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CAROLINA DEROBERTIS

La ragazza dai capelli difiamma

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Garzanti

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Note di copertina

Buenos Aires, 2001. Perla Correa è

sempre riuscita a ingannare tutti quelliche la circondano. Ogni mattina sisveglia e lucida la sua superficie distudentessa modello, bella ragazzaradiosa, irreprensibile figlia di buonafamiglia. Sua madre è avvolta dibellezza e foulard importati e suo padreè un uomo forte e fiero nella suauniforme militare perfettamente stirata.Perla è sempre stata considerata moltofortunata ad averli come genitori.Eppure questa è solo una maschera che

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la ragazza indossa per nascondere ildubbio che le si agita dentro, e sul qualeinvano tenta di chiudere gli occhi. Undubbio che si nutre di mezze frasi dellecompagne di classe, sguardi impauritidei vicini, libri di storia suidesaparecidos che suo padre le hatassativamente proibito di leggere. Mauna notte, mentre è sola in casa, un uomoentra nel suo salotto. Sembra solo,disperato e affamato. È lì perraccontarle una storia. Una storia chenarra di due ragazzi giovani che siamavano, di pesanti stivali neri chesfondano la porta di casa, di un carceresenza scampo e di un ultimo volo sulRio de la Plata. E che incendia la vitaperfetta di Perla riducendola in fumo.

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Inizia così un viaggio che la costringe aconfrontarsi con la vera sé stessa e conla storia più dolorosa del suo paese.Dove solo il fuoco del coraggio che hasempre nascosto sotto una falsatranquillità l'aiuterà a nascere unaseconda volta dalle sue ceneri.

Dopo il grandissimo successo dellaBambina nata due volte, Carolina DeRobertis si riconferma una voce unicanel panorama letterario mondiale.Appena uscito, La ragazza dai capelli difiamma è stato recensito con entusiasmodalle più importanti testate americane eha conquistato il cuore dei lettori. Laprosa luminosa di Carolina De Robertisci regala un gioiello pieno di dolore emagia, il ritratto indimenticabile di una

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donna che si ribella al silenzio dellaStoria.

Carolina de Robertis è cresciuta in

una famiglia uruguaiana che èemigrata prima in Inghilterra, poi inSvizzera e in California, dove leituttora vive. Con Garzanti hapubblicato anche La bambina nata duevolte, il suo primo romanzo uscito conenorme successo in tutto il mondo.

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Titolo originale PerlaTraduzione di Stefania Cherchi© 2012 by Carolina De Robertis

© 2012, Garzanti Libri s.p.a., Milano

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ISBN 978-88-11-13686-6Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale 2012In copertina: © Dmitry Ageev. Art

Direction: ushadesign

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Per te, Rafael

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Scopo del Proceso è la profondatrasformazione delle coscienze.

Generale Jorge Rafael Videla,

comandante dell'esercito argentinodal 1976 al 1981

Non interamente annegato,comunque. Piuttosto, trascinato vivo a

profondità prodigiose, dove straneombre dell'incorrotto mondo

primordiale andavano e venivano,sgusciando davanti ai suoi occhi

passivi, e l'avaro tritone, la Saggezza,rivelava i mucchi dei suoi tesori [...]

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Aveva veduto il piede di Dio sullacalcola del telaio, e ne parlava, e

perciò i suoi compagni loconsideravano pazzo.

Herman Melville, Moby Dick

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Prima parte

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1 - L'ARRIVO

Ci sono cose che la mente da sola

non può afferrare. Perciò ascoltami, sepuoi, con tutta te stessa. La storia premeper essere raccontata, qui, adesso, con tecosì vicina e il passato ancor più vicino,che ci alita sulla nuca.

Arrivò il 2 marzo del 2001, pochiminuti dopo la mezzanotte. Ero sola incasa. Sentii un rumorino provenire dalsalotto, un leggero grattare, come diunghie su un pavimento rigido... poi,silenzio. Restai immobile; mi chiesi seper caso non avessi lasciato una finestra

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aperta, ma no, ero sicura di no. Afferraiil coltello che stava sul bancone dellacucina, ancora striato dai filamenti dellezucchine che avevo tagliato, e percorsilentamente il corridoio verso il salotto,con il coltello ad aprirmi la via,pensando che nel caso di uno scontrofisico ero pronta, l'avrei conficcato finoall'impugnatura. Svoltai l'angolo e luiera là, raggomitolato sul fianco, cheinzuppava il tappeto.

Era nudo. C'erano delle algheappiccicate alla sua pelle bagnata, di uncolore cinerino. Puzzava di pesce, dirame e di mele marce. Ogni cosa eracome l'avevo lasciata: la portafinestrascorrevole che dava sul patio era chiusa,intatta, le tende lisce e ordinate, nessuna

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scia bagnata sul pavimento a indicaredove avesse camminato o strisciato. Nonmi sentivo più le gambe né le braccia,ero tutta tensione e calore, mentre lastanza fremeva di pericoli.

«Vattene», dissi.Non si mosse.«Vattene, maledizione», ripetei un

po' più forte.Sollevò la testa, con uno sforzo

tremendo, e aprì gli occhi. Due occhienormi, che sembravano senza fondo. Mifissarono, quegli occhi di bambino,occhi di serpente boa. In quel momentodentro di me qualcosa si staccò, comeuna barca si strappa dagli ormeggi,senza più ancora, con il terrore di acque

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scure da tutte le parti, e scoprii che nonpotevo distogliere lo sguardo.

Alzai il coltello e glielo puntaicontro.

L'uomo rabbrividì e la sua testaricadde sul pavimento. D'istinto avreivoluto precipitarmi al suo fianco,aiutarlo a sollevarsi, offrirgli unabevanda calda o chiamare un'ambulanza.Che stesse fingendo, che aspettasse solodi avermi più vicina per sopraffarmi?Non farlo. Non avvicinarti. Arretrai diun passo e aspettai. L'uomo sembravaaver rinunciato a sollevare la testa e miguardava con la coda dell'occhio. Passòun minuto. Lui non sbatté le palpebre nédistolse lo sguardo.

Alla fine chiesi: «Cosa vuoi?».

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La sua mandibola cominciò amuoversi, lentamente, a fatica. La boccasi aprì e ne uscì un rivolo d'acqua, densae limacciosa come quella del fiume,subito assorbita dal tappeto. L'odoretorbido che già impregnava la stanzadivenne più forte. Indietreggiai ancora,schiacciandomi contro la parete. Lasentii fresca e dura e avrei voluto che misussurrasse: Shh, non preoccuparti, cisono ancora delle cose solide, ma erasolo una parete e non aveva niente dadire.

Le sue labbra si muovevano a faticaattorno all'aria vuota. Io aspettavo e loguardavo sforzarsi di formulare unaparola. Finalmente parlò, in modoincomprensibile e troppo forte, come un

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sordo che non avesse mai imparato ascolpire bene i suoni. «Coo-iii-aahh.»Scrollai la testa.

Lui ripeté quei suoni, più lentamente.«Coo. Iiiii. Aaaahh.» Cercai di metterliinsieme. «Coya?» chiesi pensando: “Chesia un nome? Un posto che non ho maisentito nominare?”.

«Coo. Miiiii. Aaah.» Annuii, conespressione assente.

«Coo. Miiiii. Dah.» Alla finecompresi. «Co-mi-da. Mangiare. Vuoimangiare?» Annuì. Gocce d'acqua glicadevano giù dalla faccia, troppocopiose per essere sudore; gli stillavanodai pori, una spugna umana appenaestratta dal fiume... anche se perfino lespugne smettono di sgocciolare, dopo un

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po', mentre l'umidità di quell'uomo nonsembrava diminuire. Senza distoglierelo sguardo da lui, mi premetti il coltellosul braccio per vedere se stavosognando. La lama tagliò la pelle eversò il sangue, e io provai dolore manon mi svegliai da quella realtà perrientrare in un'altra. Mio padre, se fossestato lì, sicuramente non avrebbe vistoquel macabro personaggio, oppurel'avrebbe subito accoltellato, senza unaparola, dopo di che si sarebbe versatoun bicchierino di scotch e sarebberimasto a guardare mentre mammapuliva il tappeto. Io invece incrociai losguardo dello sconosciuto e sentii ilcuore pulsarmi in petto come una sirena.“Dovrei aggredirlo”, pensai. “Buttarlo

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fuori di casa.” Ma non riuscii a farenessuna delle due cose. Più tardi avreiripensato a quel momento comeall'inizio della mia vera vita: il momentoin cui, senza un perché, con mio grandestupore e contro ogni logica, abbassail'arma e andai a cercargli qualcosa damangiare.

La cucina era esattamente come

l'avevo lasciata, solo l'acqua dellezucchine era tracimata e sibilavasaltellando sul fornello arroventato. Lestavo preparando per Lolo, la tartaruga,che se ne stava vicino al frigorifero conil collo fuori dal guscio, imperturbata.La sigaretta che avevo lasciato sulbancone aveva finito di bruciare. Ne fui

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scioccata, perché non sembrava più lastessa sera in cui, solo pochi minutiprima, ero stata lì a fumare e a tagliarele zucchine ripetendomi, come se laripetizione servisse a convincermi, èbello essere qui da sola, ho la casa tuttaper me, non è fantastico, posso fare tuttoquello che voglio, cenare con un toast,piroettare nuda per la cucina, se mi va,lasciare i piatti sporchi sul divano,sedermi a gambe divaricate, piangeresenza bisogno di dare spiegazioni.

Spensi il fuoco sotto le zucchine ecominciai a rovistare nel frigorifero.Mamma l'aveva lasciato ben rifornito.Sistemai su un vassoio un po' di quel chec'era – formaggio olandese, pane, delpollo arrosto con le patate avanzato

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dalla sera prima, vino bianco, unbicchiere d'acqua, dei dolcetti in unascatola dorata – e tornai in corridoio.Avevo ancora il coltello, nascosto fra ipiatti. Chissà dove, da un punto alle miespalle, i miei genitori protestarono, manon avrei saputo come giustificarmi.Sentivo su di me la pesante cappa dellaloro disapprovazione, lo sgomento cheprovavano vedendomi infrangere tutte leregole del buonsenso. Perla, ma cosastai facendo? immaginai di sentirligridare mentre percorrevo il corridoioper tornare in salotto.

Non aveva cambiato posizione egiaceva ripiegato su sé stesso come unfeto. Non sussultò. Il tappeto colorvinaccia era quasi nero da tanto era

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zuppo. Non si muoveva, tranne per unpiede nudo che tamburellavasilenziosamente contro il pavimento.Guardava fisso la parete, senza sbatteregli occhi. “Domani mattina mi sveglieròe sarà sparito, e il tappeto sarà asciutto,asciutto, perché niente di tutto ciò è maiaccaduto.” Posai il vassoio sulpavimento, accanto a lui. Lo fissò comese tutti quegli oggetti venissero da unregno stranissimo e sommerso. Nonaccennò a tirarsi su per mangiare, cosìpensai che probabilmente non ce lafaceva, visto che aveva avuto amalapena la forza di muovere le labbraper parlare. Era vulnerabile come unbambino intontito e forse aspettava chelo imboccassi, un pezzetto dopo l'altro.

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L'idea mi faceva ribrezzo – la mia manovicino alla sua bocca, la sua pellefradicia che sfiorava la mia –, quindiaspettai. Emise un suono, informe elamentoso, tutto vocali e desiderio.Passò un altro minuto.

Alla fine chiesi: «Ti va del pollo?».Scrollò la testa, in modo quasi

impercettibile.«Formaggio?» Scosse di nuovo la

testa.«Cioccolata?» Ancora.«Acqua?» Annuì, spalancando gli

occhi. Supplici.Non c'era modo di evitarlo. Da solo

non poteva farcela. Presi il bicchiere dalvassoio e glielo avvicinai alle labbra, elui sollevò di qualche centimetro la testa

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dal pavimento. Quando fui più vicina,vidi che le sue labbra avevano unasfumatura bluastra e che la faccia eralucida d'umidità. Inclinai il bicchiere,con cautela, e lui masticò l'acqua comese la stesse mangiando, quasi fossesolida come il pane. Feci moltaattenzione a non sfiorarlo con le dita, magià allora la repulsione lottava in mecon un pizzico di curiosità: come saràstata, al tatto, quella pelle?

Finì di mangiare, poi la sua testaricadde sul pavimento.

«Chi sei?» chiesi, ma lui avevachiuso gli occhi.

Non sapevo proprio cosa fare, cosìrestai seduta sul pavimento, vicino allosconosciuto. Pensai di spostarlo da

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qualche altra parte, nel patio o magari instrada, però sembrava troppo pesante, epoi cosa sarebbe successo se mentre lospostavo si fosse svegliato? E se miavessero visto i vicini? Era più facilenon fare assolutamente niente,andarmene a letto, e il mattino dopol'uomo non sarebbe più stato là, sparitoper la stessa via da cui era venuto. Unasoluzione non troppo razionale, ma chemi avrebbe permesso di passare lanottata.

Mi sentivo stanchissima. Eranopassati dieci giorni da quando avevolitigato con Gabriel, da quando l'avevolasciato su quella spiaggia uruguaianacon le mani vuote e gli occhi ancora piùvuoti, senza promettere che ci saremmo

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rivisti. Da allora, visioni insopportabilimi avevano impedito di dormire. Ma ilmattino dopo mi alzavo e lucidavo lamia superficie, una giovane donnaradiosa, sicura di sé, ottima studentessae brava figlia al quarto anno diuniversità, che si muoveva a suo agionel mondo, e anche se dentro di me ilcaos raspava e imprecava io loschiacciavo dentro i crepacci delgiorno, in modo che nessuno potessevederlo.

L'unica persona che aveva semprevisto attraverso tutte le mie maschereera Gabriel. Quando ci eravamoconosciuti, quattro anni prima, avevoattribuito la cosa al fatto che aveva setteanni più di me, e quindi doveva essere

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più maturo. D'altra parte, però,conoscevo dei venticinquenni che nonpotevano nemmeno dirsi uomini e nonavrebbero mai visto il buco nero che unadiciottenne tanto seria e controllatacelava dentro di sé. Ero sempre riuscitaa ingannare i professori, le amiche, imiei genitori e i loro amici: tutti tranneGabriel. Quando una volta gli avevodetto che non potevo uscire perchédovevo studiare per un esame dipsicologia, lui aveva commentato:«Tanto Freud, e ancora non riconosci ituoi stessi demoni». Poi mi avevabaciato, ridendo, e io mi ero arrabbiata.E il desiderio di rispondere al bacio miaveva fatto arrabbiare ancora di più.«Non parlarmi di demoni», gli avevo

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detto, «finché non avrai sconfitto i tuoi.»Lui mi aveva guardato come se avessiappena pronunciato un incantesimo diseduzione. Non avevo studiato, quellasera, per lo meno non Freud... solo lecurve del suo corpo, l'urgenza delle suemani, la sua bocca sulla mia pelle, il suosesso duro contro di me attraverso ijeans. Era stato il nostro primo annoinsieme, il meno complicato, quando ioero semplicemente Perla e non tutte lepersone a cui ero legata, prima che io elui parlassimo del suo lavoro e dellamia famiglia, e dell'esplosiva misceladelle due cose, prima che l'immagineche avevamo l'uno dell'altra siincrinasse e le linee di frattura siallungassero come in uno specchio

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colpito da un sassolino. Allora cibastava baciarci, ridere e parlare,fumare, bere e ondeggiare l'uno control'altra finché il calore generato dai nostricorpi non risvegliava il sole.

A questo pensavo mentre lasciavo losconosciuto sul pavimento del soggiornoe tornavo in cucina per mettere lezucchine bollite in una ciotola e posarlea terra per Lolo, che in quel momento siera nascosto chissà dove ma chesicuramente sarebbe tornato, di notte,mentre tutti dormivano. Salii le scaleverso il mio letto, sentendomi al tempostesso sfinita e visceralmentesveglissima. Avrei voluto riavvolgere iltempo e tornare a quelle prime notti conGabriel, tornare dentro Gabriel, il suo

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odore, la sua voce piena di energia,quello sguardo che mi faceva sentiretrasparente. Avvolta dalla sua presenza,avrei potuto cercare la donna che erostata insieme a lui, o che avevo credutodi poter essere. Ma chi sarebbe quelladonna, Perla? Una donna più coraggiosa,uscita dal sottosuolo, con le mani pienedi segreti come serpenti domati. Indizidi quella donna mi erano balenatidurante le notti con Gabriel:immaginavo di scavare un bucoattraverso la mia realtà con il calorearroventato che avevo dentro perdiventare la donna-serpente, con capellidi fiamma, pronta a levarsi. Ma eranosolo fantasie assurde e in ogni casodieci giorni prima le avevo chiuse fuori

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dalla porta, insieme a Gabriel. Ormai loavevo perduto, ed ero stata proprio io avolerlo. Ero stata costretta, non avevoalternative, questo avevo pensato, nottedopo notte, riascoltando quelle parolenella mente, nessuna alternativa, nessunaalternativa, come rappresentassero unincantesimo che diventava più potenteripetendolo. Pensavo che mi avrebbetelefonato, invece non l'aveva fatto.Evidentemente era più arrabbiato diquanto immaginassi. “Se non chiama nelgiro di una settimana”, mi ero detta, “èdavvero finita”... e quando la settimanaera passata senza Gabriel avevo avutol'impressione che il cuore mi sispaccasse in due, ma senza versare unasola lacrima ero andata in uno dei bar

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vicino all'università, avevo scovato unmio timido compagno di corso di nomeOsvaldo e gli avevo permesso diportarmi a casa. Era stato facile in modosconvolgente, il mio sguardo avevaindugiato su di lui per una frazione disecondo in più e cinque minuti dopo miaveva portato qualcosa da bere, emezz'ora dopo eravamo usciti dal barper infilarci nella notte cupa. Mentrecamminavamo verso il suoappartamento, lui si era comportatocome un minatore che abbia scopertouna vena d'oro. Era un ragazzo gentile,ma quando entrò nel mio corpo trovòsolo il mio corpo. Non percepì icontorni di quella forma interiore chenemmeno io sapevo affrontare, ma che

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Gabriel aveva sempre saputoraggiungere, sfiorare, comprendere. Miaveva dato piacere il modo in cuiOsvaldo mi aveva toccata e si eraavvolto le mie gambe attorno al collocome liane, il modo in cui il suo sessoaveva accelerato il ritmo per la troppaeccitazione, ma quel piacere sembravaappartenere a qualcun'altra, a unaragazza che per una notte si eraimpossessata del mio corpo e chestentavo a riconoscere. Dopo erorimasta sdraiata sotto di lui, nuda, nellapenombra, e avevo pensato: “Ecco,Perla, adesso hai ottenuto ciò chevolevi, non sarai mai più esposta,possiedi un io così ben nascosto chenessuno lo troverà”. Avrei dovuto

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sentirmi sollevata, provare un briciolodi trionfo e invece mi ero sentitaterribilmente sola.

Ed ero stata sola per altre tre notti,finché lo sconosciuto aveva fattoirruzione in casa mia senza spaccarenemmeno un vetro.

Al mattino lui si sveglia da un sonnoche si è gonfiato come la marea. Lastanza è inondata dalla luce del sole, piùintensa ora che attraversa l'aria invecedell'acqua. Perché lui era nell'acqua,prima, no? Dalla chiazza confusa eumida della sua memoria emerge unasensazione di luce filtrata dall'acqua, ilsuo ritmo lento, la rifrazione attraversoun regno più denso. Sono molte le coseche non ricorda, ma questo lo ricorda

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bene: ha perso il suo corpo, in passato,anche se non saprebbe dire come. Inqualche modo l'hanno fatto sparire, poi èmorto e infine ha fluttuato nell'acqua perun tempo lunghissimo. Il fiume e il maresono stati la sua casa. Finché la seraprima si è levato in aria, leggero,invisibile, e il buio ha sfiorato la suamente nuda; non aveva forma, non avevavolume, era traslucido come l'aria –nera, dolce e senza peso – e ha sentito dipoter salire fino al sole, peccato che inquella notte buia il sole non ci fosse, enemmeno la luna. E comunque non eraattratto dal cielo: era attratto dalla terra,dalla costa, dove mille piccole luciammiccavano, brillavano e sipavoneggiavano. Era la città. La sua

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città. Buenos Aires. Era affamato diqualcosa che si trovava là, ma nonsapeva cosa. Conosceva solo la fame equelle faville di luce.

Si è librato in direzione della città e,nel frattempo, ha cambiato forma.Lentamente ha assunto la forma di unuomo. Ai margini della città c'eranocase piene di luce e di buio e lui ne eraattratto. Da una, in particolare.

Poi, all'improvviso, si è ritrovato inquesta stanza, dove la luce si muovecosì veloce trapassandolo da parte aparte. Non ci è abituato. Non è abituatoa niente: non a questa grande stanza; nonal corpo bagnato e flessibile in cui èracchiuso; non a questo sole mattutinoche grida ad alta voce la propria

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presenza, che rimbalza sulle pareti e suiquadri appesi, sulle barche, sulle collinee sugli orologi sfigurati in quei quadri,un sole che fa gridare la stanza. Ildivano sembra così soffice, la librerialo guarda dall'alto in basso, il tappetosplende lungo i bordi e la canzone èspezzata, cromatica, invisibile. Questaluce veloce lo taglia dentro ma lui nonsa gridare; sente la stanza, sente la lucee ne sente anche l'odore, si lasciapenetrare dall'odore della luce, dallaspremuta di limone e dal sudore verdedel mattino.

Poi arriva lei, la ragazza della seraprima. Indossa qualcosa di rosso ed èmeravigliosa, davvero stupenda. In leic'è qualcosa che lo mette in agitazione.

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Qualcosa di importante, ma non sa cosa.Le informazioni gli arrivano in mododiscontinuo, taglienti e improvvise; lasua mente è come una ciotola piena dischegge che lui non può vagliare néraccogliere, che non riesce nemmeno avedere, non gli resta altro da fare cheaspettare di tagliarsi per sapere che cisono. La ragazza si avvicina,guardandolo con malcelato disgusto.

Sei ancora qui, dice.Lui la fissa.Mi sembri un po' più in forze.Rimane zitto.Adesso devo uscire.Colori, pensa lui, sulla faccia della

ragazza ci sono colori che non ha maivisto.

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Perché sei qui?Lui scrolla la testa.Non lo sai?Le labbra della ragazza sono dello

stesso rosso del vestito. I capelli sonolunghi e neri, una fitta tenda attorno allesue spalle. Un tempo c'era un'altra donnacon i capelli neri sulle spalle, si ricordaora, un pensiero gli trafigge la mente, sichiamava Gloria e il giorno in cui glistivali neri andarono a prenderlo quelnome gli rimbombò a lungo nella testa,Gloria, Gloria.

La ragazza si alza. Adesso devouscire. Torno stasera.

E se ne va.Lui fissa la finestra, da dove il sole

entra nella stanza insieme al delicato

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ronzio di un'auto. La scheggia stapenetrando più a fondo. Gli stivali neri eil nome di Gloria vibrano in crescendo.Adesso sì che ricorda.

Nel vagone della metropolitanadiretto verso il centro di Buenos Airesper poco non persi la mia fermata edovetti aprirmi un varco in un grovigliodi uomini in giacca e cravatta perraggiungere le porte prima che sirichiudessero. Salii di corsa le scaleinsieme a una folla di persone cheavanzavano tutte nella stessa direzione,su mille gambe diverse, senza parlarsiné guardarsi, preoccupate solo dellavelocità e della loro destinazione. Disolito salivo quelle scale senza far casoai corpi che mi circondavano, assorbita

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dai problemi di cuore di un'amica o daun esame imminente; ma quel giorno neavvertii acutamente la presenza, loslancio, la psiche autoreferenziale,mentre svuotavano la stazioneriversandosi nella vasta luce del giorno.

La strada ci accolse con clacsonurlanti e automobili impazienti. Gli altipalazzi incombevano su di noi come alsolito, gettando la loro ombraimplacabile. Ma quel giorno misembrarono più alti che mai. Tutti queglisconosciuti sembravano camminare alritmo inudibile di un potente cronometronascosto, la macchina invisibile che famuovere Buenos Aires, e anche se disolito stavo anch'io al passo senzapensarci sopra quel giorno sentivo di

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non poter camminare come tutti gli altri.Le mie gambe erano come allentate,slegate. Avevo perso l'andatura dellaragione. Perché non si può camminare insintonia con la ragione quando si ha incasa un uomo sgocciolante che potrebbeaddirittura non essere umano. Zaini eborsette sobbalzavano irritati mentre iloro proprietari mi sorpassavano. “Nonè colpa mia”, pensavo, “è l'acqua: ètracimata nella mia coscienza e l'hainzuppata, l'ha fatta gonfiare,rovinandone la meccanica delicata eprecisa.” Mi domandavo se non fossiimpazzita. “Se sì”, pensavo, “dunque ècosì che ci si sente; non avrei maiimmaginato che il mondo, anche dapazzi, potesse apparire tanto netto e

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vivido, le strade come sempre e anche lenuvole, niente di diverso a parte che latua testa è scardinata e le suedentellature girano allentate, sregolate eun po' a casaccio.” Mentre percorrevo ilrumoroso viale che porta all'universitàpensai a tutti gli anni in cui, da bravabambina, avevo camminato per il mondocon prudente salute mentale, come sedavvero tutto andasse bene, come se lamia fosse una famiglia del tutto normale,come se sotto la superficie non ci fosseniente di marcio, fino al momento in cuiavevo bruscamente deluso tutte leaspettative iscrivendomi a psicologia.Era la prima volta in assoluto che osavocontrastare i desideri di mio padre suuna questione di qualche rilievo. Da

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sempre lui aveva progettato per me unacarriera da medico, carriera esemplareper una figlia esemplare, l'unica stradache ritenesse accettabile per me, sceltafin dal momento della mia nascita.Quando gli avevo comunicato la miadecisione, non mi aveva rivolto laparola per giorni e la sua campagna eraproseguita per tutto il primo anno diuniversità: «Sei ancora in tempo, Perla,puoi ancora passare a medicina; cimetterai un po' più di tempo, ma almenonon avrai fatto questo erroremadornale».

«Ma non è un errore, papà. È quelloche voglio fare.»

«Sei troppo giovane per sapere cosavuoi.»

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«È una decisione che tutti prendonoalla mia età.»

«Qui non si tratta di tutti.» Le suemani larghe, grandi e callose eranoposate sul tavolo mentre si protendevaverso di me per convincermi: la suavoce era ferma ma gli occhi eranosupplichevoli, quasi teneri, solo ilmeglio per la mia principessa, e io avreivoluto prendergli quelle mani e tenerlefra le mie e rovesciarci dentro tutto ciòche stavo imparando. Guarda, guarda,sono i segreti della mente, i tesori delmare profondo che mi tufferò a cercare,le chiavi perdute che possono liberareciò che a lungo è rimasto chiuso là sottoal buio. Come mi mancava il contatto

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con mio padre. Come mi odiavo perquello che stavo facendo.

Arrivai in aula con un quarto d'oradi ritardo. La professoressa alzò unsopracciglio – Perla, diceva quelsopracciglio, questo non è da te – e andòavanti a parlare. Presi il quaderno ecercai di concentrarmi sull'evoluzionedella teoria freudiana dei sogni. Negliultimi anni la comprensione di quelsettore di ricerca si era estesa eapprofondita: tutti noi reagiamo aglistimoli onnipresenti dell'inconscio, masolo le persone malate vedono spettrisgocciolanti nel salotto di casa. Alzai losguardo, stupita, ma ovviamente nessunoaveva sentito i miei pensieri. Prendevodisciplinatamente appunti, ma mentre

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scrivevo la pagina mi sembrava lontana,nebulosa, come se la stessi guardandoda dietro un parabrezza rivestito dipioggia. Dentro di me cavalcavo untorrente che portava chissà dove, nelsalotto di casa mia, forse, verso lapazzia di quelle alghe nel salotto dicasa, verso la figura di un uomo o di unnon-uomo nudo che in quel momentogiaceva sul pavimento, lamentandosi oborbottando o forse solo sgocciolandonel più assoluto silenzio. Dio mio, macos'era? Un fantasma? Un mostro? Osolo un uomo triste e pallido? Sarebbestato ancora là al mio ritorno? Chesituazione assurda. “Gabriel”, pensai,“se solo potessi telefonarti; tu solo, fratutti, sapresti cosa fare, o quantomeno ti

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inventeresti un modo per reagire, o senon questo almeno potresti,all'ultimissimo momento, mettermi unbraccio attorno alle spalle quandostasera dovrò affrontare il salotto... Chevoglia ho di vederti, ma sicuramente,dopo il modo in cui ci siamo lasciati,non vorrai più sentir parlare di me.” Laprofessoressa mi lanciò un'occhiata:probabilmente aveva detto qualcosa che,secondo i suoi calcoli, avrebbe dovutosuscitare in me stupore ed emozione, eio, Perla, la studentessa modello, annuiicon fare pensieroso. Non avevo sentitonemmeno una parola. Ero una bugiardaad annuire quei «sì, sì» come unamacchina obbediente.

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La mia amica Marisol mi guardòdall'altro capo dell'aula e sorrise unCiao!, poi i suoi occhi aggiunsero Madove sei stata? Risposi al suo sorrisocon una smorfia poco sincera, sperandoche dopo la lezione non mi abbordasse.In tal caso avrei tentato una rapida fugae, se fosse riuscita comunque aincastrarmi, le avrei detto che avevo unappuntamento. Di solito ogni due o tregiorni andavamo a prendere il caffèinsieme, ma per tutta quella settimana,dopo essere tornata dall'Uruguay,l'avevo evitata. Ci eravamo parlate solouna volta, per telefono.

«E allora?» aveva detto lei. «Com'èandata?»

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«Bene», avevo risposto e solo dopoche la bugia mi era uscita di boccaavevo capito di non potermelarimangiare.

«Non ti hanno beccata?» Ai mieiavevo detto che avrei fatto una gita conMarisol e la sua famiglia. «No, è andatotutto liscio. Grazie per avermi coperta.»

«E la sua famiglia?»«La famiglia di chi?»«Perla! Avanti! La famiglia di

Gabriel. Com'è stato incontrarli?»«Scusa, Marisol, ma non è un buon

momento. Possiamo parlarne un'altravolta?»

«Certo, certo. Chiamami tu quandohai tempo.» Ma di tempo non ne avevopiù avuto. O, meglio, il tempo l'avrei

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anche avuto, ma mi era mancatoqualcos'altro di essenziale per farequella telefonata, una telefonataassolutamente normale, peraltro, giustodue chiacchiere con un'amica. E che nonavrebbe richiesto nemmeno uno sforzoparticolare: Marisol non era certo unagrande ascoltatrice e ben presto avrebbespostato la conversazione sull'ultima litecon sua madre. Ma proprio non me l'erosentita. E in quel momento meno chemai... con quel chissacosa nel miosalotto, mi sentivo del tutto incapace difare quattro chiacchiere come se nientefosse.

Cosa avrebbe detto Marisol seavesse saputo? E gli altri compagni delmio corso? Immaginai la professoressa

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nell'atto di presentare il mio casoclinico, di raccontare la mia storia: unagiovane donna è convinta di vedere unfantasma bagnato, proprio come voivedete me, crede di dargli dell'acqua inun bicchiere e di vederlo masticarequell'acqua. Ora dovete ricordare che lapaziente è pienamente convinta della suarealtà e si aggrappa alla sua verità,anche se le fa male. Quale trattamentosuggerireste? E tutte le mani scattanoverso l'alto.

Quel mattino, svegliandomi, erorimasta ancora un po' a letto a fissare ilsoffitto, quel soffitto sordo, chiedendoglila grazia di una giornata normale. Di unsalotto normale. Di un normale pugno disilenzio nella testa. Non quei pensieri

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rauchi, quei vortici, quel turbine diinterrogativi su cosa diavolo potevaessere colato dentro casa mia.

Il giorno in cui gli stivali neriandarono a prenderlo era una bellagiornata, con luminose fette di cieloazzurro ritagliate tra i palazzi. Gli tornain mente il bar in cui era entrato mentretornava a casa. Esattamente a metàstrada tra l'ufficio e il suo appartamento.Era bello e comune, con pareti coloravorio, caffè amaro, dolcetti. Oltre lavetrina, la gente camminava conmovimenti bruschi. Era solo l'ennesimatazza di caffè, per lui, in quel momento,solo l'ennesima vetrina di un bar. Erastanco. La notte prima aveva fatto tardilitigando con Gloria per qualche

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stupidaggine: la casa, aveva a che farecon la casa, se dovevano o no cambiarecasa e cosa avrebbero fatto diquell'appartamento se avessero decisodi traslocare, anche se adesso nonricorda da cosa fosse nata quell'idea dicambiare casa, dove volessero andare avivere e perché, sa di aver visto labocca imbronciata di Gloria, di profilo,poi lei si era girata dall'altra partemostrandogli le scapole, quella nottenon si erano toccati nemmeno nel sonno,che idiota era stato a non toccarla.Aveva paura di tornare a casa, forse leiera ancora arrabbiata, il solito ballettodelle scuse, per questo si era fermato albar. Gli avevano servito il caffè con deibiscottini alle mandorle, non quelli al

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burro che davano di solito, peccato. Selo ricorda. Sente il sapore del caffè equello dei biscottini alle mandorle, tintodella sua piccola delusione. Poi a casa.Girò la chiave nella serratura, spinse laporta e davanti a lui c'era Gloria, legataa una sedia, bendata, immobile come unabambola di pezza. Il primo pugno lomandò subito al tappeto e là rimase,erano in molti, decine, decine di stivalineri attorno a lui, contro le sue costole,che scalciavano, e parlavano, sì, glistivali parlavano, volevano sapere dellecose ma lui non riusciva a rispondere.Aveva la bocca piena di sangue. Poi unamano lo afferrò per i capellisollevandolo da terra, un altro pugno ecrollò di nuovo, affondando in quel

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gorgo di uomini. Capì che erano lì perlui, che era venuto il suo turno, chesarebbe sparito, Gloria aveva ragionequando diceva che alcune personesparivano e lui avrebbe dovuto crederle,si aggrappò ferocemente a queldesiderio come se il fatto di crederlepotesse allontanare da lui quel momento;c'era del rosso nei suoi occhi, rameumido nella bocca, due dentigalleggiavano sulla sua lingua comerelitti nascosti, e Gloria supplicava, viprego non fategli del male, chiudi labocca Gloria, uno schiaffo e poi il suopianto, va bene così, tesoro, non direniente, sta' tranquilla finché non saràtutto finito e allora forse nonprenderanno almeno te, ti prego, sta'

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zitta. Lei però non stava zitta e loro nonavevano ancora finito, lui era sulpavimento e lo tiravano su e lobuttavano giù di nuovo e volevano chegli dicesse dov'era Carraceli ma luiquesto Carraceli non lo aveva maisentito nominare, era tutto inutile, poi gliinfilarono in testa un cappuccio, sullastanza calò il silenzio, ormai era nottefonda, lo arrotolarono in un tappeto e loportarono giù dalle scale passandodavanti alle porte dei vicini che non siaprirono, lo sapevano tutti che in notticome quelle bisognava tenere le portechiuse e sprangate, e alla fine si ritrovònel vano tra i sedili di un'auto cheandava e andava e andava e andava ed è

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stato così – adesso lo ricorda – che èscomparso.

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2 - UNA DIMENSIONE SEGRETA

Arrivai a casa con due sacchettoni di

carta pieni di cose da mangiare. Eropronta a tutto: a trovare il salotto desertoe ad accettare il fatto che avevo avutoun'allucinazione e quindi eroclinicamente malata, ma anche aritrovarlo dove l'avevo lasciato, nelqual caso forse era il mondo a esserepazzo e non io. Immaginavo il mondosteso sul lettino, il suo gran corpaccionesdraiato prono e angosciato, un grandeglobo mezzo sgonfio nella morsa della

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confessione, e la mia professoressaintenta a scarabocchiare sul suoquaderno: “Soffre di allucinazioni,psicosi. Acuta”.

Era ancora là. Sentii il suo odorenon appena ebbi aperto la porta, unazaffata di pesce metallico e mele marce.Sembrava ancora fradicio, come appenauscito dall'acqua. Era seduto sulpavimento e fissava un quadro appesoalla parete, la raffigurazione azzurra cheTia Monica aveva fatto di una nave in unmare tempestoso. L'approcciomonocromatico si ispirava al periodoblu di Picasso; questo almeno stando aciò che diceva papà. Ogni tanto mammaproponeva di eliminarlo o almeno ditrasferirlo nel corridoio del piano di

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sopra: «l'ultima cosa che desideroquando sono nel mio salotto è doverpensare a tua sorella». Ma i suoi appellicadevano nel vuoto. Sulla maggior partedelle questioni d'arredamento mio padrela lasciava fare, ma eliminare l'unicoricordo di Tia Monica era fuoridiscussione.

«Ho portato altre cose da mangiare»,dissi.

Non si mosse.«Non so cosa ti piace.» Si girò dalla

mia parte, lentamente.«Hai fame?» Non rispose e io mi

sentii un'idiota, lì in piedi in mezzo alsalotto con due grosse buste delsupermercato piene di alimenti scelticon cura – andando su e giù per le

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corsie, pensando: “Pasta? La pastadovrebbe piacergli, no?” – per un ospiteche non avevo invitato, che non sapevonemmeno se fosse umano, che non avevonessuna ragione di voler nutrire e chenon si degnava nemmeno di parlarmi.«Sarai affamato.»

«Pioggia.»«Cosa?»«Sta per piovere.»«Ah.» Gettai un'occhiata fuori dalla

finestra: il cielo dietro gli alberi erapesante. Era stata una calda giornataestiva, umida come sempre, e l'idea chepotesse piovere non mi aveva nemmenosfiorata. «Forse.» Posai le buste sultavolo. «Dunque sai parlare.» Annuì.«Mi sta tornando in mente.»

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«Cosa ti sta tornando in mente?»Non rispose.

«Cosa sei?» Oltre la parete sentiiBelinda, la figlia dei vicini, emettere deigridolini di gioia fuori in cortile. Poisentii ridere un secondo bambino:doveva aver invitato un amichetto. Mivenne voglia di tirare una pagnotta aquello sconosciuto che non mi rivolgevaquasi la parola.

«Preparo qualcosa per cena. Ti va dimangiare?»

«Acqua.»«Cosa?»«Acqua.»«L'acqua non è mangiare», dissi e mi

bloccai prima di aggiungere: non per lepersone vere, almeno.

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I suoi occhi mi scandagliarono e mientrarono dentro; mi stavano guardandonel cervello, occhi tutti vista,completamente scuri, senza fondo.«Acqua. Per favore.» Lui mangial'acqua, la mastica, l'acqua ha sostanza,è l'unica cosa sostanziosa a questomondo. Gli luccica in gola e poi va giù.Scorre in quella sua carne così pocofamiliare, del tutto diversa dalla carnevivente che aveva prima di scomparire,una cosa completamente diversa;nemmeno lui lo capisce; non sa cosarispondere alle domande della ragazza,non ha ancora compreso bene tutto, ilperché e il percome della sua presenzalì, ma dopo tanta assenza sente di doverdifendere la propria presenza, dunque è

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così, è questo il mondo, un mondo moltoasciutto, vuole dell'acqua da versarsidentro, ancora e ancora, per riempirsenecome negli anni cullati, negli anni infondo al fiume, quando tutto era acqua enon solo lui mangiava l'acqua ma l'acqua– scintillante, vorace – mangiava lui.

Mangiai un po' di pane strappandolodirettamente dalla pagnotta, senza burroné niente. Mi sentivo al tempo stessoirrequieta e come paralizzata, ansiosa dimuovermi ma incapace di fare una cosaqualsiasi come aprire un libro,preparare la cena, telefonare agli amicie mettermi d'accordo per andare a berequalcosa insieme. Avevo bisogno diqualcosa di forte, ma cosa avrei detto aimiei amici? Come sta andando la

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settimana? Ah, davvero? Io invece ho insalotto un uomo pallido e bagnato chepuzza come una spiaggia sporca. No,non so per quanto tempo si fermerà. No,mi sembra troppo debole per rubare lostereo. Non c'è di che preoccuparsi.Ordiniamone un altro.

Mi versai uno scotch dalla bottigliabuona di mio padre. Ne avrei dato un po'anche all'uomo, ma lui sembrava voleresolo la sua acqua, che consumava contanta intensità da farlo sembrare un attointimo. Vuotò il bicchiere e alzò gliocchi su di me.

«Grazie.» La sua voce era piùlimpida, adesso, solo un po' sfocata.

Gli feci un cenno con la testa. Lafinestra era aperta. Fuori un cane

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abbaiava e la voce di un uomo cercavadi zittirlo. Ma non stava piovendo.

«Ero nell'acqua.» Era difficilereggere il suo sguardo. «Nell'acqua?»

«Sì.»«Quale acqua?»«Tutta.» Finii di bere il mio scotch e

me ne versai un altro. «E primaancora?»

«Sono scomparso.» Tesi la manoverso sigarette e fiammiferi. Lafiammella scese lungo il bastoncino dilegno, avvicinandosi alle mie dita. Milasciai scottare e mi sembrò strano chele mie dita non tremassero. «Sei vivo?»Piegò la testa di lato e mi fissò; era unacosa da impazzire, terribile, corrosiva,quel suo modo di non sbattere le

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palpebre. «Non credo.» Fumaiguardando il fumo creare volute nellospazio d'aria che ci separava.«Nemmeno io.» Mi versai un terzobicchierino di scotch e strappai un altropezzo di pane, senza mangiarlo. Ne tolsila morbida mollica bianca e laschiacciai a formare una pallina.“Scomparso”, pensai. Desaparecido.Avrei dovuto sentirmi perplessa,disturbata, quantomeno sorpresa, masentivo solo il lento bruciore delloscotch giù in gola.

«Perché sei venuto qui?» Stavafissando la pallina bianca fra le miedita. Pane con tutta l'aria spremuta fuori.«Non lo so.» Trascorremmo le oreseguenti in silenzio. Lui fissava il

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quadro di Tia Monica, la nave e il marerealizzati con la stessa tinta e le stessepennellate. Quel quadro sembravaintrigarlo molto più di quello appesoalla parete di fronte, la Persistenza dellamemoria di Dalí, con i suoi orologi fusidrappeggiati su un ramo spoglio, su unasuperficie ad angolo, su una creaturaaddormentata dalle originiimperscrutabili. Non l'avevo vistoguardare la riproduzione di Dalínemmeno una volta, mentre il quadro diTia Monica sembrava catalizzarlo comeuna storia avvincente, come se una partedi lui fosse in grado di saltare oltre lacornice per tuffarsi in quel mondoazzurro. Da bambina l'avevo fattoanch'io: avevo guardato quel quadro con

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una sorta di nuda fascinazione, sicurache la nave si stesse muovendo e che daun momento all'altro si sarebbeavvicinata a me per salvarmi dalpericolo di scogli affioranti. Lepennellate dense e dinamiche fondevanoinsieme nave e mare creando l'illusionedi una loro compenetrazione. Una naveche si scioglieva fra le onde, o che nesorgeva: la mia mente infantile nonsapeva decidere fra le due cose, eavrebbe voluto domandarlo alla donnache aveva realizzato il quadro. È la navea formare l'acqua o l'acqua a formare lanave? Ma ovviamente non potevodomandarglielo, perché lei se n'eraandata chissà dove, una donna piùenigmatica ancora della sua arte. Bevvi

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e fumai e finsi di non guardare l'uomoche fissava il quadro. La strada levavala sua fievole voce fin dentro la stanza.L'aria vorticava. Posai la testa sultavolo e mi addormentai.

«Perla, Perlita», disse mia madre,«non devi credere a tutte quelle frottolesui desaparecidos. Sentirai delle cose, ascuola, ma voglio dirti fin d'ora che nonsono vere, Perlita, quelle persone sonoisteriche, ci sono così tante cose che nonsanno. Non devi parlare con loro. Tu sta'zitta e ricordati che sono personeconfuse.» Io feci di sì con la testa e letrecce mi spazzolarono il vestito.Mamma sorrise, mi aiutò a infilare ilcappotto e mi abbracciò. Come sempre,avrei voluto che l'abbraccio durasse di

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più per potermi dissolvere nellamorbida camicetta di mia madre e nelsuo acceso profumo, ma si trattava di uncontatto di circostanza, nient'altro che unmezzo per ottenere un fine, dato nellafretta di una mattinata piena di cose dafare. Mamma mi voleva bene, ma avevaaltre cose importanti a cui pensare e deivestiti bellissimi che non volevastropicciare fin dalla mattina presto.

Avevo sei anni, allora. Lademocrazia, quasi uno. E, sì, eraevidente che alcune persone nonavevano simpatia per gli ufficiali dellaMarina come papà. Gli zii di RominaMartinez erano scomparsi da sette anni,o almeno così mi raccontò lei nellospogliatoio della scuola. «È capitato a

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molte persone», sussurrò. «Gente chenon è mai tornata a casa, negli AnniTerribili.» Sua nonna marciava ancora inuna piazza del centro, ogni giovedì, conun fazzoletto bianco in testa per chiedereil ritorno dei suoi zii. «Mamma, però»,aggiunse Romina sfilandosi le galosceverdi, «dice che è una pazzia e che glizii non torneranno più perché sonomorti.» Io non dissi niente, perché erouna brava bambina. Ma qualchesettimana dopo, un pomeriggio, dopoaver finito i compiti interrogai miamadre: «Dove sono finiti gli zii diRomina? Tu credi che torneranno?».

Mamma sospirò. Aveva in mano unbicchiere di scotch e lo faceva oscillareavanti e indietro per sentire i cubetti di

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ghiaccio tintinnare contro il vetro. «Chipuò dirlo?»

«Ma dove sono finiti?»«Probabilmente a Parigi, a vivere

nella pigrizia.» Mi dispiacque perRomina, con le sue galosce da pocoprezzo e la nonna che vagava inutilmenteper le piazze del centro e gli zii troppopigri per tornare a casa. Lei non avevauna mamma come la mia, una mammache andava dalla manicure tutte lesettimane e indossava foulard importatidalla Francia drappeggiati attorno allascollatura come un brillante piumaggio.Mamma era tutta avvolta di bellezza,papà era un uomo forte che la seratornava a casa con l'uniforme ancoraperfettamente stirata e io ero una

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bambina molto fortunata ad avere deigenitori come loro.

Romina, però, non era l'unica a direcerte cose. «Adesso siamo unademocrazia», diceva la signora daicapelli cotonati che leggeva le notiziedel telegiornale; «la dittatura ce lasiamo lasciata alle spalle.» Io nonl'avevo mai sentita, quella parola:dictadura. Cercai di capirne ilsignificato. Aveva dentro la parola dura,quindi forse c'era stato qualcosa di duroin quegli anni, il che poteva spiegarecome mai Romina li chiamasse AnniTerribili, ma non spiegava come maipapà non sembrasse contento chefossero finiti. Forse non si trattava diuna durezza negativa. Come per i muri,

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per esempio. Tutti sanno che è un beneche i muri siano duri, così la pioggia nonpuò entrarti in casa. Ma nessunovorrebbe che il cuscino fosse duro, o lamano di un padre, o molte altre cose.

Ogni volta che alla televisionecompariva la signora dai capellicotonati la fissavo con grande attenzioneper capire meglio quella parola,dictadura. Da lei appresi che in queglianni si era verificata una cosa detta ElProceso, che per alcuni era una cosabuona, mentre altri dicevano che avevafatto del male a moltissima gente,soprattutto ai cosiddetti desaparecidos.Gli scomparsi. A quel punto miaspettavo sempre che la signora daicapelli cotonati facesse il nome degli zii

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di Romina o mostrasse a tutto schermouna foto di Romina e della sua famiglia,ma lei non lo faceva. Invece si metteva aparlare di un certo generale JorgeVidela, che aveva comandato sul paese(questo lo immaginavo benissimo, ilcomandare: l'Argentina seduta a tavolacome una scolaretta e Videla, come ilpreside, che le passava il pane e lediceva di togliere i gomiti dal tavolo edi masticare con la bocca chiusa) eadesso tutti ce l'avevano con lui e condegli altri generali per via deidesaparecidos, ragion per cui cisarebbero stati dei processi. Il primogiorno delle udienze, dopo cena, i mieiguardarono il telegiornale senza fiatare.Io guardai più loro che non le schiere di

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rigidi ufficiali e le folle urlanti per lastrada. Il secondo giorno guardarono iltelegiornale per non più di cinqueminuti, poi mio padre si alzò e spense iltelevisore.

«Non la guarderemo più, questamerda.»

«Modera il linguaggio», dissemamma.

Mamma e papà comprarono unsecondo televisore e lo installarono incamera loro. Per me, niente piùtelegiornale. Ciò nonostante a scuolasentii dire che quelli che prima eranostati al potere adesso erano finiti inprigione. E con gli anni venni a sapereche gli scomparsi non erano piùricomparsi. La parola desaparecido

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rimbalzava da una stanza all'altra, nellestrade, tra gli scaffali del supermercato,nelle piazze, sulle pagine dei giornali,sussurrata e gridata e in tutti i toniintermedi. Il numero dei desaparecidosfu calcolato, negato, difeso. Trentamila.Quel numero era una menzognaarchitettata da gruppi stranieri. No, erala pura verità. Tante erano le personefatte sparire dal governo. No, quellepersone se n'erano semplicementeandate da qualche altra parte. C'eranodelle fosse comuni. Erano soloesagerazioni. Erano tutti morti.Dovevano per forza esserci deisopravvissuti. El Proceso era stato unavergogna nazionale. El Proceso era statonecessario. I desaparecidos erano

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persone innocenti. I desaparecidosavevano messo in pericolo la sicurezzanazionale.

Tante parole, tante versionidiscordanti che mi stiracchiavano di quae di là. Io avrei voluto credere a tutti,trovare uno spazio in cui tutti – miopadre, i giornalisti, gli sconosciuti alsupermercato – potessero avere unpezzetto di verità. A undici anni, ascuola, lessi Borges e arrivai allaconclusione che tutto era possibile. Neiracconti di Borges c'erano uomini chesognavano dei vecchi e sognando lifacevano esistere, e punti nello spazioche contenevano tutto l'universo, egiardini in cui si biforcavano i sentieridel tempo. Se tutto ciò poteva accadere,

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forse si potevano capire anche lepersone svanite nel nulla. Forse ElProceso era sfociato in una settimadimensione, sconosciuta a tutti. Fra ilnostro piano di realtà e un altro reamesegreto si era aperta una falla, etrentamila persone c'erano cadutedentro, per uno scivolone del piede, odella lingua, o della realtà stessa. In talcaso gli scomparsi potevano ancoraessere da qualche parte. Vivi. Ma noninsieme a noi.

Come tema di spagnolo scrissi unracconto in cui i trentamila siritrovavano tutti insieme, in attesa,vigili, intrappolati in una dimensionesegreta. Avevo dodici anni quando loscrissi; la democrazia, sette. Videla era

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uscito di prigione, perdonato dalpresidente Menem. Nel mio racconto itrentamila affollavano nuove case esopravvivevano respirando ricordiinvece di aria, affamati di reminiscenzecome tutti noi siamo affamati d'ossigeno.Le loro bocche si allargavano semprepiù a forza di raccontare quel che eraloro successo. Continuavano a cercarela crepa nella realtà, la fessuraattraverso cui erano scivolati dall'altraparte, un modo per tornare a casa oalmeno per far sapere ai loro caricos'era successo, affinché non stesseroin pena. Ma il passaggio era sparito.Scrissi quel racconto per me stessa, nelcuore della notte, travalicando i confinidel compito assegnato, che era di

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scrivere un racconto di tre pagine mentrela mia storia ne riempì ben tredici, ognipagina una sorpresa, mi domandavo dadove venisse, da dove uscissero quelleparole, quei respiri-ricordi, quegliintrichi di strade traslucide e quelleeteree persone sperdute dalla boccadistorta, e quale forza facesse andareavanti la mia penna sul foglio di carta.Alla fine non osai rileggerlo. Lo infilaisotto il cuscino e dormii per le tre oreche restavano della notte. Il mio temavinse un concorso scolastico e ilgiornale ne pubblicò una versioneabbreviata. La professoressa mi chiamòalla cattedra mentre i miei compagnibattevano le mani e, anche seprobabilmente lo fecero per puro senso

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del dovere e con un po' d'invidia, quelsuono mi inondò dentro fino araggiungere stanze interiori che nonsapevo nemmeno di avere.

Quella sera arrivai a casa tardi, alledieci, perché ero stata a studiare daun'amica. Mio padre mi aspettava insalotto. Sbronzo. «Vieni qui.» Non avreivoluto andare, ma lo feci.

«Siediti.» Mi sedetti.Tirò fuori il ritaglio di giornale con

il mio racconto. «E questo cosasarebbe?»

«Un racconto.»«Chi l'ha scritto?» Mi strinsi forte le

dita in grembo. «Io.»«Ah sì? E tu chi saresti?» Papà

sembrava invecchiato, tutto ingrigito ai

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margini. Pensai che si sarebbe messo agridare, che mi avrebbe picchiata, manon lo fece. Il suo tono di voce era giàdi per sé uno schiaffo. Guardò la parete,poi guardò me, e sotto quello sguardoavrei voluto stracciare il racconto eingoiarlo, un pezzo dopo l'altro,rimettere quella cosa dentro il miocorpo e farla sparire.

«Perla, ci sono cose che non puoicapire.» Annuii.

«Noi siamo i tuoi genitori. Io emamma.» Lolo venne lentamente versodi me. Quando sentii il suo gusciofreddo contro la caviglia, la cosa micalmò un poco. Annuii di nuovo.

«Saresti contenta di perderci?»Scossi la testa.

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«Saresti contenta di restare orfana?»«No.»«E allora perché diavolo hai scritto

una cosa del genere?» Mammacomparve nel vano della porta.«Hector», disse. «Basta così. Adessosmettila.» Avanzò di qualche passo, itacchi duri che risuonavano sulpavimento, e posò la mano sulla spalladi papà, le lunghe unghie laccate dirosso vicino al bianco della camiciacome esotici insetti. Mi sporsi in avantiper farmi sfiorare dall'orlo dolce delsuo profumo.

Papà mi guardò con un viso aperto,il viso più aperto che gli avessi maivisto, spaventato, esposto, come unuomo che si sia smarrito nella giungla. E

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in quel momento ebbi la sensazione dinon capire niente, nemmeno una singolacosa fra quelle che accadevano almondo, a parte questo: che non avreimai scritto. Feci un passo avanti e gliposai la mano sul ginocchio perconsolarlo, o per calmarlo, o per farmiforza.

«Perla», disse lui. «Così mi uccidi.»«Ti chiedo scusa», dissi.«Va tutto bene», disse mamma.

«Adesso andiamo a letto.» Lui ha gliocchi chiusi, ma non sta dormendo.Ripensa a quando non aveva occhi. Lotenevano sempre incappucciato, il modopiù semplice per togliere gli occhi a unuomo. Portava il cappuccio giorno enotte, e giorno e notte non esistevano

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più, c'era solo il buio, buio dappertuttointorno a lui, nell'aria mentre penzolavadal soffitto, nell'acqua gelata rovesciatasul suo sonno, nella grata d'acciaio deltavolo elettrificato. Quegli uomini glidicevano Tu non sei niente, noi siamoDio, e gli pisciavano e sputavanoaddosso, quei suoi compatrioti, duranteuna normale giornata di lavoro. A voltelo dicevano urlando, a volte in modomeccanico, ho fatto il mio dovere,missione compiuta; nell'altra suaesistenza, quando ancora aveva gliocchi, avrebbe potuto chiedere il loronome, farsi raccontare qualcheframmento della loro vita, forse siconoscevano, forse i loro piedi gliavevano passato il pallone in un parco

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cittadino, era possibile, si giocavaspesso al pallone nei parchi, ma stavoltanon era una partita e lui non era unpallone e quei piedi avevano un loroordine di marcia.

All'inizio gli erano mancati tanto, isuoi occhi. Desiderava la luce, pensavaquasi che la luce lo avrebbe salvato.Voleva poter vedere i propri lividi, igonfiori, era preoccupato per i suoitesticoli. Da come li sentiva penzolarefra le gambe sembrava si fosserogonfiati come due pompelmi a forza diessere strizzati e folgorati con lacorrente elettrica, li sentiva pulsare, edire che c'era stato un tempo in cuiGloria li cullava fra le dita, li prendevain bocca, li stringeva ma solo per gioco,

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con una pressione ardita, chi avrebbemai immaginato che si potessero faretante cose con dei testicoli? Che sipotesse essere tanto più arditi con deipoveri testicoli? E lei, dov'era lei inquel momento? Sua moglie, salva, salva,salva, a prendere il caffè con le amiche,a battere a macchina le lettere del suocapo, a togliersi gli orecchini davantiallo specchio del bagno, a sfilarsi lacamicetta, ma senza togliere la fede, adomandarsi dov'era lui. Con la mentetornava sempre a lei, la vedeva a letto,il suo corpo caldo, i capelli profumati,gli apriva le braccia e le gambe, shh,adesso sei qui, sei tornato, non pensare aniente, ridiventava piccolo come unneonato e si lasciava avvolgere,

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strisciava fra le sue gambe ed entravanel suo corpo, là dove stava crescendoil loro bambino, shh, c'è posto per tutti edue, restava dentro di lei, al calduccio,comodo, a metà strada fra due mondi,loro tre accoccolati in un unico nido dicarne... finché l'acqua gelida e lo sputonon lo costringevano a tornare.

Passarono i giorni. Le settimane.

Impossibile dirlo. Imparò che c'eranocose peggiori del buio. Come la luce nelposto sbagliato, per esempio nel suoculo, nel buco del suo culo riempito dauna verga metallica collegata allacorrente elettrica. E poi altre domande,ancora e ancora, non sapeva piùnemmeno lui cosa stesse rispondendo,

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cosa volessero sapere, a cosa il suocorpo potesse ancora sopravvivere.Ormai lo desiderava, il buio, ci sirintanava come un microscopicoricciolo d'uomo.

Poi quegli uomini dissero Tu nonesisti.

Lo dissero a voce alta e lo dissero avoce bassa e non ci fu più né giorno nénotte, né declivio di tempo fra luce ebuio.

Tu non esisti. Non sei niente.Non sapevano che quelle parole

potessero trasformarsi in un rifugio. Ciòche non esiste non prova nemmenodolore. Il dolore si scagliava ancoracontro di lui con le fauci spalancate, manon trovava niente da mordere. Niente

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aveva più importanza. Scivolò via.Aveva perso perfino il suo nome,l'avevano cancellato dal suo passato, datutte le bocche che ne avevano assunto laforma per farlo rientrare dalla stradaall'ora di cena, per richiamarlo inclasse, per addormentarlo con unaninnananna, per formulare una domanda:sei stato tu a rubarlo? Hai freddo? Mivuoi ancora bene? Quante arance ti do?Dove credi di andare? Senza domandenon c'è vita. E senza nome non possonochiamarti. Meglio non essere chiamati,non sentirsi vivere, non sentire lapropria pelle e la gelida acqua notturnae gli stivali, né gli altri tre uomini stipatinella piccola cella, ne sentiva l'odore,vicino, ma gli avevano assolutamente

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proibito di parlare con loro. Anch'essinon avevano nome. Solo un numero,urlato dalle guardie quando andavano aprenderli per portarli nella stanza degliinterrogatori, in fondo al corridoio.

