisionali presi in esame, dalla misura in cui le
categorie chiamate alla protesta erano legate alle organizzazioni sindacali.
Seguendo questo tipo di ragionamento possiamo inoltre comprendere
perché, mentre in Italia le riforme Amato, Dini e Prodi hanno prodotto una
omogeneizzazione delle regole pensionistiche dei lavoratori pubblici e
privati, in Francia l’analogo tentativo portato avanti dal governo Juppé è
invece fallito. Ponendo a confronto i tassi di sindacalizzazione dei lavoratori
in attività, emerge che, se in Francia la categoria più “privilegiata” sul piano
dei diritti pensionistici, ovvero quella dei dipendenti pubblici, è quella che
ha fatto registrare le più alte percentuali di iscrizione al sindacato e che ha
potuto quindi contare su un maggiore potere negoziale, in Italia è avvenuto
esattamente il contrario. Nel nostro paese, infatti, il maggiore dissenso è
stato manifestato dalla categoria meno “privilegiata“ dal punto di vista
previdenziale, ma più sindacalizzata, ovvero dai lavoratori dell’industria
privata (vedi tab. 1 e 2 ).7 A ciò dobbiamo aggiungere che, mentre in Italia i
lavoratori pubblici e privati sono stati colpiti dalle stesse politiche restrittive
7 Sebbene le disomogeneità delle classificazioni delle categorie occupazionali, riportate
nelle due tabelle, non consenta un confronto sistematico fra i due paesi, è comunquepossibile rilevare la coincidenza, in entrambi, fra le categorie con i più alti tassi disindacalizzazione e le categorie che si sono maggiormente distinte sul piano dellaprotesta.
40 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
(riforma Amato, Dini e Prodi), in Francia le due categorie occupazionali
sono state separate da due distinti progetti di riforma (quello del governo
Balladur e quello del governo Juppé). Ciò può aver contribuito al fatto che
in Italia i sindacati non si sono sentiti legittimati a difendere i privilegi dei
dipendenti pubblici, in quanto anche i dipendenti del settore privato erano
chiamati dalle stesse riforme pensionistiche a sopportare i carichi del
risanamento, mentre in Francia, le organizzazioni sindacali non si sono
trovate in difficoltà a mobilitarsi contro il progetto Juppé di
omogeneizzazione delle regole. Questo perché le restrizioni destinate ai
dipendenti pubblici erano completamente scollegate da quelle tivolte ai
lavoratori del settore privato, previste dalla riforma Balladur.
Se si combina questo ragionamento su dipendenti pubblici e privati,
con quanto già detto sulle misure a svantaggio dei lavoratori autonomi, non
risulta difficile comprendere perché il sistema pensionistico italiano è andato
verso una maggiore uniformità di trattamento. Analogamente, dopo aver
spiegato perché la riforma Balladur ha avuto un esito positivo, a svantaggio
delle categorie (già all’epoca) meno privilegiate, e perché è fallito il progetto
di riforma avanzato da Juppé a svantaggio delle categorie più privilegiate, è
possibile comprendere perché il sistema pensionistico francese è andato
verso una maggiore disparità di trattamento.
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 41
6. Conclusione
In questo articolo abbiamo cercato di comprendere perché i tentativi di
intervenire in senso restrittivo su sistemi pensionistici maturi, come quello
francese ed italiano, si siano risolti in alcuni casi in una loro riforma ed in
altri in un nulla di fatto.
Dal nostro esame comparativo è risultato che l’esito di questi processi
decisionali dipende anzitutto dal modello di policy-making adottato. Mentre
in Francia è stato necessario che i governo agissero in modo unilaterale, in
Italia è stato indispensabile che questi cercassero il consenso dei sindacati
coinvolgendoli nel processo di definizione delle riforme pensionistiche.
Questa differenza deriva, sostanzialmente, dal fatto che nei due paesi si sono
consolidati nel corso del secondo dopoguerra due differenti modalità di
interazione fra sedi decisionali ed interessi organizzati. I diversi modelli di
rappresentanza che si sono andati a strutturare all’interno dei due paesi e la
diversa strategia maturata dai due movimenti sindacali a partire dagli anni
’70 hanno fatto sì che in Francia non sia stato possibile realizzare alcuna
riforma mediante il metodo della concertazione, al contratio di quanto è,
invece accaduto in Italia.
Da ciò ne deriva che, per realizzare interventi restrittivi su sistemi
pensionistici maturi, invece di cercare a tutti i costi il consenso sindacale,
come sostengono Myles e Pierson (2001), i governi devono agire in
conformità con i vincoli che vengono loro consegnati dai modelli di policy-
making consolidatisi in passato. Pertanto, malgrado negli ultimi anni in
molti paesi europei le riforme dei sistemi pensionistici siano state
effettivamente prodotte attraverso pratiche concertative, non possiamo
considerare ciò come il risultato della mera esigenza di “governare”
l’impopolarità delle politiche restrittive. L’analisi comparativa, presentata in
42 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
queste pagine, ha posto in evidenza che, per realizzare questo tipo di
interventi attraverso pratiche concertative, non è sufficiente che i governi
cerchino di coinvolgere le organizzazioni sindacali nei processi decisionali,
ma è altresì necessario che il modello di policy-making nazionale giunga alla
“nuova politica del welfare state” avendo maturato le condizioni per poter
dar vita a tali pratiche.