Gli uomini in quella stanza. Loro sìche esistevano. Erano violenti einflessibili, erano dappertutto. Liodiava. Ma ne aveva anche bisogno. Avolte sentiva addirittura di amarli... Sidisprezzava per questo, però non potevaevitarlo perché avevano il potere diconcedere una tregua, potevanointerrompere il pestaggio dicendo Lovedi cosa faccio per te, e riempirgli labocca di una pasta dolce quando morivadi fame, era la stessa mano asomministrare la pasta dolce e la scossa

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elettrica, ad asciugargli con un panno lafronte madida di sudore e a spingere laleva, e lui era così abietto che quandogli toccava la pasta dolce e la voceordinava Di' grazie, signore, non soloripeteva le parole ma lo faceva conconvinzione. Voglio vivere, quindi hobisogno che tu mi ami. Quegli uominipotevano lasciarlo vivere oppurecondannarlo all'oblio. Le guardie eranoun'infinità, a volte gli davano del mate ouna crosta di pane, una ciotola di zuppad'avena, un breve istante per togliere ilcappuccio e mangiare. A volte ridevano,come un uomo che si annoi o come unbambino che guardi le formiche affogarenell'acqua che ha versato sul formicaio.

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Alla fine fu la luce a spezzarlo, unaluce peggiore di qualsiasi buio. Una luceche svelò colori che nessuno maidovrebbe vedere. Era legato al tavolo,come al solito, a faccia in giù, picchiato,bruciato con la corrente, infilzato,stirato, tutto come al solito. Una manogli sfiorò il viso come per accarezzarlo,due dita morbide lungo la guancia, e glitolse il cappuccio. Qualcuno gli sollevòla testa tenendola per i capelli. Gli occhifurono trafitti dalla luce, era da giorni oda mesi che non la vedeva, sbatté piùvolte le palpebre, poi la voce disse Lericonosci? e lui sbatté di nuovo gliocchi, cercando di mettere a fuoco.C'era un'altra mano davanti a lui,reggeva uno straccetto zuppo di sangue;

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non sapeva cosa rispondere e comunquenon ne ebbe il tempo perché la voceriprese – Sono le mutandine di tuamoglie, ecco cosa sono – dopo di che glirimisero il cappuccio e il buio, il buio,il buio lo afferrò e ingoiò la sua mente.

Mi svegliai, ma non nel mio letto.Ero seduta al tavolo. Cosa avevosognato? Che nuotavo in un'acqua scura,piena di pesci spezzati. E che avevofreddo. E poi? Non lo ricordavo già più.

L'uomo era ancora sul pavimento delsalotto. Aveva gli occhi chiusi, cosìpotei osservarlo a lungo. La sua pellebagnata era traslucida, di un palloreinnaturale che non apparteneva certo almondo dei vivi. Braccia e gambe floscecome tentacoli. Le labbra bluastre,

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gonfie, e i genitali ritratti. Non gli avevoofferto niente da mettersi, pensai, né luime l'aveva chiesto; in qualche modo,l'idea dei vestiti sembrava essergliestranea o addirittura sconosciuta. Infondo non sembrava aver freddo, népotersi mai asciugare. Quanto al pudore,probabilmente non ne aveva affatto, e ionon desideravo attirare l'attenzione sullasua nudità avanzando suggerimenti.Comunque non ero imbarazzata comesarebbe logico aspettarsi davanti a unosconosciuto nudo; tanto varrebbeimbarazzarsi per la nudità di un pesce.Aveva dei pezzetti di alghe appiccicatiai capelli. Ripensai alle alghe su quellaspiaggia dell'Uruguay, l'ultima notte cheavevo passato con Gabriel, al loro

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luccichio osceno nel chiarore lunare. Acome ero corsa via lasciandolo là, solosulla spiaggia, a gridare il mio nome. Alsuo viso un momento prima che mivoltassi, inondato dalla luce della luna,lo sguardo perso di chi è sceso dal trenoalla fermata sbagliata. Non volevoripensare a quel momento, mi erainsopportabile, ma la presenza diquell'uomo premeva contro la diga cheavevo eretto per tenerlo fuori dai mieipensieri. Quella presenza bagnata epesante sembrava avere proprioquell'effetto su di me, minacciava di farcrollare la diga, e allora sì che qualsiasicosa avrebbe potuto allagarmi la mente:ricordi, desideri, punti interrogativiliquefatti. Mi faceva paura ciò che

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sarebbe potuto accadere se fosserimasto lì, la persona che rischiavo didiventare.

La stanza era immersa nel silenzio;niente automobili in strada, tutti i viciniin casa dietro le porte chiuse. Lalampada a stelo, dal suo angolo,illuminava un grande cerchio dipavimento orlato di ombre silenziose.La luce era tenue, ma risplendevadelicatamente nelle gocce d'acqua sullapelle dello sconosciuto. Chissà se sisarebbe mai asciugato, o se sarebbesempre stato così, bagnato e viscidocome appena uscito dal fiume. Nessunol'aveva invitata a entrare, quell'umidità.Si era infiltrata dentro casa. Avrei avutotutte le ragioni di esserne offesa, di

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arrabbiarmi per quella invasione, oquantomeno di scacciarlo con fermezza.Mi faceva sentire irrequieta, in pericolonella mia stessa pelle. Tuttavia, pur nonsapendo perché, pur trovandosconvolgente quella situazione, in realtànon volevo che se ne andasse. Avevo lasensazione che ci fosse qualcosa chedovevamo fare insieme, noi due, unqualcosa di ineffabile, che da sola nonavrei potuto fare.

“Perla”, pensai, “la notte ti fadelirare.” Fuori, molto piano, cominciòa piovere.

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3 - ACQUE E TRISTEZZE

Venne il mattino. Non andai a

lezione. Lasciai un messaggio sullasegreteria telefonica della miaprofessoressa, una cosa che non avevomai fatto, ma era così raro che nonandassi in università per una ragionequalsiasi che sentii il bisogno di darespiegazioni. «Ho la febbre alta», dissi,«uno strano virus estivo. Non sarebbe uncomportamento responsabile, da partemia, esporre al contagio i miei compagnie comunque, con la testa in queste

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condizioni, non riuscirei aconcentrarmi.» Lo dissi pensando cheera una frottola colossale, ma quandoriattaccai mi venne in mente che, a partela febbre, tutto il resto era vero.

L'uomo bagnato dormiva sul suopezzo di pavimento, il corporaggomitolato in una grossa pallafloscia. Il tappeto attorno a lui era scurod'acqua. Lo guardai respirare, inspirare,espirare, con la bocca semiaperta.Chissà quanti anni aveva. Al solemattutino i suoi capelli erano neri conqualcosa di verde, sul viso cinerino nonc'erano rughe... poteva avere la mia età,ventidue anni o qualcosa di più,venticinque al massimo. Ma forsedov'era stato gli avevano modificato la

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pelle, scurito i capelli, stirato le borse,trattamenti che non riuscivo nemmeno aimmaginare. Cercavo di sondarlo, dipenetrare fino alla nuda sostanza del suoessere; mi sforzavo di aprire i mieipensieri e il mio mondo per accogliereciò che quell'uomo dichiarava di esserecon la sua sola presenza: undesaparecido. Una delle persone che unbel mattino erano uscite per andare allavoro e non ci erano mai arrivate, o cheerano arrivate al lavoro ma non eranopiù tornate a casa, o che erano tornate acasa e non ne erano più uscite. Personeche avevano lasciato un vuoto piùgrande di quello lasciato dagli altrimorti, perché i loro cari non avevanopotuto né piangerle né seppellirle, ed

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erano stati costretti a portare la loroperenne assenza come se l'assenza stessafosse qualcosa di vivo. Come Romina,alla quale erano scomparsi due zii e cheinsieme alle Madres de Plaza de Mayomarciava davanti al Palazzopresidenziale con un fazzoletto bianco intesta in segno di protesta. Nell'unicoanno della nostra amicizia avevopensato all'assenza dei due uomini comea una corrente onnipresente in casa sua,che illuminava le pareti insieme allaluce del sole, mormorava sotto lechiacchiere del dopocena e orlava imolti scaffali carichi di libri. Tutto ciò,ovviamente, prima del nostroquattordicesimo compleanno, quandoRomina aveva reciso il nostro legame

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con un unico, brutale gesto di disgusto –o di rabbia? o di dolore? o di... –, dopodi che non ci eravamo più scambiateconfidenze né tanto meno sogni, soloocchiatacce da un capo all'altro delcorridoio della scuola, sguardi cheesprimevano una forza talmente nuda eferoce che avevo finito con il passare glianni del liceo a evitare con cura la suafaccia. Immaginai di rivederla in quelmomento – un'apparizione dagli occhialiausteri, sospesa a mezz'aria in corridoio– e di dirle Guarda, guarda, uno di loroè qui, non so come abbia fatto a entrarema è vero, sgocciola e osserva conocchi da trota umana ma dice di essereuno di loro, un mezzo morto, un non-morto che si è liberato dalle trame della

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non-esistenza, non è invecchiato pernulla, credi che possa essere un tuo zio?

L'apparizione di Romina disseImpossibile.

Lo so che sembra impossibile, ma èqui.

Non hai capito, stronza. Èimpossibile che mio zio entri in casa tua.

Mi alzai per scacciare la visione,con le gambe che mi tremavano. Nonvolevo restare in casa, ma non misentivo pronta a uscire. Mi lavai il viso,ma senza fare la doccia. Per colazione,due tazze di caffè. Zucchine bollite perLolo; lui le assaggiò appena e poi leabbandonò. Gli avevo fedelmentepreparato le verdure bollite fin daquando ero stata abbastanza grande da

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essere lasciata sola accanto ai fornelli.Lolo non mangiava lattuga fresca datrentanove anni, da prima della mianascita, quando ancora era la tartarugadi mio padre e, stando a quanto miavevano raccontato, si comportava cosìmale che una volta mio nonno gli avevadato un calcio, rompendogli la mascella.Aveva ancora la bocca storta per ilcolpo. A volte spariva per giorni interi ele zucchine che gli avevo preparatorestavano intatte. Io mi preoccupavo chepatisse la fame e che potesse morire, mapoi lo rivedevo, fuori in cortile, all'erta,impassibile, con la bocca storta benchiusa sul segreto di dove era stato. Eracapace di un'immobilità assoluta, maanche di uno stupefacente galoppo su e

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giù per il corridoio, se ne aveva voglia.«Quel piccolo bastardo è forte, cattivo eforte», diceva mio padre e scrollava latesta con contrariata ammirazione.Mentre lo guardavo avviarsi lemmelemme fuori di casa, pensai che misarebbe piaciuto entrare in quella suatestolina di cuoio duro e disseppellire isuoi ricordi come vecchi sassi. Perchélui c'era già quando mio padre erabambino, molto prima che diventassemio padre, quando era solo un ragazzinodi nome Hector che un giorno avevavisto suo padre prendere a calci sulmuso una tartaruga rompendole lamascella. Uno stivale grosso e pesante,una mascella che si era spaccata subito.Lolo se l'era cercata, secondo la

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leggenda familiare. Ma cosa poteva averfatto? Forse camminava troppolentamente? O troppo svelto? Era statotroppo fra i piedi? Forse era stato lui amordere per primo la mano del suoaggressore, anche se io non l'avevo maivisto mordere nessuno e non riuscivo aimmaginare che potesse farlo senzaessere provocato. Ma di certo leprovocazioni non mancavano nella casache aveva plasmato il ragazzino chesarebbe diventato Hector, una casa aquattro chilometri di distanza dalla mia,sempre odorosa di medicinali e dipavimenti disinfettati, fra le cui pareti siera dipanata un'infanzia di cui sapevopochissimo, nient'altro che una manciatadi informazioni.

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Una volta, da piccola, ero in cameramia a piangere perché papà mi avevasgridato dato che ero stata cattiva emeritavo una punizione, e mamma miaveva detto: «Tuo padre è molto buonocon te, lo sai, non ti picchia mai comefaceva suo padre con lui». Ero unabambina fortunata, io, nessuno mipicchiava, ero sfuggita al destino diHector e di Lolo. Quando andavamo atrovare il nonno, vedevo un uomo chetutti dicevano essere molto malato mache sembrava possedere ancora unfascino terribile, un uomo che si mettevala giacca da colonnello della Marinaanche per sedersi con noi al tavolo dellacucina, capace di ipnotizzare unabambina convincendola a giocare a un

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suo nascondino speciale in giro per casasenza che nessuno l'andasse a cercare,senza che nessuno la trovasse e latrascinasse di nuovo alla luce. Ciònonostante mi nascondevo al buio,respirando forte per l'eccitazione, econtavo fino a sessanta come mi avevadetto lui, poi uscivo dal mionascondiglio ed ero una bambinacompletamente cambiata, una bambinanuova, ma trovavo il nonno intento aparlare con i grandi e dovevo aspettarepazientemente (gli occhi fissi sui suoipiedi, cercando di capire con quale deidue avesse colpito Lolo tanti anniprima) finché lui non guardava dalla miaparte, sorrideva e diceva: «Ebbene?». Eio rispondevo: «Bene», non sapendo

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cos'altro dire. «Ti sei nascosta in unposticino buio?» Annuivo. I posticinibui erano sempre i migliori, gli uniciposticini veri in cui nascondersi. «Ecom'è stato?» Non sapevo cosarispondere, chissà qual era la rispostagiusta per quel gioco, maindipendentemente da ciò cherispondevo lui mi mandava di nuovo anascondermi. «Stavolta conta fino aottanta, se sei capace.» L'uomo bagnatosi svegliò mentre accendevo la terzasigaretta. «Buongiorno.» Il suo corponon si era mosso. Solo gli occhi eranospalancati.

«Dormito bene?»«Non so.» Feci cadere la cenere in

un piattino e mi sforzai di sorridere.

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«Oggi resterò a casa con te.» Lui gettòun'occhiata alla finestra senza muoverela testa. Poi guardò di nuovo me. Occhidelle profondità marine. Occhi dapolipo.

Mi alzai, andai in cucina e tornai conun bicchiere e una caraffa. «Hai fame?»Annuì come per dire: Sono cosìaffamato che potrei divorare il mare.

Mentre tenevo il bicchiere vicinoalle labbra del mio ospite mi sentiiterribilmente triste, la tristezza sispalancò dentro di me senza volto, senzaforma, senza fondo, pronta a inghiottireogni altra cosa, libri, cieli, sigarette, laconsistenza stessa del giorno. Non erauna sensazione sconosciuta, per me, maarrivava sempre senza preavviso. Io mi

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sforzavo di nasconderla e di solito ciriuscivo, ma quella volta tutti i mieisforzi furono vani: l'uomo mi fissava conocchi così limpidi che avrebbero potutoleggere le emozioni di un sasso.

A volte, per nascondere la tristezza,dobbiamo tagliarci in due. Cosìpossiamo seppellire una metà di noi,quella indicibile, lasciando il resto afronteggiare il mondo. Ora ti racconteròdella prima volta in cui lo feci. Avevoquattordici anni ed ero nel gabinettodella scuola con in mano l'ultimobiglietto che avrei mai ricevuto dallamia amica Romina, contenente un'unicadomanda scritta in maiuscole furiose.

Eravamo state nella stessa classe peranni, ma diventammo amiche intime solo

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a tredici anni, quando Romina cominciòad avere la sua esperienza. Era così chela chiamava lei, l'esperienza, epronunciava quella parola con un tono divenerazione che le conferiva un'aura digrande mistero.

«Un'esperienza», le feci eco io conespressione ottusa la prima volta che mene parlò.

«Vieni a casa mia, dopo la scuola,che ti faccio vedere», disse lei.

Annuii. Mi domandavo sequell'esperienza potesse avere a che farecon il seno. Perché in tal caso latrasformazione di Romina non era poiquel gran segreto: anzi, era stata cosìimprovvisa e sorprendente che nel girodi pochissimo tempo aveva trasformato

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una ragazzina grigia e scialba nell'asseportante di un'attenzione ammutolita.Ragazzi e ragazze avevano cominciato asbirciare con la coda dell'occhio lacamicetta della sua divisa scolastica,sotto la quale quelle rotondità cosìprecoci e voluminose ronzavano – sì,ronzavano! – spingendo verso l'esternocurve che suscitavano bisbigli, occhiatee risolini. Quel seno era fecondo; piùsfrontato della sua portatrice; e cantavasé stesso nell'aria arrotondata. Anch'ione ero affascinata; avrei voluto (ma nonavrei mai osato dirlo) toccarlo,esplorarne il volume e la forma,l'allegra curvatura, la presenzasilenziosa ma indiscutibile. Fino a quelmomento il mio seno era cresciuto

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pochissimo e sicuramente non avrebbepotuto competere con la capacità del suodi occupare il centro ottico di unastanza. La notte, a letto, accarezzavo ilmio piccolo seno e mi stupivo del suofresco turgore, dei capezzoli morbidi epoi duri, e nel frattempo mi domandavoche effetto avrebbe fatto sotto le mie ditail seno di Romina, come sarebbe stata lasua curva e come avrebbe reagito la suapelle morbida ed elastica. L'unica cosapiù incredibile ancora del seno diRomina era la reazione che suscitava inlei. Romina sembrava notare appena lanuova attenzione che la circondava. Erasempre stata il tipo di ragazza che siperde a guardare fuori dalla finestramasticando la matita fino a ridurla in

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minuscole schegge, sempreperfettamente a proprio agio nelmangiare da sola, e la recente popolaritànon l'aveva cambiata.

Di lì a poco, però, avrei scopertoche l'esperienza di Romina non avevaniente a che vedere con il seno, né colfatto di parlarne e assolutamente non conla possibilità di toccarlo; era né più némeno l'espansione estetica e filosoficadel suo mondo. Aveva cominciato aesplorare la biblioteca dei suoi. Tuttoqui. Cercai di nascondere la miadelusione. Quel pomeriggio andò su egiù davanti agli scaffali indicandomi ivolumi di Kierkegaard, Sartre, Storni,Parra, Baudelaire, Nietzsche, Vallejo,tirandoli giù e lasciando che si aprissero

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fra le sue mani quasi fossero dotati divolontà propria. Ci dormiva insieme,tenendoli sotto il cuscino. Si svegliavanel cuore della notte e li apriva a unapagina qualsiasi, assorbendone le parolee recitandole poi fra sé e sé finché nonsi riaddormentava. Si rigirava le parolein bocca, consumandole come se fosserocibo, a volte addirittura al posto delcibo. Romina pensava... e questa, miresi conto, nel suo mondo eraconsiderata un'azione molto concreta eimportante: dopotutto suo padre era unfilosofo, aveva costruito tutta la sua vitasull'attività del pensare, l'università lopagava addirittura per farlo, un'idea chemi era sempre sembrata molto buffa,tanto era lontana da qualsiasi cosa

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avessi visto nella mia famiglia. Te loimmagini? Un uomo pagato per pensare!Cosa può mai succedere in quella testa(e in quella famiglia)? Romina parlava eil sole sbiadiva lentamente nel salotto,gettando una luce più velata sulla paretecoperta di libri; io ne toccavo i dorsi,con i titoli e i nomi in rilievo,chiedendomi che sensazione si provassead attingere con tanta passione da unasemplice pagina stampata o, quanto aquello, ad attingere con tanta passioneda una qualsiasi altra cosa. Prima chevenisse buio, però, la delusione avevalasciato il posto alla curiosità: c'eraqualcosa di sacro, di estatico nelrapporto di Romina con i libri, una cosa

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che non avevo mai visto prima. Volevoprovare anch'io quello che provava lei.

Quella sera restai a cena da lei eRomina mi presentò come la «Ragazzache ha scritto il racconto suidesaparecidos», con un entusiasmo chemi stupì e che mi fece arrossire. Erapassato un anno dalla pubblicazione delmio racconto e lei non ne aveva maifatto cenno con me. I suoi genitoriesclamarono: «Un racconto davverofantastico, ci è piaciuto tanto, sei statamolto coraggiosa», e io mi sentiiinvadere da una vergogna bollentenell'accettare quelle lodi per un raccontoche a casa mi aveva creato soloproblemi e al quale avrei rinunciatovolentieri, perché sicuramente non era

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un buon racconto, giusto?, e io ero statacattiva a scriverlo, avevo messo tutti inimbarazzo perché dentro c'erano solobugie. Ma i genitori di Romina non lapensavano così: suo padre sorrideva,sua madre mi serviva altre patate, dellepatate davvero deliziose, giuste di sale,croccanti lungo i bordi. A quella tavola,mi resi conto, non era il mio racconto aessere imbarazzante ma qualcos'altro,altre parti della mia esistenza, peresempio quello che dicevano i mieigenitori. Perfino alcune delle cose cheavevano fatto. Era un pensieroinquietante, irto di spine cacofoniche. Loricacciai indietro e tacqui, per restareseduta a quella tavola e mangiare quelle

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buone patate senza spezzarel'incantesimo.

Cominciammo a passare moltotempo insieme dopo la scuola, dopo icompiti, esplorando libri, idee, poesie, igrandi interrogativi sulla vita.Saccheggiavamo la biblioteca dei suoi,tirando giù i libri, leggendo econdividendo le nostre scoperte.Erigevamo tutt'attorno a noi dellepiccole fortezze di libri. Leggevamo inmodo caotico, aprendo i libri acasaccio, leggendo una pagina ad altavoce e guardandoci per coglierel'eccitazione o il disinteresse dell'altra,senza bisogno di parole. Se scattaval'illuminazione, andavamo avanti. Se no,scartavamo il libro senza pensarci due

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volte, come bambine golose alle presecon una grande scatola di cioccolatiniche dopo un solo morso abbandonano ungusto per provarne un altro. Spesso nonavevo idea di cosa significassero quelleparole, ma non lo dicevo, e se ancheRomina non capiva, nemmeno lei lodiceva. Ci bastava assaporarne il suono.Le avvicinavamo in piena libertà, senzala tensione dell'analisi e nemmeno dellacomprensione, per un puro piacere.Quelle parole cominciarono a vorticaredentro di me, cantando di risvegli, didesideri, di mistero e di dolore,infiltrandosi nelle mie giornate eaccompagnandomi quando andavo ascuola, a letto, a tavola con mio padre emia madre, i quali secondo me non

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avrebbero mai potuto capirmi perchéloro leggevano solo quotidiani eromanzi d'intrattenimento e mai parolecome quelle che leggevo io, parole cheti sferzavano dentro.

È così che in un pomeriggio piovososcoprii Rimbaud. La prima volta cheaprii le Illuminazioni lessi: «In un solaiodove fui rinchiuso a dodici anni hoconosciuto il mondo, ho illustrato lacommedia umana». Mi tremavano lemani. Mi sentivo come tagliata in due.Ma non era una frase che potessi leggerea Romina. Voltai in fretta le pagine,tornando all'inizio.

«Acque e tristezze, salite e ridestatei Diluvi.» Questa frase mi agganciò pernon lasciarmi più, come quando senti

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una canzone alla radio e non te la toglipiù dalla testa. Camminando i miei piedirisuonavano al suo ritmo: piede sinistro,Acque, piede destro, tristezze, sinistro,salite, destro, ridestate, e così viamentre andavo ovunque stessi andando.«Dove vai, Perla?» “Sulla luna”,pensavo, “in centro, dentro di me.” Nonavevo idea del significato di quellafrase, ma mi turbava profondamente. Siprova una sensazione strana quando silegge qualcosa e sembra che le parole sirivolgano proprio a noi, a noi soli,anche se chi le ha scritte è morto primadella nostra nascita o, se non è morto,ignora del tutto la nostra esistenza.Quelle parole ci filtrano nella testa.Colano nei nostri vuoti più segreti e ne

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prendono la forma, aderendoviperfettamente, come l'acqua. E siamo unpo' meno soli nell'universo, perchéqualcuno ci ha testimoniati, ci hariempiti, perché una volta qualcuno hatrovato le parole precise per dire ciòche abbiamo dentro e che noi stessi nonavremmo saputo nominare: un qualcosache sembra alludere non solo a ciò chesiamo, ma a ciò che potremmodiventare. In questo senso i libri ti fannocrescere come i tuoi genitori nonpotranno mai fare. Ti emancipano.

Quando compii quattordici anni,Romina mi regalò una copia delleIlluminazioni con una sua dedica: «APerla, perché la tua verità arda sempreluminosa. Abrazos, R.». Dormii con il

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libro sotto il cuscino. Al mattino, primaancora di alzarmi, lo aprivo a unapagina qualsiasi e ne leggevo una riga.Le mie mani aprivano il libro, il libroapriva la giornata. La riga che avevoletto mi accompagnava, ripiegata nellamia testa come un mantra che andava aldi là del suo stesso significato.

Inutile dire che la nostra nuovaamicizia sembrò strana, addiritturaridicola alle altre compagne di scuola.Non me ne importava niente. Nessunaamica mi aveva mai infiammato comeRomina. Non mi faceva più pena comequalche anno prima, quando avevosaputo dei suoi zii, anzi, mi sembravalibera e indomita, e avrei voluto esserecome lei, anche se ciò significava che le

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altre non mi avrebbero più chiamato emi avrebbero evitata come la peste. Inun certo senso ero libera, forse più chein qualunque altra fase della mia vita...ma pur sempre con dei limiti. Tutti igiovedì Romina andava in Plaza deMayo a marciare in un grande, lentocerchio insieme a sua nonna e ad altredonne con il fazzoletto bianco in testa egrandi fotografie in bianco e nero diuomini e donne scomparsi molti anniprima, con la scritta: VOGLIAMOGIUSTIZIA, oppure RIDATECELI VIVI.Quella parte del suo mondo mi causavauna fitta di disagio. Stentavo aconciliare quell'aspetto della sua vitacon il resto di lei. Mamma infatticontinuava a ripetere che le accuse

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riguardanti i desaparecidos erano false;ma, se quelle donne che marciavano inpiazza si sbagliavano e semplicementenon riuscivano ad accettare il fatto diaver perso i propri figli per colpa delloro stesso spirito vagabondo (nonsarebbe stato bello se le cose fosseroandate proprio così, se gli zii di Rominafossero semplicemente partiti per girareil mondo, come Rimbaud? Se fosserotornati, un giorno, con i capelli lunghi eun sacco di storie esotiche daraccontare?), Romina, intellettualmentesofisticata com'era, non avrebbe dovutoaccorgersi degli abbagli della suafamiglia?

A meno che non si trattasse affatto diabbagli. A meno che non fossero loro, le

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persone che scendevano in piazza, apossedere la verità, e io quella cheaveva sempre respirato bugie. Quellostrano pensiero galleggiava dentro di mecome una granata inesplosa. Non sapevopiù a cosa credere. Mi domandavo seRomina fosse davvero sicura delle sueidee come voleva farmi credere. Michiedevo cosa le passasse per la testamentre camminava in tondo per lapiazza, cosa significasse per lei quellaprotesta, cosa pensasse dentro di sé diquel rito settimanale della sua famiglia.Se vi partecipasse perché ci credeva osolo per far contenta la sua abuela e,soprattutto, se anche lei nutrisse comeme qualche dubbio.

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Ma erano domande che non osavoformulare ad alta voce. Il tema erascabroso e bisognava evitarlo a ognicosto. A volte mi chiedeva di andare conlei alla manifestazione – «Dopopossiamo andare a casa mia» – ma iotrovavo sempre qualche scusa, cheenunciavo in un tono di voceprudentemente distaccato. Le avevoraccontato che mio padre lavorava alporto, una definizione abbastanza vagama non del tutto menzognera, dato che ilporto ha a che fare con l'acqua e anchela Marina, no? Si trattava solo di unleggero offuscamento della verità. No.Era inutile che mi prendessi in giro. Erauna bugia bella e buona. Ma c'ero statacostretta, mi dicevo, per difendere la

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nostra intimità, le nostre ore insieme, ilradioso legame che non volevo perdere.

Fino al giorno in cui la invitai a casamia. Fu un errore madornale. Eravamosedute al tavolo da pranzo, chine suicompiti, con i libri di testo sparpagliatiattorno. Mamma e papà erano fuori.

«Ci sono altri libri nello studio dituo padre?»

«Qualcuno.»«Fammeli vedere.»«Non si può.» Lo dissi un po' troppo

in fretta, e Romina posò la penna e alzògli occhi. «Perché?»

«Papà non vuole che ci andiamo.»Sembrò stupita, poi esitante. Ma tornò aisuoi compiti. “Scampato pericolo”,

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pensai, ma un'ora dopo andò in bagno edopo venti minuti non era ancora tornata.

La trovai nello studio. Fermaimmobile davanti a uno scaffale, diprofilo rispetto alla porta. Aveva lemani lungo i fianchi, con le dita allargatee rigide, come paralizzate, simili a stellemarine stupefatte. Pensai che mio padresarebbe tornato a momenti, avrebbescoperto l'invasione e mi avrebbesgridato davanti alla mia amica.Dovevamo andarcene da lì, subito.Cercai le parole per dirlo.

Ma Romina chiese: «E questa cosasarebbe?».

Con una voce tesa che nonconoscevo. Seguii il suo sguardo finoalla libreria, alla fotografia incorniciata

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d'argento di mio padre in alta uniformein fila con altri ufficiali davanti all'ESMA, la Escuela de Mecanica de laArmada, con il maestoso portone e leslanciate colonne bianche che miavevano sempre fatto pensare alle leggiimmutabili di un mondo antico. Rominala fissava con la furiosa concentrazionedi chi cerca la soluzione a unacomplessa equazione algebrica. “Parla”,pensai. “Devi assolutamente direqualcosa.” Aprii la bocca, ma era vuota.

«È uno di loro, vero?» disseRomina. «Tuo padre.» Il silenzio dilagòin tutta la stanza, con lunghi tentacoli chemi si avvilupparono alla golainsinuandosi dentro di me fino al bassoventre. Avevo la nausea. Romina si

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voltò e mi guardò, con l'espressione dichi si è perso in un mare nero e in quelleacque scure, per la prima volta e nellaforma più selvaggia, ha incontrato ilmale. Di una ragazzina che si ritrova aguardare in faccia il male assoluto.“Nella mia faccia? Proprio nella mia?”No, non era possibile, era tuttoterribilmente sbagliato, il ghiaccio si eraspaccato e noi due eravamo precipitatein un mondo completamente sbagliato.Feci un passo verso di lei per provare acambiare il finale della storia ma la suafaccia si contrasse in un gemito brutaleche non avrebbe lasciato uscire.

«Non mi toccare», disse e scoppiò apiangere senza emettere suono. Tremavaviolentemente per lo sforzo di

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singhiozzare, di non singhiozzare, inguerra con sé stessa.

«Romina», dissi.Mi passò accanto di corsa e si

precipitò in sala da pranzo, dove lasentii raccogliere libri e quaderni einfilarli nello zaino. Sapevo che avreidovuto seguirla, dire qualcosa,convincerla a restare, a cercare dicapirmi. Ma non capivo nemmeno iocosa stesse succedendo, che cosa avesseinvaso lo studio di mio padre, perchéavessi la nausea, cosa fosse lo sguardoche avevo visto negli occhi di Romina.Non riuscivo a muovermi. Fissavo lascrivania di mio padre, lunga e larga efresca di cera, il legno color ciliegialucido e liscio come uno specchio. Un

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portamatite di cuoio si rifletteva sullasua superficie e io sapevo che tutte lepenne che c'erano dentro scrivevano;mio padre era intransigente con le penneche non scrivevano. Fissai il riflessodelle penne. Le contai. Erano sette. Lecontai di nuovo. E stavo ancoracontando quando sentii un rumore dipassi di corsa e la porta d'ingresso chesi apriva e si chiudeva sbattendo forte.

Il giorno dopo, a scuola, Romina nonmi guardò nemmeno, la sua schiena eracome una sbarra di ferreo rimprovero. Ilsuo nudo orrore era stato sostituito daqualcos'altro, qualcosa di chiuso,freddo. Fingevo che non mi importasse,ma la mano mi tremava mentre copiavola lezione di latino dalla lavagna. La

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paura di perdere la mia amica miconsumava. La voce di Romina,stranamente roca, che leggeva ad altavoce da un libro nella penombra del suosalotto. Il suo viso, con gli occhi chiusiper il piacere, mentre assorbiva il suonodi un paragrafo o di una poesia. Il suoseno. Romina china sui compiti, i capellicome una sottile parete marrone attornoal viso, la matita sbriciolata fra i denti.Romina nello studio di papà, che lottavaper trattenere i singhiozzi. Non c'eranient'altro che desiderassi tanto quantoricostruire la nostra amicizia. Sembravaun compito arduo, ma in quei primigiorni almeno non del tutto impossibile.Più ci pensavo, più quella situazione miappariva come un semplice

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fraintendimento... anche se unfraintendimento di proporzioni epiche,di dimensioni storiche, una tragicadisconnessione fra due poli della realtà,non una semplice incomprensione fradue scolarette. Avevo l'impressione chela spaccatura che ci allontanava fossepiù grande di noi, più grande dellanostra individuale capacità dicomprendere – non è vero? non è cosìche stavano le cose? – perché percomprenderla fino in fondo avremmodovuto vedere le cose da tutti i lati, enessuna di noi l'aveva fatto. Per quel chene sapevo io, in Argentina non l'avevamai fatto nessuno. Nessuno si era maiaddentrato nell'uragano che si erascatenato fra uomini come papà e uomini

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come gli zii di Romina, impregnandosidi tutto quello che c'era da assorbire, delsenso completo della storia, di ognicentimetro delle sue luci e delle sueombre. Forse perché nessuno aveva maiamato una persona su ciascun lato delbaratro. Sembrava una cosa impossibile,una voragine troppo grande per un cuoreche volesse allungarsi per toccarneentrambe le sponde. Ma io cercavo difarlo ed ero distrutta dallo sforzo;almeno in quei primi giorni desideraicon tutta me stessa di poter riempirequel vuoto ingoiando tutto, di poterriparare ogni cosa. All'epoca credevoancora in queste riparazioni, con tutto ilfervore e la sorda speranzadell'adolescenza. Romina, avrei voluto

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dirle, non è come pensi, non sono quellache pensi, non so cosa siamo ma voglioscoprirlo grazie al vagabondo ardimentointellettuale che abbiamo sperimentatoinsieme. Io e te possiamo riscrivere lastoria; vieni da me, torna, ti spiegheròtutto. Cercherò di spiegarti.

Non ne ebbi l'occasione.Una settimana dopo l'incidente

trovai un biglietto infilato nel libro discienze, un frammento di carta strappatacon le inconfondibili maiuscole diRomina: SEI ANCHE TUUN'ASSASSINA?

La mano mi tremava reggendo quelpezzo di carta. Non riuscivo a respirare.Girai lo sguardo sul resto della classe: imiei compagni stavano rimettendo i libri

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negli zaini, rumorosamente, prendendoaccordi per il pranzo, ma di Rominanessuna traccia. Nessuno mi aveva vistaleggere il biglietto. Me lo cacciai intasca e corsi in bagno, mi chiusi in ungabinetto e restai lì, immobile, con gliocchi chiusi e il viso premuto sullaporta. Il gabinetto puzzava di urina, difumo di sigaretta e del profumo da pocoprezzo che qualcuno ci aveva spruzzatoper coprire l'odore del fumo. Il bigliettosembrava bruciare attraverso la stoffadella mia tasca, ustionandomi:sicuramente quella sera, togliendomi ipantaloni, avrei trovato una piccola zonadi pelle arrossata e raggrinzita. Chiusigli occhi e vidi mio padre, la suaespressione innamorata quando si

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sedeva sul mio letto, di notte, e miaccarezzava i capelli canticchiando unaninnananna stonata. Lo sentii rideredavanti alla televisione, con quei suonirotondi e generosi dall'altezzadecrescente, ha-ha-ha, che sembravanofare le capriole giù per una ripida scala.Sentii il lungo soffiare del suo respiroquando d'estate gonfiava per me lapiscinetta di plastica, pffhhh, pffhhh, ilsuono della sua dedizione alla mia gioia.Lo vidi fare colazione, pronto perandare al lavoro nella sua orgogliosa,immacolata uniforme, con i bottonidorati che scintillavano sui polsini. No,lui non era... No. Non poteva essere. Eroarrabbiata. Piena di vergogna. Avreivoluto spaccare tutto, solo che non c'era

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niente da spaccare, solamente la vernicescrostata della porta del gabinetto.

E la porta del gabinetto restavachiusa davanti a me, indifferente, rigida,rovinata.

Non mi mossi, il tempo si allungò,gemette e mi schiacciò, finché sentiisuonare la campanella che annunciava lafine della pausa pranzo. Avevodimenticato di mangiare, ero in ritardoper la lezione, non avevo fame. Presi ilfoglietto dalla tasca dei pantaloni, lospiegai e lo lessi di nuovo. Non eracambiato. Lo lessi, lo rilessi e lo rilessiancora, poi lo feci in mille pezzettini, ligettai nella tazza e feci scorrere l'acqua,una cosa del tutto inutile che nei mesiseguenti non mi avrebbe impedito di

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rileggere continuamente quelle parole,anche al buio, di notte, fiammeggiantisopra il mio letto.

Dopo quell'episodio i criminicommessi da mio padre – ma anche icrimini commessi dal paese, che nonavevo mai voluto mettere in parole – siinsediarono dentro di me, mi pesaronosulla schiena, mi circondarono le spalle,mi si appiccicarono e non vollero piùandar via. Non erano un abbaglio. Nonpotevo più credere che fossero unabbaglio. Quelle cose erano accadutedavvero nel mio paese, erano vere, e lafamiglia di Romina vi aveva avuto unaparte mentre la mia famiglia ne avevaavuto un'altra, una parte da cui non erafacile ripulirsi e che restava saldata al

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lato interno della mia pelle come unospesso strato di piombo che al mattinomi rendeva difficile alzarmi dal letto.Non riuscivo a vedere con chiarezzacosa poteva aver fatto mio padre – leimmagini mi arrivavano a scheggeframmentarie: i suoi polsini scintillantisul legno di una scrivania, il suo visoche guardava attraverso delle sbarre –ma non volevo vedere altro. Ormaiavevo accettato che i desaparecidosfossero davvero scomparsi, e tantobastava per formulare una condanna. Iostessa ero colpevole per successioneereditaria. Niente processo, nessunapossibilità di scelta, solo il “tutto questoora ti appartiene” del senso di colpa,che cresceva a ogni pezzo di pane

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mangiato al tavolo da pranzo, a ognisorriso assente di papà quando alzavagli occhi dal giornale del mattino, a ognibacetto volante che accettavo da mammaal momento di uscire per andare ascuola, a ogni notte in cui mi rintanavotra fresche lenzuola di lino lavate estirate da una donna pagata con i pesosche mio padre aveva guadagnato come liaveva guadagnati. A ogni passo, a ognigesto, a ogni abitudinaria azionequotidiana, la macchia si allargava sottola mia pelle. Ormai non potevo piùsfuggirle. Non avrei potuto liberarmenepiù di quanto potessi liberarmi della miastessa faccia.

Ai miei genitori non dissi mai niente,né loro sembrarono accorgersi del fatto

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che ero cambiata e che il segreto alcentro della nostra famiglia era statosvelato. Perché allora, ovviamente, erosicura che lo fosse stato per davvero.

Le mie amiche di prima miaccolsero di nuovo nel loro gruppo,seppur gradualmente e non senzaqualche broncio, al quale reagii conun'amabile alzata di spalle. Non diedispiegazioni e loro non chiesero niente.Erano ragazze alla moda, che non siinteressavano di poeti francesi né dimarce del giovedì né di esperienze chepossono condurre su strade pericolose.Si occupavano solo di ombretti e dipettinature copiate dalle riviste, di comeperdere chili in più che non avevano edi film hollywoodiani in cui le cose si

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mettevano sempre malissimo ma poifiniva tutto bene per tutti, tranne che peril cattivo, naturalmente. Seppelliiprofondamente le parti di me chesembravano radioattive. Le amiche mifacilitarono la finzione e finsi in modocosì convincente che nelle giornatebuone ingannavo perfino me stessa,diventando una ragazza che non eraossessionata dall'eco di una domandascritta su un pezzo di carta. Esserequella ragazza era molto più facile. Cosìdivenni lei.

Da quel momento in poi ci furonodue Perla: una tutta superficiale, cheprendeva bei voti, aveva tante amichesimpatiche, sorrideva un sacco epensava che tutto andasse a meraviglia,

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e una segreta, sotto la superficie, dovepeccati, vergogna e domande giacevanosepolti vivi come mine antiuomo.

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4 - IL CORO DELLE PROFONDITÀ

Il mattino si schiude fiammeggiando,

lentamente, satura l'aria, trapanandogli ilcervello. Sono insieme, in silenzio. Laguarda fumare, dare una scorsa a unarivista, ai canali televisivi. Non ride conle risate registrate dello schermo.L'ascolta muoversi in cucina, fartintinnare i piatti, senza cucinare niente.La tartaruga cammina verso di lui sullezampe corte e scagliose. Allunga il collofuori dal guscio. Apre la bocca di scatto,poi la richiude con un piccolo clac.

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C'erano bocche nell'acqua, molte bocchedi forma e di durezza diversa, quellepiene di denti delle anguille, quelleviscide delle trote, quelle a tutto corpodelle meduse. L'acqua ha tantissimebocche. Avevano mangiato il suo corpomentre il resto di lui scivolava via,pervaso, poroso, imperturbato. Adessoperò non ha più acqua in cui scivolarevia e non vuole più essere mangiato, névuole andarsene. Scopre i denti allatartaruga. La tartaruga apre la bocca elascia penzolare la piccola lingua.Nessuno dei due sbatte le palpebre. Latartaruga richiude la bocca per prima.

Si mette a sedere. La sua colonnavertebrale scricchiola. Ha dellesensazioni, potenza del tatto, sente il

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proprio corpo sotto le dita. La sua carneè reale, per quanto fradicia. Sente ildolore. Sente il dolore della luce solarenella testa.

C'è un mondo fuori da quella casa.Sente il gemito di un motored'automobile, là fuori, una cadenza divoci. Dev'essere vicino alla città, la suacittà, ma non proprio in centro: c'ètroppo silenzio, le strade non rombano enon ronzano come nel posto in cuiviveva prima. In quell'altra casa lapresenza della città si sentiva sotto ognirumore come l'acuto brusio di un'ape involo. Non era mai solo, in città, perchélaggiù anche la solitudine era tinta divoci sconosciute, del suono smorzato diuna radio, del profumo della bistecca

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alla griglia di qualcun altro, del fugacecontatto di una spalla qualsiasi mentrecamminava per strada. Tutte quelle cosegli tornano in mente in un caos disensazioni. La città: l'accompagnavasempre e dovunque, come il credenteafferma di sentirsi sempre accompagnatoda Dio. Quando andava fuori città –pampas ondulate, spiagge ventose,l'immenso gelo della Patagonia –apprezzava la bellezza dei posti ma sisentiva sollevato non appena, tornato acasa, l'avvolgeva di nuovo la grande teladi un posto vivo, impregnato del respiroe del rumore di milioni di persone.Ripensando a tutte quelle cose prova unafitta di nostalgia per la sua città, perBuenos Aires. Per un attimo pensa di

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tendere la mente come quando era nelmare per andarle vicino e percepirlo,quell'eterno pulsare e strisciare, legionidi piedi. Ma no, non lo farà. Il posto incui si trova non è il mare, tendersi qui èdifficile e doloroso. E comunque non cen'è bisogno: perché quella stanza è unmondo dentro il mondo. Spostal'attenzione sugli oggetti che locircondano, cercando l'anima interioredel luogo. Sullo scaffale i libri se nestanno chiusi, con tutti i loro segretischiacciati dentro. Non vengono apertispesso, né lo vorrebbero. Sembranodire, rivolgendosi alle parole che hannodentro, siete nostre prigioniere, non vilasceremo mai uscire, non poteteribellarvi. I dorsi sono lindi e ordinati, e

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non recano traccia di quelle battaglie.Davanti ai libri c'è un cigno diporcellana, la testa china in segno disconfitta o forse per aver retto troppo alungo un peso gravoso. Palpita dipensieri non detti. Un ripiano più surispetto al cigno ci sono due fotografie:in una si vedono uno sposo e una sposa,nell'altra una bambina. È la prima voltache le nota. La bambina è pettinata con icodini e siede su un divano, il divano diquella stanza. Il suo sorriso sembratroppo grande per quel faccino, il viso èperfetto, raggiante e come traboccante diciò che i lineamenti non riescono acontenere. Lo sposo e la sposa sonogiovani, belli e sorridono a boccachiusa, il mento della donna è sollevato

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a comunicare orgoglio o sfida, gli occhidell'uomo fissano l'obiettivo dellamacchina fotografica quasi cercando lasoluzione a un enigma irrisolto. Lamacchina fotografica non è più lì, ma gliocchi dell'uomo continuano a cercare,frugando il salotto alla ricerca di indizisu ciò che stava inseguendo. Sull'altraparete, sopra l'inquietante divano, c'è ilquadro raffigurante il mare, un maresferzato di dense pennellate blu che nonsono acqua ma che lui riconosce comemare, e sopra ci galleggia qualcosadello stesso colore dell'acqua, una naveimmersa nell'acqua, fatta d'acqua, unanave che sembra uscire dalle umidebraccia del mare stesso, e lui puònuotare-riversarsi-straripare in quelle

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pennellate e cavalcare le gonfie curved'azzurro sognando le onde della suapatria perduta.

La ragazza torna dalla cucina con unpiatto di empanadas. Mentre cammina,guarda la tartaruga muoversi indirezione contraria alla sua conun'espressione che riconosce cometenerezza. Quella ragazza vuol bene allasua tartaruga, pensa, e i suoi pensierisono trafitti dalle parole «vuol bene».La ragazza si siede al tavolo e mangiasenza alzare gli occhi. Ha i capelli legaticon un elastico. Anche Gloria si legava icapelli con un elastico per affrontare leattività più serie: pulire la cucina,preparare un esame, avere la meglio inun litigio. Quando litigavano vinceva

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sempre lei. Era brava a rigirare le sueparole e a restituirgliele dure, levigate,la prova definitiva del suo trionfo.Sarebbe diventata il migliore avvocatodel paese, le diceva sempre, alzando lemani in segno di resa. Credevamoltissimo in lei. Grazie alla sua abilitànegli scontri verbali non avrebberodovuto vivere per sempre in unappartamentino così piccolo, condell'acqua grigiastra che gocciolava dalsoffitto. Sarebbero accadute tante cosebelle. Ne erano sicuri. Lo dicevanoentrambi. Erano felici. L'acquagrigiastra non aveva alcuna importanza,in fondo. Ma loro due non lo sapevano;non sapevano, allora, quanto pococontassero le perdite d'acqua, fino a che

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punto fossero felici. Come fosse belloavere ancora tutte le dita dei piedi. Poterbere troppo vino rosso. Godere dellegioie animali, nudi, viscidi di sudore.Dare per scontati i pomelli delle porte,le docce, i discorsi, e lamentarsiamaramente di doversi alzare presto lamattina, quasi fosse chissà quale enormesacrificio. Che bambini siamo, pensa,quando siamo felici.

La ragazza seduta al tavolo lo guardadi sfuggita, ma quando i loro occhis'incontrano abbassa i suoi sul piattovuoto. Il suo corpo è giovane e bello,così integro, non tagliato, non gonfio,non bruciato. Può permettersi il lusso diaffondare in una vaga tristezza. Non èmai stata stuprata con una barra

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metallica collegata alla correnteelettrica. Non le hanno mai strappato lapelle dalla pianta dei piedi. Non è maistata appesa a un gancio al soffitto,spalmata di merda. Nessuno le ha maimostrato un paio di mutandine lacere,piene di sangue, tra le mani di un uomodalla voce intensamente familiare madal volto sconosciuto. Non ha mairicevuto nemmeno la più piccola feritada arma da fuoco. E tutto ciò è un bene:si sente nutrito dalla sua interezza.Un'interezza di cui lei, ne è consapevole,non si accorge nemmeno.

Esiste senz'altro un legame fra lui ela ragazza. Ma quale? Una corda di luce,una verità che lampeggia un attimo

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prima di affondare di nuovo nel pantanodella sua mente.

Suonò il telefono. Non volevoparlare davanti all'uomo sgocciolante,quindi corsi nello studio di papà.

«Pronto?»«Perlita.»«Ciao, papà.»«Il telefono ha squillato a lungo,

pensavo non fossi in casa.»«Sono in casa.»«Sì. Bene, ho chiamato solo per

assicurarmi che fosse tutto a posto.» Lastanza era in penombra, con le tendetirate, ed entrando non avevo acceso laluce. Mi appoggiai al bordo dellascrivania. «È tutto a posto.»

«E tu stai bene?»

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«Sì.»«E la casa?»«Cosa potrebbe esserci che non va,

nella casa?»«Perla, era solo una domanda.»«Ma cosa potrebbe succedere? Non

capisco il motivo di questa domanda.»«Perché è casa mia.»«Solo tua?»«Si può sapere cosa ti prende?» Me

lo stavo domandando anch'io. Nonavevo avuto intenzione di litigare, né diesporlo al mio caos personale. «E Puntadel Este, com'è?»

«Bellissima. Ci divertiamo molto.»Poi sospirò, il pesante sospiro di unuomo tormentato dai capricci di unabambina. «Ascolta, Perla, volevo solo

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dirti di essere prudente. Ti passo tuamadre.» Attesi. Mormorii distanti, poimamma prese l'apparecchio.

«Perla?»«Ciao, mamma.»«Cosa sta succedendo, laggiù? Va

tutto bene?»«Sì, tutto bene. È papà che è

paranoico.»«Si preoccupa per te, tutto qui.» Lo

disse in tono rasserenante, quasi facendole fusa, e io vidi papà, all'altro capodella stanza, versare qualcosa da bereper tutti e due. «Dunque non hai bisognodi niente?»

«No.»«Bene. Ci manchi tanto. Avrei voluto

che venissi anche tu.» Ma, mamma,

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allora chi sarebbe rimasto a casa perinnaffiare il fantasma? «Non potevoperdere l'inizio delle lezioni.»

«Giusto. Bene, sarà per la prossimavolta.»

«Forse.»«Chiama se hai bisogno di qualcosa,

okay?»«Va bene.»«Prenditi cura di te, Perlita.»

Riagganciai. Il sole indugiava allafinestra, quasi non volesse riempire lastanza. Pensai ai miei genitori a Puntadel Este, che si godevano il sole e labuona cucina e dimenticavano i loroproblemi. Mia madre lo diceva sempre:«Punta del Este è il posto dove andiamoper dimenticare i nostri problemi». Un

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tempo, da piccola, molto prima diRomina, non riuscivo a immaginare acosa alludesse, quali problemi potesseroavere mamma e papà. Sapevo solo chequando salivamo sul traghetto perl'Uruguay, come per miracolo, tutti iproblemi restavano attaccati alla spondaargentina, incapaci di attraversare lospecchio d'acqua, in attesa del nostroritorno. Da qualsiasi cosa stessimofuggendo ero contenta di farlo, contentache la nostra famiglia potesse rifugiarsiin un appartamento a un piano elevato eaffacciato sull'oceano Atlantico.

Per me la cosa più bella di Punta delEste non erano le boutique, gli yachtsfavillanti ancorati al porto, le ondebrulicanti di persone o gli affollati

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ristoranti in cui mamma sfoggiava ognisera i suoi più eleganti abiti estivi. Erail momento in cui il tramonto lasciavasulla spiaggia le sue impronte piùleggere, sussurrando a proposito delbuio imminente: Lo so, tu non ci credi,forse non vuoi crederci, ma presto saràqui. A quell'ora, di solito, mio padreproponeva una passeggiatina sullaspiaggia. Io dicevo sempre di sì, ognitanto veniva anche mamma, ma il piùdelle volte ci diceva: «No, andate purevoi due». A me piaceva di più quandoandavamo noi due. Camminavamo sullastriscia di sabbia bagnata vicinoall'acqua, senza parlare, e ogni tanto mifermavo a raccogliere una conchiglia epoi lo raggiungevo di corsa. Tutto

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attorno a noi le famiglie giocavano aspruzzarsi oppure cominciavano aripiegare i teli di spugna e a chiudere gliombrelloni. Non in tutti i gruppi c'eranodei bambini, ma quando c'erano eranosempre più di uno. Li guardavo correreincontro alle onde tenendosi per mano oazzuffarsi per una spada di plastica. Nondovevano costruire i loro castelli disabbia da soli, come me. Noi eravamouna famiglia piccola, solo noi tre, senzafratelli né sorelle, senza zii o zie cheabitassero nelle vicinanze, ma a queltempo non mi sarebbe mai venuto inmente di considerarci una famigliaincompleta. Noi eravamo così e basta.Una costellazione formata da tre stelle, eio ero la più piccola, come la lucina in

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fondo alla spada di Orione. Che formaavessimo lassù in cielo, non lo sapevo.

Durante le passeggiate con papàpensavo spesso a cosa sarebbe successose avessimo continuato a camminareoltre la piccola penisola di Punta delEste, lungo il bordo dell'Uruguay, finoalla fine del paese. Punta del Este eraperfetta come punto di partenza, perchésorgeva proprio sul confine ufficiale trail Rio de la Plata e l'oceano Atlantico,quasi fosse una sentinella incaricata disorvegliare il rimescolamento dellemasse d'acqua. Camminando con l'acquaa sinistra avremmo seguito la riva delgrande fiume e a un certo punto saremmorientrati in Argentina. Con l'acqua adestra, invece, non ci sarebbe stato il

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fiume bensì l'oceano, e alla finesaremmo arrivati in Brasile. Io chiedevosempre a papà di passeggiare conl'acqua a destra. Certo, per raggiungereun altro paese avremmo dovutocamminare moltissimo. Ci sarebberovoluti giorni, mesi forse, il che era quasicome dire per sempre. Mi piaceva l'ideadi prolungare la passeggiata per sempre,o almeno fino a quando il ritmo deinostri passi non avesse fatto caderedalle spalle di papà anche l'ultimatristezza. «Tu sei la mia luce», mi dicevaa volte quando lo raggiungevo di corsacon una conchiglia particolarmentebella. Dovevo calcolare bene i tempi,affinché il mio intervento non fosse perlui un fastidio ma una piacevole

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interruzione del suo stato d'animo.Quando ci riuscivo, lui tratteneva la miamano nella sua e ammirava laconchiglia, indugiando per commentarneil disegno, il colore, le dimensioni.«Guarda questa voluta, proprio lungo ilbordo, è bellissima. E che bel rosa, cosìprofondo, sembra quello dei lamponi. Odel vino. Tu sei la mia luce, lo sai,vero?» Come se, senza di me, fossecondannato a procedere inciampando nelbuio. Allora la mia piccola stellabrillava più luminosa. Le mie dita deipiedi giocherellavano nella sabbia.Presto il sole sarebbe tramontato, manon importava; io ero la luce per miopadre, e anche per il mondo.

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Peccato che in quel momento, nelsuo studio, lo sentissi così lontano. Lastessa parola «papà» era nuda e apertanella mia mente come una ferita.

Frugando nella mente alla ricercadell'immagine sfarfallante che haperduto, gli capita di pensare a Dio e acome ha perduto Lui. Quando lo fecerosparire ce l'aveva, un Dio, e quando ilbuio gli inghiottì la mente lui barcollò,si spezzò e spiccò il volo per cercarLo,per pregarLo, Dio come rifugio ultimo.Salvaci da questo inferno, perdona imiei peccati, perdonami per il delitto dinon aver saputo proteggere Gloria,manda i tuoi angeli, ti prego, un esercitoalato per salvare lei e il bambino cheporta in grembo. Gloria è viva, deve

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esserlo, in fondo lo straccetto rosso disangue poteva essere un trucco, unostraccio qualsiasi con cui hannoasciugato un pavimento. Perché Tu l'haiprotetta, vero? Dacci oggi il nostro panequotidiano e liberala dal male. Perché,nel nome del Padre, del Figlio e delloSpirito Santo, giuro che se solo potessivolare fino a lei darei la vita per sanarele ferite del suo corpo, mi offrirei a leicome ago da sutura, aggiusterei il nidoin cui dormiva il nostro bambino, no, incui dorme, perché lui dev'essere ancoralà. Ma non so volare, quindi Ti supplico,vacci Tu per me. E benedetto sia il Tuonome. Erano anni che non pregava cosìtanto. Non era stato un buon cattolico,gli piacevano troppo le partite di calcio

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e i lenti giochi sessuali della domenica,ma sicuramente Dio si ricordava di lui,del bambino che era stato, delchierichetto con la veste traforata di unbianco immacolato che fissava condevozione le candele, la croceinsanguinata, il corpo lievitato di Cristoche il prete spezzava fra le dita. Comeaveva amato l'aria fresca sotto le altevolte della chiesa, i soffitti che nonsarebbe mai cresciuto abbastanza dapoter toccare, nemmeno saltando,nemmeno salendo sulle spalle di dieciuomini, quell'aria fredda di pietra chegli tendeva la pelle e gli faceva ilsolletico con un refolo di quello chesicuramente era il respiro di Dio. Eanche se, da grande, non si era più preso

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la briga di pregare, non per questoaveva smesso di percepirel'inconfondibile presenza di Dio, neicolori dell'alba dopo una lunga nottepassata a bere nei bar, nel dondoliodelle spighe di grano al vento, nellospazio che si spalancava dentro di luiquando apriva un buon libro, nellecarezze e nei gemiti di Gloria, nelricordo delle preghiere sulle labbra disua madre, ora languide, ora veloci,sussurrate sui banchi di una chiesa omormorate all'infinito, in casa, conl'urgenza di uno sciame di api, Paternoster qui es in caelis, a volte in latino,a volte in spagnolo, a volte nell'italianoche aveva imparato stando dietro a suamadre, parole che in qualunque lingua le

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pronunciasse erano infuse di poterimagici, anche se nessuno avrebbe saputodire se quei poteri venivano da Dio odalla robusta frusta della lingua di suamadre. Perché qualsiasi cosa si mettessein testa sua madre, o veniva approvatasubito o dava origine a una guerrainfinita per la quale lei sfoderava tutte lesue armi: parole, forza di volontà emanciate di grani di rosario. Non volevaassolutamente pensare a cosa avrebbefatto sua madre ora che lui era sparitodal mondo normale, a cosa le avrebbefatto la sua assenza; non sopportavaproprio di pensare a sua madre e cosìpensava a Dio, resuscitando vecchiepreghiere, Pater noster qui es in caelis,Padre nostro che sei nei cieli salvala, la

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mia Gloria, tirala fuori da questo posto,andrò a messa tutte le domeniche per ilresto della mia vita, lo giuro, ma dammiun segno. E il segno arrivò. Lui eradisteso sulla macchina. Esplosioni inbocca e sui genitali. Poi, all'improvviso,si fermarono, gli tolsero il cappuccio elui vide la faccia compunta di un prete.

Confessa, figliolo.Padre.Devi collaborare.Padre, la supplico, gli dica di

smetterla o mi uccideranno.Ma, figliolo, come possono

smetterla se tu non li aiuti?Non ho nient'altro da dire. Non so

niente.Confessa, figliolo. Confessa.

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La supplico, ho moglie, non lasciche la uccidano.

La morte è nelle mani di Dio.Allora dica a Dio di non farla

morire.Il prete sorrise tristemente. Dio sa

che tutto ciò è per il bene del paese.Gli rimisero il cappuccio, la

macchina ripartì e il Signore sia con tetutto si incendiò di luce e tu, uomo dipoca fede la pelle gli si spaccò con taglipieni di dolore e sia fatta la Tua volontàlui gridò e gridò ma senza più invocareDio, perché Dio non l'avrebbe ascoltato,l'aveva abbandonato, stava dalla partedi quelli che l'avevano portato via eormai la loro volontà era la Sua volontà:oppure, e sarebbe stato anche peggio,

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quelli che l'avevano fatto sparireavevano rubato anche Dio dall'alto deicieli e ora lo stavano lentamentespaccando in due su una delle loromacchine, e se le cose stavano così Dioera perso per sempre, perché Lui stessoera diventato un desaparecido.

La ragazza fuma una sigaretta. Si stafacendo buio. Sente un cane abbaiare,poi silenzio, poi il rumore diun'automobile. Riporta l'attenzionedentro la stanza; non è più legato allamacchina; è profondamente sollevatoall'idea di essere lì e non là. Più tornanoi ricordi più la sua mente è spaccata,ferita, e più si rivolge a quella casaperché lo abbracci, anche se nemmenoquello è un posto sicuro: lo sa, lo

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avverte, quella casa ha i suoi fantasmi.Ma lì ha una possibilità, una possibilitàdi... di cosa? Di fare ciò per cui èvenuto, uno scopo che ancora nonconosce ma di cui avverte la presenza,fluttua nell'aria, vago e al momentoancora non percepito. Ma c'è uno scopo.Deve stare lì, in quella casa, con latartaruga, le finestre e la ragazza. Èquanto è riuscito a mettere insieme diciò che sa, i pezzi che sono andati alloro posto. Siede accovacciato sulpavimento, un po' chino in avanti, comeun cane. Il tappeto è fradicio come unaspugna per il suo sgocciolare. Chinarcisisopra è come chinarsi sul fangosubacqueo, o tra i coralli. C'è unavoluttuosità pericolosa nel corallo, una

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qualità cullante che ti ninna e ti avvolge.Il divano lo guarda in cagnesco perchéha inzuppato il tappeto, guarda cos'haifatto, non sei il benvenuto, intruso!Inzuppatore di tappeti! I cuscini sisporgono verso di lui come bestie pronteal balzo, ne ha un po' paura, il divano ègrande e potrebbe schiacciarlofacilmente, ma non si è più mosso daquando la ragazza è entrata e ci si èseduta sopra, bloccandolo sulpavimento, rinforzandolo nella suafunzione di divano, dominandolo senzabisogno di parole. Lei ha fatto la docciae ora i suoi capelli sono diversi,brillano, pesanti d'acqua. Risplendonoalla luce della lampada, e la luce dellalampada gli riempie completamente la

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coscienza (senza lacerarlo come fa laluce del sole, non è altrettanto veloce,sono lame di luce più smussate chepenetrano lentamente), la sua coscienzaè chiara e aperta, tutto è qui, ora, mentreguarda la ragazza fumare. Non riesce asmettere di guardarla. Sente la presenzapesante della sua mente.

A cosa pensi? le chiede.A niente.Che tipo di niente?Il solito.Voglio saperne di più.Si stupisce lui stesso della forza che

ha nella voce. È la prima volta che senteun desiderio risuonare nella propriavoce.

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Sei diventato un chiacchierone, cosìall'improvviso.

Mi sto svegliando, dice lui, e mentrelo dice il risveglio si dipanaulteriormente: c'è più spazio dentro dilui.

Vedo.A poco a poco.La tartaruga entra lentamente in

salotto. Si avvicina alla ragazza.Appoggia il guscio alla sua caviglianuda.

E com'è? Essere sveglio, intendo.Mi fa venire il mal di testa.Ricordi?No, i ricordi non fanno male. Li

vedo e basta. È il sole a farmi male.Non capisco.

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La tartaruga sbadiglia con la boccaaperta, poi la richiude di scatto. Senzasbattere le palpebre. Vorrebbe prenderlain mano e scrollarla, non sa nemmeno luiperché.

Non importa, dice.Almeno adesso puoi parlare.Sì.Sei stato via per molto tempo?Sì. Credo di sì. Più o meno.Sei stato rapito?Sì.E sei morto?Sì.La ragazza accende un'altra sigaretta

e tamburella con l'accendino sulbracciolo del divano, come se siannoiasse, come se stesse solo

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ammazzando il tempo con delledomande insignificanti. Ricordi cosa ti èsuccesso in mezzo?

Quasi.E non ti fa male ricordarlo?Non tanto come la luce del sole. O

come la sete.Vuoi dell'altra acqua?Sì, grazie.Va in cucina e torna con una grande

caraffa azzurra.Grazie, dice lui.Fa' con comodo.Fa con comodo. Acqua duttile fra i

denti, corrusca, brillante nella sua gola.Acqua solida e resistente, liquida carnedel mondo. Lui mangia e mangia e lei loguarda senza dire niente, in un vago

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alone di fumo, poi, quando lui ha finito esi asciuga gli ultimi rivoletti dal mento,gli domanda: E cos'altro ricordi?

Perché?Voglio saperlo.Perché?Voglio capire.Capire cosa?Perché sei qui.La luce, piccoli ritagli di luce

intrappolati nei suoi capelli. Entra confoga dalla finestra e si posa su tutto,pareti, libreria, cornici, ma c'è qualcosanel modo in cui la luce si mescola aisuoi capelli che gli fa male. Dice: Eperché non dovrei essere qui?

Sei morto...Lui annuisce, attende.

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...e prima non ci conoscevamo. Nonc'era qualcuno a cui volessi bene?

Ma certo.Scusa. Non è quello che intendevo.Volevo bene a molte persone. A mia

moglie.Scusa.Hanno preso anche lei.La sigaretta è finita, ma lei la regge

ancora fra le dita. Tacciono. La tartarugaha chiuso gli occhi. La ragazza guardafuori dalla finestra, verso il cielo di unazzurro profondo. Voci allegre si levanodalla strada. Poi si alza e va in cucina, elui, nell'attesa, guarda ancora il quadro.Vaga sulle onde dipinte, ne assaggial'esuberante salinità e trova conforto inquelle curve che dissolvono ogni

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barriera fra mare e nave, fra rotta eviaggiatore, fra oggetto e mondo. Comese le pennellate potessero unificare larealtà. La ragazza torna con un bicchieree una bottiglia di liquore brunodorato.Non si è ancora seduta che ne ha giàbevuto un bicchiere. Non lo guarda,sono lontanissimi, si è ritratta da lui inun suo guscio invisibile e lui sente dinon poterla sopportare, quella distanza,la linea dura della sua mandibola;vorrebbe avvicinarsi a lei, stringersicontro la sua caviglia nuda, se nonpensasse che lei si ritrarrebbe,inorridita.

Le chiede: Sei felice?Come?Nella tua vita.

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Non lo so. Finisce il secondobicchiere e se ne versa un altro. Si parlamolto di voi, sai.

Di me?Di tutti voi. I desaparecidos.E cosa si dice?Dipende. Soprattutto che a quel

tempo le cose andavano molto male.Tu non eri ancora nata?Sono nata proprio allora.Ah.Non è la sua caviglia nuda a cui

vorrebbe stringersi: è il suo Chi, la suasonorità interiore, la segreta consistenzaaurale del suo essere. Vorrebbeascoltare il coro delle sue profondità,dove il passato e tutti i futuri ancora nonvissuti si incontrano per cantare.

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Parlami di com'eri a quattordicianni.

Lei sobbalza per lo shock. Perchéproprio a quell'età?

E perché non a quell'età?Lei lo fissa in silenzio. Non sa

perché gli sia venuto in mente proprioquel numero, quattordici. Avrebbepotuto cominciare da qualche altra parte,da qualunque parte. Alla fine lei dice:Ero molto studiosa. Bravissima inlatino. Volevo diventare una poetessa.

E poi?Avevo i capelli lunghi.Con la coda di cavallo?A volte. Fa dondolare il bicchiere.Scommetto che piacevi ai ragazzi.Non a quelli che piacevano a me.

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Che altro?Non so. Ero triste.Perché?I miei genitori erano persone tristi.Per questo?No. Ero io. Non so perché. Avevo

paura.Di cosa?Di tutto.Piangevi spesso?Mai.Scrivevi poesie?Solo raramente.E amici, ne avevi?Sì. No. Ho perso un'amica

quell'anno, l'anno in cui ho compiutoquattordici anni. Poi me ne sono fattadelle altre.

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Com'è che l'hai persa?Abbiamo litigato.Per cosa?Perché mai dovrei dirtelo?Lei comincia a opporre resistenza,

c'è come uno scudo tutto attorno a lei, losente, ma la sua fame di sapere non glipermette di fermarsi. Si china in avanti,puntando i gomiti sul tappeto bagnato. Epoi cos'è successo?

Ho compiuto quindici anni. E poisedici.

Ed eri ancora triste?Sì.E poi?Sono andata all'università.Com'era?Perché vuoi saperlo?

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Perché sì. Voglio saperlo e basta.Non vedo perché.Voglio sapere tutto di te. Ogni

singolo istante dal momento in cui seinata.

Lei lo guarda dritto negli occhi,adesso, e la stanza si riempie di luce, c'ètroppa luce, qualcosa nello sguardodella ragazza sembra tagliarlo in due, ilsenso di benessere è sparito e laripugnanza è tornata, e c'è anchequalcos'altro, un elemento nuovo che loriempie di confusione.

Ci metteremmo un'eternità.Ho tutto il tempo, dice lui.La ragazza scatta in piedi, così in

fretta che la bottiglia si rovescia. Illiquore si versa sul tavolo. Lei lo fissa,

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poi si allontana in direzione delle scalee sale, sparendo dalla vista. Lui sente isuoi passi percorrere un corridoio soprala sua testa.

Io invece non ne ho, di tempo! grida,e un attimo prima di sbattere forte laporta aggiunge: Non sono morta, io!

Mi chiusi in camera. Per un attimopensai che lo sconosciuto si sarebbetrascinato su per le scale per bussarealla mia porta con le sue nocche fradice,ma non arrivò. Presi una rivista e cercaidi distrarmi con le sue pagine, diinteressarmi o almeno fingere diinteressarmi agli articoli di moda e allefoto di personaggi famosi dalle dentatureostentate, cercando di convincermi cheera una sera del tutto normale e che

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anche il silenzio proveniente dal salottoera del tutto normale, perché nondovrebbe esserci silenzio se i miei sonovia e io sono sola in casa? Ma nonpotevo prendermi in giro, non ero affattosola, lui era là, al piano di sotto, insalotto. Quella mancanza di suoni mi erainsopportabile. Un silenzio formicolanteper le punture dell'incursione. “Nonsono pazza”, mi dissi, sforzandomi dicrederci. A volte, da piccola, sepiangevo davvero troppo mio padre midiceva: «Adesso basta, non fare lapazza», e io mi zittivo subito, miasciugavo le lacrime e cercavo didimenticare la bambola perduta o ilginocchio sbucciato o la punizionericevuta. Perché avevo paura di

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impazzire, di cadere fuori dai confinidella famiglia. Una paura paralizzante.Alle bambine che cadono fuori daiconfini della famiglia non resta niente acui appoggiarsi in questo mondo. Oalmeno così sembrava, e nemmeno lapiù piccola fibra del mio essere avrebbeosato verificare la teoria. Lo stessovaleva per quella sera. Quell'uomo,quella cosa, la sua presenza al piano disotto rappresentavano una minaccia perla mia salute mentale, per la mia casa eper i dogmi con cui ero cresciuta, e imiei pensieri si stavano arricciolando susé stessi e si torcevano assumendoforme pericolose: dovevo assolutamenteliberarmene. Avrei voluto chequell'uomo svanisse nel nulla. Se solo

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avessi potuto indurlo ad andarsene disua spontanea volontà: ma come?“Prendi le tue cose e vattene” sembravauna formulazione piuttosto sciocca, datoche l'uomo non possedeva nulla. Potevodirgli semplicemente “Vattene”, e poistare a guardarlo mentre cercava una viad'uscita... Lo immaginavo scrutare ogniangolo della stanza, senza sapere dovefossero le porte e forse nemmeno comeusarle; lo vedevo sforzarsi di sollevarequel suo corpo bagnato senza riuscirci; etrascinarsi fuori, sul vialetto, con passisciaguattanti, mentre i vicini loscrutavano da dietro le tende. Ma forsenon avrebbe accettato di andarsene.Forse avrebbe cercato di restare nelsalotto a tutti i costi, rifiutando di

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spostarsi con uno di quei suoi sguardispettrali, e allora sarei stata costretta adafferrarlo per un braccio e a trascinarlofuori, sul pavimento e poi lungo ilvialetto, ancora più vicini dietro ancorapiù tende, che si sarebbero aperte senzapudore per vedermi trascinare lungo ilmarciapiede un uomo fradicio e nudo.Dopo di che sarebbe rimasto là, instrada, bagnato, abbandonato, nudo,incapace di orientarsi in quei quartieriperiferici, la stazione ferroviaria, i bar,le automobili spietate. Lo vedevoinvestito da un taxi lanciato a follevelocità, oppure che cadeva in ungiardinetto elegante (sembrava cosìdebole, non l'avevo nemmeno vistocamminare), o veniva arrestato dalla

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polizia per via del suo inspiegabilecomportamento. Ma soprattutto lovedevo aggrappato alla porta di casamia, suonare il campanello, bussare esuonare ancora, aspettando che gliaprissi, inondando la soglia, il vialettod'ingresso e la strada con quel suo odoredi pesce marcio, e io dentro,intrappolata nella mia stessa casa. “Intrappola”, pensai, “sono già intrappola.” Avevo voglia di urlare.

“Perla”, pensai, “se resti chiusa quidentro ancora a lungo finirai conl'andare fuori di testa, anzi, a ben vederemi sembri già sulla buona strada.” Cosìmi cambiai e uscii dalla mia stanza,scesi le scale e afferrai la borsetta senzaguardare lo strano uomo bagnato, che

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alzò gli occhi come chi si svegliabruscamente da un sogno e disse: «Dovevai?».

Per tutta risposta mi chiusi la portaalle spalle, sbattendola.

Non sapevo dove stessi andando.Non mi importava, non potevaimportarmene. Presi la metropolitanaper il centro. Ne uscii che era passata dapoco la mezzanotte e le strade eranopiene di gente. Ero di nuovo nel mondo,ero a Buenos Aires, dove tutti vivonofuori dall'acqua e i ristoranti sono pienidi candeline e di coltelli tintinnanti,dove la gente va a spasso o sta sedutasenza chinarsi in avanti su natichefradice, dove – guarda! guarda! – lagente sorride come se il passato fosse

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una cosa schiacciata sotto i piedi che sipuò scansare facilmente o almenoignorare abbastanza a lungo da avere iltempo di uscire a bere qualcosa. Certo,non tutti stavano sorridendo, ma lastrada è fatta così, la città è fatta così.Fin da bambina, quando camminavo perBuenos Aires nel mio cappottinoinvernale con la mano di mamma strettasaldamente nella mia, in centro sentivouna strana voce. Una voce sottile eimprevedibile, trasparente come un'aladi fata, che diceva solo psshhh, psshhh,ehi tu: mi voltavo e guardavo lungo ilmarciapiede e di là dalla strada, manessuno aveva aperto bocca né cercavadi incontrare il mio sguardo. Tutti queglisconosciuti avevano un'espressione

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annoiata, affaccendata o distratta, gliocchi rivolti da un'altra parte, e in queimomenti mi domandavo se per caso miopadre non avesse ragione, se non fossieffettivamente un po' pazza... oppurequella che avevo sentito era davvero lavoce della città, un suono disincarnatoche emergeva dall'intrico di tutti gli altrisuoni, dal frastuono delle automobili edai passi incessanti, dalle esistenzeprivate che uscivano dalle finestreaperte, dal cigolio di portoni scolpiti,dall'allegro gemito della luce solare, dalmormorio dell'umidità, dai contortisussurri di muri fatiscenti, tuttomescolato in un qualcosa che non era néumano né disumano, né reale néimmaginario. Mia madre mi guidava

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come se niente fosse, camminando conpasso vivace, concentrata più sullanostra destinazione che non su quelloche ci circondava. E io mi chiedevo checosa sarebbe successo se mi fossiliberata dalla sua mano per seguire lavoce, inseguendola dietro quell'angolo epoi giù per tutto l'isolato, lungo i vicolie fuori dall'altra parte e poi svoltandoancora, finché non fossi stata sicura diessere completamente sola nel grandelabirinto della città, sublimemente persa,libera di vagare su acciottolati e asfaltiverso qualcosa per cui non avevoparole. Non l'ho mai fatto, ovviamente,ho sempre avuto troppa paura, la manoguantata di mamma era per me unancoraggio sicuro... ma ancora me lo

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chiedevo, a volte. Chissà se quella vocemi avrebbe condotto nel posto a cuiappartenevo? Anche in quel momento,pur essendo ormai una donna adulta, unaparte di me era in ascolto per cogliere lafluida voce della città. Ma non la sentii.Camminai. Le strade odoravano di panee di benzina, di grondaie e di caffè, dipietra, di età e di tristezza. L'aria estivaera umida ma non somigliava affatto allapioggia.

Entrai in un locale, uno dei mieiposti abituali, e scrutai i tavoli dallaporta. Le mie amiche non c'erano. Dueuomini seduti in fondo alzarono gli occhie cercarono di intercettare il miosguardo. Non li guardai e non mi sedetti.Conoscevo il barista, che mi sorrise e

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alzò la mano in un cenno di saluto –«Perla», disse sorridendo –, ma girai suitacchi, uscii e ripresi a camminare. Misarebbe piaciuto trovare le mie amiche,ma probabilmente era meglio così; erosempre stata io quella che raccoglieva leloro confidenze, quella matura, la spallaa cui appoggiarsi quando erano ubriacheo infelici, le mie amiche erano cosìabituate al mio autocontrollo da nonvedere più le altre mie facce. Si puòsempre contare su Perla. Parlane conPerla, lei capirà. Mi vedevano come unapersona generosa, con tanto spaziointeriore per accogliere i loro problemi,ma non capivano che quel ruolo mi davaanche potere, mi faceva da scudo controlo scrutinio altrui, «Perla che conosce

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tutte le risposte», «Perla ti può aiutare»,«Perla senza problemi suoi». Mipiaceva specchiarmi negli occhi diun'amica riconoscente. Come sembravoforte, capace di veleggiare a una spannada terra e da tutte le complicazioniumane. Non ero la ragazza che si sentivafuori posto perfino a casa sua. Le mieamiche mi apprezzavano, dicevano cheero gentile, Leticia con i suoi eterniproblemi di cuore, Marisol con la madreche beveva troppo, Anita con i suoibrutti voti e quello stupro da bambinache ancora infestava i suoi sogni. Loroavevano bisogno di me e io avevobisogno del loro bisogno: una simbiosiperfetta. Quelle erano le amicizie che miero scelta, i legami che avevo stretto con

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ragazze che avevano solo bisogno diessere ascoltate e che provavanogratitudine per l'amica che non chiedevamai alcuna attenzione in cambio. Maquella sera non avrei potuto sostenere larecita; la facciata sarebbe sicuramentecrollata, caricando i miei rapporti di unpeso maggiore di quello che erano staticoncepiti per reggere. Quella sera miero persa, la gabbia si era rotta, perfinole regole di mia madre erano andate inpezzi – rassetta sempre i tuoi abiti primadi uscire, rifletti prima di parlare,assicurati di avere i capelli sempre inordine –, così profondamente innestatedentro di me, così familiari e ora cosìselvaggiamente abbandonate: dalla miabocca poteva uscire qualsiasi cosa e i

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miei capelli erano sicuramente undisastro. Avrei potuto vagare senza metaper tutta la città, ed effettivamente lostavo facendo. Non avevo maivagabondato molto, da ragazza; le uscitedella mia famiglia avevano sempre unameta e uno scopo ben precisi, ecomunque per la maggior parte deltempo i miei mi tenevano confinata nelnostro quartiere. Erano molto protettivi.Mi avvolgevano sempre con grandi aliprotettive. Avrebbero fatto qualsiasicosa per me, dicevano, e di fatto eravero. «Perla, noi faremmo qualsiasicosa per te.» C'erano così tante gridadissonanti nella mia testa, su mio padre,su mia madre, dubbi e domande chenegli ultimi giorni avevo disperatamente

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cercato di contrastare. Ora, con l'arrivodel fantasma, non potevo più sottrarmi aquelle domande; ciò nonostante nonsopportavo di metterle in parole,nemmeno in silenzio, nemmeno fra me eme. Camminavo e camminavo per quellestrade che mi lambivano e non avevo unposto dove andare. Avrei potuto ingoiaretutti gli edifici della città, avrei potutoingoiare tutto, il cielo, un cadavere, unamenzogna, una verità, il mare. Eroaffamata di un qualcosa senza nome.Buenos Aires era così bella, piena dirumori, piena di notte. Non ero ancorapronta per tornare a casa. Avevobisogno di sentire la voce di un altroessere umano, di una persona che nonpuzzasse di fiume né di morte e che

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potesse ascoltare tutta me stessa,indipendentemente da ciò che dicevo. Dipersone così, però, ce n'era una sola.Esitai un momento, magari avrebbebuttato giù il telefono, poi cercai unacabina e feci il suo numero. Risposedopo due squilli.

«Sono io», dissi.Gabriel rimase zitto. Per un attimo

temetti che fosse caduta la linea.«Ci sei?»«Sì, sono qui.»«Volevo solo sentire la tua voce.»

Ora che le avevo pronunciate, quelleparole mi sembrarono stupide. E nude.Perché diavolo avevo chiamato?

Gabriel non disse niente.«Ti ho disturbato?»

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«No. No.» Sembrava confuso. «Sonosolo stupito.»

«Lo so. Voglio dire, lo immagino.Ascolta, se è un brutto momento...»

«No, non lo è. Davvero.»«Okay», dissi.Una pausa. «Cominciavo a pensare

che non avresti più chiamato.»«Non volevi che lo facessi?»«Non ho detto questo.»«Okay», dissi ancora, come una

cretina.«Stai bene?»«Sì, sto bene.»«Sembri strana.»«Sono strana.» Lo dissi senza

riflettere e lui rise, un po' esitante, maabbastanza per allentare la tensione.

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«Dimmi tutto.» Sorrisi alla cornetta deltelefono.

«Perché hai chiamato?» Non risposi.Erano parole dure. Fino a dieci giorniprima non avrei avuto bisogno di unaragione particolare per telefonargli. Misarei rivolta a lui anche solo per averecompagnia, consolazione, piacere; persentire come stava, per stare con lui.Adesso invece fra noi c'era un muro, unmuro che bisognava assolutamenteabbattere. Ammesso che lo si potesseabbattere, perché adesso che avevosentito la sua voce sembrava possibileche fosse troppo tardi. Ovviamente avreidovuto saperlo, avrei dovuto mettermiuna corazza e tenere a portata di manotutti i miei arnesi, invece, disorientata

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com'ero, avevo allungato la mano versoil telefono per puro desiderio,impulsivamente, senza prepararmi.

Dopo un lungo silenzio, Gabrieldisse: «Come sei silenziosa».

«Anche tu.»«Ma sei stata tu a chiamare.»«Lo so, lo so.»«Allora? Perché l'hai fatto?» Perché

c'è il fantasma di uno scomparso nel miosalotto e non se ne vuole andare, e solotu potresti capire le cose che stalacerando dentro di me. «È complicato.»

«Cosa non lo è?»«Niente. Hai ragione. È tutto

complicato.»«Eppure», disse lui esasperato, «ci

sono anche cose semplicissime, Perla.

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Come dire “perché mi manchi”. Oppure“scusa”.» Il dolore e la rabbia eranoquasi palpabili nella sua voce. “Cheerrore”, pensai, “questa telefonata.”«Sai...» dissi, ma mi bloccai subito.

«Che cosa?»«Non importa.»«Perla?»«Non è importante.»«Come puoi dire una cosa simile?»«Non intendevo quello. Noi. Noi sì

che è importante.»«Esiste ancora un noi?» Con quanta

facilità poteva ferirmi, anche quandonon era sua intenzione. «Perché, tu pensiche non ci sia più?»

«Io non so più cosa pensare. Se cifosse ancora un noi, avresti chiamato.»

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«Neanche tu l'hai fatto.»«Ma sei tu quella che è scappata.»

Avrei potuto ribattere: “Perché tu mi haifatta scappare”, ma saremmo solosprofondati ulteriormente in unavoragine che sembrava senza fondo e ionon avevo parole, catene verbali a cuipotessimo aggrapparci per tornare insuperficie. «Ascolta, Gabo, non è ilmomento. Chiamo da un telefonopubblico.» Chiusi gli occhi. Mi facevamale la fronte. «E anche per altreragioni.»

«Tipo?»«Non posso dirtelo.» La sua voce si

ammorbidì un po'. «Sei sicura di starbene?»

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«Sì. No. Starò bene. Devo solorisolvere alcune cose, poi ti chiamo.»

«Quanto pensi che ci vorrà?»«Non ne ho idea.»«Ma non vuoi dirmi cosa sta

succedendo.»«No. Non è possibile.» Non c'era

una lingua per dirlo, dopotutto, nessunpunto da cui cominciare. «Ma perfavore, non lasciarmi.» Silenzio.

«Gabriel?»«Non so cosa dire.»«Di' solo: “Certo che non ti

lascerò”.»«Perlita. Ti stai ascoltando?»«Preferirei di no.» Rise. Avrei

voluto vivere per sempre nel drappeggiodiafano del suo riso. Avrebbe potuto

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riempirsi di vento e allora anch'io avreifluttuato, sospesa, avvolta, finalmente acasa.

Prima che il suo riso si sgonfiasse,depositandoci entrambi sulla nuda terra,riagganciai.

Presi la metropolitana per PuertoMadero e passeggiai sul lungomare, conuna fila di ristoranti e localini rutilantisulla destra e l'acqua sulla sinistra.Dalle porte aperte usciva il profumo delchurrasco appena fatto, il ritmomonotono della musica tecno e un fiumedi gente vestita da sera. Mi stupivasempre vedere come il vecchio portoabbandonato di Buenos Aires fosse statotrasformato in una meta alla moda perturisti e argentini ricchi, con i lunghi

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magazzini di mattoni rossi restaurati perospitare prestigiose attività economichee loft di lusso. Non si può mai dire cosapossa diventare una città. Io ero l'unica acamminare da sola e mi sentivo un po'fuori posto, così in disordine, anche se agiudicare da come venivo ignoratasembrava che mi mimetizzassi allaperfezione. Non c'era nessunissimaragione perché una persona,guardandomi, dovesse pensare che incasa mia c'era qualcosa che non andava,qualcosa di strano, un intrusosgocciolante con cui discutere, vecchiincubi che alzavano la testa chiedendodi essere guardati, ed era una cosapositiva; perché è così che vanno lecose, giusto? Non si cammina nella

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verità, si cammina nella realtà che sivuole abitare, nella realtà che si puòsopportare. È così che sono fatte lerealtà.

Il cielo si stendeva sopra di me neroe senza nubi, derubato delle sue stelledall'alone di luce della città. Fra me el'acqua c'era una ringhiera metallica,alla quale due ragazzi si appoggiavanoper baciarsi mentre un'altra coppia, piùanziana e tutta in ghingheri, li guardavacon un misto di divertimento e diinvidia. Oltre la ringhiera l'acqualuccicava scura, sostenendo la panciadegli yacht e un pallido riflessodell'Hotel Hilton, sull'altra sponda. Soloun nastro d'acqua, in realtà, acqua difiume, e all'improvviso compresi che

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proprio per questo ero andata lì: pervedere un pezzo del Rio de la Plata, chenon è proprio un fiume ma un estuario,una grande bocca spalancata cheinghiotte il mare e lo deglutisce findentro la terraferma. Una distesa d'acquacosì vasta che l'altra riva, la spondauruguaiana, è troppo lontana per poterlascorgere. Il fiume finiva con una lungacucitura all'orizzonte, punti invisibiliche racchiudevano il mondo in unagrande sfera d'acqua e di cielo, unimmenso, etereo tessuto avvolto attornoall'Argentina. Da bambina fantasticavoche la città non finisse con la spiaggiama proseguisse sott'acqua, giù nelleprofondità dell'oceano, nella grandeculla fra i due paesi. Fissavo l'acqua e

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vedevo strade, case e castelli inondati diliquido salmastro, pesci che ricamavanomerletti tra le finestre, coralli chesalutavano dondolando i rami, le acute,distorte voci delle sirene, marinaiannegati in vortici di tempo a lungodimenticati. Mi sforzavo di immaginarele leggi segrete di un posto come quello,geroglifici dipinti sull'acqua, tremolantiracconti subito cancellatidall'andirivieni delle maree.

Era stato facile, da bambina, credereall'esistenza di quella città. Adesso cheero cresciuta, ovviamente, avevo cosepiù importanti da fare che immaginaremondi sottomarini, solo che in quelmomento, quella sera, senza una bussolache potesse dirmi chi ero, non sapevo

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più cosa credere. Per questo ero andatalà, al vecchio porto, ora portoultramoderno, per posare gli occhi suuna striscia d'acqua.

Ma la sua superficie riverberava diluci elettriche e non svelava niente.

Rallentai per accendere una sigarettae mi appoggiai alla ringhiera, fumando.L'acqua scura e silenziosa leccava ilcorpo degli yacht. Un po' più in là ungruppetto di ragazze strillava, rideva eparlava velocemente in una linguastraniera. Pensai a Gabriel, a quel suomodo di ridere così piacevole e a comedoveva esserci rimasto male quandoavevo interrotto la comunicazione senzalasciargli nemmeno il tempo di direciao. Doveva aver ripetuto “Pronto?

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Pronto?” nella cornetta, sgomento,offeso, poi probabilmente l'aveva fissatae forse proprio in quel momento avevadeciso che ne aveva abbastanza diquella storia, di me, che era pronto acercarsi una donna che non gli dessetanti grattacapi e che si incastrasse unpo' meglio nella sua vita. A quelpensiero fui invasa da una grandetristezza.

Guardai un po' più in là, sull'acqua,cercando una dilazione. La luce deilampioni cadeva su quella superficieliquida e si rifrangeva in mille scheggescintillanti, catturate dal tessutostrappato del fiume.

Quella notte in Uruguay, quandoavevo visto Gabriel per l'ultima volta, la

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sabbia aveva riempito gli spazi fra lemie dita dei piedi, umida e scura. Nonpotevo vederla ma, dopo che lui avevaparlato, avevo abbassato lo sguardosull'acqua nera che si spartiva attornoalle mie caviglie, pensando: “Ci sonogranelli di sabbia laggiù, milioni digranelli di sabbia che seppelliscono lemie dita dei piedi e che si seppellisconogli uni con gli altri quasi sapessero checerte cose non devono essere esposte.Come se dal nascondersi dipendesse lasopravvivenza”.

Ripresi a camminare. Arrivai fino alcantiere dove stavano costruendo ilPonte delle Donne, già a buon punto: unliscio marciapiede bianco con una granpinna in un angolo, tesa ad arpionare il

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cielo, o per lo meno così sembravasbirciando attraverso le impalcature.«Un ponte come non se ne sono maivisti», aveva scritto un giornalista. Mifermai là dove cominciava e lo guardai,cercando di pensare ad altre cose cheerano come non ne avevo mai viste.Restai là per un bel po' di tempo.L'acqua mi ammiccava dal basso.Guardai giù e immaginai di tuffarmi e dinuotare alla ricerca di posti impensabiliche non potevano esistere ma che puresembravano proprio esserci.

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5 - GERANI MORTI

Adesso voglio parlarti ancora un po'

di Gabriel, e della persona che eroquando l'ho conosciuto. Non possodipingere con completezza il mio mondosenza queste pennellate... e ho bisognoche tu veda il quadro intero, un quadrofatto di parole invece che di colori,perché è il modo migliore che conoscoper comunicarti questa storia, qui,stanotte, ad anni di distanza da quando èaccaduta, seduta davanti a questafinestra, lacerata a onde alterne dal

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dolore e dall'estasi. Come se il mondointero si stesse gonfiando dentro di me eil mio corpo dovesse allungarsi eallargarsi per fargli spazio. È così chemi sento. Ma non posso fermarmi. Nonc'è un punto in cui la si possainterrompere, questa storia che, mentrela racconto, si anima di vita propria,come inevitabilmente capita alle storie.Ormai giro io stessa nella sua orbita,sospesa attorno a lei, e posso soloandare avanti. È l'unico modo in cuiposso pensare di raccontartela:derapando attorno al suo centro,girando, seguendo una traiettoria aspirale, vorticando sempre più vicinoall'origine. Anche se forse non capirai,anche se ti sembrerà strano, è questo il

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modo migliore per entrarci. Le straderettilinee sembrano le più veloci, mamancano delle altre dimensioni, nonhanno carne, sono morte... e questa non èuna storia morta, è viva, respira e pulsa.Continua a seguirmi. È il modo miglioreche conosco per mostrarti chi sonorealmente: ed è urgente, per me, farloqui, adesso, mentre c'è ancora tempo.

Fare la posta a Gabriel fu pericolosofin dall'inizio, come entrare lentamentein una casa in fiamme. Io lo sapevo,ovvio, ma alcune parti di me lovolevano proprio per questo: perscottarsi, per prendere fuoco, percercare me stessa tra le fiamme delpericolo.

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Lo conobbi a una festa in suo onore,alla quale ero stata invitata da un'amicadi un'amica. Si festeggiava il suo nuovoincarico di vicedirettore a «Voz»,un'impresa straordinaria, aveva detto lamia amica, per un ragazzo di soliventicinque anni. Gli occhi le brillavanodi ammirazione mentre lo diceva. Io nonavevo mai letto «Voz», ma sapevo cosane pensava mio padre: solo un mucchiodi menzogne, che non meritava nemmenoche ci si pulisse il culo. Diceva così,però la temeva. Lui si prendeva la brigadi insultare solo le cose che gli facevanopaura. E poche cose gli facevano piùpaura dei giornalisti. Il che,naturalmente, mi rendeva estremamentecuriosa di conoscere Gabriel.

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Avevo diciotto anni, ero al primoanno di università e avevo appenacominciato a studiare il meccanismodella rimozione, la danza dellacoscienza, il recondito caos dell'id.Sognavo di diventare il tipo dipsicologa che riesce a intrufolarsi nellamente delle persone, a toccarel'indicibile e a guidarle fino a esso e poioltre. Non bisogna forse passareattraverso l'indicibile per essere deltutto liberi?

Anche se ciò avesse significatoaffrontare, per esempio, quello che c'eradentro mio padre. Tutto il brutto cheaveva dentro. Ma non solo questo,perché mio padre non era solo questo.Era anche l'uomo che, molti anni prima,

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scendeva in cucina alle tre del mattino eci trovava sua figlia a piedi nudi sulpavimento di piastrelle, una piccolainsonne in camicia da notte rosa, esorridendo le diceva: «Non riesci adormire, vero? Sei tutta tuo padre», poifrugava nella credenza alla ricerca delcioccolato che spezzavamo in frammentidisuguali, il nostro premio notturno peressere i più tosti, gli unici che nonsapevano costringersi a dormire soloperché qualcuno aveva spento la luce,solo perché l'orologio diceva che eral'ora. Noi non eravamo come mamma, laRegina del Sonno, che una volta finito illungo rituale di batuffoli di cotone e lattedetergente si sdraiava, chiudeva gliocchi e si addormentava, e che proprio

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non riusciva a capire perché suo maritoe sua figlia si agitassero e si rigirasserotanto, e si alzassero e si aggirassero perla casa nel cuore della notte. Solo noidue condividevamo quel destino, papà ePerla, e quando eravamo in cucinainsieme, nelle ore che precedono l'alba,quello che poteva sembrare un difettodiventava quasi un privilegio, la fonte diun piacere rubato e di un orgogliocondiviso.

In quelle notti il cioccolato eravoluttuosamente dolce sulla mia lingua.Papà sembrava sollevato e allegro,come se la mia presenza alleviasse isuoi tormenti. Mi accarezzava i capelli emi guardava come se fra noi esistesseun'intesa profonda, oltre le parole, al di

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là del tempo, poi diceva qualcosa come:«Dio è stato buono a mandarti a me», oanche solo: «Mangia, Perlita, mangia».E io mi sentivo felice, felice delcioccolato e felice delle sue carezze.

Poi erano arrivate le rivelazioni sulsuo lavoro. Così tante cose in un solouomo, non riuscivo a capire. Non capivocome facessero tutte quelle cose astringersi sotto una stessa pelle, eppuremi sembrava che capirlo fossefondamentale per sapere chi ero.Desideravo ardentemente comprenderlo,non per giustificarlo, ma per districareme stessa e forse anche per salvarlo, oalmeno per vedere ogni cosa conchiarezza e senza paura. Sicuramente,negli annali della psicoanalisi, c'era

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anche il segreto per vedere senza averepaura. Papà divenne il mio pazientefantasma, dalla cui analisi dipendeva lamia sopravvivenza.

Per questo, all'università, scavavonelle teorie e nello studio dei casi che laprofessoressa ci presentava utilizzandolicome mappe dell'inconscio nel tentativodi scoprire come funzionasse la mente dimio padre. Lessi a fondo i libri di testo,e non solo i miei ma anche i volumiassegnati agli studenti del secondo anno,che in teoria non avrebbero dovutoriguardarmi – seduta sul pavimento dellalibreria universitaria per ore e ore,trascurando i compiti per setacciare gliscaffali della biblioteca – ma in nessunposto riuscivo a trovare un profilo che

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descrivesse una personalità come quelladi mio padre, il caso di una persona cheavesse fatto ciò che aveva fatto lui.Freud non aveva mai sottoposto adanalisi un uomo come lui o, se l'avevafatto, la sua penna si era rifiutata dimetterlo nero su bianco. (Come sisarebbe divertito, Freud, con HectorCorrea! Al pensiero di quelle seduteprobabilmente sarebbe scappato omagari gli sarebbe venuta l'acquolina inbocca.) C'erano riferimenti a personaggicome lui in alcuni testi di sociologia, masempre con appiccicata sopra l'etichetta«male», una parola che, per la sua stessaforza morale, sembrava appiattire ilritratto di un uomo invece di sondare leprofondità della sua coscienza. Lessi e

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lessi ancora, ma non riuscii a scioglierei grossi nodi scuri che incontravo sulcammino; erano troppo ingarbugliati epiù volte mi persi nel pantano della miastessa mente. Cercavo la risposta adomande che non avevo il coraggio diformulare. Non mi ero mai sdraiata sullettino di un analista – i miei genitorinon me l'avrebbero mai permesso e ionon avevo abbastanza soldi per farlosenza essere scoperta – e comunque,anche se i professori lo consideravanoun passo essenziale per la nostracrescita umana e professionale, io nonvolevo. La sola idea bastava a gettarminel panico. Ogni volta che ci pensavo mivedevo parlare e parlare distesa sullettino, ma dietro di me c'era solo

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silenzio e quando mi giravo il mioanalista aveva la faccia di Romina quelgiorno nello studio di papà, la stessaespressione d'orrore e la stessa urgenzadi scappare. No, non avrei corso quelrischio. Meglio inseguire per conto miole cose scivolose che stavo inseguendo,clandestinamente, voracemente, ogniteoria e ogni caso clinico un nido diindizi. Per me i libri erano già un rifugiofamiliare, dopotutto, e mi lasciavanoentrare senza esprimere giudizi. I librinon ti chiudono la porta in faccia comele persone. Puoi sentire di nonappartenere a niente e a nessuno, e menche meno a casa tua, puoi sentirti legataa una persona le cui azioni ti fannoorrore ma dalla quale non sei capace di

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staccarti, e alla cui ombra lotti perindividualizzarti – sentimenti che nonoseresti mai comunicare a un altroessere umano, nemmeno a unospecialista – ma puoi sempre consegnareai libri il tuo io intero e non edulcorato.Ai libri si può chiedere qualunque cosae, sia che ti costi fatica trovare tra lepagine le parole che ti risuonerannodentro sia che la risposta arrivi subito,alla prima occhiata, i libri ti parlerannosempre e ti lasceranno sempre entrare.Così non facevo che entrare ed entrare.A quel tempo, durante il mio primo annodi università, mi fidavo molto più deilibri che delle persone. Anche se misentivo sola, anche se anelavo acondividere qualcosa di più profondo

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con un essere umano vivente erespirante, non ne ero consapevole...fino alla sera in cui conobbi Gabriel.

Mentre mi preparavo per andare allafesta pensavo a «Voz», a giovanigiornalisti coraggiosi, a padrispaventati, a regole infrante e a sentenzestampate tali da far tremare la carta sucui erano scritte. Mi truccai un po' piùdel solito, eyeliner nero e ombretto. Lagonna era già abbastanza corta. Nonsapevo esattamente cosa avessi in menteo, se lo sapevo, mi dissi di non saperlo.“Non faccio altro che prepararmi”,ripetevo tra me e me, “per ciò che lanotte vorrà offrirmi.” Mi guardaiattentamente allo specchio e l'immagineriflessa non mi somigliava affatto.

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Un'altra donna mi fissava da quellasuperficie lucida, una donna dagli occhiluminosi e dalla bocca generosa, labbrarosse, gonfie di sfacciataggine. A chiapparteneva quella bocca così ardita?Avrei voluto sguinzagliarla, quellabocca, come un animale liberato dallasua gabbia, per vedere che suoni nesarebbero usciti quando si fosse aperta.“Stupiscimi”, dissi mentalmente alladonna nello specchio, che mi sorrise congli occhi. C'era sicuramente il brividodella trasgressione, quella sera (uncoraggioso giornalista! proprio il tipo dipersona contro cui mi avevano messo inguardia!), ma anche dell'altro. Ciò checomincia come una trasgressione può

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rapidamente diventare qualcos'altro,rivestirsi di carne propria.

Lui non sapeva che avevo solodiciott'anni. Non era il tipo d'uomo checorre dietro alle ragazzine. E in effettinon mi corse dietro affatto: fui io, Perla,la ragazza per bene, vergine, a fare ilprimo passo. Lo trovai in cucina,gentile, sicuro di sé, quasi altezzoso, conle maniche della camicia di lino scuroarrotolate fino ai gomiti. Il tipo d'uomoreso bello dalla generosa sicurezza deisuoi gesti. Lo osservai fingendo diguardare da un'altra parte. La festaarrivava fino a lui in onde regolari.Almeno tre ragazze lo avvicinarono albancone della cucina per chiedergliqualcosa e accarezzargli i capelli. Poi,

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finalmente, alzò gli occhi. Mi limitai arispondere al suo sguardo, dall'altrocapo della stanza, calibrando il tempo,agganciandolo in un gioco di sguardi cheparlava, parlava e non si tirava indietroné si raffreddava. Come se non avessifatto altro in vita mia, come se sapessimisurare con precisione la temperaturadel desiderio, come se fossi una donnascafata e non una ragazzina inesperta cheesplorava per la prima volta la propriaforza. Come se dominassi perfettamentetutti i poteri di Eros, mentre era Eros atenermi fra le sue grinfie. Perché miteneva eccome, mi ulcerava tutta la pellecon il suo fuoco, quella sua dolceterribile ferita... Cosa avevo scatenato?Ci guardammo negli occhi finché non gli

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si avvicinò un altro ospite, spezzandol'incantesimo. Mi fiondai nel salotto; nonriuscivo più a respirare; lasfacciataggine di cui avevo dato provami riempiva di trionfo e di allarme.Trovai le mie amiche e mi unii alla loroconversazione, cercando di calmare ilrespiro. Se ero avvampata, nessunosembrò accorgersene.

Mezz'ora dopo mi fermò incorridoio. La vampa tornò subito. «Tistai divertendo?» Annuii.

«Non mi sembra di conoscerti.»«Perla.»«Gabriel.»«Lo so.» Lui sorrise con modesta

timidezza. «Posso portarti qualcosa dabere?» Gli guardai le mani. Erano

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sottili, incredibilmente lunghe, mani dadonna, mani da languido pianista. Sì,volevo che quelle mani mi portasseroqualcosa... un bicchiere, una piuma,delle schegge di vetro, frammenti dicanzoni sconosciute.

Mi portò una birra e restò con me.Era facile parlare con lui. Nondiscutemmo di politica, quella sera;parlammo delle sue sorelle, di BobMarley, di Nietzsche, del mio sogno digirare il mondo.

«Dove ti piacerebbe andare?»«Marocco. Laos. Indonesia.» Ne fu

stupito. «Niente Europa?»«No.»«Perché no?»«Perché è troppo vicina.»

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«Mi sembrava che...»«Non intendevo dal punto di vista

geografico.» Sembrava intrigato. «Eallora cosa intendevi?»

«Buenos Aires: la Parigi delSudamerica, quella roba lì. Mipiacerebbe vedere dei posti con cui gliargentini non si siano mai paragonati.Posti in cui nessuno sappia nientedell'Argentina.»

«E nel Laos non sanno nientedell'Argentina?»

«Non lo so. Spero di no.»«Capisco. E cosa vorresti fare una

volta laggiù?»«Guardare. Ascoltare. Sentire gli

odori.» “E perdermi”, pensai, ma non lodissi.

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«Tutte cose che si possono fareanche a Buenos Aires.»

«Buenos Aires la conosco già.»«Ne sei proprio sicura?» Feci per

rispondere di sì, ma mi bloccai.«Come si fa», disse indicando la

portafinestra del balcone, «a conoscerefino in fondo una città come quella?»Guardai verso il balcone, dove ungruppo di persone si era raccolto aridere e a fumare mentre, alle lorospalle, il centro della città pulsava diluce elettrica e il grande muro grigio diun palazzo si ergeva appena oltre lastrada, custodendo i segreti di secoli. Inquel momento il polso della nottesembrava entrare rombando dallefinestre, delirante miscuglio di un

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milione di cuori umani. La città,incorreggibile, immensa e sveglia.Nonostante la sua storia lunga esovraccarica, le sue facciate cadenti e lesue scie di dolore, quella sera sembravagiovane, rinnovata dall'energia della suagente. Avrei voluto saltare giù dalbalcone e vagare di strada in strada finoal sorgere del sole, solo che non volevoandar via dalla festa.

«Balliamo», dissi.Era da molto tempo che non ballavo

con un ragazzo. Al liceo avevo presol'abitudine di ballare da sola alle feste, echi mi conosceva aveva imparato astarmi alla larga. «Perla è fatta così, èun po' stramba, guardatela, si muovecome se fosse l'ultima persona rimasta

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sul pianeta», oppure, se la fonte erameno gentile, «come se pensasse che lamusica suona solo per lei, quellaputtana». Le mie amiche mi videroballare con Gabriel e finsero di faresmorfie allarmate, Ma come, proprio tu?Io risi. Ballai al ritmo del mio riso.Gabriel mi guardava con espressionestranita, Chi è questa ragazza e cosaavrà da ridere, e io gli andai più vicinoaffinché la sua acqua di colonia miriempisse il naso e mi rivestisse lalingua quando aprii la bocca persorridere; anche se desideravoimmensamente toccarlo non lo feci,ballammo con il nostro desiderio,ballammo creando il nostro desiderio,ballammo i Rolling Stones, gli U2,

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perfino il tango quando a qualcunovenne in mente di mettere un disco condelle vecchie canzoni, e allora la suamano si posò sulla mia schiena con lasicurezza di un uccello che fa il nido; inostri corpi si toccarono, grida e risateriempirono la stanza mentre una nuovagenerazione resuscitava i passi imparatidai nonni. Quando la canzone finì,restammo vicini ancora un istante, nonvolevamo separarci mai più, e sentii cheil suo corpo ascoltava ciò che il mioaveva da dire. Mi strappai dalle suebraccia.

«Stai bene?» disse.«Usciamo, ho bisogno di un po'

d'aria.» Restammo sul balcone per ore eore. Le mie amiche se ne andarono e a

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un certo punto se ne andarono anche isuoi amici. Alle cinque del mattino erarimasto solo un gruppetto di persone chebeveva birra in salotto, lasciandoci ilbalcone tutto per noi. Mi sentivo comeuna regina, stranamente esaltata,appollaiata lassù, sopra la città, in unpunto da cui potevo vedere le personecamminare lungo le strade di San Telmo,appena uscite da un bar o dalla casa diun amico, avvinghiate. Appollaiata suquel balcone, per la prima volta sentii dipossedere la città e che la cittàpossedeva me.

«Mi piace il tuo appartamento»,dissi. «Dev'essere il più bello di BuenosAires.» Scoppiò a ridere. «E tu come losai?»

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«So un mucchio di cose», risposi,con scherzosa imperiosità.

«Ah! Anch'io!»«Davvero? Per esempio?» Fu allora

che mi baciò. Sapeva di sigarette, dieucalipto e di birra. Prima di alloraavevo baciato solo dei liceali, mai unuomo adulto, e tutto in quel bacio micolse di sorpresa: la sua abilità; la suaduttile sicurezza; il piacere misurato chela sua lingua si prese nella mia bocca, egli indizi che vi lasciò di abilità epiaceri a venire; e la mia stessa reazioneal bacio, i posti che si aprirono perriceverlo, non solo le labbra ma anchele cosce (ne fui allarmata, mi affrettai arichiuderle ma la sua mano era propriolì e così restarono un po' separate, ad

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ascoltare il suo tocco leggero) e altriposti dentro di me dove da tempoimmemorabile avevo nascosto delleparti del mio io che non potevopermettermi di esporre alla luce. Nonavrei mai immaginato che un baciopotesse essere così. Avrei dovutosmettere ma non ci riuscivo, cibaciammo a lungo e per quanto miriguardava avrei potuto baciarlo ancorapiù a lungo. Volevo che non finisse mai.Avrei potuto cadere dalla ringhiera eandare avanti a baciarlo mentreprecipitavamo nelle vie di BuenosAires, le membra intrecciate, le boccheunite, rotolando e rimbalzando alla ciecalungo strade e viali, abbattendo chioschi

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e rovesciando i tavolini dei bar nellanostra corsa verso il mare.

Una settimana dopo mi invitò fuori acena. Prendemmo posto in unaccogliente ristorantino italiano, diquelli con le luci soffuse, le pareti rossoscuro e fotografie in bianco e nero diun'altra era appese un po' dappertutto.Mi sentivo lontanissima dai sobborghiresidenziali, trasportata in una BuenosAires che, pur essendo a poche fermatedi metropolitana dal luogo in cui erocresciuta, sembrava in qualche modostraniera. Avevo deciso di non parlarglidella mia famiglia, per il momento, e miero preparata varie strategie perscansare l'argomento, ma poi la cosa sirivelò facile in modo sconvolgente.

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Anche se, col procedere della cena, miritrovai a pensare che forse non avreidovuto stupirmi tanto: in fondo era pursempre un maschio, abituato a riempirel'aria con la propria voce e a essereascoltato per tutto il tempo fra la letturadel menu e l'ultimo cucchiaino didessert. Con il piccolo aiuto di qualchedomanda preliminare, Gabriel miraccontò di suo padre, originario di Mardel Plata, e di sua madre, uruguaiana, edi come si erano conosciuti durante unavacanza a Piriapolis, una cittadina sullacosta dell'Uruguay. Suo padrefrequentava la facoltà di medicina ma,mentre la corteggiava, non gliel'avevadetto per essere proprio sicuro che, seavesse corrisposto alle sue attenzioni,

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fosse per le ragioni giuste: non volevasposare un'arrampicatrice sociale chepoi avrebbe cercato di impedirgli direalizzare il suo sogno, che era quello dicurare i poveri. Alla fine, quando glieloaveva rivelato, dopo una settimana diidillio, si sarebbe aspettato di vedere ilsuo viso illuminarsi di gioia, Tante dotimeravigliose riunite in un solo uomo eper giunta sarà medico! Lei invece loaveva guardato inespressiva per untempo che gli era sembrato lunghissimo,poi aveva detto: «E così sei uno studentedi medicina».

Lui aveva annuito.«E un bugiardo.»«No», si era affrettato a dire lui,

«certo che no, io non mento.»

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«E quando mi hai detto di averabbandonato la scuola prima deldiploma?» Lui era rimasto comeparalizzato, o almeno era così cheGabriel aveva sentito raccontare pertutta l'infanzia, da entrambi i genitori;entrambi dicevano che lui era rimastocome paralizzato, senza sapere cosadire. «Era un test», aveva confessatoalla fine.

E lei: «Sì, e tu non l'hai superato».Per un momento aveva pensato di

protestare, sottolineando che non era luiquello sotto esame, ma poi si era arresoe aveva annuito dicendo: «Mi dispiace,non ti mentirò mai più».

E proprio questo, avrebbero detto alfiglio molti anni dopo, era il segreto del

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loro matrimonio, che era stato lungo efelice.

Si erano stabiliti a Buenos Aires,dove il padre di Gabriel lavorava in unaclinica che serviva i quartieri poverialla periferia della città. Quando si erainstaurata la dittatura, Gabriel avevacinque anni e le sue sorelle quattro euno; preoccupato per la loro sicurezza,in un clima politico in cui chiunquelavorasse per gli elementi piùvulnerabili della società rischiava diessere etichettato come sovversivo, suopadre aveva deciso di portarli all'estero;e siccome ovviamente non potevanoandare in Uruguay, dove si era impostauna dittatura analoga, avevano sceltoCittà del Messico, dove Gabriel era

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cresciuto in un'enclave di esuli del ConoSud che cercavano di ricavarsi unanicchia in quella cacofonica,fenomenale, disorientante città. Quantol'aveva amata, con quei sontuosi palazzicoloniali stratificati in modo inquietantesopra e accanto alle rovine azteche chesussurravano – no, non sussurravano, sicorresse: quelle rovine cantavano – digiorni e di potenze del passato che noirioplatenses abbiamo da tempodimenticato per colpa della testardaamnesia di ciò che è stata questa terra,della vita che ha vissuto qui prima chel'Europa la schiacciasse e latrasformasse in qualcos'altro a forza distrade selciate e di sangue versato.«Oggi», disse, «ci ricordiamo solo delle

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belle strade selciate e mai del sangueversato. Ci comportiamo come se lafondazione di Buenos Aires fossel'inizio del tempo e non una sempliceinterruzione di ciò che il Tempo stavagià facendo da un pezzo. Noi pensiamoche quattrocento anni di storia siano unabella antichità: ma per favore, BuenosAires è solo una città bambina quandohai visto Città del Messico. Dovrestiproprio assaggiare questi cannelloni,prendine un po', sono fantastici. Mmm,sentito? A ogni modo, mi piacevamoltissimo vivere là, ma mia madre nonsopportava l'inquinamento, il rumoreinfernale e soprattutto non riusciva adabituarsi alla frangia di violenza che inquella città ti accompagna ovunque,

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come la tua ombra. Aveva nostalgia deltranquillo Uruguay, un paese in cuiperfino la capitale ha la serenitàbucolica di un villaggio. E così, finita ladittatura, ci trasferimmo a Montevideo.Io avevo quindici anni. Mio padreavrebbe preferito Buenos Aires, maquella volta la spuntò mia madre. “No”,disse, “non potrei mai vivere in un postocon tanti argentini.” Nonostante il suomatrimonio misto, non si era mailiberata del tutto del pregiudiziouruguaiano secondo cui gli argentinisarebbero degli arroganti e, detto senzapeli sulla lingua, dei figli di puttana.Anche a casa, a volte, alzava le bracciaal cielo dicendo: “Mio marito, i mieifigli, tutti argentinos, sono circondata!”.

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Finii le superiori a Montevideo e giàdurante il primo anno di universitàcominciai a scrivere sui giornali. Breviarticoli insignificanti, all'inizio, ma poicominciai a interessarmi di politica, deisegni lasciati dalle due dittature, epubblicai un articolo sugli uruguaianiscomparsi in Argentina. Come sai,sicuramente ne avrai sentito parlare,molte persone venivano in Argentina persfuggire alle violenze del governo, mapoi la giunta militare andò al potereanche qui e – paf! – Operazione Condor,liste di nomi, ciascun regime faceva illavoro sporco per conto dell'altro. Unavera disgrazia. A ogni modo, dopo quelprimo articolo il tema dei desaparecidoscominciò a ossessionarmi e sentii che

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dovevo assolutamente tornare qui, aBuenos Aires, per scavare più a fondonelle loro storie. E ormai non posso piùandarmene», concluse addentando unafetta di torta alle mandorle. «AmoMontevideo, la mia famiglia vive là,vado spesso a trovarli, ma la mia casa èqui.»

«Cos'è che ti fa sentire a casa aBuenos Aires?» gli chiesi.

«Non so. Le strade. Non mi stancomai di queste strade, del loro frastuono,dei loro colori, perfino della lorotristezza. Anche le crepe dei palazzisemidiroccati mi sembrano belle.»Bevvi le ultime gocce di vino dal miobicchiere. La bottiglia era vuota. Misentivo calda, sazia.

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Poi Gabriel fece la faccia di uno chesi sveglia da un lungo sonno. «Ehi,aspetta. Non abbiamo parlato affatto dite.»

«Non dobbiamo farlo per forza.»«Ma è terribile. Ho parlato solo io

per tutta la sera.»«A me piace ascoltare.»«Lo sai fare molto bene.»«Sembri preoccupato.»«Forse lo sono. Di solito non

racconto tutta la mia vita così, al primoappuntamento.»

«No?»«No.» Sorrisi.«Sono un giornalista, per Dio!

Dovrei essere io a far parlare la gente.»

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«E io sono un'aspirante psicologa»,dissi. «Anch'io devo saperlo fare.»

«A quanto pare stasera hai vinto tu.»«Mi è piaciuto ascoltare le tue

storie.» Lo pensavo davvero. Avreipotuto ascoltarlo ancora per ore.

«Bene, ma sei in debito con me perla prossima volta.» Mi invitò da lui,quella sera, ma non ci andai, anche se lobaciai a lungo e lentamente all'ingressodella metropolitana, prima di scenderele scale per prendere il mio treno. Lavolta dopo, nella stessa trattoria, erapronto con le domande.

«Non voglio parlare della miafamiglia», dissi.

«Perché?» Sventolai una mano, nellasperanza che quel gesto risultasse al

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tempo stesso indifferente e sicuro di sé.«La famiglia non ci definisce.»

«Davvero?»«No.»«Ma è da lì che veniamo. Da lì che

cominciamo.»«Io non comincio da lì.» Mi guardò,

leggermente divertito. «E allora dadov'è che cominci, Perla?» Risposisenza riflettere: «Da Rimbaud».

Scoppiò a ridere. «Cosa? Il poeta?»«Il poeta.» Dedicai l'ora seguente a

costruirmi una sorta di genesimiracolosamente scevra di genitori.Parlai della mia esperienza con labiblioteca di Romina, di come avevamoaperto un libro dopo l'altro quasifossero le porte di città testuali. In

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quelle città, dissi, fra quelle parole equei significati era cominciata la veratraiettoria della mia vita. Dissi solocose rigorosamente vere, ma ovviamentesorvolai sui dettagli della mia amiciziacon Romina: la scoperta che aveva fattonello studio di papà, i suoi zii, ilbigliettino che avevo riletto mille voltenel bagno della scuola. Sottolineaiinvece l'appetito vorace con cuiavevamo aperto libri su libri,scegliendone le frasi più deliziose perfarcele rotolare sulla lingua della mente,la meraviglia di quelle ore, il modo incui parole, visioni e idee saltavano fuoridalle pagine per penetrarmi nella carnecome scintille di un fuoco che scrittorimorti da chissà quanto avevano acceso

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sulla pagina. «È stata questa esperienzaa farmi innamorare della mente», dissi.«A farmi capire che tutto... idee, poesie,palazzi, perfino le guerre... in ultimaanalisi appartiene alla mente. All'inizioc'è un pensiero, poi vengono le paroleper esprimerlo e solo dopo una cosaprende forma in modo concreto. Inprincipio c'era davvero il Verbo. Sesono diventata una studiosa della mente,del luogo in cui hanno origine le parole,è perché un giorno voglio poteraccompagnare le persone a esplorare ivertiginosi labirinti che hanno dentro,aiutarle a navigarci, aiutarle acambiare.» Era bello raccontare la miastoria senza il contesto... e mia madrequesto, e mio padre quell'altro. Una

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storia solo mia, senza legami, come se imiei genitori non fossero mai esistiti.Non mi ero mai raccontata così anessuno. Ero quasi ipnotizzata dal miostesso raccontare e mi domandavoquanto di ciò che stavo dicendo fosseuna finzione e quanto semplicemente unaltro modo di guardare alla verità.

«E così Freud avrebbe le chiavi dellabirinto?» disse lui.

«Alcune.»«Tu credi a tutto ciò che ha scritto?»«Nemmeno Freud credeva a tutto ciò

che aveva scritto. Si contraddiceva,sbagliava. Ma è stato il primo ad aprirecerte stanze della psiche.»

«Per esempio?»«Desideri inconsci.»

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«Mmm... Desideri inconsci.» Miguardò con un sorrisetto malizioso. Eracosì sicuro nella sua sensualità... mifaceva impazzire e insieme miemozionava. «Tu pensi di averne?»