Ciò significa inoltre che, sebbene vi sia stata una certa relazione fra lo
sviluppo dei sistemi pensionistici e il potere delle organizzazioni sindacali
(Myles 1989), non è detto che laddove vi sia un sistema pensionistico
maturo vi sia necessariamente un movimento sindacale disposto ad offrire il
proprio consenso ad interventi restrittivi. Infatti, malgrado sia la Francia che
l’Italia siano giunte agli anni ’90 con sistemi pensionistici a ripartizione
maturi, la differente evoluzione dei loro modelli di rappresentanza sindacale
ha fatto sì che solo in Italia si sia potuto procedere attraverso il metodo della
concertazione. In Francia, per contro, il tentativo di coinvolgere i sindacati
nella formazione delle riforme pensionistiche si è dimostrato soltanto una
forzatura nei confronti dei vincoli derivanti dal passato.
La produzione di interventi restrittivi attraverso modalità di interazione
fra governo ed interessi organizzati che non contrastino con quanto ereditato
dal passato non può, tuttavia, essere sufficiente per realizzare un riordino di
sistemi pensionistici maturi. Attraverso la nostra analisi comparativa
abbiamo potuto corroborare anche l’ipotesi che, per garantire il buon esito di
tali processi decisionali, i policy-makers nazionali devono destinare le
misure restrittive a categorie occupazionali la cui struttura organizzativa si
combina favorevolmente con il modello di policy-making che risulta
necessario adottare. Se è indispensabile che i governi agiscano senza
coinvolgere le parti sociali, è più opportuno che intervengano nei confronti
di categorie che non sono sufficientemente forti da bloccare i loro progetti di
Modelli di policy-making e categorie occupazionali 43
riforma. Questo è quanto è emerso dal confronto dei processi decisionali
condotti dai governi Balladur e Juppé. Infatti, sebbene entrambi abbiano
agito unilateralmente, ovvero in compatibilità con il modello di policy-
making francese, soltanto il primo è riuscito a realizzare un riordino del
sistema previdenziale. Come abbiamo sottolineato, ciò è dipeso dal fatto
che, sebbene in Francia sia essenziale che i governi definiscano le politiche
pubbliche in modo unilaterale, queste ultime possono essere modificate o
addirittura ritirate in ragione delle capacità di mobilitazione delle categorie
occupazionali coinvolte. Se ci si trova invece in un paese dove è più
opportuno che i governi procedano attraverso pratiche concertative, è utile
che le misure restrittive vengano distribuite fra le categorie occupazionali in
modo da convincere le organizzazioni di interesse che partecipano al
processo decisionale a dare il proprio consenso al progetto di riforma. Come
abbiamo cercato di mettere in evidenza, il buon esito delle pratiche
concertative portate avanti dai governi Amato, Dini e Prodi è stato
condizionato dall’introduzione di misure che non andassero soltanto a
svantaggio delle categorie rappresentate dai sindacati, ma che pesassero
anche sui lavoratori autonomi.
In sintesi, possiamo concludere che, per spiegare gli esisti dei processi
decisionali relativi agli interventi restrittivi destinati ai sistemi pensionistici
maturi, è necessario fare riferimento al modello di policy-making adottato e
alle categorie occupazionali coinvolte e a come questi due fattori si vengono
di volta in volta a combinare. Attraverso questa prospettiva è stato inoltre
possibile fornire una spiegazione alla direzione intrapresa dagli stessi
sistemi pensionistici in termini di trattamento delle diverse categorie
occupazionali. Come è infatti risultato dalla nostra analisi compartiva,
mentre in Italia è stato avviato un processo di omogeneizzazione delle
regole previdenziali delle diverse categorie occupazionali, in Francia è
44 Modelli di policy-making e categorie occupazionali
aumentata la disparità di trattamento fra lavoratori del settore pubblico e
privato. Ciò ci ha portato a concludere che un’attenuazione di tali disparità
non costituisce di per sé una via per legittimare gli interventi restrittivi,
come sostenuto da Myles e Pierson (2001), ma piuttosto la conseguenza dei
comportamenti delle organizzazioni di interesse verso le quali sono destinate
le policies. Infatti, malgrado possa essere vero che in Italia l’attenuazione
della disparità del rapporto fra contributi versati e rendite percepite a favore
di lavoratori dipendenti e autonomi abbia contribuito a convincere i
sindacati ad accettare gli interventi restrittivi, in Francia il tentativo di
omogeneizzare le regole dei dipendenti pubblici e privati è stato bloccato dal
dissenso sindacale.
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