«Se ne avessi non lo saprei, tipare?» Quella sera accettai di andare dalui. Gabriel mise A Love Supreme diJohn Coltrane, versò del vino e cibaciammo in mezzo al salotto, in piedi,barcollando un po', un bacio checominciò in toni languidi per diventaresubito più intenso, quasi fosse dotato divolontà propria. Ci mettemmo inginocchio, ci baciammo, poi cisdraiammo sul pavimento, le sue manierano sul mio seno e tra i miei capelli edappertutto contemporaneamente o

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almeno così mi sembrava, e le mie manialtrettanto, restammo così per moltotempo, senza toglierci i vestiti mastringendoci così forte che la stoffarischiava di prendere fuoco tra i nostricorpi. Alla fine, controvoglia, dissi:«Devo andare».

«Devi proprio?»«Sì.» Mi lisciò i capelli all'indietro,

con delicatezza. «Non ho mai conosciutouna ragazza come te.»

«Oh, smettila.»«È vero.»«Tu ci sai fare, Gabriel. Ma non farò

sesso con te.» Fece la faccia dainnocentino. «Sesso? Chi ha mai parlatodi sesso?» Scoppiai a ridere.

Mise il broncio. «Mi sento usato.»

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«Poverino.» Sorrise. «Voglio dartiuna cosa», disse e uscì dalla stanza.Tornò con un raccoglitore ad anelli, cheaprì per mostrarmi una piccola raccoltadi ritagli di giornale. «Se vuoi te lopresto. Così puoi leggere qualcosa diciò che ho fatto.» Il primo articolo eraintitolato «Gentiluomini del mare: ilruolo della Marina nella vicenda deidesaparecidos». Improvvisamente lastanza diventò gelida. No che nonvolevo leggere i suoi scritti. Però sorrisie presi il raccoglitore. «Ma certo.»Cominciai a leggere già inmetropolitana. L'articolo era intelligentee ben scritto. Lo sdegno scaturiva daogni frase, duro come una lanciascagliata contro uomini che avevano

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partecipato alle peggiori atrocità e cheora avevano ottenuto l'immunità legale,mentre era evidente che non avevanonessun diritto di andarsene liberi per ilmondo insieme alle loro figlie... no,questo nell'articolo non c'era. Il vagoneera quasi vuoto. Appoggiai la testaall'indietro e chiusi gli occhi. Ero statauna stupida. Mi ero convinta cheavremmo potuto trovare una sorta diterreno comune, e se anche nonl'avessimo trovato avremmo potutocostruircene uno solo per noi, dal nulla,dal mero desiderio che provavamo l'unoper l'altra. Come se potesse esistere unterreno comune fra i nostri due mondi.

Il treno avanzava ronzando.Avvertivo la presenza del fantasma di

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Romina sul sedile dietro il mio,raggiante di trionfo. Perla, Perla. Chi ticredi di essere?

Va' via.Non ti amerà mai.Vattene.Devi fermarti.Lo so. Lo so.Feci saltare l'appuntamento

successivo, ma Gabriel continuò atelefonarmi e il ricordo dell'odore cheaveva l'ultima volta che l'avevo visto,sudore profondo sotto la pungente acquadi colonia, minò la mia determinazione.Alla fine accettai di andare da lui unadomenica pomeriggio.

«Cosa ti è successo?» mi chieseappena varcai la soglia.

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Restai lì, titubante, in mezzo alsalotto. «È solo che non ero sicura.»

«Di me?»«Di questa storia.»«Perché?» Mi guardai intorno come

se la risposta si trovasse lì in quellastanza, da qualche parte. La lucepomeridiana entrava dal balcone,rivestendo con una patina d'oro i librisparsi sul pavimento e le tazze sporche,macerie di una lunga nottata di ricerche.«Tu quanti anni mi dai?»

«Ventidue?»«Diciotto.»«Oh mio Dio. È uno scherzo?» Lo

guardai senza rispondere.«Perché non me l'hai detto prima?»«Non me l'hai chiesto.»

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«Sei troppo giovane per me.»«Fossi in te, non ne sarei tanto

sicuro.» Non sapevo da dove fosserouscite quelle parole, a pronunciarle erastata una donna a me sconosciuta, unaPerla che non avrebbe rispettato nessuncopione.

«Cosa vuoi dire?»«Che tu non mi conosci affatto.» Mi

fissò e io ressi il suo sguardo senzatirarmi indietro. «Hai ragione, Perla.Non so niente di te.»

«Non l'ho detto per...»«No, è una bella cosa. Sei una

persona complessa. Non ho mai lasensazione che tu dica una cosa solo perfare impressione su di me.»

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«E perché diavolo dovrei direqualcosa per fare impressione su di te?»Scoppiò a ridere. «Vedi? È questo cheintendevo.»

«Allora posso restare?»«Tu lo vuoi?» Avrei dovuto

andarmene allora, prendere larivelazione della mia età come unabattuta d'uscita, proteggendo ancora unavolta il mio mondo. «Tu cosa credi?»Restai. Continuammo a vederci e iosmisi di opporre resistenza. Era moltopiacevole. Le nostre serate erano lunghe,piene di birra e di calore e di urgenzeche assaggiavamo senza saziarcene;eravamo fedeli l'uno all'altra e lecomplicate circonvoluzioni dellerispettive vite interiori sembravano

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combaciare perfettamente. La cosa mistupiva: avevo creduto fosse il tipod'uomo che passa da una ragazzaall'altra con distratta indifferenza.«Allora non mi conosci proprio», midisse un giorno. «Oh, avanti», ribattei,«vuoi farmi credere di non essere maistato così? Con tutte quelle exfidanzate?» Questa frase lo fece ridere elo indusse a seguire con la lingua lacurva del mio orecchio, così che quandodisse: «Tu per me sei diversa, Perla»,quasi non sentii le parole attraverso ibrividi di piacere.

In un certo senso lo capivo. Non eraun uomo che si lasciasse mettere ingabbia. Quando lo prendeva il raptusdella scrittura, non rispondeva al

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telefono, non lavava più i piatti,spostava tutti gli appuntamenti infunzione della storia che stava seguendo,e in quei periodi una donna potevafacilmente mettere il piede in fallo condelle richieste eccessive. Alcune dellesue fidanzate, in passato, lo avevanoinfastidito – cosa stai scrivendo? possoleggerlo? posso sedermi vicino a tementre lavori? a cosa pensi? –, ioinvece non desideravo affatto penetrarein quella sfera della sua vita; capivoperfettamente il bisogno di avere unospazio privato, l'esigenza di lasciarvorticare liberamente il proprio caosinteriore, perché ce l'avevo anch'io.

E, comunque, così era più sicuro perentrambi. Preferivo che il suo

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giornalismo restasse fuori dal nostrorapporto, una parte di lui ma separata,come un'ombra. Non gli chiedevo piùtempo di quanto potesse darmi. Noninsistevo perché venisse a casa aconoscere i miei. Vivevamo il presente.«Quando siamo insieme, dammi le tuemani sottili e i tuoi occhi verdi e usa iltuo senso dell'umorismo per farmiridere, non parlarmi dell'ultimo articoloche hai pubblicato, delle lettere chesono arrivate al giornale, non me neimporta niente, voglio parlare solo diciò che il sole sta facendo alla tua pelle,di ciò che la mia pelle fa alla tua e diciò che la tua fa alla mia, di ciò che sicrea fra i nostri corpi e di come lenostre menti si catapultano insieme in

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nuovi reami.» Che tu ci creda o no,riuscii a nascondergli l'identità di miopadre per più di un anno.

Poi, un giorno, mentre ci stavamopreparando per andare a una festa, miparlò di una riunione che stavanoorganizzando alcuni suoi amici. Avevanofondato un nuovo, interessantissimogruppo che si chiamava HIJOS, un po'come le Madres de Plaza de Mayo, soloche era composto da figli didesaparecidos diventati grandi. Eranopersone fantastiche e avevano delletattiche incredibili, accusavano gliaguzzini alla radio con nome e cognome,aggiungendo non solo il resocontoparticolareggiato dei loro crimini control'umanità ma anche indirizzi e numeri di

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telefono, e poi organizzavano raduni diprotesta davanti alle loro case, unmetodo stupefacente, lo chiamavanoescrache, una cosa nuovissima. Di lì auna settimana ci sarebbe stata unamanifestazione davanti alla casa di ungenerale: perché non ci andavamoinsieme?

Mi sentii svuotata. Vedevo unapiccola folla di giovani, tra cui Gabriel,gridare slogan su un prato che, nella miaimmaginazione, somigliava tantissimo aquello di casa mia. «Non verrò mai auna cosa del genere con te. Nonchiedermelo mai più.» Era esterrefatto,ma continuò a passarsi il pettine fra icapelli. Dopotutto c'era una festa adattenderci. «Ma perché?» Fino a quel

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momento ero riuscita a schivarel'argomento con commenti ellittici ecalibrati silenzi. Ma non ce la facevopiù. «Gabo, ascoltami. Mio padre ènella Marina.» Il pettine si bloccò.Sospeso a mezz'aria. Gabriel mi fissavae, anche se avevo immaginato quelmomento un'infinità di volte, non eroaffatto preparata all'espressione che vidinei suoi occhi. «Era nella Marina...anche quando...?» Non riuscivo più aparlare, perciò mi limitai ad annuire.

Ci fu un lungo silenzio. Gabriel siallontanò di qualche passo, si sedette sulletto e nascose la faccia tra le mani. Ionon mi mossi. La città rumoreggiavaoltre la finestra, automobili, parole e il

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grugnito sordo di un autobus stracaricodi gente.

«Perla», disse poi, «perché non mel'hai detto prima?»

«Secondo te?»«Potrebbe essere coinvolto, lo sai.»«Risparmiami la lezione.»«Come fai a rivolgergli ancora la

parola?»«Tu non lo conosci.»«E tu?»«Tu non sai nulla di cosa conosco e

di cosa non conosco.»«Okay. Non c'è bisogno di gridare.»«Non sto gridando.»«Era solo una domanda.»«Ci andiamo, alla festa, o no?»

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«Non possiamo restare qui eparlarne?»

«A che pro?» Aprì la bocca comeper dire qualcosa, poi la richiuse. Nonera stata mia intenzione risponderglimale e temetti di vederlo perdere ilcontrollo per la prima volta da quandolo conoscevo. Ma lui si limitò asospirare. «Bene, allora andiamo,parleremo dopo.» Andammo alla festa,poi tornammo a casa sua e restammo inpiedi nella luce fioca della lampada afissarci come due giaguari nella giungla,in silenzio, ubriachi. Lui mi guardavacome se mi vedesse per la prima volta,come un'estranea che avesse fattoirruzione in casa sua. Io provavol'impulso di mettermi a correre, ma non

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sapevo se via da lui o verso di lui.Avevo bisogno di dire tante cose chenon dissi – Io non sono mio padre eQuando mai potrò liberarmi di tutto ciòe Mea culpa mea culpa mea culpa –, maquelle parole erano impossibili per lamia bocca ed erano solo gli occhi aparlare; gli occhi di Gabrielrispondevano e non si limitavano aparlare ma gridavano, e pensai chestesse per colpirmi invece mi baciò, conbrutalità, e io mi premetti contro di lui,mi lasciai spogliare completamente estrinsi la mia nudità contro di lui con laferocia di un demone che lotta perliberarsi. Lo trascinai sul pavimento e lotirai dentro di me, sfacciatamente,selvaggiamente, la mia prima volta. I

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suoni che emettevamo erano quelli didue persone che lottano per la loro vita.Un dolore così, tondo e veloce, che mivorticava nel corpo portando sullaschiena schegge di piacere. Avrei volutoche non finisse mai, avrei voluto che misferzasse per sempre. Dopo, lo sentiipiangere sommessamente. Era sdraiatosul pavimento accanto a me, il visosemisepolto tra i miei capelli. Strisciaisul pavimento fino alla lampada e laspensi, poi tornai indietro e lo cullai nelbuio finché le lacrime non si esaurironoe lui non si afflosciò contro di me,spremuto, aperto. E allora, con dolcezza,ricominciammo.

Restammo insieme ancora tre anni.Eravamo continuamente attratti l'uno

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verso l'altra, respiravamo la stessa aria;certe notti sembrava che il resto delmondo, con tutta la sua rabbia e i suoiincubi, svanisse lasciandoci soli con lagioia selvaggia che sgorgava da noi ognivolta che facevamo l'amore. In quellenotti – forse ti sembrerà una pazzia, madevo dirtelo, fra tutte le persone che cisono al mondo devo dirlo proprio a te,anche se non capirai – avrei giurato cheil mondo ricominciasse daccapo neldondolante calderone dei nostri fianchi.Il piacere come forza pulente, e non soloper noi due, ma per tutte le ferite che ciossessionavano.

Ma non andava sempre così.Litigavamo anche come cani rabbiosi.Gabriel andava alle manifestazioni degli

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HIJOS, partecipava alle proteste davantialle case degli esponenti del vecchioregime, trascorreva le ore fra lamezzanotte e l'alba nei bar insieme apersone disposte a cavalcare con lui leonde della discussione politica. Neparlava anche con i suoi genitori, oalmeno così diceva. Soprattutto suamadre era orgogliosa di lui e del suolavoro. Era appassionatissima del tema,tanto che La storia ufficiale eradiventato il suo film preferito. Non sistancava mai di guardarlo. Non chefosse particolarmente originale da partesua, perché ormai il film era diventato«una ragione d'orgoglio per tuttal'Argentina» (parole sue), soprattutto daquando aveva vinto l'Oscar come

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migliore film straniero. Ragioned'orgoglio davanti al mondo intero, anzi,perché non solo era stato il primo filmargentino a vincere un Oscar, ma ilprimo di tutta l'America Latina,figuriamoci! Ragion per cui, diceva lamadre di Gabriel (e lui era bravissimo aimitare il suo esagerato fervore), sipoteva ben dire che avesse fatto lastoria. «E poi», proseguiva, «NormaAleandro è assolutamente geniale,perfetta nel ruolo della protagonista, tifa sentire esattamente ciò che si prova aessere nei suoi panni... nei panni del suopersonaggio, intendo... quando scopreche il bambino che ha adottato, in realtà,è stato rubato a una desaparecida.»Gabriel lo trovava divertente, ma io

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avevo paura anche solo adaccompagnarlo a casa. Cercavo ditenermi il più lontano possibile dal suolavoro e lui, che in precedenza avevaapprezzato quel mio modo di fare,adesso lo trovava irritante. Volevasaperne di più sulla mia famiglia; io nonsopportavo nemmeno l'idea. Cercavo distare alla larga dai suoi amici, che,pensavo, da un giorno all'altroavrebbero potuto organizzare unamanifestazione davanti a casa mia.Immaginavo la scena, le facce stravoltedalla collera, le tende tirate alle finestre,e Gabriel con loro che non voleva o nonpoteva attraversare il prato per venireda me o anche solo gridarmi Perché nonesci e ti unisci a noi?

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«Cerca di capirmi», gli dissi,«anch'io odio quello che sono. Quelloche sono stati.»

«E gliel'hai detto?» No, non gliel'avevo detto, non ne ero capace, e nonsapevo come spiegarlo. Non sapevospiegare né la paura, né il senso dicolpa, né l'amore... men che menol'amore. «So che ti vergogni di me.»

«Ma se ti ho detto mille volte divenire! Sei tu che non vuoi incontrare imiei amici, non sono io che mi vergognodi te.»

«Bene. Allora sono io che mivergogno. Ovvio che è così.»

«Perla.»«Tu non capisci.»

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«Tu, se capissi, non potresti restaresotto il loro tetto un istante di più.»

«Va' al diavolo, Gabo.»«Allora perché non mi inviti a casa

tua per conoscerli?»«Non lo vuoi davvero», mi affrettai

a rispondere.«E se invece lo volessi?»«È impossibile.» Si voltò dall'altra

parte per mettere sul fornello l'acqua peril mate. «Lo sai cos'è impossibile?Questo. Noi. Noi siamo impossibili.»Non parlai mai di lui ai miei genitori.Può sembrare strano che fossi riuscita atenere nascosto un rapporto cosìimportante per ben quattro anni. Mipiacerebbe attribuirmene il merito e direche ci riuscii grazie alla mia abilità di

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prestidigitatrice, ma sarebbe vero soloin parte. In fondo, ognuno crede a ciò acui vuol credere e mio padre volevacredere che io fossi troppo assorbitadagli studi per prendere sul serio unragazzo.

Il che non significa che non facessedomande.

«E così», diceva dopo cena,«stasera vai a ballare.» Mi stringevonelle spalle con aria indifferente. «Sì,insieme alle mie amiche.»

«Ma non ballerai da sola,immagino.»

«Ancora non lo so, papà.»«Una così bella ragazza? Li avrai

tutti attorno.» E mi minacciava con la

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forchetta, in un misto di orgoglio epreoccupazione. «Sii prudente.»

«Hector, lasciala in pace. Èperfettamente in grado di badare a séstessa.» Mamma si voltava verso di mesorridendo. «Vero, Perla?»

«Vero, mamma.»«E se ci fosse una persona

speciale... qualcuno di cui valesse lapena parlare... voglio dire, ce lo diresti,vero?» Annuivo, un po' impaziente,come se la risposta fosse tropposcontata per dirla ad alta voce.

«Bene, allora, e nel frattempo cheballi pure.» Poi però, mentre lavavamo ipiatti e papà si era ritirato nel suostudio, mamma assumeva un'aria dacospiratrice per dire: «Peccato che non

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abbia funzionato, con quel Rodrigo.Verrà anche lui, stasera?».

«No», rispondevo. «Grazie a Dio.Non voglio rivederlo mai più.» Mammasospirava di commiserazione, ma con unpizzico di piacere per essere così beneinformata. «Ne troverai un altro»,diceva. «Aspetta e vedrai.» In queimomenti mi sentivo in colpa, indegnadella comprensione edell'incoraggiamento di una madre. Perquanto ne sapeva lei, la mia vitasentimentale era piena di false partenze,di ragazzi i cui nomi dovevo sforzarmidi ricordare per non perdere il filo dellemie storie d'amore. Ragazzi che nonduravano mai a lungo; non valeva lapena di portarli a casa. A volte era un

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semplice interesse, una scintilla scattatacon un compagno di università, che iotiravo in lungo per qualche mese ma chenon andava da nessuna parte. Mamma midava dei consigli: «Gli hai mandatoabbastanza segnali? Pensi che siatimido?». Io rispondevo in due o treparole, e lei imparò presto a noninsistere per avere ulteriori informazionio il fragile guscio della nostraconfidenza si sarebbe spezzato. Ladeliziava condividere con me quellechiacchierate madre-figlia, e saperesulla mia vita qualcosa da cui mio padreera escluso. Lei non gli diceva mainiente. Sembrava crogiolarsi nell'ideache ci fosse qualcosa che né papà né lamia cerchia più intima potevano

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condividere... soprattutto una cosa comequella, che per interposta persona ledava accesso alla vita sentimentale diuna giovane donna che a lei era statapreclusa, avendo chiuso così tante portein età precoce. Per lei le mie prospettiveromantiche erano come un orizzonteillimitato da assaporare. Dopo i moltianni in cui mi ero sentita lontana da lei,mi sarebbe piaciuto che la nostra nuovaintimità fosse una cosa autentica e nonuna farsa, una serie di bugie. Ma nonpotevo parlarle di Gabriel senza dirlechi era, dopo avrei dovuto portarlo acasa per conoscere lei e papà. Ognigiorno mi aggrovigliavo sempre di piùnella mia doppia vita.

Ma che alternative avevo?

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Una volta, nuda tra le braccia diGabriel, nel succulento calore deldormiveglia, cedendo alla fantasiaimmaginai noi quattro – mio padre, miamadre, Gabriel e me – seduti al tavoloda pranzo. Ci guardavamo e parlavamo,e anche se non riuscivo a sentire ciò chedicevamo la scena sembravamiracolosamente calma e serena. Forsepoteva accadere, dopotutto. Forse ilmondo non si sarebbe strappato lungo lecuciture. Pensieri ubriachi, impregnatidel liquore inebriante del sesso,dell'amore e della speranza. Poi la miavisione cambiò: improvvisamente iltavolo era coperto di gerani morti, e noiquattro li fissavamo con orrore. Miriscossi di colpo. Gabriel si era

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addormentato, le braccia strette attorno ame, il petto contro la mia schiena. Restaisdraiata al buio per un tempo infinito.Fuori, le automobili gemevanoattraversando la città insonne, unacanzone senza sollievo e senza fine.

I gerani erano arrivati in massadurante il mio ultimo anno di liceo.Avevano invaso la casa con il loro rossochiassoso, il loro arancione chiassoso,marciando decisi verso una mortesincronizzata. Mamma ne aveva letto suuna rivista – «versatili, allegri, facili dacoltivare» – e li aveva visti a casa dellamoglie di un capitano della Marina.Quella signora ne aveva messo qualchevaso vivacemente decorato accanto auna finestra, tutto lì. Non abbastanza per

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mamma. I suoi gerani dovevano essereesagerati, senza paragone. Se dovevaavere dei gerani, ne voleva un regnointero. Era come posseduta dalla visionedi una casa straripante di fiori, che ciavrebbero accolti con i loro coloriaccesi ovunque ci girassimo, annegandosedie, tappeti e librerie, più fiori diquanti ce ne fossero in qualsiasi altracasa di Buenos Aires: «Entrando in casaci sembrerà di nuotare in un mare dipetali», aveva detto.

L'idea l'aveva infiammata,spingendola all'azione. Aveva speso unapiccola fortuna in eleganti piedistalli,vasi d'importazione con inserti inmosaico e decine di gerani adulti.Sapeva essere anche così, mia madre: le

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capitava di cedere a improvvisi raptusdi creatività. Da giovane avrebbe volutofare la pittrice – non mi aveva ancoraraccontato tutta la storia, ma avevo vistoil suo unico, spaventoso quadro su insoffitta – e, anche se quel desiderio erastato soffocato da molto tempo, ognitanto il suo fantasma scappava dallagabbia per aggredire il mondo, il piùdelle volte sotto forma di attacchi dishopping compulsivo che generavanouna caterva di scarpe, gonne e camicetted'alta moda, che poi abbinava con gustoardito ma impeccabile per qualchesettimana finché non le venivano a noia.

Non l'avevo mai vista interessarsi afiori e piante, prima di allora, a parte legeneriche istruzioni che dava al

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giardiniere. Ma con i gerani fu diverso: igerani non potevano essere delegati a unsemplice professionista. Li rinvasopersonalmente. L'operazione durò tregiorni. Aveva requisito il patio dietrocasa trasformandolo in una catena dimontaggio per la produzione di piante invaso, spargendo dappertutto vasi, piantee grossi sacchi di terriccio. Avevaarruolato anche me; ci accucciavamoinsieme nel patio, circondate da un maredi fiori rossi e arancione (notai che liaveva scelti soprattutto rossi),sistemando con cura le radici nei loroeleganti contenitori.

Era febbraio, il pieno culminedell'estate, e il sole si riversava comeuna cascata su di noi in lente, umide

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ondate. Mamma portava lunghi guanti dagiardinaggio sulle mani semprecuratissime, e le sue dita premevano ilterriccio attorno alle piantine conpignoleria, addirittura con passione.Aveva comprato un paio di guanti ancheper me, ma io non volli metterli.

«Ti sporcherai, Perla.»«Io voglio sporcarmi.»«Ahi, Perla», disse scrollando la

testa. Non aggiunse altro, ma vedevo cheera irritata. Il mio rifiuto disturbava unpo' il suo progetto di perfette giornatedel geranio, madre e figlia che sioccupavano insieme dei fiori, e nonerano deliziose con quei loro guanti dagiardinaggio coordinati? Dei guanti dagiardinaggio così interessanti, con sopra

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un fiordaliso lilla, che idea carina! Peruna mezz'ora non mi rivolse più laparola, ma poi lasciò perdere: era cosìpresa dall'esecuzione del suo progettoda dimenticare la mia trasgressione, oforse aveva paura che mi stufassi eabbandonassi del tutto l'impresa.

Non avrebbe dovutopreoccuparsene. Non desideravo andarvia. Certo, avevo protestato per quellacorvée, ma debolmente: non mi capitavaspesso di passare un po' di tempo conmia madre senza la pressione di doverparlare per forza. In quel momento,invece, potevamo stare accovacciatel'una accanto all'altra, l'attenzione tuttaconcentrata sulle piante, e io potevosentire l'aroma del suo profumo e il

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ritmo del suo respiro senza bisogno dicercare qualcosa da dirle. Ci capitavaspesso di non trovare nient'altro da dircia parte «buongiorno», «la colazione èpronta», «a che ora pensi di tornare?» e«buonanotte», quasi fossimo dueestranee provenienti da paesi lontani ediversissimi, catapultate per caso nellastessa casa con a malapena il tempo diimparare i primi rudimenti dellareciproca lingua. A quell'epocadesideravo ancora imparare la lingua dimia madre (anche se non l'avrei maiammesso), anche solo per capirlameglio e perché lei avesse qualchepossibilità di capire me. Erano talmentetante le cose che avrei voluto dirlementre stavo accucciata accanto a lei

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con le mani sporche di terra, ma temevoche, se avessi cominciato, mi sarebberovenute fuori anche altre cose che erameglio tacere. Meglio non rischiare diaprirmi troppo. Meglio non azzardarecon mia madre un dialogo eccessivo,soprattutto in quelle giornatefragrantemente afose in cui eraimpossibile posare gli occhi su qualcosache non fossero gerani e ancora gerani.

Erano pianticelle robuste. I fiorierano semplici e allegri, relativamentemodesti, ma riuniti in masse foltesembravano acquisire un potere quasiipnotico. Le radici erano molto piùscure dei petali, e più contorte deglisteli, una metà nascosta della pianta chesi offriva alle mie dita curiose durante il

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viaggio di vaso in vaso. Strana cosa ilcorpo di una pianta, con delle membraconcepite per non essere mai esposte alsole. Ogni tanto, nel corso di quelle tregiornate, mamma si metteva acanticchiare sottovoce. Una melodiaondivaga, niente che conoscessi, ma mirasserenava. La sera chiudevo gli occhiper dormire e vedevo un grande geraniocon le radici denudate nel loro intriconodoso, finché non arrivavano le miemani piene di terriccio a ricoprirle.

Quando tutte le piante furono adimora nei loro vasi decorati, mammaimpiegò quattro giorni a distribuirle ingiro per la casa, spostando unpiedistallo da qua a là, da là a qua, quiquesto vaso con il motivo a conchiglie,

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lì quello in terracotta spagnola, fino aquando anche l'ultimo geranio non fuentrato in casa e lei si lasciò cadere suldivano in uno sfinimento trionfante. Ifiori spuntavano da dietro ogni angolo.Non si poteva posare lo sguardo danessuna parte senza incappare in ungeranio, in due gerani, in centinaia digerani, e camminando da una stanzaall'altra si aveva la sensazione di esseretallonati da loro, allegre folle di fioriche saturavano l'aria alle nostre spalle.Non potevamo fare a meno di sentirci insvantaggio numerico, e di parecchio.

Per una settimana mamma fu in

estasi. I gerani davano ordine e finalitàalle sue giornate. Passava ore a

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innaffiarli, ad accudirli, a esaminarne ipetali fra le mani delicatamente tenute acoppa, a parlare loro, addirittura,quando pensava che nessuno la vedesse.Non so se i fiori le rispondessero, ma sene stavano lì freschi e immobili. E perquella prima settimana non fecero cheprosperare. Poi, come ha sempreraccontato mamma, Scilingo rovinòtutto.

Apparve per la prima volta il 2marzo 1995. Da allora in poi, ogni anno,mi sarei ricordata quella data come unanniversario innominato. Non era unatrasmissione dal vivo, solo una foto e lasua voce registrata. Tutti sapevano chesarebbe andato in onda quel programma.Lo avevano pubblicizzato per tutta la

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settimana. Io non lo guardai insieme aimiei genitori; era uno di quei programmidestinati solo alla loro camera da letto,lo sapevo senza bisogno di chiedere.Andai a guardarlo a casa della miaamica Amelia. «Non preoccuparti», midisse, «i miei non lo sanno.» Nonaggiunse «di tuo papà», ma io capii e lefui grata. Il padre di Amelia eraprocuratore, sua madre, casalinga, sicuciva i grembiuli da sola. Portò unvassoio con bibite e biscotti e tuttiprendemmo posto per vedere HoraClave.

Il famoso giornalista introdusse lastoria. «Questa», disse, «non è la primavolta che sentiamo raccontare ciò che èsuccesso, ma è la prima volta che lo

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sentiamo dalla viva voce di unprotagonista. Questa persona si è rivoltaa me di sua spontanea iniziativa, inmetropolitana, perché voleva che tuttisapessero la verità. Ci siamo incontratipiù volte. È stata una cosa difficilissima,per entrambi. Questi sono i nastri cheabbiamo registrato.» Fissai la foto diScilingo mentre andava in onda laregistrazione. Sembrava più vecchio dicome lo ricordavo, con i capelli e i baffiun po' ingrigiti, gli occhi stanchi e tristi,ma era proprio lui, Adolfo Scilingo,quello stesso che non si presentava maia casa nostra senza tirare fuori dallatasca dei pantaloni un dulce de leche ouna mela candita per la sua Perlita linda.È così che mi chiamava: «Ecco, Perlita

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linda, questo è per te». L'espressioneseria, speranzosa, come se per tutto ilgiorno non avesse fatto altro chechiedersi se avrei gradito il dono. Ildolcetto era sempre tiepido per averviaggiato a contatto con la sua gamba, unpo' sciolto nel suo involucro di carta, eio lo prendevo con entusiasmo, me loinfilavo in bocca e lo succhiavoallegramente senza chiedermi dovefossero stati per tutto il giorno ildolcetto e la gamba che l'avevariscaldato. Al punto che, da bambina,ogni volta che vedevo Scilingo miveniva l'acquolina in bocca perl'aspettativa di qualcosa di dolce.

La voce registrata stava dicendo dicome avesse fatto domanda per essere

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assegnato alla ESMA, la Escuela deMecanica de la Armada, per servireinsieme ai salvatori della nazione. Nonaveva lavorato nei reparti in cui eranodetenuti i sovversivi, ma una volta c'eracapitato per sbaglio e aveva visto,sentito e odorato più di quanto nonavrebbe dovuto. Poi, un giorno, unsuperiore gli aveva ordinato di farvolare alcuni di quei sovversivi,assicurandogli che quelle azioni eranoapprovate dalla Chiesa, che le giudicavaumane e cristiane. Aveva preso parte adue voli, gettando in mare una trentina dipersone in tutto. Quanti altri fossero statigiustiziati a quel modo non avrebbesaputo dirlo, ma una trentina li avevabuttati giù lui con le sue stesse mani. Li

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avevano drogati e spogliati, poi buttatigiù dall'aereo, nudi e ancora vivi.L'avevano fatto tutti, a rotazione. A trattila voce si interrompeva, si incrinava, siaffievoliva, altre volte sciorinavadettagli come chi legge ad alta voce lalista della spesa.

Finita la trasmissione, la madre diAmelia si affrettò ad alzarsi perspegnere il televisore. Un silenziosgomento riempiva la stanza. «Dio mio»,disse. «Oh Dio mio.» Il padre di Ameliasi massaggiò la fronte come se glifacesse male.

«Non riesco a crederci», disse suamadre. «Così tanti...» Per un attimo lastanza si riempì dei respiri acquosi ditrenta fantasmi che appesantivano l'aria

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con le loro esalazioni umide eirregolari. Un momento dopo eranospariti. Non mi sentivo più le gambe, lebraccia, ero come scardinata dalle miestesse membra.

«E la cosa peggiore», disse il padredi Amelia, «è che non possiamonemmeno sbatterlo in galera. Dopo unaconfessione del genere!»

«Lo so. È incredibile che personecome lui possano godere dell'immunità.»

«Tu metti tutto in politica.»«Spero che muoiano tutti di una

morte orrenda e marciscano per sempreall'inferno.» Poi la madre di Amelia sivoltò verso di me. «Un altro biscotto?Forza, non essere timida.» La luce difine estate avvolgeva il vassoio dei

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biscotti. Erano biscotti fatti in casa e ilcaldo profumo della loro cotturaaleggiava ancora nella stanza. Eranoalmeno dieci anni che mia madre nonfaceva i biscotti. Ne presi un altro, nontanto perché ne avessi voglia quanto perfar piacere alla madre di Amelia, oforse per sentirmi un po' menoun'intrusa.

La sera seguente, a casa, cercai neimiei genitori una guida e non la trovai.Perché la cercassi proprio in loro,perché una parte di me pensasse ancoradi potersi appoggiare a loro per trovareuna rotta precisa nell'oscurità, non avreisaputo dirlo. Non c'era alcuna ragioneplausibile. A ogni modo, quella miafantasia si dissolse immediatamente.

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Anche loro si erano persi. La cena erabruciata e troppo salata ma nessuno fececommenti. Mangiammo le nostremilanesas coriacee in silenzio. Unsilenzio teso e inquietante. Io mangiailentamente, solo per obbedienza, perchéavevo lo stomaco chiuso e neanche unpo' di fame. Con la coda dell'occhioguardavo mamma e papà cercando dileggere le emozioni sui loro visi.Sembravano due sfollati da una calamitànaturale del tutto inaspettata: sui lorovisi c'erano emozione violenta e paura –era davvero paura? – ma anche rabbia,soprattutto su quello di mamma.

Cercai tracce di vergogna, ma non netrovai. Cercai l'innocenza, ma non trovainemmeno quella.

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Mamma si versò il fondo di unabottiglia di vino e ne aprì un'altra. Le siarrossarono le guance. Non le avevo maivisto un simile tumulto in viso. Miamadre era un'esperta consumata nelmantenere la compostezza, lei erasempre Luisa Belen Correa Guzman,famosa per quella sua calma esterioritàche alcuni interpretavano comefreddezza e altri come un contegno pienodi grazia. Io l'ammiravo, quella suaesteriorità, e cercavo di emularla (anchese era difficile, per me, con tanti incendiinteriori da spegnere e rispegnere), maaspettavo anche con terrore il momentoin cui la maschera sarebbe cadutasvelando un tracimare di forze liquefatteche le ragazzine mortali non dovrebbero

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mai vedere. Una sorta di calorearroventato usciva a ondate da lei,seduta di fronte a me al tavolo dapranzo, un calore urgente e amorfo.Sedendo a quel tavolo, nel raggiod'azione del suo calore, si dimenticavaquasi che era mio padre quelloaddestrato nell'arte della guerra. Papàsembrava evitarla; l'aria fra loro eratesa; ma a me non dissero niente. Non miguardarono neppure. Con gli occhi dellamente vedevo i nostri piedi sotto iltavolo formare un esagono irrequieto.

Sul finire della cena mamma inclinòsul suo bicchiere la seconda bottiglia divino e trovandola vuota la ribaltò sultavolo. La guardò rotolare lentamentefino al bordo, cadere sul pavimento e

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rotolare ancora fino alla parete. Nessunosi mosse per raccoglierla. Nessunodiede segno di aver rilevato la suatraiettoria, o anche solo la sua esistenza.Il mattino seguente, quando uscii perandare a scuola, era ancora là.

Una settimana dopo, il 9 marzo,tornai da Amelia per vedere l'intervistadal vivo di Scilingo a Hora Clave. Igenitori di Amelia si erano un po' ripresidallo shock iniziale ed erano piùbaldanzosi. Avevano avuto una settimanaintera per sobbollire quelle rivelazioni edurante la trasmissione ebberoparecchie cose da dire all'uomo sulloschermo. Evidentemente erano ancoraall'oscuro di chi fossero i miei genitoried ero grata ad Amelia per la sua

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protezione, anche se sicuramente leiaveva delle ragioni sue per tacere, chenon c'entravano con la lealtà. Io e leinon avevamo mai parlato apertamentedel lavoro di mio padre, solo per mezzefrasi smozzicate e reticenti. Ma nonsembrava giudicarmi, piuttosto avevapietà di me come ne avrebbe avuta peruna storpia che non potesse camminare;il che mi feriva, è ovvio, ma era pursempre meglio dell'altra possibilità.Mentre i suoi bersagliavano d'insulti latelevisione, Amelia mi gettava occhiatenervose, ma a me non importava. Nonero lì per loro e nemmeno per ascoltareciò che Scilingo aveva da dire. Volevosolo vedere la sua faccia sullo schermo.

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Indossava un abito costoso e nonaveva nemmeno un capello fuori posto; aun certo punto, suscitando grandimanifestazioni di disprezzo da parte deigenitori di Amelia, si mise a piangere.Io ti credo, cercavo di comunicargli conil pensiero, credo alle tue lacrime, machissà se credevo a ciò che avevaprovocato quelle lacrime o piùsemplicemente alla loro esistenza. Lelacrime sembravano una cosa semplice,una reazione ovvia, che io però non eroancora riuscita ad avere. Invidiavoquelle lacrime a Scilingo. Midomandavo se avesse dei dolcetti nellatasca dei pantaloni, e cosa avrebbe dettose fossi riuscita a intrufolarmi nelloschermo televisivo per raggiungerlo,

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magari si sarebbe rimangiato tutto, Seitu, Perlita linda, sta' tranquilla, è solo unbrutto sogno evocato da unamaledizione, mi sono uscite di boccadelle menzogne assurde ma non importa,adesso sei qui, tu sai chi sono in realtà.E allora mi sarei accoccolata sulle sueginocchia e ci saremmo cullati, io eScilingo, il mio corpo si sarebberimpicciolito, sarei tornata bambina e lesue braccia sarebbero state calde attornoa me; insieme ci saremmo dondolati,avanti e indietro, dimenticando gli aerei,dimenticando i silenzi, dimenticando leparole che spaccano la mente in due.

«Dei mostri», disse la madre diAmelia alla fine della trasmissione.

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«Quegli uomini sono dei mostri.» Annuiicon espressione assente.

Nel corso della settimana seguentela tensione fra i miei si approfondì e siestese. Litigavano dietro le porte chiuse.Mi avvicinavo in punta di piedi a quelladella loro stanza per origliare. A voltenon sentivo niente; a volte, solo deiframmenti.

«Non azzardarti a telefonargli.»«Ma, Luisa, non è una cattiva

persona.»«È un vero disastro. Guarda che ne è

stato della sua carriera. Non ha piùniente, a parte andare a piagnucolare inTV.»

«È un mio amico.»«Era un tuo amico.»

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«Solo una telefonata.»«Una telefonata può bastare a

distruggerci. È questo che vuoi?»«No, no.»«Allora chiudi la bocca, Hector.»«Non dirmi di chiudere la bocca...»

Non finiva lì, ma io andavo a letto e,siccome il sonno mi aveva abbandonataormai da tempo, guardavo fuori dallafinestra e fissavo la luna appesa inmezzo al cielo, che non faceva niente.Cercavo di non pensare, ma le immaginivenivano da sole: mio padre a HoraClave, mio padre su un aereo, miamadre che lo salutava con un bacio illunedì mattina, «Buona giornata,chiamami se fai tardi», mio padre in unastanza buia con dei corpi nudi, io stessa

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in una stanza buia con dei corpi nudi,coinvolta, che lottavo per respirare,incapace di uscirne. Mio padre incamera mia, inginocchiato sulpavimento, che mi chiedeva in tonosupplichevole qualcosa che non capivo,con parole come relitti galleggianti. No,non era lì, la sua ombra non incombevanel buio accanto al mio letto, eppurevoltavo la faccia verso la parete.

Giunse aprile. Mi sforzavo dimantenere una parvenza d'ordine sullasuperficie della mia vita. Inseguivol'eccellenza in due campi: lo studio e legare a chi beve di più alle feste. Erospietata e trionfante in entrambe leimprese. I miei voti erano impeccabili eavevo fama di saper mandare sotto il

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tavolo anche i ragazzi più atletici. Nondesideravo altro che bruciarmi la golacon la grappa mentre il ragazzo davantia me barcollava cercando di tenere ilpasso finché i suoi occhi non tradivanolo stupore – Chi diavolo è questaragazza che ancora non perde ilcontrollo e Merda perché non mi lasciain pace –, dopo di che mi alzavo daltavolo con la testa in fiamme e ballavo,ballavo, ballavo da sola e non milasciavo avvicinare da nessuno, ballavocosì forte che il ritmo mi lasciava quasidei lividi, ballavo per aprirmi un varcoin un esorcismo che vedevo solo io.

Poi un'altra confessione bucò loschermo televisivo, quella di un uomofamoso per la sua creativa crudeltà e per

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l'uso dell'alto voltaggio, un personaggioné ben vestito né in alcun modo pentito.Si chiamava El Turco – o almeno cosìera noto nell'esercito – e sembravadivertirsi un mondo per l'attenzioneconquistata a livello nazionale. Le leggisull'immunità, dopotutto, gli garantivanouna sfera protetta al cui interno eralibero di parlare delle proprie azionicon sincero abbandono e senza paura diessere arrestato come un criminalecomune, perché lui non era affatto uncriminale comune, era un ufficiale cheaveva fatto con particolarissimo zelo ilsuo dovere nei confronti dello stato. Lasua apparizione non sembrò turbare piùdi tanto i miei genitori, già travolti dagliuragani del loro cielo privato. Non si

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parlavano più, si guardavano incagnesco, mamma ribolliva per tutta lacena e subito dopo papà si chiudeva nelsuo studio con una bottiglia di scotch.

I gerani morirono di sete.Diventarono marroni, friabili e vizzi neiloro bei vasi. Non si poteva posare losguardo da nessuna parte senza vedere icadaveri dei gerani abbandonati, a menoche non si guardasse verso il soffitto,ignorando risolutamente la sfera in cui lepersone vanno avanti e indietro abitandola loro esistenza quotidiana. Perché inquella sfera, la sfera della quotidianità,l'allegra folla di fiori si era trasformatain una cupa folla di putrefazione cheriempiva così fittamente lo spazio visivoe saturava il naso con un odore così

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marcio e pungente da creare l'illusionedi un coinvolgimento anche degli altrisensi: la bocca si riempiva del saporedella decomposizione, la pelle brulicavadella polvere di centinaia di fiorisbriciolati, le orecchie eranoconsapevoli delle grida d'agonia di tuttequelle piante in vaso che anche moltotempo dopo la loro morteriecheggiavano nell'aria in esili vocettestridule. Eravamo schiacciati e messi inminoranza dalla morte dei gerani.Incastrati, tre esseri umani soli nelgrande cimitero botanico in cui si eratrasformata la nostra casa: un cimiterosenza tombe, perché nessuno si prendevala briga di fare pulizia. I vasi restavanoal loro posto, sparsi un po' dappertutto,

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offrendo allo sguardo gli steli nudi comelunghe dita contorte spuntate dalterriccio. Con un atto di negazione cosìestremo da rasentare l'incredibile, miamadre era passata dall'accudire i geranicome neonati all'ignorarli del tutto,convinta forse di poter cancellare laloro stessa esistenza erigendo unabarricata nella sua mente. Continuò adaggirarsi nelle sue giornate come se ifiori fossero diventati invisibili. Lilasciò morire. Mio padre sembrava nonfarci caso: il suo sguardo era semprerivolto a qualcosa che stava oltre lepareti. A volte mi convincevo di esserepazza, di essere l'unica a vedereun'allucinazione di piante morte laddovenessun altro sembrava volerle o poterle

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vedere, mentre i miei genitori vivevanoDio sa dove, in un'altra casa cheoccupava lo stesso spazio fisico maseguendo regole di realtà del tuttodiverse e incompatibili.

Dopo tre settimane mi arresi ecominciai a riordinare, riempiendosacchi di fiori spezzati e impilando vasie portavasi lungo il perimetro del patio.Riempii tredici sacchi della spazzaturadi terriccio secco e rimasugli di piante.Poi restai in piedi là in mezzo, a fissarei panciuti sacchi neri e i vasi ancoraorlati di terra. Mi sarebbe piaciutotrascinare quei sacchi su per le scale erovesciarne il contenuto sul letto deimiei genitori, cospargendo di terriccio eradici spezzate le loro belle lenzuola

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pulite. Avrei voluto spaccare tutti i vasie usare i frammenti come coltelli pertagliare in due i miei genitori e anche mestessa, togliendo la pelle dai nostricorpi, come se la verità di ciò cheeravamo potesse essere messa a nudocosì facilmente.

C'era talmente tanto da mettere anudo, talmente tante cose erano nascoste.Dietro la porta chiusa dello studio, neivasi da fiori, nel sorriso rigido e amaroche mia madre indossava comeun'armatura. Il Nascosto incombeva sudi noi, impossibile da scrollarsi via,impossibile da negare. Rivendicavaciascuno di noi tre come una suacreatura. Addensava le nostre notti erisucchiava il colore dai nostri giorni.

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Quasi non riuscivo a stare in una stanzacon entrambi i miei genitori. Anche lapiù banale cortesia sembrava pulsare disfumature ostili. Mia madre non dicevamai niente di offensivo contro mio padre– non davanti a me, almeno – ma loguardava in modo diverso, con una sortadi irritata pietà, come se lui fossecrollato nella sua stima. Aveva sposatoun uomo dall'uniforme immacolata edalle mani pulite, un uomo dalle azionirette e dal passo sicuro, e oraquell'uomo rischiava di trasformarsi inqualcos'altro, in qualcosa diinaccettabile, né retto né sicuro.

A volte, la sera, arrivava l'ora dicena e mamma non era ancora rientrata.Non telefonava e non aveva lasciato un

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biglietto per farci sapere dov'era. Quellesere cuocevo un po' di pasta e scaldavouna latta di salsa di pomodoro, e io epapà mangiavamo seduti a tavola senzaparlare. Non ho mai saputo dove miamadre trascorresse quel tempo, anche sela immaginavo vagare fra le sueboutique preferite, forse alla ricerca dimanifestazioni esterne di un'inquietudineinteriore, palpando il tessuto di unagonna, sfiorando un paio di scarpe,senza comprare niente. Una sera arrivòche noi eravamo ancora a tavola. Io emio padre alzammo simultaneamente gliocchi, le forchette sospese a mezz'aria,sentendo il rumore della chiave nellaserratura. I passi di mamma siavvicinarono, fermandosi sulla soglia

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della stanza. Mi voltai per salutarla, malei non mi guardò neppure; fissava lanuca di mio padre, che non si era girato.Aveva ripreso a mangiare come seniente fosse. Parlando avrei solopeggiorato la situazione, così tornai aguardare nel mio piatto. Per un minutol'unico rumore fu quello della forchettadi mio padre sulla ceramica.

«Chi è stato a cucinare?» chiesemamma, con una sfumatura di sorpresanella voce. Come se non avesse maiimmaginato che potessimo mangiaresenza di lei.

«Io», risposi.Sospirò. Un sospiro prolungato,

quasi melodioso, quasi nobilitato.Pensai che a quel punto se ne sarebbe

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andata, invece non si mosse. Mi erapassato l'appetito, così mi alzai e portaiil mio piatto in cucina. Quando tornaimamma era ancora là, gli occhi fissisulla nuca di mio padre conun'espressione indecifrabile. Avreivoluto prenderla a schiaffi. Avrei volutoscrollare lui. La scena era tesa eridicola a un tempo. Ma, qualunque cosafosse, io non ne facevo parte; uscii dallastanza e loro non si mossero, come se lamia uscita di scena fosse del tuttoirrilevante.

Cominciai a chiedermi se nonstessero pensando al divorzio. Una partedi me lo desiderava, se il divorziopoteva servire ad alleggerirequell'atmosfera carica di tensione.

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Mancavano solo sette mesi all'inizio delmio primo anno accademico e cercavodi immaginare come sarebbe stata la miavita quando fossero cominciate lelezioni, se avrei ancora abitato in quellacasa, e se sì con quale dei miei genitori.Sarebbe stata una vita del tutto nuova,più pienamente mia, o almeno è ciò cheosavo sperare. Ovunque fossi andata adabitare, qualunque fosse stato il destinodei miei, avrei avuto qualcosa tutto perme, un corso di studi che mi avrebbecondotto per sentieri ai quali loro nonavrebbero avuto accesso. Quali sentieri?Il progetto, non concepito da me, erasempre stato che avrei fatto medicina.Ma quel percorso non mi interessava,anzi, la sola idea mi dava fastidio, come

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un brutto cappotto tagliato per un corpocompletamente diverso dal mio. Iovolevo una materia che mi eccitasse;volevo che i miei studi mi rendessero ilmondo più vero, o rendessero me piùvera al mondo. L'approccio pratico,seguito da molti miei coetanei, era discegliere la facoltà in base a programmia lungo termine, ragionevoli e ordinati.Ma io non riuscivo a pensare a queglianni così lontani, quando già i pochimesi che avevo davanti erano incerti enebbiosi. Più avanti avrei messo a fuocoanche i dettagli della professione, ma inquel momento, quando presi ladecisione, riuscivo a pensare solo a ciòche lo studio della mente umana miavrebbe spalancato, alla via più diretta

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per raggiungere ciò che dentro di me, eanche attorno a me, restava non detto eforse indicibile.

Non parlai ai miei di quel progetto,ben sapendo che lo avrebberodisapprovato, e quanto a loro eranotroppo distratti per farmi delle domande.Cercavo di immaginare come sarebbestato vivere solo con mia madre o conmio padre. Non credevo di poter viveresenza papà, perché lui sarebbe rimastosolo, soprattutto se avesse dovutorinunciare alla casa e non avesse piùavuto il suo studio in cui rintanarsi.Quante notti solitarie aveva passato inquello studio. E chissà quante ore citrascorreva, in quella fase, qualipensieri gli passavano per la testa, se

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accendeva tutte le luci o se restava albuio, se camminava avanti e indietro osi sdraiava sul pavimento o si sedevaalla scrivania con gli occhi chiusi.

Una notte sognai che io e mio padreeravamo a bordo di un aereo che volavasopra il mare, e a un certo punto ilportellone si apriva e papà si voltavaverso di me e diceva: «Lo facciamo?» emi sorrideva indicando un uomo nudo, aquattro zampe vicino all'apertura, dopodi che lo afferrava per i capelli e glitirava indietro la testa, ma l'uomo erasenza faccia, la sua faccia era vuota. Ilcielo entrava a folate dal portellone e inlontananza si sentivano ragliare degliasini. Mio padre lasciava andare la testadell'uomo, poi la sollevava di nuovo e

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stavolta la faccia ce l'aveva, era lafaccia di una ragazza, la mia faccia, condenti e orecchie d'asino e i miei occhipieni di terrore; poi la ragazza miguardava, mentre qualche ciocca dicapelli sfuggiva al pugno di mio padre esi agitava al vento, e ragliava e ragliavae mi diceva: “Avanti, spingimi giù”, epapà diceva: “Perla, sbrigati, il pilotaha perso la rotta di casa”.

Mi svegliai al buio e restaiimmobile per più di un'ora, consapevoledel tepore delle coperte, del ritmo delmio respiro, dell'aria che mi sovrastavaimmobile perché non ero (non ero)vicino al portellone aperto di un aereoin volo. Mi vidi fare la valigia in fretta efuria e scappare nella notte,

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abbandonando casa, padre e futuri studiuniversitari per la vita della vagabonda,affamata, vulnerabile, senza pesi sullacoscienza. Mi vidi andare a scuola ilmattino dopo e denunciare mio padredavanti alla classe, alle amiche, aigiornalisti, ai genitori di Amelia, Midispiace, io ero solo una bambina, viprego perdonatemi, lacrime, rabbia euna famiglia spezzata. Mi vidi scenderele scale e andare da mio padre, nellostudio, per cercare la verità, per capire,per ritrovare un uomo con il cuore pienodi cose da mostrare a sua figlia: amoreper lei, dolore, forse addiritturarimorso.

Quella notte non osai fare niente ditutto ciò, ma la notte seguente mi alzai,

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raggiunsi lo studio e appoggiail'orecchio alla porta chiusa. Silenzio. Lofeci ogni notte, per quattro notticonsecutive, e ogni volta sgattaiolai viae mi infilai di nuovo nel letto, cercandodi addormentarmi.

La quinta notte bussai. «Papà?»Silenzio. Rumore di passi. Con miagrande sorpresa, la porta si aprì.

Entrai nella stanza rivestita dipannelli di legno. Era rischiarata solodalla lampada da tavolo, che creava unapallida sfera di luce. Mio padre era giàtornato alla sua poltrona, dietro lascrivania. Aveva la mascella contratta.Per un po' restai ferma in mezzo allastanza, cercando qualcosa da dire. Nonmi venne in mente niente. Non sapevo

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perché fossi andata lì, se perrassicurarlo o per affrontarlo o peralleggerirmi dei pesi non detti, perespellerli dal mio corpo e deporli nellesue mani. Se per assolverlomagicamente o per accusarlo. Mi sedettiper terra, non troppo vicino a lui, e nonproprio davanti, perché non volevo chesi chiudesse per colpa di un'eccessivavicinanza fisica. Lo sentii versare,alzare il bicchiere, bere, posarlo dinuovo. Passò così tanto tempo chepensai si fosse dimenticato della miapresenza. Stavo quasi per scivolare nelsonno quando papà, quasi riprendendo ilfilo di una conversazione, disse: «Erauna guerra. Una guerra giusta».

Poi tacque ancora. Io non mi mossi.

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«Per questo porta con sé bruttiricordi. Mostrami una guerra che nonporti brutti ricordi. Eh? Provaci, avanti,non ci riuscirai, perché non ce ne sono.La guerra è così. Ascoltami, hija,perfino la Chiesa diceva che era giusto.“Un'opera del Signore”, dicevano.Separare il grano dalla pula. Isovversivi, sai, non credevano in Dio.»Tacque, come in attesa di una risposta,ma io non dissi niente.

«Qualcosa da bere?» Scrollai latesta.

Si versò un altro bicchierino.Quando parlò di nuovo, sembrò piùrilassato. Forse era sbronzo. «Stavamoriportando l'ordine. Per molti anni inquesto paese non c'era stato ordine. Tu

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non immagini che razza di porcile fossediventato questo paese. Bisognavaassolutamente salvarlo, e la gente losapeva, lo chiedeva anche. Adesso tuttici criticano. Be', sai cosa ti dico? Chevadano a farsi fottere. Parlano dellesofferenze dei prigionieri, ma chi siricorda delle nostre sofferenze? Delnostro sacrificio? Una manica di fottutibastardi, ecco cosa sono.» Si appoggiòallo schienale della poltrona, uscendodalla vaga sfera di luce e avvicinandosialla parete a pannelli. Io restaiimmobile, come facevo da piccolaquando lui veniva nella mia stanza nelcuore della notte per accarezzarmi icapelli e trasformare una canzone daosteria in una ninnananna, con una voce

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delicata e sinuosa come le pigre ondedel mare in un giorno di sole, la suamano come cotone grezzo sulla miatesta, e io temevo che se mi fossi mossasarebbe andato via e sarei rimasta dasola al buio senza le sue canzoni. Daqualche parte, nelle pieghe più reconditedell'universo, doveva esserci un copionecon le risposte giuste alle sue parole,come quando un padre confessoreimpone la battuta successiva al dialogofra un penitente e il suo Dio. Ma io nonvi avevo accesso. Non ero unconfessore, e comunque mio padre nonaveva espresso alcun pentimento. Lavoce sembrava essermi sparita dallagola.

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«Ho fatto solo il mio lavoro», disse.«Ho eseguito gli ordini, come tutti glialtri.» Poi si mise a piangere.

Dapprima non lo riconobbi, quelsuono rauco e soffocato. I singhiozzi nonuscivano liberamente, sembravanopremere da sotto la superficie di brevi,pesanti respiri. Come un uomo appenacolpito da una pallottola che cercadisperatamente di non gridare, dicontrollare il dolore. Non alzai gliocchi. Non mi mossi. Non avrei potutomuovermi nemmeno volendo: le gambemi si erano irrigidite, schiacciate sotto ilpeso del corpo, non avrei potuto correrené verso di lui né via da lui. Ma nonpiansi. Pensai che non avrei mai piùpotuto piangere in vita mia, come se le

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lacrime di mio padre e di Scilingo miavessero derubato delle mie.

Passò molto tempo, poi i suonicalarono. Papà si soffiò il naso, unavolta, due volte. Restammo seduti insilenzio.

«Ahi, Perlita», disse lui a un certopunto. «Per fortuna ci sei tu. Ne è valsala pena, per avere te.» Mi sforzai dicapire in che modo quelle parole sicollegassero a tutte le altre. Parole comepiccole bombe sconosciute. A ripensarciadesso è chiaro che avrei dovuto capiregià da allora, ma qualcosa dentro di mesi chiuse di scatto lasciando quelleparole fuori al freddo.

Poi papà si alzò di scatto e spense laluce. Mi passò accanto, diretto alla

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porta. «Va' a dormire», disse e un attimodopo non c'era più.

Fissai il buio attorno a me, un buiodenso e scuro come l'interno di unagrande bocca pronta a ingoiarmi persempre. Il pavimento si alzava e siabbassava come una mandibola. Restaiseduta ancora per un'eternità, nel vorticed'aria, di buio e di sussurri indecifrati,cercando di non pensare, senza riuscirea non pensare, con le orecchie che mifischiavano per il rumore delle lacrimedi mio padre e per altri suoni che inrealtà non c'erano, per esempio ilmorbido whoosh di corpi nudi checadevano e cadevano e cadevano.Avevo la nausea. Stavo peraddormentarmi lì, sul pavimento, ma

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avevo paura di ciò che avrei potutosognare se fossi rimasta in quel posto.Quando finalmente andai a letto, grazie aDio non sognai niente.

Il giorno dopo papà mi raggiunse nelpatio. Ero davanti ai vasi da fiore, listavo impilando in torri più alte, senzauna ragione precisa.

«Perla», disse, e non aggiunse altrofinché non mi girai. Il suo viso eracambiato rispetto alla notte prima, si erachiuso, come la vetrina di un negozioabbandonato con le assi inchiodate.«Voglio chiarire una cosa.» Aspettai.

«In questo paese ci sono deglielementi ai quali non bisogna credere.Devi essere molto prudente. Soprattuttoadesso che andrai all'università, dove

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sarai esposta a ogni genere di persone.»Lo guardai negli occhi e lui spostò losguardo sui cespugli di rose chesegnavano il confine del patio, sulle altetorri di vasi da fiori, sui portavasi chenon reggevano più nient'altro che aria.Sembrava sfinito, la pelle segnata daquelle rughe che incidono sul viso lastoria di una vita senza rivelarne isegreti.

«Non dovrai mai parlare con igiornalisti. Sono come parassiti, siinfilano dove non dovrebbero e noncombinano niente di buono. Ma, più ingenerale, fa' attenzione alle compagnieche frequenti.»

«Con chi parlo riguarda solo me.»

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«Perla, tutto ciò che fai miriguarda.»

«No. Io ho una vita mia.»«Perché io te l'ho data.» Lo fissai;

sembrava sbalordito lui stesso da ciòche aveva appena detto. «Vaffanculo»,dissi, sicura che si sarebbe messo agridare o mi avrebbe presa a schiaffi.Prima non mi sarebbe mai venuto inmente di parlargli così.

Ma lui non gridò e non mi prese aschiaffi. Invece disse: «Ascoltami,Perla. Devi ascoltarmi. Ci sono cose chenon puoi capire».

Mi fissò con un'intensità che andavaoltre le parole, e nel suo sguardo lessiuna supplica che lui non potevaformulare né io accogliere, una supplica

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che richiamava la nostra conversazionedella notte prima e che chiedevaun'assoluzione o un'amnesia, o almeno lacontinuazione dell'amore. Avrebbevoluto vedermi metabolizzare le sueconfessioni e restare al suo fianco, figliafedele, elemento essenziale di unafamiglia unita che sapeva proteggere ipropri segreti dai giornalisti, dal restodel mondo, da sé stessa. “Nonaccoglierò la sua supplica”, pensavo.“Gli sputerò in faccia per conto di queinebulosi trentamila, o almeno loattaccherò con parole dure e misurate,districando la mia coscienza individualedalle sue azioni”... ma non lo feci. Avreidato qualsiasi cosa per poterlo fare. Misembrava un crimine orrendo permettere

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ai fili che ci univano di restare intatti,non recisi. Volevo essere un tipo dipersona completamente diverso, unapersona libera di condannare con undisprezzo puro i voli e tutti gli altriorrori. Che lusso, il disprezzo puro. Chesentimento civilissimo, cosìimpeccabile. Come la madre di Ameliae come tanti ragazzi della miagenerazione, rispetto ai quali mi sentivofuori tempo, incapace di condividere leloro proteste urlate senza spaccarmi indue. Mio padre aveva bisogno di me.Solo io avevo visto i suoi punti piùvulnerabili, sentito il rumore delle suelacrime; se lo abbandonavo, in tutti isignificati della parola, avrebbe vagatoper il mondo perso e fragile e solo,

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senz'ancora, senza alcuna possibilità disalvezza.

Avrei voluto scappare via da lui, daquel patio sovraffollato,dall'espressione con cui mi guardava,dal mio stesso amore pesante. Ma nonscappai. Restai lì, paralizzata, mentremio padre si allontanava avendo avutol'ultima parola.

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6 - LA PAROLA «DOVE»

È così che andò a finire: quegli

uomini entrarono con delle siringhe e luipensò che fosse qualcosa di letale,invece era solo un qualche tipo di droga,per tenerti calmo, dissero, mentre tiportiamo in un centro operativospeciale, a sud. Beatitudine, sollievo,entrare nell'alone di quella droga, comeun gas bianco pompato direttamente nelcervello. Poi si ritrovò su un camion, uncamion dell'esercito, di quelli coperti daun telone grigioverde, non poteva

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vederlo perché era bendato ma lo capivadalla stoffa a cui si appoggiava, dallieve soffio d'aria provenientedall'esterno. Era ammucchiato con altricorpi, anch'essi drogati, tutti come luisenza nome, solo un numero diidentificazione. Cercò di ricordare dovefossero diretti: a sud, sì, proprio così, listavano portando in un centro operativospeciale, a sud. Cercò di appigliarsi aquell'informazione con la sua mentesedata, aggrappandosi alla parola «sud»come a un'ancora, ma in quella nebbiabiancastra continuava a sfuggirgli.

Quando il camion si fermò litrasferirono su un aereo, che bizzarrocarico stupefatto erano, con gambe chenon potevano correre né camminare. Un

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po' li portavano, un po' li trascinavano,una guardia lo sostenne per le braccia,lo tenne su, guidando i suoi passi. Ilcorpo della guardia era giovane emagro, muscoloso, probabilmentecresciuto ai margini della città; eranotanti i militari di basso rango cresciuti aimargini della città, pasti senza carne,mai abbastanza pane, poca scuola, moltebotte, forse anche quella guardia erastata un bravo ragazzo, forse era ancoraun bravo ragazzo, il braccio era forte, cisi poteva appoggiare, sbrigati, disse laguardia, avanti, cammina.

Davanti al portellone dell'aereo dueguardie stavano litigando riguardo aicorpi. Non ci stanno, disse quella vicinoa lui.

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Allora fate spazio, disse l'altra.Schiacciateli.

E se non ce ne entrano più?Idiota, allora tornerete indietro per

un secondo giro.Strano, pensò lui, che litighino

davanti ai prigionieri. Forse avevanoricevuto istruzioni poco chiare. Forsepensavano che il carico fosse troppodrogato per capire. Lo trascinarononella stiva dell'aereo e lo schiacciaronocontro altri corpi, ammassati l'unosull'altro come scatoloni dalla formairregolare.

Poi l'aereo decollò.Si levarono in aria, ammassati nella

stiva buia. Sentiva il corpo di una donnacontro il suo, le gambe di un uomo sul

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suo petto, percepiva il rollio dell'aereoe il frastuono dei motori. L'aria erascarsa e puzzolente. Ricominciò achiedersi dove stessero andando.L'aereo rombava e cigolava. Ci miseroparecchio ma ormai il tempo nonesisteva, non più, si era allungato edeformato e non aveva alcunaimportanza. Sentì di nuovo l'ago nelbraccio, un'altra iniezione, altra droga.Dal movimento dei corpi più vicini capìche anche loro stavano ricevendol'iniezione. Passò altro tempo. Dentro dilui, la nebbia si era fatta più densa. Lemani tornarono e spogliarono tutti queicorpi. Il sud, pensò, non lo vedrò mai,comunque non avrei visto niente, masicuramente non stiamo andando a sud.

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La svestizione sembrò durare un secolo.Le sue ferite si riaprirono quando glisfilarono i pantaloni, il suo sangue colòlentamente sulle loro mani. Le guardiese le pulirono sulle sue cosce,bruscamente, c'era ancora tanto da fare.Il suo corpo si ritrovò schiacciato controaltri corpi nudi, la sua coscia contro unculo, una mano gli premeva sullecostole, anzi no, era un piede, gli tiravala pelle come se stesse cercando di farpresa su qualcosa, erano così vicini, e ilgas così denso nella sua mente, la pelleè duttile, si fonde, è fatta per fondersi acontatto con un'altra pelle, non lo si puòevitare, e tutti quei corpi sembravanofondersi in uno solo, liquido, convulso.Faceva caldo, non si riusciva a

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respirare. Poi, all'improvviso, unoscivolare di metallo su metallo, il rombodell'aria e il portellone si aprì sul cielo.I corpi arretrarono da quel varco comeun corpo solo. Sentì un fruscio dimembra, alcune erano le sue, un frusciocarico di un lento stupore senza scopo.Un corpo fu sollevato di peso etrascinato via, lui percepì l'increspaturadella sua perdita attraverso la massadegli altri corpi, quel vorticoso cumuloumano.

La voce di una guardia: Avanti,spingilo.

La voce di un'altra guardia emise unsuono, come un singhiozzo, il tipo disinghiozzo che lacera la gola.

Sei un finocchio. Vaffanculo.

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Un'altra voce, grave per l'età:Portatelo in cabina di pilotaggio.

Tra i corpi nudi regnava il massimodella confusione, erano troppo intontitiper gridare, alcuni erano incastrati fraaltri corpi svenuti, il portellone eraaperto, ogni tanto un gemito si levava epoi svaniva. Sentì la guardia che avevasinghiozzato aprirsi un varco in quellamassa gemebonda, in direzione oppostarispetto al portellone, via da quel cielonudo. Dall'apertura venne unpiagnucolio, un piagnucolio cheprecipitava, già lontano, perso nell'aria.Poi ci furono altri gemiti, borbottii,sussurri, ovattate voci di terrore. Pianpiano si fece più spazio. I corpidiminuivano e lui non era più tanto

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schiacciato, la massa si stava separandoin entità distinte. Corpi nudi cadevanodal portellone. Mosse un braccio esubito una mano decisa lo afferrò e lotrascinò sul bordo di quell'ariasferzante; non oppose resistenza; sisentiva leggero: si inginocchiò sul bordodella stiva e la spinta fu quasi delicata,come un cieco guidato attraverso la suanotte, poi cadde in avanti, nel cielo.

Le mani gli corsero al viso e sistrappò la benda dagli occhi. Sotto di luic'era un mare di nubi, strappate,bianchissime, criminalmente belle,accecanti nella loro radiosità, e moltopiù sotto l'acqua illuminata dalla luna.Cadevano, gli esseri umani nudi,punteggiando le nubi. È uno di loro, una

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goccia di pioggia, piovono esseri umani,esseri umani nudi, nude gocce dipioggia, sotto di lui il bianco, attorno alui il vento, il ronzio e la sferzadell'aria. Ha la bocca aperta e spalancaanche le braccia, come per volare, comeper stringere, pensa potrei pisciarmiaddosso, cade attraverso lo spruzzodella sua urina, bianca, cade attraversoil bianco che però non può fermare lasua caduta e per un istante diventanuvola e a volte da bambino si sdraiavasulla schiena e guardava le nuvole e ilgiorno del suo matrimonio lei avevacamminato verso di lui lungo la navatadella chiesa nel suo bianco abito dasposa tutto pizzi e tulle e quanto avevadesiderato toccarla, cade attraverso la

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gonna del suo abito da sposa, la suabianca gonna fluttuante, grande e biancae strappata dai corpi che cadono e cosìmorbida talmente morbida da nonsostenere il suo peso, da non poterlotrattenere, afferra l'aria in cerca di unfilo ma continua a cadere, sostienimi,avvolgimi, dove sei mi amor, mi sembradi sentire il tuo odore, l'aromamuschiato che hai sotto la gonna, forte,appetitoso, opulento, il tuo profumoprofondo, vorrei restare sotto la tuagonna ma continuo a cadere, giù, semprepiù giù, e cadde attraverso tutti i suoiricordi di bianco, le nuvole della suainfanzia, gli altari in chiesa, la cartasilenziosa sotto la mano, tutte le paroleche aveva scritto e quelle che non aveva

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scritto, nessuna delle sue parole avevapiù del bianco su cui atterrare e anchelui non aveva niente su cui atterrare,ormai era sotto le nuvole, nella nera ariacristallina, le braccia ancora stese infuori come per abbracciare il mare,l'aria gli correva addosso, l'acqua sistendeva sotto di lui vasta e calma, unadensa massa nera spezzata da un corpoin caduta libera, poi un altro, corpi nudiche rompono la superficie e l'acqua sitorce e balza verso l'alto e li inghiotte,lievi increspature circolari attorno alpunto del loro tuffo, rughe sottili chebrillano sotto la luna, acqua increspatadai corpi umani e dall'aria, a lui le rughenon sarebbero mai venute perché lui nonsarebbe invecchiato, ormai era deciso,

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sarebbe stato inghiottito dal mare cosìcom'era, giovane, con la pelle liscia,pelle di tutti i colori dell'arcobaleno,con dei segni rossi, blu, bianchi, verdi eviola sparsi un po' dappertutto, il marese lo sarebbe preso e lui pregava soloche non facesse male, la potevaaffrontare, la morte, se solo non avessefatto troppo male, basta dolore, l'acquaera vicina, ancora un istante e poi disse,Dio, ma dove cazzo sei? dov'è miamoglie? e il nostro bambino? anche sedalla bocca gli uscì solo la parola«dove» prima che l'acqua si aprisse e loinghiottisse rompendogli le ossa eriempiendogli la bocca, ma non fece perniente male.

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I ricordi lo lasciano stremato. Lohanno strizzato come uno straccio per ipavimenti. Vorrebbe chiuderli fuori,almeno per un po'. È solo; la ragazza nonè tornata; perfino la tartaruga se n'èandata in cucina. La stanza è buia,schiarita solo dalle deboli lame di luceche i lampioni gettano dentro dallafinestra.

C'è solo una cosa che vorrebbericordare, ed è il viso di Gloria. Gli famale quell'ovale vuoto che ha in mente,circondato da capelli neri. Altre parti dilei sono vivide e magnificamenteilluminate: le scapole, come le videsporgere dalla sua schiena quell'ultimanotte, mentre dormiva accanto a lui; lecaviglie, grosse e solide, un po'

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incongruenti nel suo scheletro sottile; lespalle, tese e compatte l'ultima volta chela vide, legata a una sedia; le lunghe ditache si posavano sul suo ginocchio, lasera; le stesse dita con cui lo toccò perla prima volta, la notte in cui siconobbero, alle due del mattino in unalibreria dove, come un idiota, le chiesel'ora solo perché era così bella, solo peravviare la conversazione, e lei risposenon lo so, non ho l'orologio. Gli parvedivertita, poi arrossì leggermentequando le sue amiche risero di lui, macomunque gli sfiorò il polso con la puntadelle dita dicendo, tu sì che ce l'hai,l'orologio, perché non me lo dici tu? Ealzò gli occhi per guardarlo in viso,indomita, in attesa, come avrebbe fatto

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mille altre volte dopo quella notte, e oralui vorrebbe tanto vedere il suo viso manon ci riesce. Fluttua vuoto nella suamemoria, una macchia confusa di carnecancellata. Gloria era piccola senzaessere fragile, questo lo ricorda. Eraossuta, quelle sue ossa gli tagliano lamente, e lui vuole essere tagliato, vuoleessere ferito dalle sue protrusioni,portarne le cicatrici sulla sua pellenuova. Ma più di tutto vorrebbe riavereil suo viso, ricordare la forma del suonaso e degli occhi e la curva dellamandibola nella nebbia che gli siaddensa dietro le palpebre. Se soloriuscisse a vedere il suo viso, pensa,forse potrebbe riavere anche lei, unframmento di lei, almeno, non importa

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cosa le hanno fatto né cos'è diventata, eallora non si sentirebbe più così solo inquella casa buia.

Raccoglie le forze e fissaintensamente la parete vuota. Evocheràil suo viso su quella superficie bianca. Ilcompito è arduo e lento, ma lui èdeterminato. Eccolo, arriva. Potràriavere almeno quella parte di lei.

Si impegna a lungo, nel più assolutosilenzio.

E finalmente ci riesce. Il viso diGloria è là. La fronte è ancora sfocata ec'è un po' di nebbia lì dove dovrebberoesserci le orecchie, ma tutto il resto èstato ricomposto sulla parete bianca. Ilviso di Gloria, dal pavimento al soffitto.Potrebbe librarsi verso quel viso,

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volarci dentro e perdercisi, aprirsi ilcranio e premere il cervello nudo suquelle labbra, questo vorrebbe fare,invece resta immobile per nondisperdere l'immagine. Restaconcentrato. Fissa la parete senzamuovere un muscolo, anche la mente èimmobile, la sua memoria è come unvaso pieno di schegge che non bisognascuotere né urtare, ora che ogniframmento spaccato di memoria è andatoa posto. Il viso di Gloria risplende. Gliocchi soprattutto sono perfetti. Tienestretta l'immagine dei suoi occhi, apertie attenti, il capolavoro della suaricostruzione.

Una chiave nella serratura. La sentegirare. È tornata la ragazza.

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Entra e si chiude la porta alle spalle.Si ferma un attimo e lo guarda senzaaccendere la luce. Lui sente il suosguardo ma continua a fissare la parete,intensamente. Sotto il suo sguardopercepisce di nuovo il proprio corpo: lemani bagnate sul tappeto, le gocce chegli cadono dal mento, le ginocchiapiegate. La luce dei lampioni che entradalla finestra si mescola al fulgore delviso di Gloria. Resta immobile, nondeve assolutamente muoversi, la vita delviso di Gloria dipende da lui. Laragazza avanza verso la parete. Entranella sua visione periferica, la bocca diGloria è grande e voluttuosa e si schiudeleggermente. Lui permette al suo sguardodi posarsi un attimo sulla ragazza.

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Sei ancora qui, dice lei, senzatraccia di stupore.

Lui la guarda e anche la bocca dellaragazza si schiude leggermente, in unmodo che gli fa rombare la testa perchéè identico a come lo fa Gloria –assolutamente identico – ed ecco, il visosulla parete scompare lasciando al suoposto un chiarore improvviso. La stanzadiventa un vortice di stelle che roteanovelocissime attorno a lui, vicino, semprepiù vicino, minacciando di ferirgli ilcuore. Vorrebbe emettere un suonosfrenato, un flusso sonoro gli sgorgadentro, ma resta intrappolato in gola.

Riesce solo a dire, Tu.Poi si alza in piedi per la prima

volta, con le ginocchia che gli tremano,

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e le tende la mano.La ragazza lo guarda negli occhi, poi

corre su per le scale e scompare.

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Seconda parte

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7 - UNA MAPPA DI LEI

È rimasto così tutta la notte, con gli

occhi spalancati fissi sulla parete vuota.Ormai quella conoscenza è indelebile,impressa in lui, un nocciolo duro diconoscenza, e la sua mente si tende percrearle attorno una forma nuova. Hariconosciuto la ragazza.

È stordito, sbalordito. Milledomande lo assillano: com'è possibile?Come ha fatto a trovarla? E lei com'è

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arrivata in questo posto? Deve dirglielochi è lui, e da dove viene lei?

Vorrebbe tanto dirglielo. Ma nonosa. La ragazza potrebbe non esserepronta per quell'informazione, essendocresciuta in quella casa... e tenendoconto di com'è scappata la notte prima.

Vorrebbe una cosa che non potrà maiavere. Una mappa di lei. Con tutte le suestrade interiori, le coste e i ghiacciai.Vorrebbe conoscerla meglio di quantoabbia mai conosciuto sé stesso. È statacosì tante ragazze – un giorno hacompiuto mille giorni, e poi mille e uno– e ciò che è stata in ognuno di queigiorni non può resuscitare, non puòrisuccedere, per quanto lui giri eperlustri il mondo alla sua ricerca.

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Pensa a tutte le versioni di lei che nonpotrà conoscere: bambina troppopiccola per tenere su la testa, bambinaabbastanza grande da arrivargli allespalle, bambina che gioca a nascondinonella credenza della cucina e a campanasul marciapiede, che porta i codinilegati con un nastro, il vento nei codini ei codini nel vento, lo splendore del solesu quei codini non può accadere dinuovo, e poi ragazza riservata chescopre tempeste nel proprio corpo,ragazza tesa che scopre ragioni perbattersi, ragazza in gamba con le suearmi, ragazza che cresce sola, ragazzache cresce in compagnia, buona o cattivache sia. E infine donna. Da qualcheparte, in qualche modo, donna, con

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dentro migliaia di ragazze. E lui non puòentrare. È accaduto nel passato. Unpassato che non può ripetersi anche selui lo vorrebbe tanto, vorrebbe poterspingere all'indietro la corrente deltempo, costringerla a scorrere nelladirezione inversa, risalendo fino a tuttele ragazze e le bambine che lei è stata.Ha voglia di gridare, di esplodere fuorida quella sua strana pelle bagnata per ildesiderio di vedere la sua infanzia, disfiorare le sue piccole membra appenanate, di tenerla in braccio quando eratroppo piccola per camminare, dispazzolarle i capelli quando era troppopiccola per andare a scuola, di salutarlaal mattino quando usciva per andare ascuola, di essere con lei mentre faceva il

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suo primo passo e diceva la sua primaparola e pronunciava per la prima voltail suo nome. Vorrebbe che la ragazzariconoscesse quel nome come una cosache le ha dato lui, dono di sillabe nellasua bocca, in quella di lei, nella boccadel mondo, possa questo nome diventarela tua casa. Piccole intimità, gioiecomuni, le uniche davvero importanti. Sisforza di rintracciarle con la mente, ditrovare il passato e di infilarvisi dentroa forza, gli è stato rubato e lui è furioso,lo rivuole indietro ma non trova lastrada, non ha una mappa e il tempo ècrudele, non gli importa di ciò che glihanno strappato, il suo corpo e i suoisensi e gli occhi e i giorni e la vitastessa, ma questo no, non può avere

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perso anche il tempo che avrebbe potutopassare con quella ragazza prima chediventasse la donna che ha visto, grandee giovane proprio com'era lui quandol'hanno fatto sparire.

Com'è bella. Quante cose ha sotto lapelle. Quanto ci sarebbe da scoprire, inlei; dovrà lavorare sodo per rimettersiin pari, gli sembra un compito infinito.Ma deve provarci. Per lui non c'è piùconfine tra conoscere la ragazza econoscere sé stesso. Lei è la strada cheporta al suo cuore, a ciò che ne resta, aciò che è sopravvissuto all'annegamento.Vuole credere che il legame fra loroesista ancora, indelebile, codificato nelsangue della ragazza, in quel fluido chescorre nel suo corpo mantenendola viva

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e vitale, versato ogni tanto da unginocchio sbucciato o per sigillare ungiuramento infantile, amiche del cuore,per sempre, lo giuro, ignara del fatto chele sue vere origini sono cifrate in ognisua goccia. Lei che imparava adarrampicarsi sugli alberi e a cadere, afare promesse e a infrangerle, e lui nonera lì per prenderla al volo, percrederle, per pulire le sue ferite,attentamente, con entrambe le mani.Dieci minuti, pensa, vorrei tutta la suavita ma chiedo solo di essere trasportatonella sua infanzia per dieci minuti. Sabene come li impiegherebbe: loro duesoli in riva al fiume, per vedere le suedita frugare nella sabbia, memorizzare i

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contorni del suo viso, ascoltare le sueparole, le sue risate o il suo silenzio.

Chiude gli occhi e si tende fino allospasimo; non succede niente. Non puòtornare indietro.

Ripensa a tutto ciò che ha perso – aciò che l'acqua gli ha portato via – ed èquesta la cosa più insopportabile. Iltempo che non ha potuto condividere conquella bambina.

Ma non vuole macchiarsi diingratitudine. Perché adesso è con lei,lei è lì, in quella casa, e lui può almenoconoscerla com'è adesso. Non si lasceràsopraffare dal dolore. Deve riscuotersi.La bambina non c'è più, ma puòcondividere momenti preziosi con laragazza grande. Non sa quale stella,

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quale dio o quale svolta del destinoringraziare per questa collisione con ilsuo mondo, per il tempo che potràpassare con lei, ma si affretta aringraziare. Qualunque cosa sia venuto afare deve assolutamente farla, per séstesso, per la ragazza, per Gloria.

Gloria. Lei è uscita da te ed èsopravvissuta, com'è potuto accadere?Anche tu sei sopravvissuta? Dove sei?Ma che tu sia sopravvissuta o no, lei ti èstata strappata ed è stata portata qui, inquesta casa. Come devi aver pianto lasua morte. Ma lei è viva, Gloria, anzi,più che viva, e bella, più bella di quantoio potessi immaginare. Una creatura conla bocca come la tua.

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Una bocca come la tua, che Dio laaiuti.

È mattino, spade di luce dentro dilui, vorace.

Siccome il mattino che miincombeva addosso sembrava tropporuvido di luce e di spazio, e siccome ilterribile “Tu” pronunciato la notte primadal fantasma mi bruciava ancora inmezzo al petto, per molto tempo nonriuscii ad alzarmi dal letto. Pensavo atante cose. Al solaio, celatodall'innocente soffitto della mia stanza.Una volta, avrò avuto otto, nove anni, ciandai per cercare dei costumi per unarecita scolastica in un vecchio baule cheera lì da sempre, logoro e pesante comeil forziere di un pirata. L'avevo già visto

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altre volte, quel baule, ma senza aprirlo,e avevo sempre immaginato checontenesse sete pregiate, perle emedaglioni d'oro. Era la prima volta cheandavo in soffitta da sola. La polveredanzava nell'unico raggio di sole cheentrava dalla finestra. Il baule era chiusoa chiave. Provai a tirare forte lalinguetta metallica decorata, ma nonaccadde nulla. Faceva molto caldo el'aria era soffocante, non avrei dovutoessere lì, non avevo chiesto il permesso,sarei finita nei guai. Avvampai in tutto ilcorpo all'idea di quei guai. Dietro ilbaule spuntava il quadro, l'unico che miamadre avesse mai dipinto, quando avevadiciassette anni: un'enorme telapacchiana lasciata lì a coprirsi di

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polvere, con le sue furiose ondate dipittura nera che si intorbidivano sopramonticelli spezzati di viola e vinaccia. Imarosi sembravano sul punto dirovesciarsi fuori dalla grande tela perannegarmi. Quel quadro mi facevapaura, ma al tempo stesso avrei volutosaltarci dentro per cercare mia madre, latempesta interiore che non increspavamai la sua superficie levigata ma cheevidentemente da giovane era scappataal suo pennello e che ancora aspettava inquelle scure volute di colore, potenti,incombenti, informi. Il quadro però eraimmobile, non ci si poteva tuffare fra lesue onde e non rivelava i suoi segreti.Pensai a quella ragazzina, Alice, che ungiorno era caduta in una tana di coniglio

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e si era azzuffata con la Regina di Cuoriche voleva farle tagliare la testa. Comedoveva essersi sentita cieca, Alice,mentre precipitava, roteando, euforica,perduta. Poi, una volta arrivata in fondo:la visione. Una visione eccessiva.Pericolo. Ci sono mondi in cui vorrestitanto entrare, mondi ai quali nondovresti nemmeno avvicinarti e mondiche sono entrambe le cosecontemporaneamente. Restai davanti alquadro per molto, moltissimo tempo.Nemmeno adesso che sono cresciutariesco a ricordare come e quando me neandai dalla soffitta, come feci a spezzarel'incantesimo.

Anche un'altra volta andai in unposto proibito: un giorno, a casa di

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Gabriel, presi dalla libreria la sua copiadi Nunca mas. Lui era nella doccia e iocompii quel gesto prima di avere iltempo di fermarmi o di chiedermiperché. Era un grosso volume rosso,impossibile da non notare in qualunquebiblioteca. Ovviamente ne avevo giàsentito parlare – tutti avevano sentitoparlare di Nunca mas – ma non l'avevomai avuto concretamente fra le mani.Sfiorai con un dito il bordo consuntodella copertina. NUNCA MAS, c'erascritto, RAPPORTO DELLACOMMISSIONE NAZIONALE SUIDESAPARECIDOS. La commissioneera stata creata dal presidente nel 1983,dopo il ritorno alla democrazia, perscoprire che fine avessero fatto le

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persone scomparse. Erano state raccoltemigliaia di testimonianze. Quel libro neesponeva la conclusioni. Quando io eRomina eravamo ancora amiche, lei lochiamava «il libro terribile», quello chetutti devono leggere ma che nessunoriesce a finire. Inutile dire che a casamia non c'era.

Lo aprii. Lessi finché non sentii chelo scroscio della doccia siinterrompeva, cinque minuti circa, poirimisi il libro sullo scaffale come senessuno lo avesse mai spostato. Chiusigli occhi. Ascoltai Gabriel muoversidietro la porta chiusa, spazzolinoelettrico, pettine, acqua di colonia. Nelrosa scuro dietro le palpebre vedevocorpi nudi e incappucciati dentro una

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cella, una verga d'acciaio, gambespalancate a forza, dita dei piedicontratte su un pavimento insanguinato,una cucina vuota con le sedie rovesciatee poi le mani di mio padre posate sulnostro lucido tavolo da pranzo, i suoipiedi che entravano in ufficio e, la notte,la sagoma del suo corpo nel vano dellaporta di camera mia, una sagoma grande,forte e nera, che bloccavacompletamente la luce proveniente dalcorridoio.

Gabriel riemerse dal bagno, sentii ildolce profumo di pesca del suo sapone el'aroma aspro dell'acqua di coloniamentre mi abbracciava da dietro e mibaciava sulla nuca scoperta, e quandomi appoggiai contro di lui le sue mani

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mi avvolsero il seno, facilmente,avidamente, di certo in quel momentonon stava pensando a cappucci, verghe eaerei, anche se ovviamente sapeva tuttodi quei cappucci, verghe e aerei, dasempre quelle cose rimbalzavano fra dinoi allontanandoci l'uno dall'altra, alladeriva, sballottati qua e là dallatempesta, incapaci di trovare un portocomune. Avrei voluto interromperequelle carezze per non contaminare conil posto dove erano stati i miei pensierila sensazione che mi davano le sue mani,ma il mio corpo la pensavadiversamente: gemeva di desiderio;chiedeva forza, capezzoli strizzati fino afarli sanguinare (anche se lui nonsarebbe mai arrivato a tanto), una

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scopata violenta (anche se lui avrebbecontinuato a ripetere “amore, amoremio”) come se solo così si potesseroesorcizzare i rumori di carne contrometallo vomitati dal libro. Quandol'orgasmo si fu steso sopra di noi, restaiaggrappata a lui e non volli districare lemie membra dalle sue né spiegargliperché.

Gabriel non tornò mai piùsull'episodio e io gliene fuiprofondamente grata. Ma un'altra notte,non molto tempo dopo, a un certo puntodisse: «Vorrei poterti lasciare».

Eravamo a letto, nudi, e lo disse contenerezza, quasi fosse una canzoned'amore.

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«Allora credo che dovresti farlo.»Scrollò la testa. «Non posso.»

«Perché?»«Non lo so, ma a volte è una cosa

che detesto.»«E le altre volte?»«Le altre volte non me ne importa.

Mi importa solo di stare con te.» Miaccoccolai contro il suo petto. Era statauna giornata caldissima e la sua pellesapeva di sudore, di sole e di sigarette,un odore mille volte più concreto dellesue parole.

«Comunque vada, ti aspetterò.»«Aspettare? Per cosa?» Mi irrigidii,

sulla difensiva, ma non mi alzai e noncercai di guardarlo negli occhi. Gabrielmi accarezzò i capelli senza dire niente.

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Finalmente mi misi a sedere sulletto. Mancava poco alle undici. Sevolevo arrivare in tempo alla lezionedovevo rinunciare alla doccia. Chestrano rituale quello di prepararsi peruscire: riemergere al mondo e allapossibilità di fare delle cose chepossano definirsi produttive comportatanti piccoli riti intimi, come depilarsi lesopracciglia, insaponarsi fra le cosce esistemarsi i capelli davanti allospecchio, tutti gesti che impongono diguardarsi senza guardarsi davvero. Quelmattino rischiai di fare un passo falso,ero tentata di guardare la mia facciacome qualcosa di più di una tela su cuistendere il trucco, di perdere tempo astudiarne i tratti e le curve. Eppure non

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volevo vedere i miei occhi, l'arco deglizigomi o la punta del mento, con quellastrana fossetta al centro. Da dove miveniva tutto ciò, cosa l'aveva modellata,quella faccia che ero abituata a definiremia? Il mio viso. Era davvero mio? Sologli dei saltano fuori perfettamenteformati dalla schiuma del mare o dallafronte di altre divinità. Il mio viso avevaun'origine, e quel giorno non osavopensarci. Mentre crescevo, tutti midicevano: «Hai lo stesso viso di tuopadre». Nessuno diceva mai chesomigliavo a mia madre... mia madrecon i suoi occhi azzurri e i capellicastano chiaro; era alla scura pesantezzadi mio padre che somigliavo, ai suoiforti capelli neri da andaluso e alle sue

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folte sopracciglia aggrappate alla ripidacengia su due grandi occhi tristi che,secondo mio zio Joaquin, a suo tempofacevano girare la testa alle signore.Tutto il resto, in lui, era fatto di unmateriale duro, adatto a forgiare un buonsoldato... solo gli occhi sembravanoportare il peso di un lamento informe, diuno strato vulnerabile che nessuno maiavrebbe potuto raggiungere.

E che dire del suo modo di cantare?Sbronzo, al buio, stonato e pieno dirisonanze, trasformando in ninnenannedelle canzoni da osteria? Per me.Cantava per me. Con un'emozione nudache raramente lasciava intravedere adaltri, forse mai. Quasi volesse così benea quella sua bambina da aver nascosto e

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conservato per tutta la vita quei suoistrati vulnerabili per poterli finalmenterivelare a lei, solo a lei, sua luce e suaricompensa. Quasi avesse sempre saputoche, il giorno in cui il dolore fossediventato insopportabile, sua figlia cisarebbe stata, per ascoltarlo, perabbracciarlo, per amarlo addirittura,perché quale essere umano non risultabello visto così da vicino? Vistoattraverso gli occhi di una figlia? Anchea fronte dei peggiori orrori, lei non loavrebbe mai lasciato. Perché era buona,perché era sua, perché non avrebbepotuto appartenere a nessun altro luogo.

Mentre mi alzavo e mi vestivo, nonriuscivo a smettere di pensare a lui, aHector, l'uomo che avevo sempre

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chiamato «papà», al suo viso austero,alle sue mani gentili, al suo respiroodoroso di scotch e alla sua voce checantava nel buio.

Rumore di passi giù per le scale, èlei che scende. La sua pelle freme per ilritorno della ragazza.

No, non dire nulla. La ragazza alzauna mano. Non una parola.

La fissa. Non si è lavata, è asciutta eancora un po' stropicciata dal sonno.

Hai fame?Annuisce.Acqua?Annuisce.Ovvio. Va in cucina. Torna con

brocca e bicchiere. Lui mangia e mangiae l'acqua gli gocciola giù dal viso e

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filtra dentro di lui. Quando ha finito aprela bocca per ringraziare, ma lei ripeteseccamente, Non una parola.

Si sporge in avanti appoggiandosialle mani sul tappeto paludoso. Avevoragione, pensa. Non posso dirglielo.

Non so come hai fatto a entrare, néquando pensi di andartene. Non soproprio cosa dirti.

Annuisce.Ieri sera stavo per buttarti fuori.

Sono stata sul punto di venire qui etrascinarti in strada.

Con l'angolo dell'occhio lui vede latartaruga avviarsi verso la cucina.

Ma a quanto pare non riesco a farlo.Si lascia cadere su una sedia. Non oggi.Anzi, se te ne andassi oggi credo

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proprio che non lo sopporterei. Non tene andrai, vero?

Alza la testa.Adesso puoi parlare.No.Posso andare a lezione? Quando

tornerò, sarai ancora qui?Sì.Come fai a esserne sicuro?Non lo sono.E allora come faccio, io, a fidarmi?Non si è mai sicuri di niente.Qualcuno dice di sì.Mente.La ragazza sorride con ironia. Forse.Si appoggia allo schienale della

sedia entrando in un raggio di sole, e per

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un attimo un luccichio inonda l'intricatoviluppo dei suoi capelli.

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8 - NETTARE E VELENO

Pensavo davvero di andare a

lezione. Sul serio. Ma alla fine non ce lafeci a uscire di casa. Non riusciinemmeno a fare la doccia. Lessai lezucchine per Lolo e tornai in salotto.Sigarette per colazione. Ero di nuovo acorto di sigarette. Com'era possibile?

Il tappeto era rovinato. Avevaassorbito da parte a parte la stranaacqua del mio ospite e puzzava di fruttain decomposizione. Cercai divisualizzarmi nell'atto di spiegarlo ai

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miei genitori, quando fossero tornati: Midispiace, il vostro bel tappeto persianoè andato, è che in questi giorni hoospitato un fantasma, o per meglio direun desaparecido ricomparso. Sì, lo so,chi l'avrebbe detto... ma comunque nonc'è una logica interna nella ricomparsadi ciò che è scomparso? Non è così chefanno anche le chiavi e i calzini spaiati?Se non si può spiegare in che modo unacosa è scomparsa, perché la suaricomparsa dovrebbe sottostare alleleggi della ragione? E anche la ragione,in fondo, cos'è mai? Non è sempre statausata per giustificare lo sfruttamento di...sì, sì, chiedo scusa, non volevo litigare,stavamo parlando del tappeto. Del

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vostro tappeto. Temo sia andato.Potreste sempre dire che è sparito.

E questa non era che la versione piùsemplice, il modo in cui le coseavrebbero potuto ragionevolmentesvolgersi se il fantasma se ne fosseandato prima del loro ritorno, di lì aquattro giorni. E se invece fosse statoancora lì? In effetti non dava segno divolersene andare. E io non avevo la piùpallida idea di come spiegare la suapresenza, ma soprattutto non sapevocome avrei impedito a mio padre disgozzarlo. Mi sembrava di vederlo, conquell'espressione sul viso e un coltelloda cucina, o quello che avrebbe potutocomunque fare con quelle mani beneaddestrate... anche se ovviamente non ci

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sarebbe riuscito, perché i fantasmi nonsi possono sgozzare. Che risultatoavrebbe ottenuto con i suoi tentativi?Mistero. Il futuro era avvolto nelmistero. Non sapevo proprio cosa avreifatto quando i miei fossero tornati. Misforzavo di immaginare il momento, manon riuscivo a focalizzarlo. Due vaghefigure si bloccavano sulla soglia delsalotto, le facce imperscrutabili. Poi unadelle due lanciava un grido, seguito daun fiume di parole ingarbugliate in cuidistinguevo solo “Perla” e “casa nostra”e l'intonazione crescente di un punto didomanda. A quel punto sarebbe toccatoa me parlare, rispondere alla domandache non avevo capito, ma non riuscivo aimmaginare di poter formulare parole

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coerenti, mi vedevo aprire la bocca perparlare ma ne usciva solo un fiottod'acqua, com'era successo al fantasma ilgiorno in cui era arrivato.

Ovviamente erano solo fantasieridicole. Che non mi avvicinavano di unpasso all'ideazione di un piano concreto,assolutamente necessario, certo, ma chenon riuscivo a elaborare. La partepragmatica del mio cervello si era comesfaldata, il suo ordine precisosmantellato da frotte di pensieri chevociavano per essere notati, toccati,visti. Ma non potevo toccarli tutti. Comefacevo a pensare al futuro quando avevoappena cominciato ad affrontare unpassato affollatissimo? Il cervello èelastico ma non infinito, può tendersi

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solo di un tanto alla volta, poi sistrappa; e il Tempo, evidentemente, nonè affatto un fiume bensì un oceano che siestende in tutte le direzioni, immenso edisordinato, vorticoso di correntispiraliformi. Impossibile sapere dove titrascinerà, o in cosa ti trasformeraidurante il viaggio.

Tutti questi pensieri mi siaffollavano nella testa. Più chesufficienti per annegare.

Il tappeto. Stavo ancora fissando iltappeto. Non avevo alternative, dovevoliberarmene, ficcarlo da qualche partedove nessuno potesse vederlo.Delicatamente e con grande sforzo aiutail'uomo ad alzarsi. Lui non opposeresistenza, ma fu ugualmente difficile

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perché non aveva la forza di reggersi inpiedi. Il contatto con il suo corpo mistupì, era così normale, come unqualsiasi essere umano appena uscitodall'acqua, dall'acqua fredda, magari inuna buia notte invernale. Arrotolai iltappeto e ne nascosi i resti fradici incantina, poi tornai da lui.

«Ecco. Adesso sei asciutto.»«Davvero?» Lo guardai.

Sgocciolava. «Un po' più all'asciutto,voglio dire. Hai un posto asciutto dovestare.» Lo riportai in mezzo alla stanza egli sistemai attorno degli asciugamani,per catturare l'umidità man mano chesgorgava da lui. Si era sdraiato sulfianco, così io, delicatamente, seguii congli asciugamani la curva della sua

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schiena e gliene sistemai altri lungo legambe e attorno ai fianchi, asciugamanibianchi contro la sua pelle pallida. Glicoprii il sesso con un altro asciugamano,acconciandolo come una sorta diperizoma, anche se ormai mi eroabituata alla sua nudità e non dovevo piùfare uno sforzo consapevole per evitaredi guardargli i genitali. Non so perché lofeci. Forse mi erano venuti in mente ilebbrosi della Bibbia, le loro suppliche,i gesti di grazia e carità. Volevoporgergli aiuto, non per altruismo, lemie ragioni erano un po' più complesse.C'era anche qualcosa che riguardava mein quei gesti, una sorta di espiazione, oforse di indennizzo, ma per che cosaesattamente non avrei saputo dire.

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Continuavo a dirmi che di lì a pocosarei uscita per andare a lezione, mamentre gli sistemavo l'ultimoasciugamano attorno alle ginocchiacompresi che invece non l'avrei fatto.Non potevo uscire. Ero sempre stata iltipo di ragazza convinta che il cielo lesarebbe crollato addosso se fossearrivata in aula con qualche minuto diritardo, ma in quel momento pensai: “Aldiavolo, che crolli pure se proprio deve,e che crollino anche i miei voti se nonpossono farne a meno, non m'importa,non m'importa affatto, non ce la faccio auscire. Tutto ciò che conta è qui, inquesta stanza, in questa strana storia chesi dipana... C'erano una volta unatartaruga, una donna e un uomo o forse

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un non-uomo, e i tre passarono molte oreinsieme come se in qualche modo la lorovita dipendesse dal passare, odall'insieme, o da come le oreaffondavano lentamente sotto la loropelle”.

Stavamo zitti, insieme. Lui fissava ilsoffitto. Così io ero libera di osservareil suo naso, le orecchie, gli occhi, ilmodo in cui la mandibola formava unangolo in fondo alla sua faccia. Sarebbestato bello se non fosse stato tantobluastro e fradicio. Mi sarebbe piaciutovedere com'era stato prima di morire.Doveva essere stato giovane, sullasoglia dell'età adulta. Probabilmente, aquell'epoca, aveva avuto un viso frescoe pulito e un corpo snello, e l'amore gli

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era piovuto addosso come una grazia. Ilmondo gli si era dipanato davanti in tuttoil suo splendore e in tutte le suepossibilità, invitandolo a fare un passoavanti per esplorare e toccare tutto ciòche voleva, e lui sicuramente l'avrebbefatto se non fosse scomparso.

Non riuscivo a smettere diguardarlo, di tendere la fantasia perricreare i suoi tratti da vivo.

Prima di sera aveva inzuppato tuttigli asciugamani. Li sostituii con altriasciutti, pur sapendo che non sarebberodurati a lungo.

«Ti andrebbe di spostarti nella vascada bagno?» Scosse la testa. Il salotto eradiventato la sua stanza.

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Più tardi, mentre mi lavavo i denti,mi venne in mente la piscinettagonfiabile. La trovai dopo avererovistato a lungo in cantina. Era statariposta con cura in uno scatolone, consopra un'etichetta scritta nella grafia dimia madre. Mamma era la persona piùorganizzata che avessi mai conosciuto.Godeva nel mantenere l'ordine, come seordinare scatoloni e sistemare scaffalipotesse tenere a bada il cupo,sgradevole caos del mondo. «Come hofatto a sposare un uomo che non trovanemmeno le sue chiavi?» l'avevo sentitadire a suo marito, sorridendo. «Non vihanno insegnato niente, nella Marina?»E papà le sorrideva di rimando, dibuonumore: «Chi ha bisogno della

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Marina, se ci sei tu?». Questo succedevanelle giornate buone, quelle che avreirichiamato alla memoria in tempi menogradevoli.

Aprii lo scatolone e tirai fuori tuttaquella plastica rossa. Mentre la tenevoin mano, sentii il pieno calore dell'erbaestiva, rividi le sfumature rossedell'acqua fra le pareti di plastica, udiilo sciaguattare attorno al mio corpo, dinuovo piccolo, magro e tenero, il corpoin perenne mutamento di una bambina;ed ecco, ero una principessa, oppure undelfino, oppure un misto di entrambe lecose, un animale di stirpe reale conpietre preziose incastonate sulle pinne.Il sole saltellava e scintillavanell'acqua. Battevo i piedi e tutta la mia

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piccola corte – pesci, cavallucci marinie polipi – fremeva di piacere. Siinchinavano davanti a me, la principessaPerla, e le correnti salmastre cantavanoil mio nome, Perla, Perlita, nuota pernoi, agita l'acqua. Io ridevo. Nuotavotutto attorno al mio piccolo mare,completamente sola, ma fingendo di nonessere sola, senza un pensiero per ilfiato uscito dai polmoni di mio padreche aveva creato la piscina e ne tenevasu il bordo. A volte papà si accucciavavicino alla piscinetta e mi guardavagiocare con un'espressione di confusatenerezza, come se ancora stentasse acredere a tanta fortuna, una veraprincipessa in casa sua, o almeno cosìimmaginavo i suoi pensieri dal punto di

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vista del mio gioco sottomarino. Eallora pensavo: “Ordinerò ai cavalluccimarini di portargli un dono (un sasso, unsussurro, un ossicino raro), pover'uomo,così legato alla terraferma, incapace disperimentare il nostro mare”. Nelcontesto del mio gioco papà appartenevaa una specie diversa, una razza inferiore,priva di quel che ci vuole perapprendere le vie acquatiche. Era unostraniero per me; e, anche se lui non losapeva, le creature immaginarie di cuimi circondavo sì che lo sapevano. Icavallucci marini si rifiutavano diportargli doni; i polipi rabbrividivano didiffidenza; i pesci si raggruppavanoattorno a me in cerca di protezione. E iodovevo placarli, shh, non preoccupatevi,

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dovete essere gentili con lui. Non è unacreatura malvagia. È solo che noncapisce il nostro mondo.

Tornai in salotto e gonfiai lapiscinetta. Lui era ancora sdraiato sulfianco, le membra flosce come sempre, emi guardò soffiare con quegli occhi chesembravano leggermi dentro, grandi,chiari, indecifrabili. Un uomo conmembra flosce, gambe deboli e occhicosì forti. Posai la piscinetta al centrodel pavimento e lo aiutai a entrarci,puntellando il peso del suo corpo mentrealzava prima una gamba e poi l'altra.“Stiamo imparando”, pensai.

Sembrava un bambinello in unamangiatoia di plastica, con le membracosì raggomitolate dentro i suoi confini.

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Non sapevo cosa dirgli, ma in quelmomento non sembrava aspettarsi paroleda me. Sembrava immerso nellacontemplazione del cigno di porcellanasulla libreria. Mi buttai sul divano elessi un romanzo di Saramago che avevolasciato a metà qualche mese prima, eche parlava di una città che precipita nelcaos perché tutti i suoi abitanti vedonobianco e soltanto bianco. Lessi finché leparole non cominciarono a fondersi e aperdere ogni significato. Miaddormentai con il libro aperto sulpetto.

Il mattino dopo il livello dell'acquaera salito; la piscinetta era piena per unterzo.

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«Buongiorno. Hai sgocciolato molto,vedo.»

«Ho ricordato molto.»«Sgoccioli quando ricordi?» Si

strinse nelle spalle.Andai a prendere una grossa tazza e

un secchio e cominciai a svuotare lapiscinetta, lentamente, una tazza dopol'altra. Guardavo l'acqua cadere dallatazza nel secchio, intercettando la lucedel primo mattino. Sembrava un po'limacciosa, opaca, come l'acqua difiume, ma per il resto aveva un aspettodel tutto normale. «Allora i ricordi sononell'acqua?» Non rispose.

«Mi piacerebbe sapere cosa hairicordato.» Ebbe un'espressionedubbiosa.

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«Non mi credi?» Si strinse di nuovonelle spalle.

Ricorda che, quando era nell'acqua,l'acqua lo mangiò, mangiò il suo corpo,e man mano che il suo corpo sidecomponeva la sua coscienza siliberava nel mare. La coscienza – questogli ha insegnato la morte – è una cosaduttile, grande e traslucida, che puòraccogliersi o disperdersi, espandersi ocontrarsi, diventare più fluida o piùvischiosa, intorbidirsi o stare ferma.Una volta staccatasi dal corpo diventacome un alone di presenza, libero,amorfo. Lui si sentì sciolto, svincolato,senza un volume o una densitàpermanenti, semplicementecompenetrato con l'acqua. Gli oggetti

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dotati di vita o di volume potevanoattraversarlo senza difficoltà: correnti,limo, il freddo degli abissi, la danzadelle stelle marine, le lunghe dita deicoralli, tentacoli, pinne che affettavanoil mondo al loro passaggio, il tremoliodel sole, i delicati coltelli della lucelunare, ossa semisepolte dalla sabbia ealtre cose di cui non conoscevanemmeno il nome, e comunque nonc'erano più nomi, solo l'andare a fondo,il vorticare, il librarsi a mezz'acquascivolare riversarsi aprirsi chiudersidell'essere.

Il mare, la sua vastità infinita, lalunga spinta di onde sconfinate, il marescuro e bagnato e sporco, nel mare nonera mai solo, il mare era pieno di

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presenze, anche presenze come la suaperché il suo corpo vivo non eraprecipitato da solo, altri corpi si eranodisfatti come lui nell'acqua, altrenebulose di coscienza si spostavanoseguendo le correnti, è illusorio pensaredi essere uno e uno soltanto, soprattuttodopo che il corpo si è dissolto: perchéallora si svelano le verità condivise; luisi fuse con gli altri, che gioia e cheemozione mescolarsi a loro, portare atermine la fusione che la loro pelleaveva cominciato prima del volo. Ora,senza la pelle, era ancora più facile,c'erano ricordi nell'acqua, e l'acqua erameravigliosamente fredda, ricordi comepuntini luminosi che lampeggiavanoattraverso di loro, attraverso i banchi di

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pesci che li trapassavano, attraversol'acqua di cui erano fatti, lampiiridescenti del loro passato collettivo:qualcuno correva a piedi nudi in uncampo di grano, qualcuno apriva legambe nude su un tavolo di cucina, lapelle di qualcuno si spaccava attorno aipolsi per le manette, qualcuno guardavala pelle delle salsicce spaccarsi sullagriglia, qualcuno si contorceva legato auna griglia, qualcuno giaceva tra dueuomini che si contorcevano nel sonno,qualcuno si svegliava alle note di untango suonato al pianoforte, qualcunoballava su una terrazza piena di gente,qualcuno si nascondeva in una cantinavuota, qualcuno puzzava di merda,qualcuno puzzava di paura, qualcuno

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profumava di gelsomini notturni,qualcuno baciava una donna sotto ungelsomino notturno, qualcuno baciava ledita dei piedi di un bambino, qualcunoera bambino, qualcuno aveva paura delbuio, qualcuno recitava le preghiereserali in una linda camicia da notte dicotone, qualcuno ascoltava una favoladella buonanotte, qualcuno ascoltavauno sparo, qualcuno piangeva, qualcunocantava, qualcuno apriva le mani ederano vuote, non esisteva più qualcuno,tutti i ricordi erano condivisi, ciascunoricordava o, più che ricordare,condivideva una sola coscienza pervasadi ricordi; ricordi che brillavano tra lemaglie che erano tutti loro; e quellemaglie si espandevano e si contraevano,

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tutte insieme, come un palpitantepolmone sottomarino.

All'inizio ne arrivavano sempre dinuovi. Cadevano in acqua allo stessomodo, a grappoli, schiantandosi sullasuperficie del mare. Il grande polmonecollettivo li inalava e li aiutava adecomporsi, shh, shh, coraggio, ce lafarai, spogliati delle tue carni, spogliatidi tutto il dolore, apriti all'acqua, lasciache il tuo corpo si dissolva, lasciaciassorbire il resto di te come fosseossigeno. L'acqua culla e respira, enell'acqua ci sono cose che ti svegliano.Nel bagnato ci sono cose che siinabissano e scompaiono. Ma poi c'èquesto, il fondersi di tutte le cose, lasciabordante permeabilità della

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coscienza, che sfreccia con luminosidardi di memoria che appartengono allecorrenti, al respiro, alle alghe, al limo eagli squali... e così in questo aloneliquido tutte le cose appartengono le unealle altre, le alghe appartengono allaluce che illumina le loro fronde, i respirial limo, e i ricordi agli squali che a lorovolta appartengono a tutto il resto inquesto fradicio polmone collettivo.

E poi il sole, il sole pulsava in ognicosa, lento e dorato, riversando il suocalore nell'acqua. Anniincommensurabili di sole subacqueo. Legrandi maglie della loro coscienzaandavano alla deriva nel vasto oceano,baciavano le radici di isole calde e difreddi iceberg, ma poi tornavano

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sempre. Tornavano alle coste della loroterra e si fermavano davanti al delta delfiume selvaggio. Il fiume sbadigliava ilsuo benvenuto. Apriva loro le sueliquide fauci. Li risucchiava e lorocavalcavano le sue ricche acquerisalendo la corrente fin dentro laprofonda insenatura fra i due paesibrulicanti di vita umana. Le fauci delfiume li attiravano, li agganciavano,sembrava li riconoscessero e volesserotenerseli vicini. E loro pervadevano ilfiume con facilità e allegria. Era la lorocasa. Erano così vicini ai loro cariviventi da sentirne quasi il sapore –muscosità mattutina, sudore pungente eamara tristezza – nelle particelle di terrache intorbidivano l'acqua. Era il quasi-

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sapore dei loro cari viventi a trattenerliin quella baia salmastra. Nel frattempole città sulle due rive del fiumeronzavano come sempre, ignare dellaterza città, la città liquida, che fluttuavasott'acqua poco lontano da lì, facendosibeffe della loro solidità, sfidandol'arroganza del loro acciaio e della loropietra, pss, ehi, ci siamo anche noi,anche noi siamo reali, respirando nelgrande spazio bagnato fra i due paesi,fra acqua salata e acqua dolce, fra maree fiume, fra vita vera e vera morte.

Adesso la sa, la sua storia, conoscel'arco essenziale della sua genesi. Un po'di tempo fa è piovuto in mare ed èmorto. Nella morte si è fuso con altrepersone e i ricordi continuano a

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emergere, per questo è qui, per questo ètornato: per far schiumeggiare e risalirei ricordi e farli zampillare fuoridall'oscurità nella luce sonora.

Per questo, e anche per lei. Il suoritorno non avrebbe senso senza di lei.

L'acqua sembrava rossa come lapiscinetta che la conteneva. L'uomo siera creato un suo Mar Rosso. Quando latiravo fuori con la tazza, l'acqua perdevail colore e diventava chiara etrasparente, un po' limacciosa. L'ospitemi guardava travasare l'acqua nelsecchio, guardava la mia manoimmergersi nella piscinetta perprenderne ancora. Poi alzava gli occhisu di me e mi fissava senza sbattere lepalpebre.

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Gli sorrisi.Anche lui sorrise, un mezzo

sorrisetto, il primo da quando eraarrivato. Mi aspettavo che parlasse, chemi raccontasse i suoi sogni, oppure chemi facesse delle domande, ma non disseniente. Adesso era lui quello reticente eio quella che avrebbe voluto parlare; ilsilenzio attorno a noi era una cosapalpabile che avrei voluto spaccare inmille pezzi.

«Sei comodo?» chiesi.Mi guardò come se fosse la cosa più

strana che mi avesse sentito dire fino aquel momento.

«Voglio dire, nella piscinetta.»«Va bene, sì. Grazie.»«Se hai bisogno di qualcos'altro...»

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«Ti stai dando troppa pena per me.»«No.»«Immagino che avrai altre cose da

fare.» Mi strinsi nelle spalle. «Possonoaspettare.» Si chinò in avantiappoggiandosi alle mani, in quella posache mi ricordava tanto quella di un cane.Un cane randagio che comincia appenaad abituarsi alle comodità di una casaumana.

Accesi una sigaretta, andai asedermi, guardai fuori dalla finestra. Lamattina era più avanzata di quantopensassi; il cielo, pur coperto da unleggero lenzuolo di nubi, era pieno diuna luce forte. Non avevo guardatol'orologio né mi ero lavata i denti. Nonvolevo lavarmeli, i denti, volevo che il

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sapore stantio che avevo in bocca simescolasse con quello del primotabacco della mattina, così la mia boccaavrebbe avuto un sapore corrispondentea come mi sentivo: impresentabile,ridotta a bisogni materiali e a impulsiirrazionali. «Sei sicuro di non volermidire cos'hai ricordato?»

«Stavolta aveva a che fare conl'acqua.»

«Che cosa?»«Il modo in cui ci siamo fusi

nell'acqua dopo che i nostri corpi sisono dissolti.»

«Noi chi?»«Siamo stati in molti a precipitare.»«Da dove?»«Dal cielo.»

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«Da un aereo.»«Come fai a saperlo?» Guardavo

oltre la sua testa, verso i cespugli delpatio, assolutamente immobili perchénon c'era vento. «Alcune storie sonostate raccontate. Parti di storie.»

«Riguardo agli aerei.»«Sì.»«E a come siamo precipitati.»«Sì.»«E ne succedono ancora, di quelle

cose?»«No. Non qui, almeno.»«E in altri posti?»«Chi lo sa?»«E queste storie ti spaventano?»«No. Non lo so.» La sigaretta era

finita, troppo in fretta, si era ridotta a un

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filtro macchiato di giallo che schiacciainel posacenere e subito abbandonai. Ilgusto mi restò in bocca, amaro. Micostrinsi a guardarlo. Fissava la foto delmatrimonio dei miei. La sua mascellapuntava contro di loro come una freccia.

«Parlami di quei due.»Improvvisamente ebbi la sensazione chenella stanza non ci fosse abbastanza aria,il salotto era diventato un posto ostilealla respirazione. «Cosa vuoi sapere?»

«Chi sono?»«I miei genitori.» Lui non si mosse

né si ammorbidì. «Sì. Ma chi sono?»«Vuoi sapere i loro nomi?»«Chi.» Avrei voluto scrollarlo,

togliere alla sua voce quello spigolotagliente, nuovo, che non volevo capire.

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«Si sono conosciuti al matrimonio di uncugino di lei. Sono entrambi di BuenosAires, anche se la famiglia di mia madreha delle terre su al Nord.»

«E?»«E... lui era già un ufficiale. Lei

avrebbe voluto fare l'artista, diventarepittrice, ma quando si conobbero ciaveva già rinunciato.»

«Perché?»«Perché ci rinunciò?»«Sì.»«Non lo so. La costrinse suo padre.»«Come?» Cercai di raccontargli

quella storia nella versione che avevoricostruito mettendo insieme i lapsusfurtivi e le aspre esplosioni di miamadre, e lui mi ascoltò con espressione

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intenta, senza staccare gli occhi dallafotografia. Quella giovane donna, ladonna di cui stavamo parlando, Luisa,era cresciuta in una famiglia che dacinque generazioni possedeva aziendeagricole e bestiame, e che aveva duecostanti: le regole e i soldi. Due entitàonnipresenti, indiscutibili. Da ciò cheero riuscita a scoprire, suo padre nonalzava mai la voce né chinava la testadavanti a nessuno, mentre sua madre eraun'elegante frequentatrice del bel mondoche splendeva nei giorni buoni eguardava tutti in cagnesco in quellicattivi, finché un giorno, quando Luisaaveva nove anni, era partita per Roma enon era mai più tornata. Luisa eracresciuta come una brava bambina,

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obbedientemente cattolica,obbedientemente zitta, con tutti i fiocchie i sorrisi al posto giusto, anche senessuno sapeva cosa si agitasse eribollisse sotto la sua superficie. Poi, adiciassette anni, aveva trascorsoun'estate a Madrid con uno zio e durantequell'estate, l'estate del 1969, avevascoperto dentro di sé un nocciolo diribellione e gli aveva permesso didipanarsi. Era il periodo della sua vitache mi affascinava e mi sconcertava dipiù, una breve versione di mia madreche non capivo ma che avrei tanto volutocapire. Questa versione di Luisa portavai capelli con la scriminatura nel mezzo,indossava lunghe gonne alla contadina ein un solo mese aveva scoperto la

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marijuana e Salvador Dalí. Tutte coseche mi aveva rivelato lei poco prima delmio esame di maturità, nell'unica sera incui mi avesse mai parlato di quella partedella sua vita, io e lei da sole sdraiatesul mio letto. Era stata lei araggomitolarsi vicino a me. A cenaaveva bevuto più vino del solito eanch'io ne avevo bevuti due bicchieri.Mi si era addormentata una gamba, manon osavo muoverla per dare sollievoall'intorpidimento per paura che, se loavessi fatto, mamma si sarebbe riscossada quella sua trance affabulatrice,avrebbe smesso di parlare e si sarebbealzata per tornare ai suoi rituali notturni.Non volevo muovermi per non urtare ilcaldo, fragile portale che si era aperto

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fra noi, attraverso il quale fluivano iracconti di mia madre. «E c'è un'altracosa che devi sapere», aveva ripreso.«Tu magari pensi di essere l'unica almondo ad avere sogni grandiosi, èquesto che si pensa quando si è giovani,tutti abbiamo creduto di essere i primi almondo ad assaggiare qualunque cosastessimo assaggiando. Be', avrestidovuto vedermi, quell'estate a Madrid.»Mamma si era appoggiata con il gomitoal mio cuscino, le gambe raccolte sottoil corpo come una ragazzina persa in unsogno a occhi aperti, come se tutti glianni trascorsi si fossero cancellatinell'abbandono di quella sera, come selei non fosse stata una madre sdraiata sulletto della figlia bensì un'adolescente

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intenta a confidarsi con l'amica delcuore. (Quella sera avevo concepito ladeliziosa speranza che da allora in poisaremmo state sempre così, madre efiglia, donne-amiche, capaci dicondividere segreti e delizie. Sembravafattibile. Probabilmente era il vino.) AMadrid, aveva raccontato, la marijuanal'aveva resa un po' troppo paranoica peri suoi gusti, la faceva sentire come unvolante che giri vorticosamente, fuoricontrollo, e ben presto aveva smesso diusarla. Dalí, invece, le era penetrato finnelle ossa e le aveva dato fuoco: donnenude con una rosa sanguinante sulventre, formiche che sgorgano da manivuote, teste sbucciate come arance:verità selvagge, visioni implacabili, la

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mente umana rivoltata come un guanto.Si ingozzava di visite ai musei, dovestava ferma per ore davanti a un singoloquadro di Dalí o di Picasso o di Goya odi Velazquez o di Bosch. La turbavanosoprattutto i quadri molto famosi, quelliche attiravano frotte di turisti cherestavano a guardarli a bocca aperta,inebetiti, dimentichi dell'ora e del luogo.Tanta attenzione, e per così tanto tempo,per i quadri dipinti da un solo, singolomortale. Un giorno, mentre davanti alGiardino delle delizie osservavaincantata tutti quei corpi nudi di uominie donne che in un'angoscia senza fineprecipitavano nell'inferno attraverso leviscere di un mostro dotato di becco,aveva deciso: sarebbe diventata pittrice.

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Avrebbe dedicato la sua vita allacreazione di immagini su tela, dandovita con il suo pennello a forme ecreature che non esistevano in nessunaltro luogo, e che non sarebbero maiesistite se non fosse stato per le suemani. Tornando a Buenos Aires avevaportato con sé due album di schizzi e unariproduzione della Persistenza dellamemoria, un quadro che non avevapotuto vedere con i suoi occhi perché gliyankee l'avevano rubato alla Spagnamolto tempo prima. Dopo di che avevacomprato colori, pennelli, una tavolozzae una sola tela, ma enorme. E soloquando tutti quegli oggetti erano stati alsicuro in camera sua, inconfutabilepresenza, era andata da suo padre e

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aveva detto: «Voglio fare la pittrice,frequentare una scuola d'arte».

«Perla», mi aveva confessato la serain cui mi aveva raccontato tutta la storia,«non puoi nemmeno immaginare comemi tremavano le mani mentre gliparlavo.» Il padre di Luisa erascoppiato a ridere, poi, rendendosiconto che non era uno scherzo, avevasputato in un cespuglio di rose pocolontano. Quindi aveva girato sui tacchi ese n'era andato, e l'argomento non eramai più stato sollevato. Luisa, tornata incamera sua, aveva guardato la tela, icolori, gli album pieni di schizzi estivi,prova tangibile dell'esistenza dellaragazza che aveva scoperto dentro di séa oceani di distanza dall'Argentina. Per

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tre giorni di fila si era rifiutata dimangiare, ma suo padre non ci avevafatto caso. Il quarto giorno si era chiusaa chiave in camera, aveva mescolatotutti i tubetti di colore a olio in caotichespirali e aveva creato il primo e unicoquadro della sua vita, una mostruositàastratta di rabbia nera e marrone evinaccia, ammucchiata in pennellateimpetuose che sembravano sporgersi escagliarsi fuori dalla tela, inquietanti egravide come una tempesta. Poi avevabruciato gli album, aveva dato viatavolozza e pennelli e da quel giornoaveva dormito all'ombra del suo quadro,perché non avrebbe saputo dove altrometterlo. Si era ripromessasolennemente di scappare di casa il più

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presto possibile, e la cosa era avvenutadue anni dopo, quando aveva scovato ungiovane ufficiale della Marina di nomeHector disposto a sposarla. Ma ormai laragazza che con tanto orgoglio avevapercorso le sale del Museo del Pradoera scomparsa, e l'unico ricordo che nerestava era imprigionato in un bruttoquadro finito nella soffitta della loronuova casa.

«Non è vero che la costrinse», dissel'ospite.

«Come dici?»«Tuo nonno. Lui si limitò a sputare.»«Ma glielo proibì.»«Le tagliò forse le mani?» Ero

sbalordita. No, avrei voluto dirgli, nonle tagliò le mani perché non ce n'era

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bisogno, perché gliele aveva già tagliatemolto tempo prima, in tutti gli anni in cuiaveva monopolizzato l'autorità sulla suafamiglia, in cui tutte le regole e tutto ilpotere e tutte le risposte erano emanateda lui solo e da nessun altro. E se non locapisci, se non sei cresciuto in unafamiglia del genere, allora non potraimai sapere come la mente si ammanettida sola e si amputi da sola le membracon tanta perizia che non ti viene maipiù in mente di sentirne la mancanza, chenon ti sfiora l'idea di avere mai avutoqualcosa di così osceno come unapossibilità di scelta. Ma come potevodire tutte queste cose a una persona cheforse aveva conosciuto ben altri tagli,tagli veri, concreti, di vere mani e vere

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dita dei piedi, e che aveva sentito ilpeso di manette di vero metallo su verapelle? Cosa avrebbe pensato, uno comelui, della frustrazione di non poterdipingere di una ragazza ricca? «No.Non le tagliò le mani.»

«Allora poteva dipingere. Eralibera.»

«Lei però non lo sapeva, di esserelibera. Probabilmente non potevavederlo. E questo non faceva di lei unapersona incatenata?» Si strinse nellespalle, poco convinto, e sul viso sembròscendergli un velo che rese indecifrabilela sua espressione. Era strano chesentissi il bisogno di prendere le difesedi mia madre, di convincere l'ospite che,da ragazza, era stata vittima di una forza

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psichica elusiva ma non per questo menobrutale, che era una donna complessa,con le sue ferite e i suoi difetti e unagrande forza di volontà capace anche divolgersi al bene, per esempio allaprotezione, alla cura e all'educazione diuna bambina piccola. Ma non le dissi,tutte queste cose, me le tenni dentro,perché avevo la sensazione che l'ospitenon volesse sentirle o non potesserecepirle nel modo in cui le intendevoio. Non che io sapessi esattamente comele intendevo, a dire il vero, o qualifossero le mie convinzioni in merito. Mifaceva male la testa. E anche luisembrava provato dalla nostraconversazione: la sua pelle gocciolava

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copiosamente, come se fosse appenatornato da un'immersione.

«E lui?» domandò poi fissando dinuovo la fotografia, in particolarel'uomo accanto alla sposa. La sua voceera bassa e rauca. «Lui chi è?» Avreidovuto saperlo, che stava arrivando.«Un caos.»

«Cosa vuoi dire?»«Non voglio parlare di lui.» Mi

aspettavo di vederlo ritrarsi. Mi era giàcapitato di dire a qualcuno che miopadre era un ufficiale, sicuramenteun'informazione più che sufficiente persuscitare repulsione; avevo già vistoquell'espressione negli occhi di Gabriel,in quelli di Romina per tutti gli annidella scuola, e in così tanti altri occhi

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che ormai sapevo perfettamente comedifendermi, come rendere impenetrabilela mia superficie, il viso composto,l'argomento di conversazioneprontamente cambiato, la macchia dicrimini indicibili sepolta e celata allavista. Ma in ogni caso non potevo fare ameno di percepire chiaramente le miereazioni interiori. La vergogna era lìpronta, insita nelle mie fondamenta, e sisarebbe levata per colpirmi da unmomento all'altro, al minimo ritrarsi delsuo corpo o della sua mente. Ma lui nonsi tirò indietro, non barcollò. Si limitò aguardarmi con viso aperto e conqualcosa negli occhi che sarei statatentata di chiamare tenerezza se nonfosse stato così feroce e se la tenerezza,

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nel nostro rapporto, non fosse stata cosìassurda e impossibile. Fuori avevacominciato a piovere, ma io non men'ero accorta. La finestra catturava ibrividi piangenti del cielo. Ciguardammo, ascoltando il suono dellapioggia.

«E tu?» disse lui con grandedolcezza.

«Io?»«Chi sei, tu?»«Di questo non so assolutamente

nulla.» L'ospite alzò la testa e resse ilmio sguardo, e io non riuscivo a capire,non avevo una teoria in cui inquadrare oarticolare quella fame, quel bisogno distare con lui, di perdermi o di ritrovarmiin quegli occhi scuri, insondabili.

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«No», disse. «No, non è vero. Tu losai.» Nessuno, conoscendo mia madreLuisa, avrebbe immaginato che un tempoera stata la ragazza fervida eappassionata che voleva diventarepittrice e che correva su e giù per imusei di Madrid. Nemmeno io, che pureero cresciuta alla sua presenza, l'avreimai pensato. Mia madre il mistero, miamadre la donna con la maschera.

Una volta, una volta soltanto vidi ilvolto nudo di mia madre. Fu unincidente, un passo falso, la conseguenzadi un grave errore. Era la vigilia del mioottavo compleanno ed era ora di andarea letto, ma il mio cuore straripava dicolori caldi e luminosi perchél'indomani, per festeggiare, mamma mi

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avrebbe portata allo zoo, dove avreirivisto le giraffe con le loro esili zampe,le mascelle snodate e i grandi occhisereni. Tutti pensano che sia il collo arendere tanto speciali le giraffe, inveceno, sono gli occhi; io lo sapevo perché,l'ultima volta in cui avevo incontrato losguardo della mia giraffa preferita, perun lungo istante le nostre anime si eranoparlate prima che l'animale si girasseper tornare alle sue foglie. Due occhitalmente lontani fra loro da sembrarefatti per abbracciare tutto il mondo nelloro campo visivo. Occhi che mi davanola sensazione di galleggiare a due metrida terra. E il giorno dopo le avreiriviste, le giraffe, e siccome era il miocompleanno forse mamma mi avrebbe

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lasciata stare vicino al loro recinto unpo' più a lungo. Prima il cono gelato, poile giraffe: questo, pensai mentre milavavo i denti, era l'ordine giusto. E unavolta finito di spazzolarmi denti ecapelli ero talmente ansiosa dicondividere con lei il mio programmache mi precipitai alla porta della suacamera da letto e la spalancai,scordando la regola fondamentale cheprima bisognava bussare.

Mamma si stava struccando. Era unsolenne rito serale, rigorosamenteprivato, che veniva celebrato su un poufimbottito davanti a una toilette e a unospecchio circondato da otto lampadine.A volte ero riuscita a rubarne qualcheimmagine, in passato, ma di solito si

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svolgeva dietro una porta chiusa,avvolto da un'aura di mistica segretezza.Un monticello di batuffoli sporchigiaceva in mezzo al tavolo, fra i suoiportagioie e i flaconi di profumo. Il visodi mamma era fatto solo a metà: unodegli occhi aveva ancora la sua perfettamaschera di righe nere e ombre azzurre,mentre l'altro, nudo e scavato, spogliatodi ogni pittura, fissava stanco il proprioriflesso nello specchio.

«Mamma», dissi.Mamma non si mosse né sbatté le

palpebre, ma l'occhio nudo diventòstranamente duro. Continuò a fissare ilproprio riflesso. Io aspettavo, eall'improvviso desiderai di potercancellare le mie azioni, di annullare la

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mia entrata in quella stanza, di poteraspettare la luce del mattino per parlarecon mamma della visita allo zoo. Dopoqualche istante interminabile, il riflessodi mamma mi guardò senza sorridere.

«Si può sapere cosa vuoi?» Lo dissecon una voce che non le avevo maisentito, la voce con cui ci si rivolge auno sconosciuto indegno di fiducia. Lospecchio rifletteva un occhio nudo,freddo, arrabbiato e assolutamenteestraneo.

«Avrei dovuto bussare», dissi.«Scusa.»

«Sciocca bambina. Non è di questoche stavo parlando.» Esitai. Non capivoa cos'altro potesse riferirsi. Mi sforzaidi ricordare se avevo fatto qualcos'altro

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di sbagliato, quel giorno, a parte latrasgressione di aver varcato in quelmodo la soglia di camera sua, ma non mivenne in mente niente. Era stato unvenerdì come tutti gli altri. Avevo fattotutti i compiti e aiutato ad apparecchiarela tavola per cena. Doveva essercidell'altro, pensai, qualcosa di molto piùgrave, un fallo di quelli che trascendonoil tempo sfuggendo a ogni correzionepossibile. Precisarlo meglio sembravauna fatica di Ercole: grande, impossibileed essenziale per la sopravvivenza; nonce la potevo fare. Mi sentivopiccolissima.

La sentii sospirare, un sospiro lungoe lento. Restai dov'ero, paralizzata, fino

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a quando, con mio grande sollievo,mamma parlò di nuovo. «Sai una cosa?»

«Cosa?»«Io non ero fatta per essere madre.»

Lo disse in un tono al tempo stessorassegnato e vagamente nobilitato daldolore. «Spesso mi capita di pensareche non saresti dovuta arrivare.»L'occhio nudo fissava il proprioriflesso, intensamente, quasi cercandoviqualcosa di nascosto.

Io non riuscivo a pensare ad altroche al quadro in soffitta, a quelle densepennellate nere e viola che sembravanosempre sul punto di riversarsi nellastanza.

Poi mamma mi guardò nellospecchio, e il suo sguardo era così nudo

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che avrei voluto poter distogliere il mio.«Perla, dimentichiamo tutto.» Parlava avoce molto bassa. «Va' a letto, adesso, efaremo finta che non sia successoniente.» Tornai in camera mia senza direuna parola.

Quella notte sognai porte e porte eancora porte.

Il mattino dopo avevo paura all'ideadi rivederla, ma quando scesi le scaleper fare colazione mamma si era rimessala solita maschera, applicata conprecisione: cipria, rossetto, sorrisoradioso. Mi servì latte e pane tostato ediede un'occhiata all'orologio. «Seipronta?» Annuii.

«Bene, allora in marcia.» Il suo visoera sereno e affettuoso, tanto che per un

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attimo mi domandai se l'incontro dellasera prima non fosse statosemplicemente un frutto della miaimmaginazione. E avrei potutoconvincermene se non fosse stato per ilmodo in cui il suo sguardo indugiava sudi me, cercando conferma di un pattodestinato a non essere mai esplicitato.Un patto che mi racchiudeva all'internodi quel momento e che sapevo non avreimai tradito. Lei avrebbe indossato la suamaschera e io avrei indossato la mia, efintanto che nessuna delle due l'avesselasciata cadere tutto sarebbe filatoliscio: lei ne aveva bisogno e quindi iodovevo aiutarla, e anch'io ne avevobisogno, giusto? Durò solo pochisecondi, quello sguardo indugiante; poi

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mamma annuì, soddisfatta, o almeno cosìcredo. «Mangia il tuo pane, Perlita.»Non avevo appetito ma mangiai lostesso, e riuscii addirittura a tirar fuoriun mezzo sorrisetto.

Allo zoo ebbi il mio cono gelato e lamia ora con le giraffe; leccai la freddavaniglia lentamente e con attenzionementre fissavo in silenzio gli animali,con i loro famosi colli lunghi e ledivertenti mandibole, ma per quantofacessi, per quanto a lungo restassidavanti al recinto, per quanto forte lechiamassi con il pensiero, quella voltanon riuscii a indurle a incontrare il miosguardo.

Piove. Piccole gocce strappate dalcorpo di una nuvola annunciano la

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propria caduta con gemiti e lamenti. Neascolta la traiettoria attraverso l'aria, làfuori, grigie, azzurre, lilla, striano lafodera interna del mantello del tempo.Sono puro colore, pura sostanza, purosuono. Solo la pioggia è pura in questostrano mondo e precipita verso l'assetatocaos della terra.

Lei è in cucina a preparare il pranzo.Presto gli porterà dell'altra acqua. Ne èaffamato, non vede l'ora di triturarlaumidamente fra i denti, di sentirlaentrare nel suo corpo per darglisostanza, per rafforzare la sua presenzae la sua veridicità sussurrando fra le sueparti interne, anche tu appartieni aquesto posto, wshhh, questo mondo èanche il tuo... ma non vuole

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chiedergliela, lei sta per arrivare e sache ci penserà da sola. Ogni ora chepassa ha meno difficoltà a percepire iritmi del suo pensiero. La sua mente èuna schiva creatura della foresta, forseuna cerva, elegante, dagli zoccolileggeri, esperta nello sparire tra gliscuri anfratti del fogliame al minimofruscio d'allarme. Una creatura tutt'altroche facile da avvicinare, e men chemeno da toccare. Se vuole arrivare atoccarle la mente, deve avere pazienza.Deve girarle attorno, ma anche saperstare assolutamente immobile. Esoprattutto non deve lasciarle scorgerequel che gli monta dentro quando pensaai due della foto, agli altri due inquilinidi quella casa: un reflusso acido che gli

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fa venire voglia di ululare. No, non siagiterà, non ululerà, perché non vuolespaventarla, ma soprattutto perché deveassolutamente imparare a sopportare leverità che hanno riempito la casa e chesi sono impossessate della ragazza. Èaffamato di verità, le vuole anche sedovessero risultargli velenose. Perchésenza verità non potrà conoscerladavvero. E anche per te, Gloria, ancheper te: perché se mai ti ritrovassi – sepotessi sperare contro ogni speranza cheanche tu, un giorno o una notte,all'improvviso tornerai come ho fatto io,con alghe fra i capelli o vermi di terra opallottole o fiamme –, se riuscissi aritrovarti nelle curve strade del futuroche sicuramente si inarcano anche

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all'indietro fino al passato, e se in quelmomento non fossimo troppo spezzati epotessimo parlarci ancora o fondercil'uno nell'altra come facevo quando eronell'acqua, so che ricercheresti in meogni particella della conoscenza che hodella ragazza, e io ti darei ogni cosa, ilnettare come il veleno, le stelle el'abisso, tutto ciò che ho visto, odorato eudito di lei, e quelle cose ti farebberorabbrividire e ti spaccherebbero in due,tutta la verità che riuscirò a raccogliere,tutta la verità di cui avrò la forza diimpregnarmi.

E anch'io vorrei conoscere le tueverità, sapere cosa ti è successo dopo lamia scomparsa. Ci sono così tantedomande in sospeso.

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Cerca il viso di Gloria in giro per lastanza, ma stavolta non lo trova, nonriesce a ricrearlo tutto intero sul fondalebianco della parete. Perché la stanza ètroppo viva, risuona del respiro dellalibreria, del brusio dei libri, dei gemitidella pioggia, del rumore di fondo diquella luce rannuvolata che sbandaattraversando l'aria. E poi c'è lapiscinetta in cui adesso abita e chetrattiene attorno al suo corpo i suoistessi tiepidi fluidi; anche questo canta;la sua mente è piena dello sciabordio,del ronzio e dello scintillio del suopiccolo mare privato che, uscito da lui,lo sostiene, lo avvolge, lo stringe nelsuo duttile abbraccio. Gli fa male...Gloria, la mancanza di Gloria.

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Raccoglie la mente e cerca diconcentrarsi. Lei gli arriva in flebilibarbagli. La vede solo se rinuncia albisogno di un tutto coerente. Una Gloriaspezzettata, schegge disperse, frammentidi Gloria che spuntano fra gli oggettisparsi per la stanza. Un occhio diGloria, con le ciglia e tutto, ammiccadalla punta di una matita infilata in unbicchiere. I capelli di Gloria sonodrappeggiati sullo schienale di unasedia, uno schienale a stecche di legnod'abete che sorregge le sue chiome comereliquie. Il suo naso spunta dal dorso diun romanzo. Il collo si inarca nei piccolimovimenti della tenda, flessuoso edocile, pronto per un bacio. Il respiro diGloria nel lento imbrunire del giorno.

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Una coscia, senza ginocchio né fianco acui attaccarsi, è gettata sul divano in unaposa seducente, solo che non c'è uncorpo da cui farsi sedurre, non c'è unadonna intera che sorrida o inarchi laschiena o alzi la gonna dicendo Vieni. Ilsesso di Gloria gli appare solo quandofa notte, nell'ombra degli angoli piùremoti, in molti luoghicontemporaneamente, pavimentodavanzale soffitto che si schiude nelbuio per diventare lei, Gloria, Gloria,bagnata, intensa e potente. Tu sei qui,Gloria, e io accetto ogni tuo pezzo, mi cicrogiolo, ne bevo la vista, ogni singolocapello e dito del piede è unabenedizione. L'occhio guarda, il colloruota, i capelli fremono, la coscia

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aspetta una carezza. Vorrebbe dire allaragazza che Gloria è lì, dirle di come iframmenti di Gloria infestino la stanza,ma come per tutte le altre cose si sforzainvano di trovare le parole. E comunquela ragazza – anche se le vuole bene,anche se è affamato di ogni istante divicinanza con lei – non è come lui. Èviva. E i vivi a volte non capiscono; noncapiscono la bellezza di una donnaspezzettata sparsa per tutta la stanzacome dopo l'esplosione di uno shrapnel.

Quando tornai dalla cucina condell'acqua per lui e un toast per me, lovidi fissare il quadro, il quadro di TiaMonica, quello con il mare e la naverealizzati con le stesse pennellateazzurre. Era concentratissimo, come se

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il soggetto del quadro fosse inmovimento e raccontasseun'appassionante storia di ritorno a casao di fuga. Chissà cosa passava per latesta di Monica mentre lo dipingeva, seaveva pensato a una storia di ritorno acasa o a una storia di fuga, all'urgenza dimetter su casa o di scappare di casa.Ricordati, sussurrava il quadro, diespormi alla luce, e l'aria sembravabrandire le vicende di Tia Monica,frammentarie e parziali, come io leconoscevo. In buona parte filtrate dallelenti del disprezzo di mamma.Sicuramente i suoi stessi desiderigiovanili repressi contribuivano aspiegare il suo sdegno: tutto il desiderioche aveva provato per pennelli e

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tavolozza compresso in una taglientelama d'odio. «Tua sorella», l'avevosentita dire a papà, «è l'unica cosa di teche disprezzo. Una sciocca donnicciolaintrappolata nel periodo blu di Picasso,del tutto priva di talento, che ha vissutocome una puttana coprendo di vergognal'intera famiglia.» Quelle parole loavevano ferito così profondamente daindurlo a guardare sua moglie come sestesse per colpirla, una reazione che nongli avevo mai visto; però mamma non siera mostrata sorpresa, anzi, aveva alzatoil mento come a dire, non solo confermociò che ho detto, ma me ne vanto.Doveva essere stato insopportabile perlei, giovane sposa, vedere Monicacontinuare a dipingere sfidando

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apertamente la volontà di suo padre e lapresunta indisponibilità di Dio aconcederle la benedizione di un qualchetalento, e non solo dipingere maaddirittura esporre i suoi quadri inalcune piccole gallerie del centro.Libera, flagrante, terribilmente sfacciata.A quell'epoca Monica abitava insieme aun'amica in un fatiscente appartamentinodi San Telmo, poi, a detta di tutti, si eraaddirittura messa a fare politica... cioè,dalla parte dei sovversivi. Qualcunodiceva che fosse entrata nell' ERP, ungruppo guerrigliero il cui acronimo, allemie orecchie infantili, suonava un po'come l'imitazione di un rutto.

Ovviamente poteva anche esseretutt'altro gruppo, un'organizzazione che

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non aveva niente a che vedere con l'ERP, perché a quell'epoca il movimentoclandestino di sinistra era diviso inmille fazioni e correnti; i sovversivi, midisse mamma una volta, nei primi anniSettanta infestavano l'Argentina comescarafaggi, «tu non hai idea di quantofosse grave la situazione, la violenza, irapimenti, nessuno si sentiva più alsicuro, lascia che te lo dica, oggi tuttiparlano male dei militari ma bisognavapur fare qualcosa». Ovviamente nonmenzionava mai i gruppi violenti diestrema destra, come l' AAA, della cuiesistenza sarei venuta a sapere solomolti anni dopo. Da bambina, tutta lafase prima della dittatura mi apparivacome un periodo di caos, con pericoli in

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agguato dietro ogni angolo, giovanicorrotti da cattivi maestri e una violenzagratuita esercitata in nome dellarivoluzione. Era incredibile che unaparente di mio padre – la sua stessasorella! – avesse potuto unirsi a quellagente. Sembrava impossibile, maovviamente non lo era. La sorella di miopadre non era certo l'unica guerriglieranata e cresciuta in una famiglia come lanostra.

Comunque, stando a ciò che eroriuscita a scoprire, Monica non avevamai respinto le accuse formulate controdi lei, ma non aveva neppure ammessoniente. Era partita per la Spagna primache i generali prendessero il potere.Qualcuno aveva detto che si era stabilita

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a Madrid... come dev'essere bruciata diinvidia, mia madre! Quella donna,quella puttana, viveva nella sua adoratamecca perduta! Da allora erano passativenticinque anni e nessuno aveva piùsentito parlare di Monica; che, perquanto ne sapevamo, poteva essere aMadrid come in qualsiasi altro luogodella Spagna o del pianeta, o anchemorta. Non aveva più telefonato néscritto, e anche se mamma dicevasempre che la famiglia l'aveva ripudiata,a me sembrava che fosse stata lei,Monica, a ripudiare noi. Monica, «laragazza che se ne andò», Monical'apertura, la vicenda che serve dalezione, l'esilio, la fonte d'imbarazzo, lacarta matta. A casa nostra il suo nome

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non veniva quasi mai pronunciato. Iol'avevo conosciuta solo in vecchiefotografie, risalenti a prima della mianascita – una giovane donna seria, conun'espressione triste ma carica di sfidaperfino nell'abito bianco della primacomunione – e attraverso quell'unicoquadro con la nave blu che a volte miopadre fissava come chi cerca qualcosa,come chi attende, come se da unmomento all'altro la nave avesse potutoinvertire la rotta o gettare l'ancora in ungesto d'arrivo lungamente atteso.

E invece eccola là, la nave, sospesa,senza mai arrivare a destinazione néabbandonare il tentativo. La guardaimentre porgevo all'ospite la sua acqua.Se Monica fosse entrata in casa in quel

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momento e lo avesse visto, cosa avrebbedetto? Forse avrebbe spalancato labocca per lo stupore vedendo lapiscinetta rossa e il suo contenuto, oforse avrebbe girato sui tacchi e se nesarebbe andata, Se ho lasciato tuttoquesto c'era una ragione, noncoinvolgetemi nelle vostre storie, oforse si sarebbe seduta con noi e ciavrebbe aperto le sue storie, su dove erastata e chi era in realtà suo fratello e chiera stato suo padre e alla fine, dopoessersi svuotata di tutte quelle chiavi equei racconti, forse avrebbe posto ladomanda impossibile che già il fantasmaaveva formulato e che era rimasta avolteggiare nell'aria senza risposta: E tu,Perla, chi sei? E ancora una volta io non

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avrei avuto alcuna risposta plausibile.Non ci sarebbero state parole sulla mialingua, solo aria.

Il fantasma divorò la sua acqua.Come sembrava grato (si vedevadall'ammorbidirsi dello sguardo) per unsemplice bicchiere d'acqua. Sembravapercepirne la consistenza segreta, farlacrocchiare e cambiare di forma sotto illavorio delle mascelle.

La piscinetta era già mezza piena.Sembrava uno che facesse il bagno.Andai a prendere la tazza e il secchio ericominciai la mia opera disvuotamento. E intanto pensavo: “Questosgocciolio non finirà mai, lui non siasciugherà mai, per il resto della miavita continuerò a raccogliere e a versare

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quest'acqua dall'odore pungente cheforse contiene in forma liquida l'essenzadegli incubi che il mio ospite ha dovutovivere prima di morire. Chi avrebbe maiimmaginato che ricordi del generepotessero distillarsi in un'acquadall'odore pungente, chissà che saporeavrà? Se la bevessi, assorbirei tutti isuoi ricordi? E, in tal caso, come potreisopportarlo?”. Ero come ipnotizzatadall'acqua che raccoglievo e versavo,dal suo delicato riversarsi nel secchio.Con che facilità l'acqua tornava séstessa e prendeva la forma del suocontenitore. Era trasparente e cedevole;non rivelava nulla.

Avrei dovuto sentirlo come un peso,come l'orlo della pazzia, questo bisogno

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di inginocchiarmi accanto alla piscinettaper toglierne l'acqua uscita da lui. Einvece no. Ormai mi ero spinta troppooltre per preoccuparmi della pazzia edei suoi orli; mi sembrava di averlivarcati da tempo e desideravo solorestare per sempre vicino all'ospite, nonpensare troppo e lasciar filtrare la suapresenza dentro di me, lasciarleimpregnare l'aria di quella casa cosìpiena di geroglifici e di ombre, una casache da troppo tempo aveva sete. La suapresenza mi saturava, risvegliava i mieispazi vuoti e li faceva rombare. Misentivo dissolta ed espansa a un tempo.Il mondo normale mi sembravalontanissimo, un reame bizzarro con unalingua che stavo rapidamente

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disimparando. Pensai alla città là fuori,piena di gente, piena di pioggia: studentiche si tuffavano nelle aule con i capellisgocciolanti, professori che chiudevanole finestre e notavano o non notavano lamia assenza, taxi che scivolavanopericolosamente sull'asfalto bagnato,caffè versato nelle tazzine di baraffollati di corpi in cerca di calore,ombrelli che tenevano lontana la pioggiadai piccoli, oscillanti cerchi di spazioche la gente si costruiva attorno mentrecamminava decisa, con uno scopopreciso, o forse fingendo di averlo.Come se tutti sapessero bene dovestavano andando e perché. La città eraun posto molto faticoso, con quella suaperenne farsa di normalità, con i suoi

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scopi veri e inventati. Il giorno dopoavrei dovuto affrontarla anch'io – incasa le provviste cominciavano ascarseggiare – ma non quel giorno. Nonera il posto più adatto per una ragazzache si stava svincolando da tutti i suoilegami, per una mente priva di ormeggi.

Il campanello suonò, riscuotendomi

dal lungo, nebbioso tumulto dei mieipensieri. Non aspettavo nessuno e nonavrei aperto a nessuno, non c'eranessuno che avessi voglia di vedere oche intendessi far entrare nel miomondo. Decisi di ignorarlo, di fingere dinon essere in casa, finché quella personanon se ne fosse andata di sua spontaneavolontà. Ma il campanello suonò di

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nuovo. L'ospite alzò la testa e mi guardòcon occhi spalancati.

Poi sentii la chiave girare nellaserratura.

Era giovedì. Il giovedì Carolinaveniva sempre a fare le pulizie. Suonavaprima di entrare, ma aveva la chiave. Miprecipitai in anticamera. Carolina stavagià schiudendo la porta e arricciava ilnaso per l'odore, perplessa.

«Hola, Carolina.»«Perla, ma cosa...»«Mi spiace, non puoi entrare.» Fece

la faccia offesa. Era una persona anzianae lavorava per noi da molti anni.«Come?»

«Non è un buon momento.»«Ma ho promesso ai tuoi genitori...»

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«Lo so, ma non oggi. Quandosaranno tornati.» Annusò l'aria, comeper confermare la sua primaimpressione. «Perla, cosa stasuccedendo?»

«Sarebbe difficile spiegarlo.»«C'è odore di marcio.»«Esatto. Ma è un problema mio,

pulirò io.»«Posso aiutarti.»«No.»«Hai rovesciato qualcosa? Portato a

casa una balena spiaggiata?» “Qualcosadel genere”, pensai. Ma non dissi niente.

Carolina mi fissò come se mi fossitrasformata in qualche strano animaleselvaggio, capace di spingersi oltre iconfini di un comportamento accettabile.

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Poi cambiò tattica. «I tuoi mi hanno giàpagato, per oggi.»

«Non c'è bisogno che lo sappiano. Ionon dirò niente.» Incrociò le braccia sulpetto e mi guardò.

«Prenditi un giorno libero.» Non simosse, però stava ascoltando.

«Ti prego.»«E cosa dirò ai tuoi quando

torneranno?» In quel momento, conl'allarme di una persona che si riscuoteda un lungo sogno a occhi aperti efinalmente vede una realtà ovvia, mi resiconto che i miei sarebbero tornati di lì atre giorni. «Niente.» Mise il broncio.

«Per allora tutto sarà tornato allanormalità», dissi, con una sicurezza cheero ben lungi dal provare.

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Con un sospiro Carolina si arrese etornò verso la porta. Stavo per chiuderequando si voltò a guardarmi. «Perlita,ma cosa ti prende?» Feci un debolesorriso e chiusi la porta.

E, mentre ascoltavo il rumore deisuoi passi lungo il vialetto, quelladomanda continuò a squillarmi nellatesta.

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9 - EL GRITO SAGRADO

Mi svegliai sul divano, nella pallida

luce del primo mattino. Mi ero di nuovoaddormentata al piano terra, ma nonavevo portato giù né una coperta né uncuscino perché mi ero detta che avreisolo riposato un po' gli occhi, che di lì aun momento sarei andata di sopra, aletto, che non mi sarei accampata insalotto solo per restare vicino all'ospite.Mentendo a me stessa, come sempre.Quante, troppe bugie.

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Il buio spingeva dal fondo della miamente, saliva dalla mia gabbia toracica,minacciando di espandersi dentro di mee di corrodermi. Ogni fibra del miocorpo si torceva e imprecava contro ciòche sapevo, e che ancora cercavo dinegare.

Questa cosa non la potraisconfiggere.

Ma non posso nemmeno lasciarlaentrare.

Devi.Finirà col distruggermi.Anche le menzogne.Fuori in strada un cane abbaiava, un

suono dolente e lamentoso. La pioggiaera cessata, ma il cielo era ancora di unadelicata sfumatura di grigio, come una

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seta sottile e malinconica. Nel patio irosai scintillavano in tutta la gloria dellaloro umidità, tutti foglie e spine, senzafiori. L'ospite era sdraiato nellapiscinetta, con gli occhi chiusi. Nelsonno sembrava quasi in pace, come unbambino.

In quel momento capii con assolutacertezza che non avrei più potutonascondermi. Non perché non lo volessi,ma perché non c'era più spazio,nemmeno un angolo abbastanza asciuttoin tutta la casa. Mi alzai e, con miagrande sorpresa, sentii che i miei piedierano saldi e sotto controllo. Fu allorache cominciai a dire addio.

Il ricordo che gli arriva cominciacon la bellezza, era una bellissima

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giornata: cielo azzurro, strade vocianti,una vittoria per l'Argentina. La Coppadel Mondo si giocava a Buenos Aires,era il 1978, il mondo intero li guardavae loro avevano vinto. Si sentì percorreredalla corrente elettrica della rivalsa, nonpoté evitarlo; era sempre stato piuttostoscettico nei confronti del fervorenazionalistico, eppure... il mondo interoli stava guardando, andavano almassimo, e lui, pur insofferente di ognipatriottismo in una fase politica cosìtorbida, non poteva rinnegare, nonavrebbe mai potuto rinnegare la suapassione per il calcio. Aveva guardatola partita con tutto il corpo in tensione,proteso in avanti sulla sedia, i muscolidelle gambe che gli si contraevano a

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ogni scatto, fuga in avanti e glorioso tiroin porta dei giocatori. Sentiva il colposordo del pallone contro la testa, legrida dei tifosi, i capelli appiccicati dalsudore, dal vento e dal movimento,come se anche lui fosse stato sul campoper scrivere il nome del suo paese nelgrande libro della storia. Aveva esultato,protestato e vissuto quella tensioneinsieme a tutti i suoi compatrioti, siasugli spalti sia a casa, davanti altelevisore come lui, separati da murid'intonaco e di idee ma uniti, per ungiorno, dal pulsante legame del gioco, equando i giocatori avevano infilato ilpallone nella porta avversaria anche ilsuo corpo era scattato in piedi e i suoipolmoni erano esplosi in

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quell'orgiastico GOOOOL! che avevasquassato lui, la sua città e il mondointero, l'intera dannata e sbalorditacirconferenza del globo... era giàpassata un'ora e la televisione nerumoreggiava ancora. Anche la stradafuori dalla finestra rumoreggiava, pienadi sole, di gente e di bandiere bianche eazzurre, di automobili con il clacsonpremuto, di radio a tutto volume e digente che gridava ganaa-mos! ganaa-mos! Abbiamo vinto! E alla televisioneancora gente, folle ancora più numerose,si vedevano le bocche spalancate e ipugni levati verso il cielo, e il generaleVidela circondato dalle altre uniformiaveva stretto la mano a Henry Kissinger,il quale aveva fatto migliaia di

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chilometri per assistere all'evento e perrendere omaggio alla nazione argentina;anche lui sugli spalti per ammirare laloro forza e la loro vittoria, era unabenedizione nemmeno troppo tacita algolpe militare, ovviamente, gli USA tuttisorrisi con i generali, ma nell'auraradiosa della Coppa del Mondonemmeno questo lo aveva fattoarrabbiare. Le grida di gioia della stradaesplodevano in tutto il loro polifonicosplendore e lui se le sentiva in corpo,anche lui voleva scendere in strada,unirsi agli altri, fondersi con quellestrade che dopotutto erano le sue strade,le strade del popolo, strade in cui sipoteva ballare nonostante le brutte vociche correvano, aspettava solo Gloria,

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sarebbe tornata da un momento all'altro,e allora si sarebbero tuffati, insieme,nella loro città in fermento.

Gloria arrivò in ritardo, con le faldedel soprabito svolazzanti: era già da unpezzo che i bottoni non si allacciavanopiù attorno al suo ventre gravido. Entròcome una furia, soprabito e capelli eocchi in disordine, selvaggi, poi guardòil televisore come se fosse unaperversione, la peggiore possibile, edisse, Spegni quella merda.

Lui la fissò imbambolato dalbalconcino.

Spegnila!Rientrò nella stanza, spense il

televisore e cercò di calmarlaaccarezzandole le spalle, ma lei non si

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lasciò calmare. Se lo scrollò di dosso esi mise a camminare avanti e indietrocome una belva in gabbia.

Mio fratello è andato.Andato?Scomparso. Ieri. È uscito per andare

al lavoro e non è più tornato.Cercò disperatamente qualcosa da

dire, ma non gli venne in mente niente.Fuori, le voci esultanti continuavano agridare, Abbiamo vinto, abbiamo vinto!

Mia madre non ha smesso un attimodi piangere, ci ho provato ma non sonoriuscita a farla smettere.

Gloria alzò gli occhi. La suaespressione vuota lo terrorizzò ancorpiù delle parole.

Gloria.

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Non so cosa fare.Pensi che fosse un Montonero?Non avrebbe potuto dire niente di

più sbagliato. Gloria si voltò dall'altraparte. Pensi che questo li autorizzi a farequello che vogliono di una persona?

Non ho detto questo.Non lo so, cos'era o cosa non era.Mi dispiace.Mamma ha tirato fuori il fazzoletto

bianco, vuole unirsi alle Madres.Immaginò la madre di Gloria a Plaza

de Mayo, con una foto di Marco fra lemani. È pericoloso, disse.

Dice che non le importa. Dice chesiamo noi a dover stare attenti.

Noi?Annuì.

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Ma se non abbiamo fatto niente.Gloria s'infiammò, scoprì i denti.

Cosa c'entra? Perché, Marco cos'hafatto?

Niente, certo.Eh? Cos'ha fatto?Gloria, adesso calmati.Non aggiunse altro. Un'ondata di

trombe entrò dalla finestra,accompagnata da un frastuono di clacsone dai primi versi dell'inno nazionalesuonati dagli ottoni e cantati in corodalla folla esultante, Oid, mortales, elgrito sagrado: ¡libertad, libertad,libertad! Ascoltate, o mortali, il gridosacro: libertà, libertà, libertà! Avrebbedovuto pensare al fratello di Gloria, alsuo hermanito, come lei insisteva a

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chiamarlo nonostante fosse molto piùalto di lei, con il suo caratterepassionale, una vena di cocciutaggine, icapelli spettinati e i baffi alla moda chelo facevano più vecchio, ma riusciva apensare solo alla pancia di Gloria, albambino che c'era dentro, mancavanosolo tre mesi al momento in cui sisarebbe affacciato al mondo, il suocompito di protettore era già cominciato,era suo preciso dovere difenderlo(quella creaturina selvaggia che la notteprima aveva dato dei calci contro la suamano) da ogni pericolo, compresoquello di un utero inondato dal panicodella donna che lo ospitava, da tutte lereazioni chimiche della disperazione,avrebbe voluto calmarle, addolcirle,

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sicuramente tutto sarebbe tornato inequilibrio se solo Gloria si fossecalmata.

Magari presto lo rilasceranno.Dio, sei veramente un idiota. Ma non

capisci?Non sopportava la distanza che si

era creata fra loro, non vedeva l'ora dicancellarla. Disse, scusa.

Mamma pensa che dovremmo andarvia.

Lasciare il paese?Sì.Partirà anche lei?No.E tu cosa pensi che dovremmo fare?Non lo so. Non lo so. Si accarezzò il

pancione e pianse in silenzio.

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Si sveglia. L'inno nazionale non c'èpiù e nemmeno Gloria, ci sono solo lapiscinetta, quella stanza e la ragazza,inginocchiata sul pavimento con unatazza d'acqua pronta per lui. Ha i capellibagnati, dev' essersi lavata, e i suoiocchi hanno un'espressione strana, chelui non ha mai visto prima e non saidentificare. Gli porge l'acqua e lui sichina sulla tazza, mangia, mastica illiquido incandescente e sente che lopervade, lo accresce, gli dà forza.Guarda la ragazza avvicinarsi con ilsecchio e cominciare a svuotare lapiscinetta e pensa, ancora una volta tumi dai la vita. Quel pensiero gli favenire voglia di piangere, come puòessere che sia lei a dargli la vita, la

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giovane al vecchio o la figlia al padre ola viva al morto e non viceversa, sembradel tutto illogico e invece è giusto evero. Lui lo accetta, anche se la testa glisi spacca sotto il peso della gratitudine.Lei è talmente magnifica, ognimicroscopico peluzzo è una rivelazione,come ha fatto una cosa così stupenda auscire da Gloria e dal suo seme? E poi èbuona, buona e gentile, così gentileverso lo strano essere che lui èdiventato, nonostante l'improvviso einvadente caos che sicuramente haportato nella sua vita... una gentilezzasenza ragione, senza senso. Nonarrenderti mai alla ragionevolezza, lecomunica con il pensiero.

Devo uscire, dice lei.

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Annuisce.Non so a che ora tornerò.Lui regge il suo sguardo e

giurerebbe proprio che vuole dirgliqualcosa, un piccolo rigonfiamento dellelabbra suggerisce l'idea di parole chelottano per scappar fuori prima che ilcervello ne dia l'ordine, e poi i suoiocchi, sono svegli, vivaci, familiari – liha già visti, molti anni prima –,esattamente uguali ai suoi, se li ricorda,lo fissavano dallo specchio, occhiintensi, occhi pieni di notte.

Dove vai?In vari posti, risponde, e prima che

lui abbia il tempo di raccogliere ipensieri per dire qualcos'altro si alza ese ne va.

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Ora il ricordo gli offre una codamelodiosa: la notte in cui l'Argentinavinse la Coppa del Mondo, Gloria siaddormentò fra i suoni di una cittàubriaca. Rimase disteso vicino a lei,sveglio, con gli occhi spalancati,irrequieto, il pancione di sua moglie chegonfiava il lenzuolo accanto a lui comela voce incarnata del fato. Era cosìgrossa, ormai, vulnerabile nonostante lasua fierezza, aveva pianto un fiume dilacrime per suo fratello e poi eracrollata e si era addormentata, sfinitadalla sua stessa rabbia impotente.Voleva lasciare il paese. Non volevalasciare il paese. Qualunque cosa luidicesse, aveva sempre torto e lei sempreragione, si scagliava contro di lui come

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una pantera. Come si può proteggere unadonna che cerca di dilaniarti con i suoiartigli appena ti avvicini? Eppure luidoveva proteggerla, era suo dovere, ilvoto più solenne che avesse fatto in vitasua. A volte gli amici lo sfottevanoperché prendeva tanto seriamente i voticoniugali, vuoi tu prendere e conservare,Dio come sei pedante, e buffo anche, eforse era davvero buffo e pedante...dopotutto era la fine degli anni Settanta.Ma a lui non importava: per lui le cosestavano così e basta. La promessa diproteggerla era la più seria che avessemai fatto davanti a un altare. Non potevaimmaginare che sarebbe diventato cosìdifficile.

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Se solo avessero potuto tornare aessere come due anni prima, nei giornimeno complicati del loro fidanzamento,quando il matrimonio addolciva il loroorizzonte come un nettare non ancoraassaggiato. Ogni volta che ripensava aquel periodo della loro vita insieme glitornava in mente quel giorno, mentretornavano da una gita ad Azul, e leiguidava attraverso i dorati campi digrano della pampa. Le aveva appenachiesto di sposarlo nella piazza dellacittadina in cui era cresciuta, inginocchio come aveva visto fare nei filmdi Hollywood; lei era arrossita per glisguardi divertiti dei passanti e avevasorriso per i loro applausi quandol'avevano sentita dire sì. Qualche ora

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dopo lui e Gloria viaggiavano insilenzio, ascoltando le intense canzonidei Sui Generis al massimo volumepermesso dalla loro vecchia autoradio, ementre guardava il mare di spighe chescorreva accanto al suo finestrino, luiaveva sentito che il paese e la musica sifondevano, rock argentino, campagnaargentina, e aveva pensato, ne faccioparte anch'io, faccio parte dell'humusche fa crescere queste spighe e dellaMusa che anima queste canzoni; lafolgorante corrente del paese trascinaanche me: e sicuramente ci sono ancoramolte cose buone, qui, anche in questitempi assurdi, nonostante i rapimenti aopera dei gruppi di estrema destra e diestrema sinistra, nonostante la morte del

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presidente Peron, nonostante la moglieche si è lasciato dietro perché prendesseil suo posto, Isabel Peron, non abbia laminima idea di ciò che sta facendo, diquanto la stiano manipolando, di quantosiano tutti corrotti, in che casino siamofiniti, è esasperante e anche pericoloso,chissà dove sta andando il paese, maqui, su questa strada, io vedo il megliodell'Argentina e grazie al cielo c'èancora... i campi di grano, la musicarock, Gloria, certo, anche lei, la donnaal volante, vetta e pinnacolo di ciò chequesto paese può dare, e io la sposerò,forse non coltiverò la terra e nonvenderò dischi ma sposerò la donna piùbella del paese, mi ha detto sì,sicuramente è già qualcosa, in questo

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modo anch'io divento parte del grandetessuto della terra, della musica e delsignificato, saremo immensamente felicie lei partorirà dei bambini cheporteranno avanti la storiadell'Argentina, qualunque forma essaassuma, e i figli dei figli dei nostri figliricorderanno i nostri nomi. Una felicitàquasi insostenibile. Senza darsi il tempodi riflettere, le aveva chiesto perchéavesse accettato.

Di cosa stai parlando?Voglio dire, perché me.Era scoppiata a ridere.

Tamburellava pigramente con le dita sulvolante. Le piaceva guidare e lui glielolasciava fare anche se tutti i suoi amicilo prendevano in giro, Lasci il volante a

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una donna, la prossima volta vorrà chetu faccia pipì seduto. Perché me l'haichiesto, aveva risposto, senzadistogliere lo sguardo dalla strada.

No, davvero, aveva insistito, dicosul serio. Perché me? Potresti averequalsiasi uomo.

Allora il viso di Gloria si eraaddolcito, come le succedeva a voltequando lui le accarezzava il seno, eanche in quel momento avrebbe volutofarlo, chinarsi su di lei e palparlaattraverso la camicetta, anche se ciòavesse voluto dire uscire di strada.

Non voglio qualsiasi uomo, avevadetto. Voglio te. È il tuo viso che voglioveder invecchiare.

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Non aveva aggiunto altro e lui nonaveva insistito per non turbare ladelicata grazia di quel momento, le sueparole ancora sospese nell'aria, il suoseno maturo sotto la camicetta, le maniaffamate di toccarlo e di toccare anche ilresto di lei come un giorno, presto,avrebbero senz'altro fatto, il sole cheinzuppava i campi fertili, l'autostradalunga e diritta circondata da quellapromessa di grano giovane. Quizasporque no soy de la nobleza, cantaval'autoradio, puedo nombrarte mi reina yprincesa, y darte coronas de papel decigarillos. Forse proprio perché nonsono nobile, posso chiamarti mia reginae principessa, e darti una corona di cartastagnola. Che poeta, quel Charly Garcia.

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Sempre nella stessa canzone dice, nosoy un buen poeta, non sono un buonpoeta, e subito dopo le fa una corona dicarta stagnola. La transustanziazionedell'amore. Anche lui vorrebbe fare unacorona per Gloria, una corona di – dicosa? – di questa canzone, di frammentidi plastica dell'audiocassetta checontiene questa canzone. Aveva pensatoa Gloria che camminava lungo la navatadella chiesa con una corona fatta da lui,carta stagnola, frammenti diaudiocassetta e spighe di grano dellapampa. Sarebbe stato perfetto. Si sentivaubriaco. Era pieno di speranze come unpalloncino è pieno d'aria, quasiabbastanza per salire fino in cielo.

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Sdraiato a letto vicino a sua moglieaddormentata, tormentato dalle urla deipatrioti ubriachi, le preoccupazioni sisedettero sul suo petto come delle arpie.Come può fare in fretta, pensò, la vita adiventare un peso; un attimo e lepreoccupazioni ti invadono, il corpo sisente vecchio. Temeva di mancare al suodovere di proteggere Gloria, di farle dascudo contro le angosce che potevanoinfluire sullo sviluppo del loro bambino.Avrebbe voluto cancellare la suatristezza, ma sapeva che non erapossibile. Temeva che il troppo piangerela facesse ammalare, temeva chesarebbe restata così, disperata, finchésuo fratello non fosse tornato, epotevano volerci settimane, mesi

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addirittura, e si arrovellava sulladecisione se lasciare o no il paese primadel parto... era davvero necessario? Chene sarebbe stato della cittadinanza delnascituro? In quali modi la decisioneavrebbe inciso sul suo futuro? E chelavoro avrebbero potuto fare, loro due,in un altro paese, in quello dovesarebbero approdati, e fino a che puntoavrebbero sentito la mancanza di BuenosAires, cosa ne avrebbero fatto di tuttaquella nostalgia di casa, alla deriva inun posto sconosciuto? Gli sembrava unsacrificio enorme, l'esilio. Sfiorò ilventre teso di sua moglie alla ricerca diun segno di vita, ma forse il bimbodormiva nel suo sacco amniotico. Nientecalcetti, niente gomiti sporgenti. Io non

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lo so cosa dobbiamo fare, sussurrò albimbo, tu cosa vorresti che facessimo?Nessuna risposta. Tenne la mano sulpancione di Gloria e restò disteso insilenzio mentre giù in strada la follainneggiava all'Argentina, un'entità che untempo aveva amato con cieca dedizionee che ormai sembrava distorta,irriconoscibile. Che cos'è questaArgentina di cui cantano? Le ascoltamai, le loro grida? Così pensavarimuginando sulle sue preoccupazioni,senza immaginare – non avrebbe maipotuto immaginarlo – quanto quellepreoccupazioni gli sarebbero sembrateminuscole, assurdamente piacevoli,addirittura invidiabili di lì a poco.

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Buenos Aires splendeva. Dopo igiorni che avevo passato chiusa in casacon l'ospite, fui quasi accecata dallalucentezza della città. La pioggia avevalavato i palazzi lasciando spazio a uncielo di un azzurro scintillante, appesosopra i tetti come una luminosa incerata.I turisti mi sciamavano attorno, contentidi quel mutamento della sorte, sorridentinel sole, con gli zaini appesi davantiperché sapevano tutto dei borseggiatoriche infestavano la città, la quale,nonostante le sue velleità di anticagrandeur, non faceva eccezione nellamiseria generalizzata di quel Sud delmondo di cui ancora faceva parte. Leloro gambe, nude sotto l'orlo deipantaloncini corti, erano terribilmente

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pallide perché a casa loro, in Europa onegli Stati Uniti, si era nel cuoredell'inverno. Mi domandai comeapparisse loro la città, se vedevano lalussuosa ricchezza di particolari deipalazzi antichi ma non come sisgretolavano per l'incuria, o sevedevano solo l'incuria e non i ricchiparticolari. “Potrei portarvi a casa mia”,pensai, “e allora sì che vi farei vedereuna delle facce nascoste di BuenosAires, una cosa che sicuramente farebbe,come si dice, un bel botto; una cosa chele guide turistiche non riportano, unacosa fuori dai sentieri battuti, o su unsentiero altrimenti battuto.” Continuai acamminare. Arrivata all'università,allungai il passo e scelsi corridoi più

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lunghi per non passare davanti all'aula incui a quell'ora avrei dovuto essere alezione, o all'ufficio di professori cheavrebbero potuto fermarmi e chiedermispiegazioni – Perla, dove diavolo seisparita? – o che forse si sarebberolimitati a guardarmi con freddezza e alasciarmi passare, o che forse, tuttiassorti nelle loro ricerche, non sisarebbero nemmeno ricordati dei mieigiorni di assenza. Non riuscivo adecidere cosa fosse peggio, esseretagliata fuori e dimenticata o assillataperché tornassi in classe.

Raggiunsi la biblioteca senzaincidenti. Pensavo – forse speravo – chesarebbe stato difficile trovare quello chestavo cercando, ma in un attimo il

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catalogo computerizzato sputò fuori tretitoli pertinenti e disponibili. “Uno”,pensai, “posso sopportarne solo uno.”Trascrissi titoli e numeri di catalogo eandai tra gli scaffali, con il miobigliettino tenuto alto davanti agli occhicon le dita giallastre, con precauzione,come una delicata bomba a mano.Quando ero bambina, il sabato mammami portava sempre in biblioteca e gliscaffali racchiudevano per me tunnel diconoscenze venerate in cui passeggiavoa caso, senza un piano e senza numeriscritti su bigliettini, riemergendonesempre, con grande costernazione dimamma, con pile di libri catturatidurante le mie incursioni nei settoririservati ai grandi. Una storia della

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Cina, poesia francese del Settecento, unsaggio sulle meraviglie botaniche delRio delle Amazzoni.

«Che diavolo te ne farai, di questilibri?» diceva mamma sfogliandonealcune pagine ed esaminandoli a uno auno prima di dare la sua approvazione.

«Sono curiosa.» Corrugava la fronte.«Ti interessa la Cina?»

«Sì.»«Cosa c'è, in Cina, di cui essere

curiosi?»«È un paese grandissimo.»«Sì. Ma pieno di cinesi.»«Non so nulla dei cinesi.» Mamma

sospirava. «È una bella cosa che tu siatanto desiderosa di imparare», diceva,ma poi tentava un'ultima volta di

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trascinarmi nella sezione dei libri perragazzi, che, sottolineava, mi sarebberorisultati più comprensibili e inoltre erameno probabile che contenessero bugie.

«Che tipo di bugie?»«Di vario tipo. Devi stare molto

attenta quando sei tra gli scaffaliriservati ai grandi: i libri da grandicontengono bugie che sono comevelenosi denti di serpente.» E mentrediceva «denti di serpente» miminacciava con due dita arcuate davantialla bocca, per sottolineare meglio ilconcetto. Il potere di quell'immagine siradicava nella mia mente – “se lo dicemamma, dev'essere senz'altro vero” – alpunto che ancora molti anni dopo,almeno finché non cominciai a leggere

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con Romina, ogni volta che leggevoavvertivo la presenza di quei dentiselvaggi nascosti fra le righe, bianchidenti di serpente acquattati negli spazibianchi, denti camaleontici, pronti abalzare su e ad affondarmi nella pelleapprofittando della mia disattenzione.Quei denti avvolgevano di una patina dipericolo l'atto di leggere: mentre tu,nella più assoluta innocenza, seguivi laforma di quelle lettere nere, le bugiepotevano staccarsi all'improvviso dalbianco della pagina come una folla dipiccole dentature letali, senza testa néfaccia, per insinuarsi dentro di te con laforza – avrebbero attaccato innanzituttogli occhi – e distruggerti come unrabbioso sciame bianco. Tutte cose che,

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ovviamente, non accadevano mai. Neglianni del liceo e all'epoca dei geranimorti, avevo ormai liquidato l'idea dellebugie nascoste nei libri come unsemplice trucco inventato da mia madreper tenere lontana la sua bambina dapagine che avrebbero potutocompromettere la fragile realtà di unafamiglia. Mamma non voleva vedere – enon voleva che io vedessi – le cosescritte in quei libri, per esempio gli anniin cui io ero piccola e il paese era pienodi silenzio. Lei non sapeva. Sapeva.Sapeva. Lottava ogni giorno per nonsapere. Non avevo modo di scoprirecome stessero realmente le cose. Lei nonmi avrebbe mai raccontato la sua

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versione e, anche se lo avesse fatto, nonsono sicura che lo avrei sopportato.

Trovai il mio libro e me lo rigiraifra le mani, una, due volte, valutandoneil peso, palpandone la copertinasgualcita: si comportava in modoassolutamente normale, come qualsiasialtro libro. Mentre scendevo le scalepresi anche due libri di storia qualsiasi,solo per poterli mettere sopra quel libromentre facevo registrare il prestito dallabibliotecaria, che conoscevo e con laquale avrei dovuto avere a che fareanche in futuro. Avevo pensato che,leggendo l'ultimo titolo, avrebbe alzatogli occhi per fissarmi, con uno sguardoammorbidito dalla compassione oindurito dall'allarme, ma non lo fece.

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Era imparziale, indifferente, aveva cosepiù importanti a cui pensare, io ero solol'ennesima studentessa con l'ennesimoprogetto o compito o ossessionepersonale, una cosa vale l'altra, i librifurono timbrati e passati sul lettoreottico e affidati alle mie cure. Li infilainello zaino e uscii, verso la luce delsole, con il loro peso che mi sobbalzavasulle spalle.

Non avevo idea di dove fossi

diretta. Non avevo un posto dove andarema da qualche parte dovevo pur andare,non potevo tornare a casa, non eroancora pronta per gli orologi fusi, l'ariasatura di umidità e quel che c'era dentrola piscinetta. Scesi nella metropolitana e

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presi il primo treno. Nel vagone,nessuno che sorridesse. Un uomoleggeva il giornale con un'espressionefunerea. Un altro, calvo e molto curvo,guardava fuori dal finestrino come cifossero da guardare alberi, sole e caseinvece delle nere pareti di un tunnel checorreva via veloce. Una donna allattavaun neonato sotto la camicetta. Il piccolosucchiava avidamente, abbandonato alpiacere, gli occhi rovesciati all'indietrosotto le palpebre socchiuse, le gambineche scalciavano piano, le dita delle maniallargate. Lo stavo fissando troppo;distolsi lo sguardo. “Chissà com'è?” midomandai. “L'ho fatto anch'io, dapiccola?” Scesi a Plaza de Mayo. In

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cima alle scale, in strada, la luce mi ferìgli occhi.

Entrai nella piazza. La brezzatracciava ricami leggeri e furtivi tra imiei capelli. Qua e là dei turisti sifotografavano a vicenda mentre unvenditore di gelati e di cateneportachiavi si guardava attorno, magro,semiaddormentato, lui ne aveva vistealtre mille di giornate come quella. Nonsapevo perché fossi andata proprio lì maci restai, a respirare la vasta presenzadella piazza palpitante d'orgoglio o disole o di storia, con le sue lastre dipietra rosa deserte ma ancora intensione, certo, sotto il peso di tutti ipassi che avevano percorso quelquadrato di terra nei molti anni da

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quando gli uomini avevano cominciato ausarlo come luogo di ritrovo. Chissàcosa sapevano, quelle lastre di pietra:chissà se percepivano ancora lapresenza del sangue che vi era statoversato sopra, nei primi annidell'Ottocento, da Manuel de Rosas edalla sua cricca di assassini, laMazorca, durante il pubblicoannientamento dei loro nemici, reali oimmaginari che fossero. «Violinisti», sierano ribattezzati quegli assassini, pervia del lungo gesto con cui tagliavano lagola, ma anche per la musica prodottadalle loro vittime mentre morivano. Unagola dopo l'altra, finché sulla lama simescolava il sangue di decine di uominie donne. Poi le teste venivano mozzate e

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infilzate su lunghe picche ed esposteproprio lì, in Plaza de Mayo, affinchétutti potessero vederle ma anchesognarle, perché perfino i sogni fosserolavati e disinfettati di ogni pensiero ditradimento grazie allo spettacolo diquelle teste mozzate, forse di amici ovicini di casa, che presto le moscheavrebbero reso irriconoscibili. Tutto ciòera accaduto molto prima che la cittàdiventasse un conglomerato di moltimilioni di persone, quando ancora nonc'erano né le automobili né gli altipalazzi che oggi avvolgono la piazza, maessa era già il suo centro nevralgico. Leteste mozzate erano esposte alla vistadei cocchieri, dei funzionari governativie delle signore in giro per negozi. Oggi

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non si vedevano più le mosche né leteste decomposte infilzate sulle picche,non erano più lì, a meno che non si siaconvinti che il passato resti per semprepresente nel luogo in cui si è verificato,come un fantasma nascosto nei refolid'aria del presente. Se il tempo fossecrollato su sé stesso, se la sua grandecurva incombente fosse collassata, inquel momento avrei potuto vedere leteste infilzate sulle picche e circondateda sciami di mosche insieme alla follaimmensa che si radunava davanti allaCasa Rosada quando Evita Peron siaffacciava al balcone per parlare alpopolo e insieme alle comparsecinematografiche che si affollavanonello stesso punto quando Madonna

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arrivava alla Casa Rosada per fingere diessere Evita al balcone e insieme agliinnumerevoli mattini e pomeriggi in cuile Madres de Plaza de Mayo erano statelì, poche all'inizio, poi sempre di più,con i fazzoletti bianchi annodati attornoalla testa a rappresentare l'innocenza deiloro cari perduti e le foto ingrandite trale mani, per marciare tutto attorno allapiazza formando con i loro corpi i raggidi una ruota gigantesca, vogliamo chetornino e che tornino vivi, e continuare amarciare nonostante le proibizionigovernative, i manganelli, gli arresti e i“quelle sono pazze” e le minacce,avevano marciato all'ombra delladittatura e avevano marciato anchedopo, all'ombra di una democrazia che

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ancora non restituiva i loro cari, vivi...tutto il loro marciare si sarebbecompresso lì nel grande crollo deltempo. Mentre me ne stavo là aguardare, immaginai come le varie ere sisarebbero potute mescolare fra loro: ledonne avrebbero marciato attorno alleteste decomposte e divorate dallemosche, le mosche avrebbero ronzatoattorno ai fazzoletti bianchi delleMadres, i turisti – che in quel momentostavano fotografando la statua e la CasaRosada – avrebbero scacciato le moschedicendo, Fa così caldo qui al Sud, lecomparse cinematografiche si sarebberomescolate alla folla in attesa di EvaPeron, Eva Peron avrebbe guardatoMadonna che avrebbe guardato le

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Madres marciare eternamente in cerchio,costanti, determinate, donne sullaquarantina, donne sulla settantina, donnesenza età come il mare, che avevanotatuato la propria esistenza sulle lastredi pietra della piazza e sulla terrasottostante. “E io?” pensai. “E se mivedessero? E se una delle Madresvoltasse la testa e mi vedesse,comprendendomi con il suo sguardo inquel pazzo miscuglio di epoche? Ilpassato non è scomparso, tutt'altro, ilmillennio può anche essere scaduto,catapultandoci in questo nuovissimoXXI secolo, ma questo non ci salveràdalle grinfie e dallo sguardochiaroveggente del passato.” Forse

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proprio per questo ero andata lì, controla corrente del mio pensiero conscio.

Per essere riconosciuta.Anche se niente mi terrorizzava tanto

quanto l'idea che una di quelle donnecon il fazzoletto bianco potessecatturarmi con lo sguardo attraverso iveli del tempo, e aprisse la bocca perparlare o per piangere o per sputare suquella ragazza solitaria e silenziosa.Guardai attraverso la piazza deserta,dove le madri invisibili marciavano conla dignità di chi conosce meglio ildolore della paura. Ne ero certa, levedevo quasi; loro, invece, sembravanonon vedermi. Ero sul limitare del loromondo, piccola, isolata. In tutta la miavita non mi ero mai sentita tanto piccola.

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La brezza era scomparsa, lasciandosolo l'umida pressa dell'afa di BuenosAires. C'era una panchina poco lontano,ma non riuscii a sedermi. Rimasi lì, inpiedi, lì, lì.

È solo in casa. La stanza è immersanel silenzio. Il divano ha rinunciato adaggredirlo. Il cigno sogna ma senzafremere. Perfino i libri sullo scaffalesembrano aver siglato una treguatemporanea con le loro pagine. Il suopensiero corre alla ragazza. Vorrebbeseguirla con la propria coscienza,vedere cosa fa, dove si aggira, qualicolori le pulsano nel cuore. Ma con ilpensiero non riesce a trovarla e cosìaspetta, osservando la danza invisibiledella luce e dell'aria.

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Psshhht.Una voce da un angolo della stanza,

dalle ombre lungo il bordo della tenda,là dove ha visto il collo e le ginocchiadi Gloria ondeggiare nella penombra.

Psshhht, vieni.La sente di nuovo, giurerebbe che

non è solo nella sua testa, non èsemplicemente un ricordo, è un suonoaltrettanto reale della voce della ragazzao del rumore della pioggia. Com'èpossibile? Ovviamente non può esserestata la tartaruga, che si trova dall'altraparte della stanza, sulla soglia, a occhichiusi, imperturbata. La stanza èimmobile. Si raccoglie.

Gloria?Perché non vieni?

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Gloria. Gloria. Non so dove sei.L'acqua è senza tempo. Cercami.Le tende fremono. Le pareti pulsano.

Ora nella stanza la luce è agitata,ardente, scintillante di segreti, glipenetra nella mente come un coltello;potrebbe tagliare in due qualsiasi cosa,illuminare tutto, vorrebbe gridare il suonome ma teme che il suono della suavoce possa spezzare l'incantesimo, dallecorrenti della sua mente si sporge versodi lei, verso Gloria, fonte della vocedietro le tende. Nessuna risposta. Letende ormai sono vuote di suono. Decidedi cercare dentro di sé. Il suo pensierosi trasforma in un liquido denso chesplende dentro di lui, pulsante di luce edi umidità, potrebbe riversarsi

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dovunque, l'acqua è senza tempo, eallora chiude gli occhi e affonda nellascura luminescenza che ha dietro lepalpebre, ci sono tunnel che si libranoalti, si libra con loro, scivola attraversoi cancelli del tempo e dello spazio,sempre più avanti, penetra a fondo nellecaverne del passato, e allora la vede.Adesso è con lei, con Gloria, in unpiccolo locale buio. Il pavimento èumido e appiccicoso ed emana un odorefamiliare, piscio, paura e il metallicosottofondo del sangue. È nuda, lebraccia e le cosce coperte di lividi, lasua pancia non somiglia a niente che luiabbia mai visto, è la più inimmaginabileprotrusione di carne, curva e tesa emolto più grande dell'ultima volta in cui

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ha visto Gloria, bendata e legata a unasedia davanti alla quale è sprofondato inun gorgo di uomini, ormai il bimbodentro di lei starà facendo i suoi piani difuga, combattuto fra l'amore per l'utero eil desiderio di una libertà più grande diquella che l'utero stesso può consentire.Lascia che ti abbracci, Gloria, lasciache ti baci, che ti salvi dall'abissospiraliforme della tua mente, ma Glorianon sta cadendo lungo quella spirale,qualcosa la distrae dalla disperazione, ilsuo corpo è troppo impegnato aschiudere le sue antiche rivelazioni, gliocchi sono chiusi, le labbra semiaperte,al loro posto parlano le mani chescivolano sull'ampia distesa del ventre,lentamente, indomite, mani come lingue

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di leonessa che attingono agli istintianimaleschi di mille generazioni peraccarezzare, calmare e coprire quelloche ha dentro, poi Gloria chiama laguardia, l'uomo non può sentire la suavoce ma vede muoversi i muscoli dellagola, se la prende comoda e quando vada lei ha indossato un viso troppo duroper la sua giovane età (sembra unragazzino con i vestiti di suo padre, lemaniche ridicolmente lunghe epenzoloni) e Gloria, muovendo solo lelabbra, mormora adesso sono più forti,la guardia scrolla la testa, verranno aprenderti quando sarà il momento, e leiè il momento, e lui taci puttana e se neva. Gloria resta sola, no, non è sola, cisono io con te, Gloria, senti le mie mani

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di fantasma qui accanto alle tue? Chefluttuano sul tuo ventre? Lentamente,sudore caldo e scivoloso sulla tua pelletesa, il tempo è altrettanto fragile dellarealtà... e la realtà può collassarenell'incubo di questo oltretomba in cuisiamo stati gettati io e te, dove nessunaumanità si applica agli esseri umani; mase la realtà può collassare, può farloanche il tempo; io sono sempre stato qui,in questo istante del passato, un refolod'uomo, disincarnato ma sveglio, caricodi ricordi del futuro. In questa stanzasiamo in tre, uno vivrà, uno morirà euno, tu, Gloria, ancora non lo so, ma perora, nonostante il buio e la puzza diquesto stanzino, e anche se non possoaiutarti, mi crogiolo nella gioia di

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poterti toccare di nuovo, di potertioffrire il misero, futile conforto dellemie carezze, il gonfiarsi del tuo respirofa salire e scendere le mie mani, il tuocorpo si inarca, un'altra ondata dicontrazioni ti travolge come quando ilvento infuriato scaglia le onde del marecontro gli scogli, un mare che infieriràsu quegli scogli e si schianterà su di loroma che non – mi senti, Gloria? – non lidistruggerà.

Continuai a vagare per la città, senza

meta, lungo strade che catturavano laluce con le loro grandi braccia di pietra,rallentando davanti ai bar per sentirel'aroma del caffè appena fatto eascoltare il tintinnio di cucchiaini e

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tazzine per poi riprendere subito ilcammino. Non volevo fermarmi. Nonvolevo bere o mangiare niente; gli odori,i suoni e le cose da guardare erano ilmassimo di cui potessi sopportare diimpregnarmi. L'aspro urto di una coloniamaschile. La punta acuminata di unarisata. L'onda di gas di scarico e radio atutto volume di un'automobile, loscintillio del sole sulle vetrine, unsilenzioso manichino solo nella suaboutique, una donna che aggrottava lafronte guardando l'orologio sotto unatenda da sole rossa, percussioni discarpe sul cemento e sui ciottoli, unuomo che discuteva con un altrogesticolando stizzito in direzione delcielo, la voce lamentosa di un bambino,

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“Ti prego, mamma, ti prego”, il profumodelle empanadas appena sfornate in unabottega al cui interno un cuoco siaffannava a lavorare come se tuttaBuenos Aires aspettasse con impazienzasolo quello, le sue specialità, il suotrofeo. Com'era facile annegare ipensieri nelle vorticose correnti dellacittà. E com'era difficile trovare unpiccolo punto d'appoggio per ilpensiero.

Alla fine mi ritrovai in una stradache conoscevo fin troppo bene. Di frontea me, sull'altro marciapiede, c'era ilpalazzo in cui si trovava l'appartamentodi Gabriel. “Come ho fatto ad arrivarefin qui? Che diavolo stai facendo,Perla?” Non avevo progettato quella

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destinazione, stavo solo vagabondando,ma non poteva essere una coincidenza seil movimento dei miei piedi mi avevaportato proprio lì. Se fossi stata sullettino di uno dei miei colleghi deldipartimento di psicologia, sicuramentenon me l'avrebbe lasciata passare. Idesideri sepolti, avrebbe detto, sono ipiù forti, fanno da combustibile allenostre azioni inspiegabili e costruisconolo schema dei nostri sogni. E nelfrattempo avrebbe avuto un'espressionedi vittoria, l'eccitazione di vedere leteorie prender vita, proprio lì, sotto isuoi occhi, nel racconto di una donna daipiedi vagabondi. Mi ero già rivolta ailibri di testo in cerca di spiegazioni, mane erano nati solo altri problemi, perché

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la teoria mi aveva reso più difficilenegare impulsi e paure profondi senzadarmi in cambio le abilità necessarieper non esserne sopraffatta. Miavvicinai alla porta e suonai al citofono.La sua voce, scricchiolante di elettricitàstatica, uscì dalla grata. Era in casa.

«Chi è?»«Sono io, Perla.»«Ah.» Stupore non mascherato.

«Ciao.»«Passavo di qui.» Indubbiamente

vero... ma perché?«Vuoi salire?»«Se posso.» Un lungo ronzio mi

autorizzò a varcare il portone.In cima alle scale, Gabriel mi

aspettava davanti alla porta aperta.

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Sorrise, ma era un sorriso ambivalente,e non mi baciò sulla guancia. «Entra.»

«Mi spiace, ti avrò interrotto.»«Non c'è problema.»«Stavi scrivendo?» Si strinse nelle

spalle. «Sì.» Abbracciai con lo sguardoil suo salotto. Come al solito era pienodi pile di fogli che occupavano buonaparte del piccolo ambiente, come unaspecie bizzarra e resistente che avesselentamente affermato il propriopredominio su tutto il resto. Il volume dicarta non era diminuito affatto dalla miaultima visita; anzi, semmai era diventatopiù caotico e trionfante. La cartaspadroneggiava sul bancone dellacucina, sul tavolo della colazione, lungoil bordo del pavimento. Gabriel non

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aveva tolto dalla libreria la nostra foto,quella in cui noi due sorridevamoraggianti alla macchina fotografica conle facce vicine vicine, scattata in quellostesso salotto, un po' storta perchél'aveva fatta lui stesso allungando ilbraccio. Era ancora lì, incorniciata,accanto a quella più grande della suafamiglia che avevo osservato tantevolte: loro cinque insieme aMontevideo, durante un asado nel patiodi casa. I suoi genitori erano ai dueestremi della fila, il padre con un piattodi carne cruda pronta per la griglia, lamadre sorridente e senza trucco, eGabriel nel mezzo con un braccio sullespalle di ciascuna delle sue sorelle. Leteste inclinate l'una verso l'altra

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dicevano già tutto. Sembrava checiascuno stesse ascoltando senzabisogno di parole i pensieri di tutti glialtri. Gabriel parlava volentieri dellesue sorelle. Era molto orgoglioso diloro. Carla era avvocato, ma abitavaancora con i genitori perché non avevaabbastanza clienti da pagarsi unappartamento tutto per sé. Penelope, lapiù giovane, studiava chimica allaUniversidad de la Republica diMontevideo. Non avevo mai sentitonessuno pronunciare la parola«chimica» con la tenerezza che cimetteva Gabriel quando parlava di suasorella. Aveva cinque anni meno di lui,una differenza che sicuramente la facevasembrare sempre bambina ai suoi occhi.

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Aveva due anni più di me. Una voltaglielo avevo fatto notare e Gabriel neaveva riso, ma un po' a disagio. Fatto stache metteva un po' a disagio anche me.Non ci eravamo più tornati sopra. Micommuoveva constatare quanto Gabrielfosse vicino alle sue sorelle, mascatenava in me anche altre emozioni, uncatrame bollente e appiccicoso. Permolto tempo avevo preferito nonchiedermi perché, non indagare su cosaci fosse dietro. Sicuramente c'entrava ilsenso di colpa. Guardate che bellafamiglia, e adesso guardate un po' me,che non voglio conoscerla, che mi rifiutodi farne parte come lui vorrebbe. Nonmeritava forse, Gabriel, una fidanzata dafar conoscere ai suoi senza tanti

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problemi? Poi però avevo capito cosami tormentasse tanto riguardo alle suesorelle. Era invidia. Invidiavo Gabriel –e le sue sorelle – perché avevano deifratelli, per quella miracolosa fiducia econoscenza reciproca, sentimenti natiinsieme a loro e che gli regalavano unantidoto contro la solitudine destinato adurare tutta la vita, tutte cose negate a unfiglio unico.

Gabriel stava aspettando che dicessiqualcos'altro.

«Avevo bisogno di vederti», dissi,prima ancora di percepire il formarsi diquel pensiero nella mia mente.

«Qualcosa che non va?»«Dev'esserci per forza qualcosa che

non va se ho bisogno di vederti?» Alzò

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le mani, quasi lo avessi minacciato conuna pistola. «Non ho detto questo.»

«Scusa. Non so perché mi sopportiancora. Anzi, ero sicura che ti sarestirifiutato di vedermi.»

«Perché?»«Per come ti ho trattato.» Prese una

sigaretta accesa da un posacenere easpirò una lunga, lenta boccata. Non miguardò. Era quasi come se non avessidetto niente.

«Devi essere molto arrabbiato conme», dissi.

«Devo?»«Ma certo.»«Per cosa?»«Dai che lo sai.»

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«Voglio sentirlo da te.» Morivodalla voglia di fumare, ma non misembrava il caso di chiedergli unasigaretta, e lui non me la offrì. «Nonavrei dovuto riattaccare a quel modo,l'altra sera. E soprattutto non avreidovuto piantarti in asso.» Mi studiòattentamente. «Esatto. Non avrestidovuto.» Era il momento di pronunciarela fatidica parola «scusa», ma mi restòintrappolata in gola.

«Sono stato molto in pensiero,Perla.»

«Davvero?»«Ti sembra strano? Credi di poter

scappare nel cuore della notte, senzadire dove vai, lontana da casa, e

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pretendere che nessuno si preoccupi? Avolte mi stupisco di te.»

«A volte anch'io mi stupisco di me.»Questo sembrò ammorbidirlo un po'.«Avresti potuto lasciare un biglietto.»

«Dovevo andare, tutto qui.»«Perla», disse lui con dolcezza,

«non siamo mai costretti a fare le cose.»«Ma a volte crediamo di esserlo.»

Parole che fanno male, spine nella miagola. «Io pensavo di esserlo. Scusa.» Ciguardammo negli occhi. Sul suo viso, undolore nudo.

«Mi dai una sigaretta?» Frugò nelcaos che regnava sul tavolo dellacolazione, trovò il pacchetto, me ne teseuna e ne prese un'altra per sé. «Vieniqui, siediti.» Mi sedetti sul divano

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accanto a lui. Accendemmo le sigarette eper un po' ci distrasse il solito rituale difiammifero, fiammella, aspirare.

Poi disse: «Ho riflettuto a lungo. Suquella notte. Non è stata tutta colpa tua.Non avrei dovuto metterti alle strette eper questo ti chiedo scusa».

Non sapevo cosa dire. Ancora unagoccia e tutto quello che avevo dentrosarebbe traboccato.

«Mi sei mancata.»«Davvero?»«E io ti sono mancato?»«Tu cosa credi?» Nelle mie

intenzioni non era una domanda dura, malui si ritrasse.

«Scusa. In questi giorni non sono piùio.»

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«Mi sembra evidente.» Dalla portaaperta del balcone entrava il grido didolore di una vecchia canzone degli U2,costellato dal rumore delle auto. Ilcantante non aveva ancora trovato quelche stava cercando. Rivedevo me eGabriel, alle cinque del mattino, che cibaciavamo per la prima volta su quellostesso balcone, la città spalancata sottodi noi come le braccia di un amicoespansivo.

«A cosa pensi?» mi chiese.«Niente di importante. Parliamo

d'altro. Stai scrivendo qualcosa dinuovo?»

«In un certo senso.»«Sui desaparecidos?»

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«Sì. Ovvio.» Non sapevo bene comeformulare la domanda successiva.Cercai di assumere un tono indifferente.«Cosa faresti se ti dicessi che uno diloro è tornato?»

«Uno di chi?»«Un desaparecido.»«Tornato dall'esilio?»«Dalla morte.»«Ti bacerei.» Non me l'aspettavo,

nemmeno in quel tono scherzoso. Potevaessere un ramoscello d'ulivo, o forse unarichiesta indiretta. «Sii serio.»

«Va bene. Ti chiederei di farmeloincontrare.»

«Magari è una donna.»«Di farmela incontrare.»

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«Pensavo non ci credessi. Che imorti possono tornare dall'aldilà.»

«Infatti non ci credo. Ma nonstavamo ragionando in astratto?»

«Tu cosa credi?»«Bene, dunque. In astratto, mi

piacerebbe incontrarlo o incontrarla.» Siera avvicinato di più, ora il suo bracciosfiorava il mio. A quel lieve contatto ilmio corpo urlò di desiderio; mi chiesi seanche lui provasse la stessa cosa. «Ecomunque, anche ammesso che io non cicreda, questo non significa che una cosanon possa accadere. Un tempo la gentenon credeva nemmeno ai desaparecidos.Il mondo fa delle cose alle personeindipendentemente da ciò che noi

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crediamo possibile.» Aprii la bocca, manon dissi niente.

«Perché me lo chiedi?»«Per nessuna ragione particolare.»«Oh, andiamo!»«È solo una cosa che mi è venuta in

mente, tutto qui.» Mi fissò, preoccupato.«Ti sta succedendo qualcosa.» Guardaialtrove, fuori dalla finestra, verso lagiovane coppia che ancora non era unacoppia e che non era più lì.

«Sul serio, dimmi cosa ti passa perla testa.»

«Non posso.»«Perché?»«Mi mancano le parole.»«Comincia da un punto qualsiasi.»

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«Non è quello il problema.»Immaginavo la faccia che avrebbe fattose gli avessi raccontato della figurafradicia e sgocciolante che si erainstallata nel mio salotto, di quell'uomoche non era un uomo e che aveva fattoirruzione in casa mia senza spaccareniente, comparso dal nulla, e che avevaun odore terribile e perdevaininterrottamente acqua e custodivaricordi che dimostravano che un tempoera stato vivo, e quando e in qualicircostanze, ammesso che si potesseparlare di dimostrazioni in quella pazzastoria di un uomo non-uomo chemangiava acqua, al quale non riuscivo asmettere di pensare e che mi avevaannegato la vita e tutte le cose di cui

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pensavo che la mia vita fosse fatta.«Non posso e basta.» Con moltadelicatezza, lui disse: «Mettimi allaprova».

«Un giorno lo farò. Te lo prometto.»Lo pensavo davvero. Mi era venuto inmente che se c'era una persona sullaterra che aveva anche solo unapossibilità di credere alla mia storia, edi tenersela stretta addosso conentrambe le mani, quella persona era lui.

«Basta che tu stia bene», disse,mettendo una mano sopra la mia.

Fissai la sua mano. Stentavo acrederci, ma sembrava sincero. Nonstava pensando a sé stesso, o almenonon alla rabbia o al disprezzo oall'incertezza del futuro. Non capivo

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perché gli importasse ancora di me,quando io stessa mi sopportavo a stentoe solo perché non potevo fare altrimenti,perché ero intrappolata nella mia pelle enon potevo strapparmela di dosso escappare da qualche altra parte. Quellamano si era spinta fin dentro di me perscoprire chi fossi davvero, un'impresache nessuno dei miei amici poteva anchesolo tentare, perché la maschera cheportavo era troppo convincente,un'impresa a cui mia madre si erasempre sottratta con una resistenza chesconfinava nell'avversione, un'impresache mio padre aveva tentato senzariuscirci – perché? – forse per pauradelle cose nascoste dentro il nostrolegame. Che Gabriel invece avesse

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semplicemente allungato la mano epercepito tutto ciò... e che quella manopotesse tornare ancora da me, posarsiancora sulla mia, come in quel momento,calda, morbida, senza traccia didisgusto. Che una cosa del generepotesse accadere.

«Gabriel.»«Sì.»«Vorrei che ricominciassimo tutto

daccapo.» Mi appoggiai contro di lui.L'aria sembrava scorrere impetuosaavvolgendoci con una coltre densa eronzante. Il suo corpo, con il suoscintillante linguaggio elettrico, midiceva che il desiderio era ancora là,che il baratro fra noi poteva richiudersifacilmente, si stava già richiudendo,

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abbandonai la bocca sul suo collo echiusi il cerchio. Lui mi lasciò entrare,mi avvolse, le sue mani fra i mieicapelli, sotto la gonna, e la gonna sparì,la sua bocca restituita alla mia, il mioseno restituito a lui, carne che volevatornare a casa, fece per parlare ma iodissi: «Shh, shh, querido, non direniente», e anche su questo lui si arrese,anche questo mi regalò, suoni liberidalla gabbia del linguaggio, corpi liberidalle parole, si lasciò spogliare,permettendomi di usarlo come una telaper i miei colori più profondi. Volevoesaltarlo con il grido delle mie maninude. La sua lingua parlava alla mianuca, le sue mani alla mia pelle, il suosesso parlava dentro di me con una forza

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che sicuramente sfidava quella digravità, e che poteva trattenere unapersona che stava precipitando, osparare un corpo fino alle stelleriversandone i segreti nello spazio neroe senza fine.

Dopo restai accoccolata contro dilui, avvolta dalla luce pomeridiana,dagli odori carnali e dal rumore deltraffico che entrava dalla finestra aperta,attraverso la quale i nostri gemiti eranosicuramente arrivati fin giù in strada.

«Perlita.»«Mmm...»«Che cosa stiamo facendo?»«Ci crogioliamo.»«Sì. Ma dopo dove andremo?»«Dove vuoi tu.»

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«Vuol dire che tornerai da me?»«Tu me lo lasceresti fare?»«È plausibile.»«Plausibile? Non suona tanto bene.»«Prima dovrei sentire le tue

suppliche.»«Non ne ho preparate.»«Non importa. Spontanee andranno

anche meglio.» Mi prese una mano e sela portò alle labbra. «Resta ancora unpo'. Preparo qualcosa da mangiare,ceneremo senza rimetterci i vestiti.» Lodesideravo anch'io. Stavo per dire di sì,stavo quasi per risuonare di quell'idea,quando pensai al mio ospite, affamatodella sua acqua, che nuotava nei ricordie aveva bisogno di me e mi aspettavachiedendosi quando sarei tornata.

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«Non posso.» Mi strappai da lui.«Devo andare.» Gabriel mi fissò conespressione ferita.

«Mi dispiace.»«Non riuscirò a sopportarlo ancora a

lungo, Perla.»«Non lasciarmi», implorai, per la

seconda volta in quella settimana.«Sei tu quella che se ne sta

andando.» Mi scrutava in volto. «Dinuovo.»

«Stavolta è diverso. Devooccuparmi di una cosa.»

«Ma non vuoi dirmi cosa.»«Non ancora. Ti chiamo presto,

vedrai, ti spiegherò tutto.» Gliaccarezzai il petto, indugiando sui suoipeli ricci. «Te lo prometto. Chiamerò

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prestissimo.» Quando uscii, era ancorasdraiato sul pavimento e mi fissava consguardo perplesso.

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10 - APERTA

Non mi resta molto tempo per

raccontare questa storia, a giudicare daldolore che mi ha appena attraversato ilcorpo... una sensazione incredibile,come essere stretta dall'ardente pugno diDio.

Come ho già detto, e come non mistancherò mai di ripetere, questo è ilmio modo di andare dritto al cuore dellecose, girandoci attorno,abbandonandomi alla forza

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gravitazionale. Ma ormai ci siamo,siamo quasi al nocciolo.

Adesso ti parlerò della notte che mispaccò in due.

Ero andata in Uruguay con Gabriel.Fu dieci giorni prima dell'arrivodell'uomo bagnato. Saremmo stati un po'nella villetta della sua famiglia, propriosulla spiaggia, dopo di che avevamo inprogramma di trascorrere qualchegiorno a Montevideo con i suoi. Permolto tempo mi ero sottratta a questoincontro, ben sapendo che i suoi nonpotevano essere contenti di sapere che illoro figlio usciva con una ragazzaproveniente da una famiglia come lamia. Ma Gabriel mi aveva parlato peranni della casetta di Piriapolis, sulla

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stessa spiaggia dove i suoi genitori sierano conosciuti, insistendo chepotevamo andarci per stare un po'insieme e rilassarci in un luogo di pacee di bellezza. «Ai tuoi non dispiaceràche ci passi la notte con una persona chenon è tua moglie?» Questo l'aveva fattosorridere. «Oh, Perla», aveva detto, «imiei non sono affatto quel tipo digenitori. Ti piaceranno, vedrai, e tupiacerai a loro, hanno avuto un bel po'di tempo per abituarsi all'idea... comedire... di te, e quando ti conosceranno tivedranno come sei, indipendentementedalla tua famiglia.» Alla fine mi eroarresa. L'idea solleticava la mia vogliad'avventura, e poi l'estate era al culminee il millennio, giovane e fresco, si

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apriva davanti a noi come una sfida.Nemmeno la bugia per i miei genitoriera stata un ostacolo insormontabile: lamia amica Marisol mi aveva fornito unalibi, e mamma – convinta che avessi unnuovo interesse romantico nella personadi un certo Bruno, studente di fisica efiglio di un medico... quando non sapevopiù cosa inventare, le mie fiammeimmaginarie erano tutte figli di medici –l'aveva accettato senza fare domande.

Mentre attraversavamo in traghettol'immenso Rio de la Plata e guardavol'acqua scorrere veloce sotto di noi,liscia, densa e limacciosa, non feci altroche pensare ai miei genitori che, a casa,si bevevano la mia bugia. Era la primavolta che attraversavo un confine di

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stato senza di loro. Ero ubriaca delliquore forte della trasgressione, unacalda eccitazione mista di senso dicolpa e di potere, la promessa di poterfinalmente prendere in mano il timonedella mia vita. Sbarcammo aMontevideo e salimmo subitosull'autobus per Piriapolis. La corsa ciportò fuori città, in aperta campagna,con le sue dolci colline e il verderigoglioso. Mi appoggiai alla spalla diGabriel come per dormire, ma non poteisconfiggere la veglia. La strada eratroppo aperta, il mio desiderio troppogrande, le canzoni pop suonatedall'autoradio dell'autobus troppoallegre. “Mia”, pensavo, “questa stradaè mia, sono una donna adulta in viaggio

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con il suo amante e tutto questo... questimomenti, questo corpo, lo sferragliaredell'autobus... tutto questo è mio.”Affondavo quasi nella deliziosaillusione di essere libera, di poterdiventare qualunque donna volessi.Accoccolata fra le braccia di Gabriel,guardavo i campi dell'Uruguay scorrerevia, quieti, ricchi, ammiccanti.

Arrivammo alla villetta e subitocominciammo a fare l'amore sulpavimento del soggiorno, sul tavolodella cucina e finalmente a letto. Lalibertà di un'intera notte da passareinsieme, senza la solita corsa notturna inmetropolitana per tornare a casa, mifaceva delirare di desiderio, nonriuscivo più a fermarmi. Scese il

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crepuscolo, fummo avvolti dalla caldaoscurità estiva. Gemetti e gridai senzaalcun riguardo per i vicini. A un certopunto Gabriel, vedendomi cosìassatanata, scoppiò a ridere, e risianch'io, non riuscivamo più a smettere.

«Di cosa stai ridendo?»«Non me lo ricordo più.»«Neanch'io.»«Ah, Perla», disse lui, ancora

ridendo. Ne approfittai per baciargli ilpetto, lo stomaco, la delizia del suo ossopelvico, e già la mano correva al suosesso.

«Aspetta un momento», disse lui.«Aspetta. Perché non andiamo a fare duepassi sulla spiaggia?»

«Perché?»

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«È bellissima, di notte. Vedrai che tipiacerà.»

«Non adesso. Non ho ancora finitocon te.»

«Torneremo presto.»«Non voglio lavarti via dalla mia

pelle.»«E chi ha detto che ci laveremo?»«Non andrò certo in spiaggia con

questo odore addosso.»«Hai un odore divino.»«Tu sei pazzo.»«Vuoi che te lo dimostri?» E senza

aspettare la mia risposta balzò su, mirovesciò sulla schiena e mi bloccò lebraccia sopra la testa, tutto in un unicomovimento.

«Mi arrendo!» gridai.

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E lo feci.Perdemmo il senso del tempo. La

notte ci avvolgeva con le sue pieghevellutate.

«Adesso non posso più lasciartiuscire.»

«Perché?»«Hai un odore così buono che tutti

gli uomini ti correranno dietro.»«Gabriel!»«Non capiranno nemmeno cosa li

avrà colpiti, ma sarà stato il tuo odore disesso, di orgasmo e di sudoremuschiato.»

«Non fare lo sciocco.»«Dovrò abbatterli con un legno

trovato sulla spiaggia.»«Oh, smettila.»

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«Cos'è, un ordine?» Risi.«Bene, in tal caso...»«Gabo!» Erano le due del mattino

quando finalmente ci decidemmo auscire. Il Rio de la Plata scintillavasotto una luna spezzata. Le onde siannunciavano l'una dopo l'altra con unlieve shhh, shhh, shhhhhh. Coppiette efamiglie passeggiavano a gruppetti lungola spiaggia, mormorando, ridendo ebevendo mate. Vidi anche qualchegruppo di hippy uruguaiani, con i capellilunghi spettinati, i sorrisi alla marijuana,ceste piene di dolcetti e ninnoli fatti amano che vendevano per finanziare iloro eterni vagabondaggi. Avevano lamia stessa età, anche meno; sembravanocompletamente rilassati, troppo in pace

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per preoccuparsi dei loro capelli o delloro futuro. Io non ero mai stata comeloro, né avevo mai avuto un amico così,quindi non riuscivo a immaginare il loromondo interiore. In passato li avrei presiin giro per come erano vestiti o per quelloro atteggiamento di pigrizia totale, maquella notte provai una fitta di invidia.Sembravano così liberi. Tutti gli abitantidi quella piccola spiaggia notturnasembravano liberi. Forse era l'aver fattotanto l'amore, che mi faceva sentireancora come se avessi le ossa fatte dinettare, o forse era per la lunga giornatadi viaggio, ma avevo la stranasensazione di essere entrata in una realtàparallela, in un regno incantato fatto disesso, di pace e di possibilità. Con la

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mia famiglia ero stata spesso in vacanzain Uruguay, ma solo a Punta del Este,con le sue folle di bikini costosi e igrattacieli appiccicati l'uno all'altro. APunta del Este perfino l'oceanosembrava appena uscito dalparrucchiere. Lì invece le onde eranosemplicemente sé stesse, alla buona,spudorate, disposte a mescolarsi con lasabbia.

Passeggiammo. Camminavosottobraccio a Gabriel, appoggiando ilmio peso contro di lui. Ci togliemmo lescarpe e andammo verso le onde, equando l'acqua ci inghiottì i piedi comeun'umida seta nera scoppiai a ridere.

«È meraviglioso questo posto.»«Sapevo che ti sarebbe piaciuto.»

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«Dovremo tornarci.»«Un giorno ci porteremo i nostri

figli.» Risi di nuovo.«Cosa c'è di tanto buffo?»«Quali figli?»«Non lo immagini?»«Non ho detto questo.» Mi spruzzò

calciando l'acqua con il piede. «Alloracos'è che hai detto?» Lo disse in tonoleggero, ma c'era un accenno taglientenella sua voce. Non avevamo maiparlato di avere dei figli, nonesplicitamente almeno, anche se mi erodomandata spesso – a notte fonda, nuda,entrando e uscendo dal dormivegliaaccanto a Gabriel – che aspettoavrebbero avuto un bambino o unabambina sgorgati da noi due, come

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avrebbero corso o gridato o riso in unacasa che sarebbe stata la nostra, daqualche parte in centro, sempre incentro, un appartamento in cui sisarebbero addormentati ogni sera con laninnananna del perenne brusio di BuenosAires. Sicuramente era ciò chedesideravo per il mio futuro, anche seavesse comportato presentazioni a lungorimandate, il disvelamento della miadoppia vita, uno scontro con i miei cheavrebbe potuto concludersi solo conloro che mi tagliavano via come unmembro amputato. Potevo avere una vitacon dentro Gabriel oppure una vita condentro i miei genitori, ma non potevonemmeno immaginare di averli tuttiinsieme. E così il pensiero dei figli,

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come tutti i pensieri riguardanti un futuroancora remoto, era rimasto imprigionatonella vaga terra di confine tra il sonno ela veglia, non detto. «Niente.»

«Tu non vuoi avere dei figli conme.» Sembrava sinceramente ferito.

«Non è vero.»«È per via dei tuoi genitori, vero?»

Avanzai di qualche passo, in silenzio.Una piccola onda ci lambì i piedi esubito si ritirò.

«Quando pensi di cominciare avivere una vita tua?»

«La sto vivendo.»«Ma sempre nella loro ombra.»«Stai dicendo che sono una

vigliacca?»

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«È così che ti senti, una vigliacca?»Onde, onde, mi circondavano lecaviglie, schiumanti e sveglie. «Avolte.»

«Fammeli conoscere.»«No.»«Stai per conoscere i miei genitori e

non vuoi che io conosca i tuoi?»«Se li conoscessi, li troveresti

insopportabili.»«Tu li sopporti?» Avrei voluto

lasciar perdere, la notte era così bella,ma lui si fermò e mi guardò con unagravità che rasentava la sfida. «Ti prego.Cerca di capire. Sono i miei genitori.» Ilsuo sguardo divenne più tenero. «Forseno.»

«Cosa?»

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«Forse sei stata rubata.» Non dissiniente. Non riuscivo più a muovermi.

«È da un po' che ci sto pensando»,riprese. «Questa idea continua arigirarmi nella testa. Tu non te lo sei maichiesto?»

«No», risposi io, ed era vero. Nonme l'ero mai chiesto. O, meglio, me l'erochiesto, ma la domanda non aveva quasilasciato traccia nella mia memoriacosciente, era durata solo un batterd'occhi, chiusi-aperti-chiusi, svanendosubito dopo nell'oblio.

«Perché?»«E perché avrei dovuto?»«Be'», disse lui, e l'avrei ammazzato

per quel tono pedante, «quasi tutti ibambini rubati sono stati adottati da

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esponenti del regime. E stando a ciò chemi hai detto di tuo padre...»

«Chiudi la bocca. Non ti ho maidetto niente di lui.» Con grandedolcezza, Gabriel commentò:«Appunto».

Non replicai.«Potresti scoprirlo, sai. Andando

dalle Abuelas.» Non sapevo cosa dire.Ascoltavo il mormorio ostile delle onde.Le Abuelas – le nonne di Plaza de Mayo– erano un gruppo interno a quello delleMadres: donne che portavano lo stessofazzoletto bianco ma che cercavano nonsolo i loro figli desaparecidos, ma anchei figli dei figli, i loro nipoti. Battendosi,dicevano, per la restituzione dei bambinirubati. Che ormai, nel 2001, non erano

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più bambini, ma giovani adulti con unaloro vita e un loro destino.

Donne anziane con volti segnati daldolore che non avevano niente, maproprio niente a che vedere con me.

«È da tanto che ci pensi?» Si strinsenelle spalle. «Un po'.»

«Ne hai parlato con qualcuno?»«No.» E poi: «Quasi».«Chi?»«Mia madre. Solo con mia madre, te

lo giuro.» Mi allontanai di qualchepasso, addentrandomi nell'acqua freddafino ai polpacci. La notte ululava distelle. Avrei voluto arrampicarmi fino aquel cielo stellato e gettarmi nel vuotonero fra le costellazioni, là dove non cisono né aria né vita né madri a

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Montevideo intente a preparare la cenaper una ragazza che suppongono sia statarubata, insopportabili offerteammucchiate sui piatti.

Gabriel, dietro di me, mi posò lemani sulle spalle. «Ascolta, le Abuelasfanno fare le analisi del sangue. Possonoscoprire se il tuo DNA corrisponde aquello di un desaparecido. Non devicrederci per forza. Il servizio è per tutticoloro che non sono assolutamente certidella propria identità.»

«Io ne sono certissima», ribattei, avoce un po' troppo alta.

«Non hai niente da perdere.»«Basta.»«Io ti accompagnerei.» Feci una

mezza piroetta per guardarlo in faccia.

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«Ma mi ascolti?» Gabriel mi fissò.Un'onda avvolse il suo duttile corpoattorno ai nostri polpacci, poi si ritirò.Uscii dall'acqua, raccolsi le scarpe e miavviai verso la villetta. Gabriel miraggiunse.

«Scusa», disse. «Mi dispiace...Dimentichiamo tutto.» Mi mise unbraccio attorno alle spalle e io miirrigidii, ma smisi di camminare. Avreivoluto colpirlo, graffiarlo e ficcargli leunghie nella pelle, ma il mio corpobruciava dal desiderio di stringersi alsuo e così lo feci, mi schiacciai controle sue lievi sporgenze e rientranzeancora odorose di sesso, nel cuimorbido calore anelavo a perdermi.

«Camminiamo ancora un po'», disse.

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Riattraversammo il confine frasabbia asciutta e sabbia bagnata. Il cielonotturno si inarcava sopra di noi,trapuntato di stelle, e faceva del suomeglio per calmarmi e per convincermia dimenticare la rinnovata paura diincontrare la madre di Gabriel, aignorare la fantasia di scappar via dallacena che stava preparando e alla quale,ormai lo sapevo, più che l'ospite d'onoresarei stata un animale braccato, quellalà, guardatela, è un falso, laconversazione come un campo digentilezze pieno di trappole nascoste.Anche altre immagini mi si presentavanoalla mente, immagini che mi sforzavo discacciare, come il ricordo del mioprimo contatto con le Abuelas, mentre

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passavo con mia madre davanti allavetrina di un negozio che esponevaqualcosa di strano. Mamma avevaaffrettato il passo, ma io ero riuscita ascorgere dei disegni infantili pieni dicuori spezzati e di bocche urlanti e unostriscione che diceva L'IDENTITÀ ÈUN DIRITTO, LI RIVOGLIAMO VIVI.«Quelle vecchie megere», aveva dettomamma, «non hanno niente di meglio dafare che cercare di rovinare le famigliealtrui.» Allora, com'è ovvio, quel suodisprezzo e quell'affrettare il passo nonmi avevano insospettito, perché maiavrebbero dovuto quando in casa miatutto ciò che aveva a che fare con idesaparecidos veniva trattato così,quell'episodio non era diverso, non

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significava niente di particolare, vero?,quello sguardo negli occhi di mia madrementre si voltava un'ultima volta versola vetrina. Lo stesso sguardo che deveavere avuto la moglie di Lot un attimoprima che il sale sostituissecompletamente le sue carni. Niente, nonsignificava niente, dannato Gabriel edannate le sue idee che distorcevanosempre tutto, aggrovigliandoulteriormente la matassa della mia mentementre io volevo solo godermi quellabella notte estiva sulla spiaggia. Mentrecamminavamo, Gabriel mi sorreggevadelicatamente; ma io avrei volutostrappargli i vestiti di dosso e chiuderglila bocca con la mia un po' dappertutto,solo così avremmo potuto dimenticare

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l'accaduto, andava tutto bene, stavamopasseggiando su una morbida spiaggia,due innamorati che camminano insiemenella notte, un idillio assolutamentenormale, dopotutto. I nostri piedi simuovevano a tempo. L'oceanotrasportava la luna in mille scheggeluccicanti. Quell'acqua ritmica micalmava, cominciavo a ritrovare i primiframmenti di serenità.

Poi Gabriel aggiunse: «C'è un'altracosa che devo dirti».

Un'onda corse ad avvolgerci le ditadei piedi e rifluì via.

«Le ho chiamate a nome tuo.»«Cosa? Chi?»«Le Abuelas. Perla, mi sto solo

preoccupando per te.»

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«Hai detto loro il mio nome?»«Ascolta, Perla, se i tuoi genitori

sono davvero i tuoi genitori, allora nonc'è ra...»

«Hai detto loro il mio nome?» Esitò.Mi strappai via da lui. Avevaun'espressione stupefatta, quasiinebetita. Quando rispose, lo fece conuna voce così fievole che quasi si persetra le onde.

«Sì.» In fondo alla spiaggia c'era unmucchietto di alghe nere chescintillavano appena fuori dalla portatadelle onde. Alla luce del sole dovevanoessere verdi, ma in quel momento eranoimpenetrabilmente nere, viscide, unqualcosa che il mare aveva espettoratodal fondo delle sue viscere, da luoghi

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dove gli umani non potrebberosopravvivere e non dovrebbero maiandare, organi interni di un mostroesposti sulla sabbia. Mi sentivo remotaalle mie stesse gambe, non miappartenevano più, da un momentoall'altro avrebbero potuto cedere etradirmi. Vidi la mia famiglia lacerata,la polizia fuori dalla porta, la nostracasa invasa da vecchie con il fazzolettobianco che tendevano le mani perafferrarmi imprecando ad alta voce espaccando i mobili. Ma perché maidovevo pensare quelle cose se nonavevo dubbi? “Perla”, pensai, “Perla”,gridai con il mio silente cervelloaddolorato, “è mai possibile che tuabbia dei dubbi?” Me ne andai.

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«Perla...» Continuai a camminare.Lui mi venne dietro, mi inseguì, tese lebraccia per fermarmi.

«Lasciami stare!»«Per favore, non gridare.»«Vaffanculo, Gabo.»«Ascolta, guarda che se tu non

vuoi...»«È te che non voglio! Non voglio te,

maledetto stronzo, non voglio i tuoi figliné le tue telefonate né i tuoi dannatidiscorsi arroganti!» Ci guardammo negliocchi, ansimando. Una coppia più adultarallentò per vedere cosa stessesuccedendo.

«Sistemeremo tutto», disse.Corsi via.

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Non mi resi conto di correre finchénon lo sentii gridare il mio nome, unavolta, e poi ancora, da più lontano.Corsi fino alla villetta, afferrai la borsae la valigia con quel che c'era dentro,lasciai tutto il resto e corsi in strada,passai davanti alle casette in cui gliuruguaiani bevevano birra o mate sedutinel patio, con aria rilassata e felice, deltutto incapaci di capire perché diavolouna giovane donna dovesse scapicollarsigiù per la strada in una notte cosìdeliziosa, con le cinghie dalla valigialegate male, e corsi fino a raggiungere lastrada principale dove l'autobus da e perla capitale ci aveva lasciato qualche oraprima. Andai alla fermata, dove unafamiglia stava già aspettando l'autobus, e

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fui grata a quelle persone che noncercarono di attaccare discorso. Tennigli occhi inchiodati alla superstrada adoppia corsia, fiancheggiata da bassicampi coltivati. Una terra cosìtranquilla, sobria e paziente. Non c'èniente di cui preoccuparsi, niente danascondere, sembravano dire quei campiuruguaiani. Sentivo di odiarli per quellaloro serenità. Immaginai Gabriel che mirincorreva e mi raggiungeva, che miafferrava le spalle con entrambe le mani,non partire, andrà tutto a posto, ancoraodoroso di sesso, del sesso che avevafatto con me, e mi trascinava indietro,nella villetta. Anche in quel momentouna parte di me voleva che mi trovasseprima dell'arrivo dell'autobus per

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convincermi a tornare nella casetta sullaspiaggia, indietro nel tempo, allasontuosa innocenza di quelli cheeravamo stati al momento del nostroarrivo, solo otto ore prima, dopo di cheavremmo costretto il sole a sorgere dinuovo con la mera forza del nostropiacere e lui avrebbe detto, Ti chiedoscusa, hai ragione, è stato un grossoerrore da parte mia, e insieme avremmoriso delle assurde teorie che lui e suamadre avevano concepito, È una bravadonna, mia madre, ma ha visto La storiaufficiale un po' troppe volte. Teorie cheil sole del mattino avrebbe dissoltocome ombre di fantasmi. Ma l'autobusarrivò e Gabriel no, e a volte non si puòtornare indietro. Attraverso un finestrino

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sporco e graffiato vidi le nere collinecorrere via e trasformarsi a poco a poconei primi sobborghi della città,Montevideo, con le sue case dal tettopiatto che non rivelavano nulla dei sognisognati fra le loro mura. Una città cheavevo sempre visto solo attraverso unfinestrino in movimento. Solo tre ore daBuenos Aires, appena al di là del fiume,eppure per me era ancora un mistero. Inquella città, da qualche parte, c'era lacasa in cui era cresciuto Gabriel, dovedi lì a qualche giorno lui sarebbetornato, solo, con chissà qualegiustificazione per la mia assenza,Scusa, mamma, è scappata via nel cuoredella notte, abbandonato e imbarazzato,e sua madre gli avrebbe passato il pane

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in silenzioso trionfo, Non fa niente, nonpensiamoci più, ne troverai unamigliore. Guardavo Montevideo e mistupivo di quanto poco sapessi delmondo appena fuori dalla porta di casamia, nonostante i miei diligenti studiscolastici di storia. Eppure anche in quelpaese così vicino, in Uruguay, nellacapitale sull'altra sponda del fiume,sicuramente c'erano canzoni appostatedietro ogni angolo – ballate, arie,lamenti funebri, tanghi, salmodie, elegie– che si propagavano in lenti cerchiconcentrici lungo strade sconosciute.Anche l'Uruguay aveva le sue ferite e lesue macchie segrete. Chissà fino a chepunto ne ossessionavano la vita. Midomandavo che sensazioni avrebbe

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provato la mia pelle se mi fossi fermatalì, fingendo di poter scambiare unacollezione di ferite con un'altra. Potevoscendere dall'autobus e vagare senzameta, senza mai fermarmi, fino a perderel'orientamento, la presa sul terreno, imiei ricordi, il mio nome. Una donna-tabula-rasa che avrebbe vagato persempre nelle strade di Montevideo,guardatela, ha perso le scarpe, ha persosé stessa, avete visto che capelliinselvatichiti, che espressione ha negliocchi? Ritroverà mai il suo vecchio io?E, se lo ritrovasse, accetterebbe diindossarlo o lo giudicherebbe ormaistrappato al di là di ogni riparazionepossibile? Ma non scesi. Arrivai alcapolinea e presi il traghetto delle 6.56

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per riattraversare il Rio de la Plata. Una

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luce esangue sfiorò l'acqua per tutta latraversata.

È ancora con Gloria, le è statoaccanto per un'eternità, una sfilza dimomenti liquidi che tracimano daiconfini del tempo, lei è stata a lungo intravaglio e ora le guardie hanno portatonella sua cella una barella su ruote, uncappuccio e delle catene, no vi prego lecatene no, ma non lo sentono, laincatenano alla barella, le bendano gliocchi e la spingono lungo un corridoiofitto di cupe porte tutte uguali, senza unnumero né un nome che serva aidentificarle o a identificare chi ci stadietro, li segue in un ascensore chesprofonda nei sotterranei e poi lungo unaltro corridoio fino a una stanza spoglia

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dove li aspettano due infermiere, leguardie scaricano il loro fardello e se nevanno. Gloria è come trasfigurata dallospostamento, è nuda e legata e non puòvedere, le forti lingue delle sue mani nonpossono più accarezzare il ventre enemmeno lui può toccarla nella luceacida di quella stanza, è schiacciatocontro la parete e non può avvicinarsi alei, può solo guardare, Gloria èinchiodata e aperta, il ventre enormecome una pallida balena, ansante comeuna balena spiaggiata, suda, la bocca sitorce in un urlo ma lui non lo sente eforse quell'urlo è il suo canto dellabalena, un suono che può viaggiare permiglia e miglia sotto il mare finchéqualcuno non lo sente, non lo riconosce,

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una musica sottomarina in grado di direcose che non sono mai state dette ma chedevono assolutamente essere dette,devono, l'urlo erompe dalla sua golaspalancata come altri urli erompono inaltri luoghi, erompe lentamentelentamente attraverso il tunnel della suacarne, le sue gambe sono spalancateall'aria e alle infermiere che non ledicono una parola, è stato ordinato lorodi non farlo, non sanno niente delladonna che giace esposta sul tavolo aparte ciò che possono anche indovinareda sole, e comunque si sforzano di nonindovinare niente, sono in un sotterraneobuio e senza finestre e la primainfermiera vorrebbe tanto un po' d'ariafresca e una sigaretta, e la seconda

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infermiera vorrebbe affondare il visonel petto del suo uomo e sentire le suemani spogliarla del vestito e dimenticareogni cosa di questo posto, di questadonna spogliata del suo nome, dei vestitie del senso della vista ma è fortunataperché ha ancora il diritto di gridareanche se le infermiere non capiscono ilsuo urlo perché non sono sott'acqua, nonci sono mai state, il loro tocco è freddoe professionale, non le dicono adessospingi, non le dicono puoi farcela.Gloria, spingi, Gloria, puoi farcela,guarda, ci siamo quasi, è lui a formularecon le labbra le parole che non ha avutooccasione di dirle, ma Gloria non lesente e comunque non ne ha bisogno, nonsi limita a spingere, scoppia, si spacca

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in due, grugnisce, si gonfia, poi crolla, ilsuo viso non l'ha mai visto così, aguardarla sembra che potrebbe fare apezzi il mondo, il suo sesso è enorme,vibra e si spacca come un frutto che nonpuò più sopportare la sua maturità, siallarga e a un tratto là dentro si vede unacarne che non è la sua carne, tenera, coni capelli, luccicante, dapprima unapiccola superficie di carne a forma dilacrima poi più grande man mano che ilsesso di Gloria si allarga, sempre dipiù, la seconda infermiera avvolge ledita guantate attorno alla testolina nelmomento in cui sguscia fuori, c'è unfaccino, degli strilli, lui non li sente mavede aprirsi la piccola bocca da pesce egli occhi strizzarsi (ed eccola lì, la

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ragazza, tu non potrai ricordare questoposto o questo momento e nemmeno ituoi primissimi strilli ma sono tuoi, eforse questo istante resterà dentro di tementre crescerai, formando un nidosilenzioso dentro il tuo corpo, nel pettoo nella nuca o nel bacino o nella colonnavertebrale), ora il viso di Gloria cambiadi nuovo, si spalanca per lo stupore, leisi inarca per quanto glielo permettano lecatene e il corpicino l'abbandona comeuna farfalla che esce dal bozzoloinfranto. Le infermiere visitano labambina, la sollevano per i piedi e lasculacciano come per assicurarsi che siafatta di un materiale abbastanza solidoda resistere alle pressioni di questomondo. Gloria respira con tutto il corpo

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e quando il secondamento è finito e leinfermiere l'hanno lavata con una spugnae poi asciugata, e gli strilli dellabambina si sono calmati diventando unpianto sommesso, Gloria dice, grazie,l'acqua è tiepida e le mani delicate, maquando chiede cos'è, un maschio o unafemmina? un maschio o una femmina? leinfermiere, bene addestrate e spaventate,fanno rotolare la barella fuori dallastanza senza rispondere.

Tornando dall'appartamento di

Gabriel, prima di rientrare in casa dalmio ospite bagnato mi fermai alsupermercato di quartiere dove lattine etagli di carne mi sembrarono comeimmersi in una foschia lattiginosa. Quasi

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non riuscivo a vedere gli scaffali per viadi ciò che era successo all'aria nel miocervello, per come era diventataindicibilmente chiara. Esternamentemettevo gli acquisti nel carrello comeuna donna qualsiasi in un mondoqualsiasi, ma dentro di me il mondo siera spaccato da parte a parte evorticando ne erano uscite tutte le suestorie in un miscuglio inarrestabile diverità scontate, dalla genesi fino allafine dei tempi.

C'era una volta un bambino di nomeHector. Da piccolo suo padre lopicchiava e una volta spaccò lamandibola a una tartaruga a cui eramolto affezionato, ma lui era un bravobambino e crescendo diventò un gran

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lavoratore che portava con orgoglio lasua uniforme ben stirata e la forza cheaveva giurato di usare al servizio delsuo paese. Il tipo d'uomo con il pettosplendente di medaglie, che con la suasola presenza è in grado di suscitare unamiscela perfetta di ammirazione etimore. Hector imparò dunque anascondere i suoi punti teneri e ametterli da parte per la bambina che ungiorno avrebbe avuto – solo per lei –,lei sola li avrebbe visti. Poi sposò unaragazza di nome Luisa, che avevatrovato il proprio cuore nellepinacoteche di Madrid e poi l'avevascagliato contro una tela nera e violalasciando al suo posto solo una cavitàinacidita, ma che comunque riuscì a tirar

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fuori abbastanza emozione perscambiare con lui i voti nuzialiindossando l'abito da sposa più caro chela sua famiglia fosse riuscita a trovare,un abito che poteva preludere solo a unagran fecondità e alla moltiplicazionedella loro gioia come la Parola di Dio cicomanda nei secoli dei secoli.

Desideravano tanto un figlio, ma neiprimi anni del loro matrimonio non nearrivarono, cosa che nella loro cerchiadestò parecchio stupore e anche unrefolo di pettegolezzi... ma poi il paesesi trasformò completamente e il lorosogno poté realizzarsi, grazieall'intercessione di Dio e all'ordinenaturale delle cose. Ebbero una bambinao, meglio, siccome non potevano averla

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la rubarono a delle persone la cuiesistenza fu sistematicamente cancellata,come se avessero vissuto solo a matita.Sicuramente, nella loro testa, non futanto un furto quanto un salvataggio, ungesto di grazia che faceva seguito a unacancellazione inevitabile e che, avvoltonel silenzio, sarebbe scomparsoanch'esso nelle pieghe dimenticate deltempo. La bambina, rubata o salvata chefosse, crebbe senza sapere nientedell'amaro collante che teneva insiemela sua famiglia, e amò con tutto il cuorel'uomo dall'uniforme ben stirata e latartaruga ferita, l'uomo che di notte sisedeva sul suo letto per cantarle laninnananna, sapendo di scotch, e quandoal buio lui le domandava: «Vuoi bene a

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papà?» lei rispondeva: «Sì», e quandolui diceva: «E gli vorrai sempre bene?Qualunque cosa succeda?» lei ripetevaancora: «Sì, sì», e ci credeva con ognisingola cellula del suo corpo, e anchequando, molto tempo dopo, sentì parlaredei corpi che suo padre aveva trattatocome segni a matita che non avevanodiritto di stare sulla tela, anche allora leidisse un «sì» che sicuramente la rendevamostruosa – una bambina-mostro,deformata dall'amore – ma che nonpoteva non dire perché anche questo,anche l'amore per il proprio padre, ènell'ordine naturale delle cose.

Ed ecco la bambina, diventataadulta, ma sotto la pelle ancorabambina, ancora e sempre la stessa

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bambina di un tempo, percorrere lastrada fra il supermercato e una casa chenon solo in quel momento era infestatada un fradicio fantasma del passato, mache per tutta la sua vita era statainfestata da ombre e bugie. I suoi piedila portarono fino a casa, o fino al postoche le avevano insegnato a considerarecasa sua, piedi molto più coraggiosi delresto di lei, delle mani che stringevanotroppo forte i sacchetti della spesa, degliocchi che le bruciavano, della gola chele si chiudeva come stretta da un laccioinvisibile, delle ginocchia cherischiavano di cedere mentre frugavacon la chiave nella serratura e spingevala porta per ritrovare il noto odore dimele marce e di pesce angelo che subito

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l'avvolse, e dentro casa la piscinettarossa in cui da bambina aveva fatto ilbagno nelle bugie, e là, nella piscinetta,l'uomo o il non-uomo che per tutto ilgiorno aveva desiderato e temuto divedere e che, come notò in quelmomento con la sua nuova, terribilelucidità, era bello. Bello. Le gocce chegli rotolavano sulla pelle sembravanolacrime.

È a casa, finalmente, ferma in mezzoalla stanza, e non posa nemmeno isacchetti della spesa. Lo fissa conanimalesca intensità. Fissa l'acqua chelo circonda, profonda e tiepida.

E lui pensa, è tutto finito. Si èstancata di me. Le chiederò scusa, me ne

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andrò se proprio devo, anche se non sodove andare.

Poi lei si avvicina. Ha gli occhiumidi.

E a voce bassissima dice, So chi sei.

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Terza parte

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11 - CULLA

E la stanza diventa una culla di luce

con dentro loro due. Mobili e paretiscompaiono tra le ombre fuori dallapiccola sfera che contiene tutto ciò chedavvero conta, solo lui e la ragazza.

Mille domande si agitano dentro dilui, ma non può formularle tutte insieme.Come hai fatto a capirlo?

Da molte cose, risponde lei. Perchései venuto qui, in questa casa, fra tanteche ci sono in questo paese. E anche per

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via delle cose che so sulla mia famiglia.E per i tuoi occhi.

Vorrebbe tanto poterseli guardare inuno specchio, ma solo per rintracciarviqualcosa di lei, un'annunciazione dellasua venuta nel taglio o nel colore.

Ci sono tante cose che vorreidomandarti.

Chiedi pure.Non so da dove cominciare.Da un punto qualunque.Lei come si chiamava?Tua madre?Non risponde.Si chiamava Gloria.E com'era?La sua mente esplode di luce, e

risponde, Era bella. Testarda. A volte

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rideva nel sonno. Al ristorante parlavasempre troppo forte, tutti si voltavano aguardarla.

La ragazza non dice niente.Cerca di richiamare alla mente altri

ricordi per lei, poi si sforza di mettereinsieme le parole per tradurre il ricordoin suoni. È faticoso. Infine dice, Era nataad Azul. Si era trasferita in città atredici anni. Ci siamo conosciuti in unalibreria, nel cuore della notte. Lepiaceva fare lunghe passeggiate eperdersi apposta per vedere cosa c'eradietro il prossimo angolo e dietro quellosuccessivo.

Quanti anni aveva?All'incirca la tua età.Ed è scomparsa?

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L'hanno portata via. Quando hannopreso me, hanno preso anche lei.

Smette di parlare. Sulla punta dellalingua ha l'immagine di Gloria legataalla sedia, coperta di lividi, bendata,incinta, un attimo prima che una dozzinadi stivali neri lo mandasse al tappeto.Ma non vuole mettere in parolequell'immagine. Preferisce lasciarfluttuare la più vaga espressione hannopreso anche lei. È un gesto diprotezione, miserabile risarcimento pertutti gli anni in cui non ha potutoavvolgerla con le sue ali, ma è tutto ciòche può darle. Poi dice, Tu le somigli.

Davvero?Hai la sua bocca, i suoi capelli.

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Istintivamente si porta la mano allelabbra. E quando... quando l'hannoportata via, era incinta di me?

Sì. Era incinta di te.Si blocca, sembra fare appello a

tutte le sue forze per andare avanti.Quando sei arrivato qui, lo sapevi già?

No.Da quanto tempo lo sai?Qualche giorno.Eppure sei venuto proprio qui, anche

se non sapevi.Sì.Com'è possibile?E tutto il resto, com'è possibile?La ragazza va verso il divano e

accende una sigaretta. Tacciono,insieme. L'aria è insopportabilmente

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carica; brilla di un peso opalescente chepreme per traboccare. Lui sente lalontananza da lei come un dolore su tuttala pelle, il piccolo nido del loro mondocondiviso deve tendersi troppo,contenere troppe cose; ma in quelmomento, quasi percependo la tensione,la ragazza torna vicino alla piscinetta esi siede accanto a lui. Ne provasollievo. Il fumo si leva in spirali versoil soffitto, lei lo fissa con laconcentrazione di un cacciatore.

A cosa pensi? le chiede.Non posso dirtelo.Perché?Ci sono cose che non bisognerebbe

mai dire ad alta voce.No?

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No.Tutte le cose si possono dire.Stronzate.Ma è vero.Ho paura.Dillo lo stesso.Stavo pensando a te. Se non fossi

morto. Come sarebbe stato per me. Chisarei stata.

Saresti stata comunque te stessa.Ma non la stessa che sono ora.Cos'è che ci rende noi stessi?Esperienze. Acculturazione.E cos'altro?Non lo so.Ciò che abbiamo dentro.E lei dice, Come faccio a sapere

cosa è stato dentro di me fin dall'inizio e

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cosa ci è stato messo dalla mia vitamentre la vivevo.

Non lo sa nessuno.No.Eppure esiste una te stessa che era lì

fin da prima che tu nascessi e chenessuno ha modellato né cambiato néavrebbe potuto farlo, né Gloria né io nénessun altro.

Come fai a saperlo?Dall'acqua.Quale acqua?Quella in cui sono stato dopo essere

morto.La ragazza tace.Chi ti sarebbe piaciuto essere?Non so, dice lei. Ora come ora non

so nemmeno chi sarò domani mattina. Mi

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sento nuda, denudata della mia vita.Come se mi fossi tolta di dosso tutte lebugie e non fosse rimasto niente. Non socome altro spiegarlo.

La sua sigaretta è finita; ne accendeun'altra e per un attimo la fiammella leillumina il viso. E lui pensa, Dareiqualsiasi cosa, qualsiasi, dieci anni conle parti molli attaccate alle loromacchine, per esserti rimasto accanto eaverti vista crescere al posto dell'uomoche chiami papà.

Parlami di lui.Lui chi?L'altro tuo padre.Si gira dall'altra parte.Ti vuole bene?

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Sì. Non so. Non so più cosasignificano quelle parole.

È stato buono con te?Sì. Nell'insieme, è stato un buon

padre.Lui muove le dita sotto il pelo

dell'acqua, le stringe forte.Cantava per farmi addormentare. Mi

ha sempre vestita e nutrita. Voleva soloil meglio per me, o almeno ciò che a luisembrava il meglio.

Ma non è tutto... lui se lo sente nelleossa che quel ritratto è incompleto,come un volto mezzo illuminato e mezzoin ombra, e proprio per questo, o forseanche per qualche altra ragione,vorrebbe maledire quell'uomo chepotrebbe giustamente essere definito una

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bestia, un impostore, un secondinocamuffato da padre. Fa appello a tutte lesue forze per cercare di controllarsi.Non deve esplodere, non devearrabbiarsi, e comunque dovrebbeessere contento di sapere che, dapiccola, la ragazza ha ricevuto una certadose di tenerezza paterna, chiunque siastato a dargliela. Deve essere gentilecon lei; deve controllarsi, esserecomprensivo. Deve accettare l'idea –costringersi ad accettarla – che leistanotte non ha solo ritrovato i suoigenitori, li ha anche persi, ha persoquegli altri genitori che per tanti annisono stati i soli, per lei. Non importa chisono o cosa hanno fatto, per lei sonostati i suoi genitori. L'hanno cresciuta.

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Le loro impronte digitali sono impresseindelebilmente sulla sua mente. Imprecafra sé e sé contro quel fatto, pur essendopienamente consapevole che il fattostesso non ne sarà scosso.

E tu gli vuoi ancora bene.Mi odierai per questo?Mai.Come puoi esserne sicuro?Ne sono sicuro e basta.La voce della ragazza si riduce a un

sussurro. L'hai visto, laggiù?Dove?Nel posto in cui ti hanno portato

quando sei scomparso.Lui getta un'occhiata alla foto del

matrimonio, allo sposo con lo sguardo

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indagatore, irrequieto. No. Non misembra.

La ragazza sembra sollevata.Ma per la maggior parte del tempo

avevo gli occhi bendati.Ah.Perché, tu credi che fosse là?Non lo so. Forse non c'era un solo

posto. La ragazza china il capo, i capellile nascondono il viso come due tendine.Sì che lo farai. Mi odierai.

Come potrei odiarti?Per via di lui.Tu non sei lui.Ma sono sua figlia... lo ero. Pensavo

di esserlo.Le sue mani non sono le tue.Ma sono cresciuta qui.

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Eri solo una bambina.L'ho difeso. Lo difendo ancora, dice

la ragazza, e il dolore le crea un nodo ingola. Ho saputo del suo mestiere e nonho detto niente.

Non importa.Come può non importare?Per quella che sei in realtà.Chi? Chi?Un ricordo gli si affaccia alla mente,

il ricordo della prima volta in cui hapercepito la presenza della bambina suquesta terra, quando non era altro cheuna minuscola virgoletta di carnescivolata dentro il corpo di Gloria comeil più carnale e tenace dei miracoli.Dice, Tu sei lo splendore.

Come? Quale splendore?

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Adesso te lo spiego. Voglio provarea darti un ricordo, ci entrerò dentro e tiporterò con me e te lo racconterò mentresuccede. Potrebbe volerci un po' ditempo. Mi ascolterai?

La ragazza sta piangendo. Fa cennodi sì con la testa.

Lui chiude gli occhi e s'immergenella sua mente.

Era terrorizzato, non si sentivapronto, ma Gloria aveva orecchie soloper la gioia. Sei settimane, disse, ilcuore ha già due ventricoli, batte. Si èformata la testa.

Con occhi e orecchie?Le orecchie no. Non ancora. Solo

due cavità là dove passeranno i dottiauricolari.

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Ah.Smettila di fare quella faccia

spaventata.Chi ha detto che sono spaventato?Scoppiò a ridere. Io. Vieni qui.Le andò vicino e lei gli prese la

mano e se la appoggiò sul ventre, chesembrava lo stesso di sempre, liscio epiatto e caldo; lo attirava verso il basso,sotto la cintura della gonna.

Shh, non ora.Perché no?Perché voglio che mi tocchi la

pancia.La sto toccando, è molto sexy, e

anche tu sei sexy.Non in quel senso. Il bambino.L'embrione.

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Gloria alzò gli occhi al cielo. Tuascolta con la mano.

È troppo presto perché si sentaqualcosa.

Non è vero. Ascolta.Era così bella e lui era distratto

dalla luce del tardo pomeriggio che lesfiorava la nuca. Il ricordo è vivido,pieno di luce, rivede il raggio di soleche entrava obliquamente dallafinestrella della cucina, Gloria eraseduta al tavolo della colazione e loguardava con le labbra socchiuse, chissàcome aveva fatto un timidone come lui afinire tra le braccia di una donna così. Inuna casa che era la loro casa, sposatocon lei, e ora quel piccolo fenomeno, seisettimane. Obbedì, mise la mano sulla

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pancia di Gloria, attese. Non sentìniente, nessun movimento, niente dinuovo. Cercò di ascoltare con la mano:Ehi tu, sei settimane, sei là dentro? misenti? mi riconoscerai quandofinalmente verrai fuori? Cercò divisualizzare quell'esserino con gli occhima senza orecchie, tu non senti, nonvedi, e anche ammesso che i tuoi occhici vedano dentro Gloria c'è solo buio, iltuo naso la tua bocca le tue mani stannoper arrivare e io e Gloria saremo il tuostampo, e ti puliremo dalla cacca e cisveglieremo ai tuoi strilli, ci lasceraimai dormire? Fu allora che lo sentì. Unlieve splendore sotto il palmo, come se inervi della sua mano avesseroimprovvisamente acquisito un sesto

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senso. Come se i suoi nervi avesseroindividuato una scintilla in cui siriconoscevano, una luce dentro il corpodi Gloria che non era semplicemente lafonte del desiderio o il calore che eraabituato a trovare in lei; forse era unoscherzo della sua immaginazione, maavrebbe giurato che vicino al centro delsuo palmo, qualche centimetro sotto,nascosta tra la carne di sua moglie c'eraun'essenza che era collegata a lui ma nonera lui, che era collegata a Gloria manon era lei, un'essenza che splendevacome non era mai successo in nessunaltro luogo in tutta la storiadell'universo, che apparteneva a quelluogo, a quel momento, e che sarebbestata integralmente sé stessa, unica come

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un viso o un'impronta digitale ma moltopiù distillata, in quel momento, in quelsuo stato primordiale, ancora nonformata ma completa, splendida sotto lasua mano, un'essenza pura, nonadulterata, tutta presa in un lungo, lentomovimento di crescita.

Gloria lo osservava da vicino.Siamo pronti per questo? le disse.Lo saremo.Come fai a saperlo?Lo so.La luce si era fatta di un oro più

profondo: un attimo ancora e sarebbesfumata nel crepuscolo. Le avvolgeva lespalle come uno scialle. Le fecescivolare la mano sotto la cintura dellagonna. Adesso si può?

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Lei rise. C'era come una campanellanella sua risata. Si può, si può.

La sua pelle sapeva di sale e di afaestiva. Si sdraiò sul tavolo della cucina,le sue gambe lo avvolsero, gambe cheavrebbero potuto stritolarlo mentrescivolava dentro di lei, gambe con unapotenza del tutto nuova, è un ricordomolto vivido, il corpo di Gloria umido eappassionato, trasudante di una gioiaferoce ed estatica all'essere penetrato, alcontenere una nuova vita, all'essereilluminato da dentro, al sentirsi integro evivo in un mondo che ancora non l'avevacancellata dalla propria faccia, cheancora non le aveva rivelato cosasuccede alla gente nei suoi sotterraneiinvisibili. Il sesso li avvinse e li sciolse,

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stringendoli tutti e tre in un nodo roventee cancellando d'un colpo i confini fraloro. Era con Gloria che stava facendol'amore, ma non poteva fare a meno diparlare anche al nuovo esserino, allosplendore, all'embrione, e lui spingeva espingeva verso il punto del suoannidamento e al tempo stesso avevapaura di disturbarlo o di fargliintravedere qualcosa che bambini elattanti non dovrebbero vedere, temevache ci fosse qualcosa di sbagliato nellostare insieme in quel modo, tutti e treoscillanti e vorticanti in una sola bolladi calore, eppure un istinto sconosciutolo spingeva a continuare, a festeggiare ilnuovo venuto, a cercare di sentire la suapresenza, a protendersi verso quello

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splendore proprio con la parte del corpoda cui erano usciti i semini ansiosi dicrearlo, si tendeva sempre di più, lecosce di Gloria erano calde e spalancatecome cancelli ma lui non avrebbe maipotuto raggiungere il suo centro quindilo salutò da lontano, pensò la parolaciao e attraverso il suo sesso la spedì,bruciante, nei misteriosi labirinti bui delcorpo di Gloria.

E questo fu solo l'inizio. Seisettimane divennero sette, otto, dieci eventi, ventotto, ogni settimana unarivelazione. Le forme di Gloriadivennero l'attestato vivente delmiracolo (non era infatti, pensava lui, unvero e proprio miracolo, nonostantefosse già accaduto miliardi di volte a

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questo mondo e nonostante tutte le veritàcarnali che avevano prodotto quellamaculata concezione?). Vedeva Gloriaaccarezzarsi la pancia sotto la doccia, eal mattino mentre si vestiva, e davanti aifornelli mentre soffriggeva le cipolle. Enon solo accarezzava, parlava anche,sottovoce, condividendo segreti opromesse con l'esserino che avevadentro. Colloqui privatissimi, dai qualiperfino lui era escluso. Gloriaabbondava di nomi, che ne dici diquesto, o magari questo se è unmaschietto e quest'altro se è unafemmina, come poteva una sola parolacantare al mondo la piena risonanza diquel bambino? Gloria si era cometrasformata, gli spigoli più aspri del suo

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carattere si erano arrotondati in unavoluttuosa, quasi compiaciuta vocazioneper il piacere. Si beava dell'attenzionedi perfetti sconosciuti che per strada o almercato l'avvicinavano e le toccavano lapancia, Oh che meraviglia, toccavano ilsuo corpo senza chiedere il permesso, avolte senza nemmeno prendersi la brigadi salutare, È una femmina, lo sento,oppure Dev'essere un maschietto, lui siarrabbiava vedendo tutta quella genteche aveva la sfacciataggine di toccaresua moglie in pubblico senza conoscerenemmeno il suo nome. Le prime volteaveva cercato di impedirglielo, maGloria l'aveva fermato, Lasciali fare,non importa, poi aveva capito che nonera semplicemente che non le

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importasse: Gloria godeva di queicontatti, si illuminava come una lanterna,non percepiva il tocco di quelle manisconosciute come un'invasione bensìcome una forma di benedizione, divenerazione addirittura, era il mondo aporgerle la sua ammirazione e la suabenedizione attraverso tutte quelle mani.Toccava a lei, ora, percorrere la stradadi Maria e ne era deliziata, neassaporava ogni pezzetto, perfino il granmiracolo delle caviglie gonfie e deiproblemi di digestione, di cui silamentava come chi si sottomette a unarivelazione. È incredibile, diceva, nonarrivo più ad allacciarmi le scarpe. Ledava un piacere senza precedentil'essere incinta. Si rimirava nello

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specchio, accarezzandosi la panciatonda, quando pensava che nessuno lastesse guardando. A volte lo facevanuda, affinché il suo tocco potessearrivare più vicino al nascituro. Dinotte, quando i calci del bambino lasvegliavano, camminavaorgogliosamente su e giù perl'appartamento a caccia di alfajores alcioccolato. E scoppiava a piangeresenza motivo, o per tutti i motivi delmondo, guardando fuori dalla finestraper decifrare messaggi segreti che sololei poteva leggere in cielo. E per tuttoquel tempo c'eri tu, là dentro, adallargarle il giro vita, a rallentare i suoipassi e ad arrossarle le guance dieuforia. Era tuo lo splendore che

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prendeva in prestito nei giorni piùesaltati, tuo il rossore che le saliva alviso. Eri perfetta allora come seiperfetta adesso. Ed esattamente comeallora tu eri dentro di lei, oggi lei èdentro di te, nei tuoi occhi, nelle tueorecchie e nelle tue caviglie, nellastrisciolina di pelle morbida sotto leunghie, nel sangue che ti scorre nellevene verso il muscolo cardiaco. Laforma di Gloria ha contenuto la tuaforma e le ha dato un luogo da cuicominciare, e lì, dentro di lei, tu seidiventata te stessa, il Chi che sei ancoraoggi e che avrà sempre le sue radici nelpuro Chi di Gloria: finché vivrai, finchéogni tua cellula tratterrà dentro di te i

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suoi attorcigliati segreti, tu non sarai deltutto persa e lei non sarà del tutto morta.

Ritorna nella stanza, la guarda. Haacceso un'altra sigaretta e si è voltataverso la parete. Ecco, ha detto troppo. Èla prima volta che sente parlare di suamadre e lui tira in ballo il sesso. Èproprio un idiota. Ha perso il contattocon le buone maniere dei vivi, hadimenticato che ci sono argomenti di cuinon bisogna parlare e che sicuramente ipadri non devono condividere con ifigli; là dov'era ha scordato che lapassione fisica va trattata come unsegreto di cui parlare bisbigliando e noncome una radiosa forza vitale. Sono uncretino, pensa, adesso sì che l'ho persa,si chiuderà di nuovo, ma poi lei si volta

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dalla sua parte e sul suo viso c'èun'emozione nuda.

È stato davvero così?Così e anche di più.Lo guarda. Come ti chiami?Non ho più nome.Com'è possibile?L'acqua se l'è portato via.E come ti chiamavi prima

dell'acqua?Tende la memoria, invano. Non lo

so. È andato.Fa lo stesso, dice lei in tono gentile.

Va tutto bene. Poi tace e restano seduti,insieme, un lungo silenzio che nonsomiglia agli altri silenzi che hannocondiviso fino a quel momento. È unsilenzio amniotico, che li unisce invece

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di separarli. Lui sente che potrebbegalleggiare con lei in quel silenzio persempre. Il tempo si deforma, si allunga.Rallenta e accelera e non fa tic tac ticcon una calibratura artificiale; siscioglie; si riversa. Lei è seduta sulpavimento accanto a lui, così vicina chelui sente l'odore delle sue sigarette e ilprofumo dolce dei suoi capelli, ed èaperta alla sua presenza, si è comedipanata, non ci sono più veli nei suoiocchi. Quella che stanno vivendo èmolto più di una notte: è una casascavata nel deserto, una candela accesain un cielo nero, del sale sulla lingua diun moribondo, in aperta sfida agli ordinidell'oblio.

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Mormora una melodia. Il suono sileva da lui senza che l'abbia pensato. Èda tanto tempo che non canta, da moltoprima di morire, all'inizio la voce è unpo' roca, bagnata e melmosa in fondoalla gola, ma poi si scioglie e scorresulla melodia come un ruscello suiciottoli. Che canzone è? È una vecchiacanzone; non l'ha scritta lui. Sua madregliela cantava quando era bambino etutte le sue notti erano fresche, sicure etinte della presenza di Dio, sì, ora lo sa,è una ninnananna. La sussurrava al buiosul pancione di Gloria, sotto le lenzuola,quando quel pancione era grosso e pienoe attirava come una calamita le maniammirate di tanti sconosciuti. A lettoperò, la notte, nessuno poteva toccare

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Gloria tranne lui, e lui toccava e toccavae a volte cantava e chiedeva, Mi senti?Avrebbe tanto voluto che il bambino losentisse. Voleva che si ricordasse di luipiù che di tutti gli altri. Sperava,cantando, di penetrare nel minuscolocuore di quel quasi-bambino.

Anche adesso canta sottovoce e suafiglia, seduta accanto alla piscinettarossa, ascolta. I suoi occhi fissano laparete, il quadro con la nave, ma la testasi china verso quel suono. La melodiaondeggia e non spezza il bel silenzio fraloro, anzi, lo nutre, lo rafforza, versafluido su fluido su fluido.

Il suo canto mi circondò e io avrei

voluto strisciarvi dentro, avvolgermi in

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quella ninnananna, in quella grandecoperta bianca di suoni. Avrei volutorestare per sempre in quella notte, nonsolo in quel momento, sempre, affinchéda quell'istante in poi, ovunque fossiandata e qualunque cosa avessi visto,quella notte potesse coprirmi ecircondarmi, facendo da filtro tra me e ilmondo. Mi sentivo avvolta. Sostenuta. Evolevo essere tenuta così per il restodella mia vita. Sarebbe stato bello se miavesse tenuta così anche da piccola,quell'uomo, la sua voce, la suacompagnia. C'era una donna che avreipotuto essere se fossi vissuta sempre nelraggio d'azione della voce diquell'uomo, se quell'uomo fosse rimastoal mondo per sostenermi fin dal

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principio. Quella donna, invece, nonsarebbe mai esistita. Non potevoriscrivermi daccapo. Eppure in queimomenti, nel delicato calore di quellanotte, lei sembrava più reale di me, piùlegittima della Perla che abitava la miapelle. Avrei voluto raggiungerla,ovunque fosse, negli angoli strappati delcosmo dove tutti i nostri avrei-potuto-essere si acquattano tra le ombre, etoccarla, capirla, quantomeno guardarlanegli occhi. Il mio io alternativo. Unadonna che non era stata spezzata alleradici. Una Perla dalla cui bocca avreivoluto udire le parole “amore” e“verità” e “famiglia”, per sentire comele avrebbe pronunciate, se le avrebbebuttate fuori in facili scintille o nelle

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lunghe, lente sillabe di una canzone.Perché io, la gemella falsa, la Perla acui era stato concesso di esistere, nonsapevo più come gestirle, quelle parole.Chiusi gli occhi. Il mio nuovo padre, ilprimo, cantava ancora. La melodiaaffondava dentro di me, delicata,fosforescente. Mi voleva ancora,nonostante quello che il mondo gli avevafatto. E io volevo assorbire le sue storie,farle mie. Volevo credere che tra noi cifossero dei fili – fra lui, Gloria e me –che erano stati scossi ma non si eranospezzati, e che forse correvano sotto lasuperficie della realtà come parte di unatrama segreta che brilla in reami oltre iltempo. Quei fili sembravano l'unica cosache mi fosse rimasta al mondo.

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E giunse l'alba. Arrivò lentamente,quasi con riluttanza, come se il solestesso non volesse intromettersi neisuoni e nei silenzi di quella notte,eppure arrivò e ci trovò insieme sulpavimento del salotto, vicini, zitti esvegli. Nella pallida luce del giornospensi un'altra sigaretta e la misi sulmucchietto di quelle schiacciate nelposacenere. Poi andai a togliere l'acquadalla piscinetta. Tazza, secchio, tazza,secchio. Lui cantò ancora mentretoglievo l'acqua, stavolta era unamelodia senza scopo, un'aria vagabonda.Fissai il secchio pieno della sua acqua.Non volevo più rovesciarla nellecondutture di casa: né nella vasca, nénella doccia, né nei lavelli. Volevo

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rovesciarla al sole. Portai il secchio nelpatio, vicino alla vecchia quercia checonosceva le mie arrampicate dibambina, le mie letture all'ombra, leabili formiche che avevo osservato nellelunghe giornate estive domandandomi:“Chissà dove vanno? Da dove vengono?Cosa succede in quei loro minuscolicervelli formicheschi?”. Rovesciail'acqua ai piedi dell'albero. Lasciò nellaterra delle strisce più scure, che entrometà mattina sarebbero sparite. Parte diquell'acqua sarebbe evaporata al sole,ma il resto sarebbe penetrato a fondo nelterreno per offrirsi alle radicidell'albero. Che sicuramente, pensai, neavrebbero bevuto ogni goccia.

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12 - MANI VUOTE, ACQUA PULITA

«Come può un bambino rubato»,

chiedeva il libro, «formarsi un'identitàvera?» Lo tenevo aperto alla luce delmattino. L'ospite, finalmente, avevachiuso gli occhi; era andato a dormire, oin qualunque posto andasse quandoriposava. Io invece non avevo dormitoaffatto. Sapevo che avrei dovuto farlo,la notte era stata lunga e vigile e gliocchi mi bruciavano per la stanchezza,ma non potevo. Il mio cervello eratroppo affollato, e lo stesso la stanza,

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palpitante di migliaia di ricordi riemersidai corridoi del passato che chiedevanodi essere scrollati all'aria aperta eguardati di nuovo. Rivedevo me stessabambina mangiare il gelato da unpiattino di cristallo e i dolcetti che pertutto il giorno erano stati nella tasca deipantaloni di Scilingo, mentre mio padre(potevo ancora chiamarlo così?) e il suoamico Scilingo bevevano martini echiacchieravano con le teste vicine.Rivedevo mia madre (potevo ancorachiamarla così?) sfiorare delicatamentei gerani nei giorni in cui le pianticellericevevano ancora acqua e attenzioni enon venivano lasciate morire. Rivedevome stessa accoccolata sul divano con unlibro della biblioteca mentre mamma,

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accanto a me, leggeva una rivista, icorpi abbastanza vicini perché il suoprofumo delicato mi riempisse ipolmoni. Rivedevo me stessa giocare acarte con mio padre, «Però nonlasciarmi vincere, papà», e lui chealzava le sopracciglia con esageratoallarme, «Certo che no, Perlita, lavittoria te la sei guadagnata», e rivedevome stessa, sola, la sera in cui papàaveva scoperto il mio raccontopubblicato sul giornale e aveva detto:«Ah sì, e tu chi saresti», e mi avevalasciata in piedi, immobile come unacolonna accanto al divano, incapace disedermi, incapace di emettere un suono.

Una folla di ricordi, troppi. Nonsopportavo di continuare a guardarli, ma

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non potevo nemmeno dormire circondatadal loro clamore: per questo avevopreso in mano il libro che il giornoprima ero andata a cercare in biblioteca.Un libro dedicato ai figli deidesaparecidos: lo avevano scritto leAbuelas di Plaza de Mayo, decennidopo l'inizio della loro ricerca, e sirivolgeva ai nipoti che ancora speravanodi ritrovare. Guardai l'uomo bagnato,addormentato nella piscinetta. Forseanche sua madre era una di loro. Forselo stava ancora cercando. Cercai divisualizzarla, una donna logorata daltempo, che probabilmente viveva apochi chilometri da casa mia, separatadal figlio (e dalla nipote) da immensibaratri di realtà, e che ancora portava in

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giro per le strade la foto del figlio allemanifestazioni, tenendola alta sopra latesta.

Sfogliai il libro all'indietro fino allafotografia di una Abuela con il fazzolettobianco e due occhi simili a pozzi didolore. Mi fissava con un'espressionecosì intensa che sembrava fossi iol'immagine riprodotta e lei la presenzaviva e respirante. Mi domandai sepotesse essere lei.

Ma era solo una delle tante. Ibambini rubati erano almenocinquecento, o per lo meno così era statocalcolato, e fino ad allora solo sessantaerano stati reintegrati nella loro veraidentità. «Reintegrati», diceva il libro:come se l'identità che avevo avuto prima

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di nascere mi stesse semplicementeaspettando, un pezzo di tessuto piegatocon cura, pronto perché io potessiscivolarci dentro, esattamente della miamisura. Come se io potessitranquillamente diventare la donna chesarebbe sbocciata insieme ai suoi verigenitori se il paese non fosse statotravolto dal Proceso. «Reintegrati»,come quando si restaura un quadroantico, con tutte le minuscole crepe e lezone sbiadite riportate alle lorocondizioni originali per farlo sembrareesattamente come sarebbe stato se tutti isecoli intercorsi non fossero passatiaffatto. Recalcitravo davanti aquell'idea. Non avevo affatto voglia dicancellare la persona che ero stata in

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tutti gli anni in cui non avevo saputonulla delle mie origini. Per quanto falsapotesse essere la mia identità, eral'unica che avevo. Senza, non ero niente.

Mi domandavo se le Abuelas, nelcaso fossi andata da loro, mi avrebberochiesto di fare proprio questo, diripudiare la persona che ero stata. Quelpensiero mi provocava una fitta didolore sotto la gabbia toracica.

Andai avanti a leggere. Di questibambini desaparecidos, alcuni eranostati rubati da piccoli, altri addiritturanell'utero della madre. Guardai quellefoto di bambini, scattate prima chefossero rubati, scrutando i loro grandiocchi primordiali alla ricerca di storieche non potevano raccontare. Non avrei

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voluto leggere delle madri, ma lo feciugualmente. Il libro parlava delle coseche erano state fatte a quelle donne,donne incinte, sottoposte alle stessevessazioni degli altri desaparecidos,costrette a vivere gli stessi incubi, conl'unica eccezione delle ore ammanettatedel parto, dopo il quale potevano o nonpotevano vedere il loro bambino primache gli fosse rubato per sempre, unasparizione dentro un'altra sparizione,strati su strati di dileguamento.

Chiusi gli occhi. Non volevopensare alla mia nascita, ma le immaginimi si imponevano e vedevo catene,sangue e una specie di sotterraneomedievale fiocamente illuminato, anchese sapevo che questa parte era solo

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frutto della mia immaginazione. Cosìtanti buchi nel ricordo e nellaconoscenza, e solo l'immaginazione perriempirli. In realtà da bambina non miera stata raccontata alcuna falsaversione della mia nascita, né avevovisto fotografie di mamma incinta. «Oh»,diceva lei, «non mi andava di esserefotografata, ero tutta gonfia, sai com'è, lecaviglie, il viso, per non parlare del girovita.» Quanto al parto, si limitava a dire:«I dolori, non puoi nemmenoimmaginarli», facendo un gesto vago conla mano. Un'altra bugia, ovviamente.Sembrava proprio che avrei dovutoripassare ogni singolo ricordo della miainfanzia, ogni centimetro di memoria erainsozzato di bugie, e tutto quel

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selezionare e ripulire sarebbe duratoquanto la mia vita. E comunque cisarebbero sempre stati dei buchi, dellecose che non avrei potuto scoprire, chepotevo riempire solo conl'immaginazione. Per esempio il ritrattoimmaginario dell'uomo con l'uniformedella Marina che un giorno tornò a casadal lavoro con un fagottino urlante tra lebraccia.

Hector, ma cos'è?Nostra figlia.Com'è possibile?Mi hanno chiamato in ufficio.Dall'agenzia per le adozioni?Dai piani alti, direttamente dal

governo.E la lista d'attesa?

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Non farmi troppe domande, Luisa.Non preoccuparti, adesso è nostra. Èorfana, nessuno verrà a cercarla.

È una bambina?Una bambina. Si chiama Perla.Forse era andata così, o forse no.

Ma questa versione sembravaplausibile. E soprattutto mi sembravagiusto che fosse stato lui a scegliere ilmio nome. Quando ero piccola, papà midiceva sempre: «Sono stato io a darti ilnome, Perla», con un'enfasi tale cheancora oggi mi sembra l'unico dettagliocredibile. Perché ero il suo tesoro,questo almeno restava vero, no? Unabambina che per lui era come l'oro. Ororubato, non potei fare a meno di pensare.Tutto ciò mi faceva sembrare un po'

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come un bottino di guerra, un oggettoreclamato dal campo di battaglia, come iguerrieri hanno sempre fatto fin dallanotte dei tempi. Oro, lance, schiavi.Giovani donne comprate e vendute, findai giorni di Troia. Ragazzine allevateper essere fedeli a un padrone, cosìfedeli che si poteva anche liberarledalle loro scintillanti manette erestavano lì, senza muoversi, perchédopotutto l'amore che portavanoallacciato alle caviglie era più pesantedel ferro, e comunque dove sarebberopotute andare?

“Adesso basta”, pensai, “sonopensieri ridicoli, tu non sei affatto unaschiava, sei una donna adulta, libera di

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lasciare questa casa in qualsiasimomento.” Allora lo farai?

La domanda si aprì a ricciolo. Steseall'infuori i suoi petali enormi. Girai losguardo sulla libreria, sulla foto dellabambina e su quella con lo sposo e lasposa che andavano incontro al lorofuturo a bocca chiusa, sul quadro blu esulle tende immobili e, dietro le tende,sul patio che una volta aveva contenutotroppi vasi da fiori per poterli contare esull'uomo bagnato, addormentato nellapiscinetta di plastica, che per tutta lanotte mi aveva tenuto compagnia con lesue canzoni a fior di labbra, lasciai chetutte quelle cose mi lacerassero perscoprire che dentro di me già la sapevo,la risposta. Non sarei rimasta un altro

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giorno. Non potevo più restare in quellacasa infestata dove non potevo formarmiquella che il libro chiamava «un'identitàvera», e anche se forse non avrei potutoessere «reintegrata» – non volevo essere«reintegrata», se ciò comportava unacancellazione –, anche se al momentonon sapevo con precisione dove stessiandando o chi volessi diventare o quantotempo ci sarebbe voluto per scolpire lastrada di questo diventare, in quelpreciso istante seppi con assolutacertezza di volermi strappare via l'ioche avevo indossato come un vestitopesante che non ti lascia respirare ma acui ti aggrappi perché hai paura delfreddo. Io invece avevo bisogno disentire freddo. Avevo bisogno di

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denudarmi, di essere famelica, viva...ma restando vicina a ciò che vivo nonera più, a quel fantasma, perché anchelui, pensavo, fa parte di ciò che sonoveramente. Avrei voluto trascorrereinsieme all'uomo bagnato ancora mille euna notte, perché lui era legato a me e ioa lui. Volevo stargli vicino e stare vicinoa Perla, alla mia versione denudata,volevo potermi guardare allo specchiola mattina sapendo chi stavo salutando, eriuscire ad accarezzare quel viso divetro qualsiasi cosa avesse fatto.

Il sole era maturo e pesante nellastanza. Per quasi tutta la mattina men'ero stata lì con il libro come unicacompagnia. L'ospite dormiva ancora, maio mi sentivo come catapultata in un

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luogo al di là del sonno. Riuscivo apensare solo al telefono, immobile epronto sulla scrivania dello studio. Cosasarebbe successo se avessi chiamato imiei a Punta del Este, cosa mi sarebbeuscito di bocca? “Fallo adesso”, pensai,“prima che torni il buonsenso e la paurariprenda il sopravvento.” Andai nellostudio, mi sedetti sulla morbida poltronadi pelle e feci il numero.

Si sveglia al rumore di passi che siallontanano in corridoio. La notteprecedente lo invade di nuovo e pensa,anche stanotte sarà lo stesso, e domaninotte, e la notte dopo, una lunga catenadi ore incandescenti, che futuro glorioso,la ragazza e lui a condividere la stessastanza, la stessa sfera, il suo canto

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sommesso e i capelli di lei, la sua acquae i pensieri di lei, insieme e insieme einsieme.

La stanza risplende di luce diurna.L'aggressività del divano è zittita persempre. Gli orologi fusi nell'aridopanorama non fanno tic tac. Il cignochina ancora il capo, ma dalla suapostura è scomparso ogni senso dioppressione, è solo un inchino ai misteriche porta dentro o che vede attorno a sé.Lui li ama, adesso, l'orologio, il cigno eil divano, come un pesce ama la barrieracorallina, i sassi e la corrente cherendono possibile la sua acqua, senzapensare, senza il più piccolo fremito dipinna, sì, eccoci qui, intrinseciall'oceano. Vuole restare in questo stato

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di comunione finché il fato glielopermetterà, questa stanza è tutto e tutto èin questa stanza, o almeno lo saràquando la ragazza tornerà e resterà conlui e lui potrà bere l'aria fusa della lororeciproca presenza, questa, pensa, è lavera curvatura del mondo... ora locapisco: tutte le cose sono fuse sotto lasuperficie come la massa di noi era fusanell'acqua, è la separatezza di pelle,scoglio e mente la vera, grandeillusione. Noi non siamo discontinui;non siamo solidi. Le persone, le cose eperfino le città sono fatte per scorrereinsieme e per stare in contatto, è perquesto che siamo sempre pieni didesiderio, io desidero la ragazza, leidesidera la verità, la verità ha bisogno

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di parole, le parole di gente che leascolti, e la gente di – cosa? – di tutto,aria, casa, violenza, caos, bellezza,speranza, volo, vista e infinite altrecose. E sempre, che sia per accarezzarloo per torturarlo, bisogno dell'altro,soprattutto questo.

È raggiante per questa nuovaconsapevolezza, non vede l'ora dicondividerla con lei, aspetta con ansia ilsuo ritorno. Ma poi sente la sua voceprovenire da una stanza in fondo alcorridoio. Ha lasciato la porta aperta.Che stia parlando da sola? No, è altelefono. La voce è dura; non l'ha maisentita così, la sua voce. Si tende perascoltare. Per capire.

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Mio padre rispose al terzo squillo.«Pronto?»

«Ciao, sono io.»«Ah, Perla. Ciao.» Era d'umore

affabile, rilassato. «Stavamo giustouscendo per andare in spiaggia.»

«Volevo solo sapere come state.»«Stiamo alla grande,

magnificamente. Peccato che presto saràora di fare i bagagli.»

«Sì.»«E tu? Come stai?»«Bene.»«Sei sicura? Mi sembri un po'

strana.»«Credi?»«È quello che ho detto, giusto? Cosa

stavi facendo?» Dal tono della domanda

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sembrava che volesse saperlo sul serioe, prima di riuscire a fermarmi, prima dirimettere il solito velo sul tono dellamia voce, risposi: «Pensavo».

«Mmm! A cosa?»«A molte cose.» Feci una pausa. Mi

tremavano le mani. «Per esempio, a cosahai fatto, esattamente. Se lo rifarestiancora.»

«Fatto cosa?»«La guerra. Quello che è successo

all' ESMA.» Restammo entrambiscioccati dalle mie parole e dal lorotono. Silenzio.

«Perché tiri fuori questa storiaproprio adesso?»

«Perché non riesco a togliermeladalla testa.» Non disse niente e pensai

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che quella pausa non sarebbe mai finita;ero convinta che si sarebbe tiratoindietro, finestre chiuse, tende tirate.Invece lui, a voce bassissima, disse:«Perla. Per l'amor di Dio».

«Per l'amor di Dio cosa?»«Non farmi questo.» Ma anche

volendo non avrei più potuto fermare ladonna che si era impossessata del miocorpo e della mia lingua. «Conoscevi iloro nomi?»

«I nomi di chi?»«Delle persone che avevi in tuo

potere. Dei...» – desaparecidos,distrutti, sfigurati – «sovversivi.»

«Devi proprio tirar fuori questastoria mentre sono in vacanza?»

«Sì. Devo proprio.»

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«Perché?»«Perché c'è qualcosa che vorrei

sapere sui miei genitori.»«Ecco, ascolta, noi non abbiamo

mai...»«Cos'hai fatto ai miei genitori?» Di

nuovo silenzio; un silenzio cavernoso,nel quale la mia domanda riecheggiava,riecheggiava, riecheggiava. «Cheaccidenti stai dicendo?»

«Penso proprio che tu lo sappia,papà.»

«Ascolta», disse, e la sua voce eracalma, attentamente calibrata, unvoltaggio regolato con cura, «credoproprio che tu abbia parlato con lepersone sbagliate.»

«Voglio che tu mi risponda.»

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«Qualcuno ti ha fatto confusione intesta.»

«Non sono affatto confusa.»«Sì che lo sei. Sarà meglio che ne

parliamo guardandoci in faccia. Domanisera saremo a casa, ne parleremo echiariremo tutto. Va bene?» Non miavrebbe risposto. Non mi avrebbe mairisposto. Continuare non aveva alcunsenso, ma non si poteva nemmenofingere che la bomba non fosse statalanciata. Visualizzai la donna cherecitava il ruolo di mia madre, dall'altraparte della stanza, seduta rigida nel suoaccappatoio da spiaggia ad ascoltareuna metà di quella conversazione.“Perla”, pensai, “che cos'hai fatto?” «Vabene.»

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«Niente di tutto ciò è come pensi.»Toccò a me restare in silenzio.

«Non farti mettere in testa delle ideesbagliate. Non si è mai abbastanzaattenti, di questi tempi, là fuori c'è unmucchio di gente che ha interesse adiffondere delle sporche bugie.»Scoppiai a ridere... non potei evitarlo, ilsuono mi scappò fuori dalla gola primache avessi il tempo di rimangiarmelo.

«Si può sapere cosa c'è da ridere?»«Niente.»«Perla.» Adesso sembrava più

nervoso. «Non appena sarò a casa io ete faremo una bella chiacchierata. Eallora potrai farmi tutte le domande chevorrai.» Tutte? Proprio tutte? Papà,questo è il nostro ospite, non far caso

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alla sua pelle sgocciolante... vi siete giàincontrati da qualche parte?

«Okay?» Io, zitta.«Perla?» Stavo per buttar giù il

telefono o per mettermi a gridare, lamano mi prudeva per la voglia disbattere giù la cornetta e la gola mibruciava per le parole non dette, ma nonlo feci perché all'improvviso vidichiaramente il mio futuro, un futuro nelquale non ci sarebbe stata nessunachiacchierata da padre a figlia, un futuronel quale quella telefonata sarebbe stataarchiviata in un cassetto sigillato delmio cuore con la scritta L'ULTIMAVOLTA CHE HO SENTITO LA SUAVOCE. E ciò mi faceva sentire al tempostesso libera e intorpidita, un braccio

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che sta per essere amputato e dice unosbalordito addio al resto del corpo. Perquesto, e solo per questo, restai altelefono.

Dissi: «Okay».«Sta' attenta, laggiù. E non pensare

troppo.» Poi ci fu una pausa, sentii unsoffio leggero. «Tua madre ti manda unbacio.»

«Okay.»«Ebbene? Non ce ne mandi uno

anche tu?» Lo disse ridendo, neltentativo di alleggerire la tensione, masentivo l'ansia nella sua voce, quasi unasupplica. Pensai di lasciarlo in quellaposizione, di chiudere la telefonata conquella domanda in sospeso, senzarisposta – dopotutto lui aveva fatto lo

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stesso con la mia –, e forse avrei dovutofarlo, ma non ci riuscii. Ero unavigliacca. Una vigliacca, o forse solouna figlia, nonostante tutto. «Ma certo,papà.»

«Hasta pronto. Ti voglio bene.»«Adios.» Pensai di dire anch'io “Ti

voglio bene”; quelle parole restaronosospese, mute, nella mia bocca; maprima che la lingua potesse obbedirmividi la mia mano allungarsi verso iltelefono e premere il pulsante. Udii ilclic della comunicazione che siinterrompeva.

Misi giù la cornetta. Le pareti apannelli sembravano respirare attorno ame. Ormai è fatta, sospiravano, non puoipiù tornare indietro, il taglio è

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cominciato. Pur sapendo che mio padreera di là dal fiume, in Uruguay, miaspettavo di vederlo entrare da unmomento all'altro per correre verso dime, dopo di che le sue mani avrebberoafferrato le mie con affettuosaautorevolezza, Perla, che stronzate sonoqueste, tu non vai da nessuna parte.Avrebbe trovato il modo di convincermia restare. Ma ovviamente lui non arrivòaffatto, restai sola, e vorrei poterti direche ne fui contenta, che restai padronadel campo con un misto di vittoria edesaltazione, senza la minima traccia dirimpianto per la sua presenza. Questa èla storia che vorrei raccontarti, masarebbe una menzogna. Fissai la portaper molto, molto tempo. Le pareti

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rabbrividivano e pulsavano tutto attornoa me. Avevo la nausea. Mi sentivo comesventrata. Avrei voluto appoggiare latesta sulla scrivania dell'uomo chiamatoHector e dormire per giorni e giorni, persettimane, per il resto della mia vita. Maloro sarebbero tornati l'indomani sera.Non potevo dormire, dovevo agire.

Sollevai di nuovo la cornetta ecomposi un altro numero.

«Pronto?»«Gabriel.»«Perla.» La sua voce tradiva

contemporaneamente il sollievo el'allarme.

«Come stai?»«Bene», rispose seccamente.«Mi manchi.» Silenzio.

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«Dico sul serio.»«Bene. Se lo dici tu.»«Ascolta, so di essermi comportata

in modo orribile con te, non meritereinemmeno di chiedertelo, e se fossi in tenon credo proprio che mi direi di sì, maho bisogno d'aiuto.» Per un attimoGabriel non disse niente, e io cercai contutte le mie forze di non lasciarmiprendere dal panico.

«Per fare cosa?»«Devo assolutamente andare via da

questa casa.»«Vuoi uscire, andare da qualche

parte?»«No, intendevo andarmene per

sempre.» Ancora silenzio, e stavoltarestai seduta, perfettamente immobile.

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Provavo una sorta di calmasovrannaturale ora che le parole mierano uscite di bocca.

«Stai bene?»«Sì. Almeno credo. Forse meglio di

quanto io sia mai stata.» “Perla”, miammonii, “cerca di dire delle cosesensate. No, all'inferno, è troppo tardiper il buonsenso.” «Avevi ragione tu.»

«Su che cosa?»«Sui miei genitori.»«Oh.» La sua voce divenne

infinitamente dolce. «Perla.»«Quello che hai detto sulla spiaggia.

Avevi ragione.»«Come fai a saperlo?»«È difficile da spiegare.»«Provaci.»

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«Lo farò. Ma non per telefono.»Pensavo che sarebbe stato megliomostrargli il fantasma invece diraccontargli ciò che avevo vissuto negliultimi giorni. Com'era possibile metterein parole quello che mi era capitato?

«Sei molto coraggiosa.»«Io?»«Quello che stai affrontando. Non

riesco nemmeno a immaginarlo.» Chiusigli occhi. «No, non sono coraggiosa.Non ho mai affrontato niente, non hovissuto un singolo istante che si potessedefinire vita vera.»

«Ma se non era vita, allora cos'era?»«Non lo so. Mi sento come una che

sta scomparendo.»«Semmai il contrario.»

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«Cosa vuoi dire?»«Che forse, finalmente, stai

apparendo.» Guardai, oltre la libreria,la finestra con la sua scheggia di cielovisibile. «Dal nulla? E senza niente?»

«Con il tuo vero io.»«Non ce l'ho, un io vero.»«Certo che ce l'hai.»«È stata tutta una menzogna.»«E noi due? Anche questo è stato una

menzogna?»«No. No.» Il silenzio si stese fra noi;

mi sembrava quasi di sentirlo pensare.«Hai già parlato con i tuoi genitori?Voglio dire, con i...»

«So di quali genitori stai parlando.No, non sono a casa. Sono in vacanza,torneranno domani sera.»

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«E tu vuoi andartene prima chetornino.»

«Esatto.»«Hai bisogno di un posto dove

stare?»«Se posso. Solo per un po'. Finché

non trovo un posto mio.»«E come pensi di fare?»«Troverò un lavoro. Lascerò

l'università.»«Non puoi interrompere gli studi.»«Certo che posso.»«Non devi farlo per forza. Puoi

venire a stare da me.» Un fiotto digratitudine mista a sollievo mi percorseda capo a piedi. Ma subito dopovisualizzai la nostra vita insieme – io,lui e il fantasma – con quella ridicola

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piscinetta installata per sempre nel suosoggiorno. No, era decisamente troppo.«Grazie, Gabo. Davvero. Ma tu non saiche grana ti stai accollando. C'è unacosa che ancora non ti ho detto.» Lalinea telefonica fra noi sembròformicolare.

«Non è quello che pensi.»«Io non so cosa pensare. Non so di

cosa stai parlando.»«E io non so come dirlo. Non è una

cosa che si possa dire, bisogna che te lamostri. Perché non vieni qui?»

«Quando?»«Stasera, se puoi.»«Va bene alle nove?»«Benissimo. Ti spiace venire in

macchina? Così ci posso caricare un po'

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delle mie cose.»«Certo.»«Grazie. Ti amo.»«Non stai scherzando?»«No, non scherzo.»«Dillo ancora.» Risi. «Ti amo.»«Bene, allora.» La sua voce

sembrava sgravata da un peso. «Civediamo dopo.» Riattaccammo.Appoggiai la schiena alla poltrona dipelle di mio padre, dell'uomo che avevosempre pensato fosse mio padre. Cercaidi immaginare che faccia avrebbe fattoGabriel vedendo l'ospite, sconvolta odisgustata o affascinata. Speravo soloche non sarebbe scappato e che avrebbeaccettato di aiutarmi a spostare l'uomobagnato sul sedile posteriore della sua

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auto. L'avremmo avvolto in una coperta,pensai, forse anche in una tela cerata.Avrei preso anche la piscinetta. E poiqualche vestito, qualche libro, le foto diquando ero piccola. Non tutto,ovviamente, solo le cose senza cui nonpotevo vivere. Forse niente. Forse nonc'era niente, in quella casa, senza cuinon potessi vivere, forse potevoandarmene così, a mani vuote, esopravvivere ugualmente. In quelmomento la stanchezza che avevocercato di ignorare per tutte quelle orecalò su di me il suo felpato cappuccionero e cedetti al sonno. Sognai delleformiche, milioni di formiche, che siarrampicavano sulla grande quercia delpatio, sempre più in alto, verso il cielo.

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La luce sta sbiadendo. Gli angolihanno già perso il loro sole. Sono tantele cose che vorrebbe gridare nelleombre che si vanno addensando. Latartaruga arriva sulle sue zampe lente esi ferma in mezzo alla stanza, è contentodi vederla. Clac, dice la sua duramandibola alle ombre. Clac.

Sono passate ore da quelle duetelefonate e la ragazza è ancora di là, nelsilenzio più assoluto. Forse si èaddormentata. La lascerò riposare,pensa. E la lascerò andare. Non puòrubarle la vita. Non vuole esserle dipeso. Che cosa commovente che abbiapensato di portarlo con sé. È davverouna ragazza gentile... e coraggiosa,guarda come ha saputo parlare all'uomo

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che le ha fatto da padre. Ma lui sa di nonpoter convivere con la persona che leiha chiamato subito dopo, con l'uomo cheverrà quella sera con l'automobile e dueocchi penetranti. Un certo Gabo. Che leidice di amare, e lui spera tanto chequesto Gabo ricambi il suo amore e siabuono con lei, e la tratti come ilmiracolo che è. A ogni modo lei ha unposto dove andare e tu devi lasciarlaandare. Gira lo sguardo sulla stanza esente di amarla, ama il quadro con lanave realizzata con le stesse pennellatedel mare, le tende dove ha vistoframmenti del corpo di Gloria, le paretiche hanno cantato di luce accecante, ildivano con cui ha guerreggiato, il cignodi porcellana che vorrebbe schiudere le

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sue rigide ali bianche per raccontare isuoi segreti in una sferzata di volo.Dove andrà? Non ne ha idea. Seguiràl'istinto. Chiude gli occhi e cerca, siimmerge, vortica e si ritrova nella stanzacon gli apparecchi elettrici e gli uominiaddestrati, vede tutto con chiarezza mastavolta è diverso, non sono ricordisuoi, non è lui quello legato almaterasso, è un uomo più anziano, con icapelli lunghi, sta sdraiato sul materassoe si contorce, vede l'ufficiale che azionala macchina, la guardia vicino alla portae il dottore con il blocco per gli appunti:l'ufficiale che aziona la macchina ècalmo come un capitano al timone dellasua nave, la schiena diritta, le spallelarghe, pronto ad affrontare qualsiasi

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tempesta; la guardia è giovane, zelante esbarbata di fresco, fa la sua parte persalvare il paese, ma distoglie losguardo; il dottore prende appunti ognivolta che l'ufficiale gira una manopoladella macchina e l'uomo nudo con icapelli lunghi si contorce tirando lecatene, il dottore lo osservaattentamente, è un uomo di scienza, poisi gratta il naso e annuisce fra sé. Luiosserva i quattro uomini dalla suapostazione sul soffitto. Una danza, unacoreografia estrema, quattro uomini inuna stanza vuota. Lui è più leggerodell'aria, fluttua, può fluttuare anchefuori di lì, in corridoio, e sente che devefarlo, qualcosa lo tira fuori dalla stanzae lungo il corridoio e lui va perché lei

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non è lontana, devo trovarla, passadavanti alle porte delle celle, chiuse,con i buchi della serratura tappati, tuttein fila, non sta cercando, va versoqualcosa come un frammento di ferro vaverso il magnete. L'attrazione diventasempre più forte mentre sale una rampadi scale, percorre un altro corridoio epassa davanti a una stanza in cui leguardie giocano a carte guardando latelevisione (sembrano annoiate, hanno losguardo vitreo, ridono ma non siguardano in faccia), e poi ancora uncorridoio e un'ultima stanza dovefinalmente la trova. È per terra e trema.È accoccolata in posizione fetale, la suapancia è più piccola ma non è ancoratornata alle dimensioni normali. Ha gli

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occhi bendati ma non è legata, sanguinain mezzo alle gambe, le guardie se lasono appena spassata con lei, l'hannousata come una cagna ma tu non sei unacagna, mia Gloria, tesoro, mi vida, sonoqui, sono con te, e allargherò eallungherò in tutte le direzioni il nientedi cui sono fatto per stendermi su di tecome una coperta, mi senti attraverso iconfini dello spazio, della morte e deltempo? Hai un po' più caldo, Gloria?Vorrei fasciarti tutta, avvolgerti, lamorbidezza della mia coscienza comeuno strato imbottito per attutirti ognicaduta. Srotola la superficie della suamente nuda e l'accarezza con quella. È lasua pelle, la stessa che ha accarezzato intante notti sudate e in tanti languidi

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mattini, morbida, una gioia al tatto, comela gioia di tornare a casa dopo un lungoviaggio. Tu. Torna a casa. Il respiro diGloria si placa, le sue dita sottili simuovono come per suonare al pianoforteuna melodia muta, cercando a tentoni deitasti sfuggenti. Rovescia la testaall'indietro, le sue labbra si schiudono.Sì, Gloria, sono qui, sono qui. Sente lasua presenza, deve sentirla, lui lo credecon tutta la sua traslucida essenza, senteil corpo di Gloria rilassarsi alle sueintangibili carezze. Restano così,insieme, per un istante infinito o per unabrevissima eternità. Quando le guardieentrano nella cella per ammanettarla eportarla via, le si drappeggia sullespalle come uno scialle invisibile e

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senza peso e resta con lei anche sulcamion dell'esercito che romba nellanotte, verso l'estrema periferia dellacittà, con il suo carico di personebendate e inebetite, ammucchiate l'unasull'altra al buio, persone nude che sifondono fra loro e lottano per respirarequell'aria resa pesante dall'odore dicorpi non lavati. Non vedono dove lestanno portando ma qualcunosicuramente lo sa, le teste ciondolanocome se fossero addormentati o stesseropregando. Gloria dondola a ognisobbalzo del camion. E lui dondola conlei, lo scialle umano, lo conosce giàquesto viaggio, ricorda il camion chel'ha portato all'aeroplano, e cerca diaccarezzarle il corpo con la sottile,

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invisibile tela della sua mente. Una voltaio e te, Gloria, abbiamo fatto un giro inmacchina per la pampa, il tuo profilo eracosì bello sullo sfondo sfuggente deicampi di grano, un paesaggio così lungoe piatto, come ti amavo in quel momentoe come ti amo anche adesso, pensa aquei campi di grano, Gloria. Il camion siferma e le guardie lo svuotano del suocarico su uno spiazzo in terra battutavicino a una baracca, ordinano aiprigionieri di mettersi in fila davantialla luce dei fanali, ma i prigionieri nonci vedono, così le guardie li sistemanocon le mani, l'aria è fresca e frizzante,sente Gloria inalarne lunghe boccate, èla prima aria notturna che respira damesi, buia e dolce del respiro di foglie e

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rocce e del sapore di sole che vi aleggiaancora, ha appena inspirato a pienipolmoni quando partono le raffiche el'aria le resta attorcigliata nei polmoni,non la espirerà più. Le guardie fannorotolare i corpi accartocciati in unafossa poco lontana, già pronta,abbastanza grande per ingoiarli tutti inuna volta, una grande bocca di terra chefa sparire tutto il carico. Gloriascompare sotto un corpo femminile euno maschile e una palata di terra, eallora lui si stacca da quel guscio cheormai non la contiene più e sale, sale,fuori dalla fossa e ancora più su, sisolleva da terra e le guardie, il camion ela tormentata ferita aperta nella terrarimpiccioliscono sotto di lui, adesso sa,

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ha visto tutto, sa che è stata la terra aprendersi Gloria (non il mare, non ilfuoco) e con questa conoscenza asferzarlo sicuramente la ritroverà,Gloria, la tua piccola luce dev'essere daqualche parte, rintanata su una montagna,intrappolata nella roccia, raggomitolatafra le radici di un albero, a cavalcionisulla corrente di un fiume o persanell'azzurra cupola del cielo, ti cercheròdappertutto, e quando ti troverò avròcosì tante cose da mostrarti, da darti eda riversare in te, presto saremo dinuovo insieme, niente è finito, noi nonsiamo finiti, era una femmina, unabambina, si chiama Perla, ha i capellifolti come i tuoi e la tua bocca, che Diol'aiuti, insieme a lei ho vissuto dei

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momenti che ora sono al sicuro nellamia memoria, momenti che vivono evivono e che non possono esserecancellati perché sono più forti dellepallottole e degli aerei e guarda, guarda,te li sto portando, dovunque tu sia.Adesso è ancora più in alto, oltre lecime degli alberi, e da lassù vede lacittà, a est, Buenos Aires, scintillantedelle mille luci di chi vive in una nottequalsiasi, perché tutte queste cose sonoaccadute in una notte qualsiasi, il fiumerisplende, lungo e nero dietro la città, elui, pur non sapendo cosa diventerà, nonha paura, è pronto a cambiare, pronto acercare, pronto a risorgere.

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La stanza era ormai quasi buiaquando mi svegliai, stupita di ritrovarmicon la faccia sulla scrivania. Mi sentivointontita, disorientata. Avevo pensato dipreparare le valigie prima dell'arrivo diGabriel, ma ormai sarebbe stato lì amomenti. E poi c'era qualcosa che nonandava nella casa, anche se non sapevocosa. Una sensazione, un ronzio, forseproprio l'assenza di ogni suono. Chissàcosa stava facendo il mio ospite.Dovevo andare a vederlo.

Ma quando arrivai in salotto lui nonc'era. La piscinetta era stracolma,l'acqua tracimava dai bordi di plasticarossa riversandosi sul pavimento dilegno duro, ma dentro non c'era nessuno.

“No”, pensai, “no” e “no”.

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Tirai indietro le tende, corsi incucina, frugai nell'armadio dell'ingresso,aprii le porte scorrevoli che davano sulpatio e guardai fuori, dietro i rosai,dietro la quercia silenziosa, nel cieloscuro e misterioso. Se n'era andato. Nonavevo nemmeno un nome per chiamarlo,non sapevo quali sillabe scagliare versoil cielo. Ma ormai lo conoscevo, pensai,lui era mio e io ero sua. Ogni cellula delmio corpo gridava invocando il suoritorno, ma lui non tornò. La perdita mischiacciò, gonfiandosi nella marea dellealtre mie perdite. Troppe per poterlemisurare. Per poterle contenere. Il patiosi stendeva davanti a me in assolutosilenzio, la casa si acquattava alle miespalle, deserta, perfino il cielo era

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vuoto, non reagiva, denso e scuro. “Chefine hanno fatto le stelle? Dov'è miopadre? E io, dove sono?” Poi,all'improvviso, fu come se mi guardassidall'esterno, come se non fossi più io maun mero campo visivo e vedessi ladonna girarsi e rientrare, restare qualcheminuto davanti alla piscinetta, assorta, epoi strapparsi di dosso i vestiti edentrare. Il livello dell'acqua si alzò dicolpo e il liquido traboccò, spargendosisul pavimento e serpeggiando verso lepareti. La donna restò a lungoaccovacciata là dentro, nuda. Pensandoa tutto e non pensando a niente. Pianse.Si guardò le mani vuote attraverso latrasparenza dell'acqua. Poi, in unabrusca trasformazione alchemica,

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divenne sé stessa, né più né meno.Sentivo l'acqua tiepida avvolgermi lemembra, mormorando di tempi passati edi tempi non ancora giunti. Girai losguardo sulla stanza. Non potevopermettere che restasse così, falsa eimmacolata. Uscii dalla piscinetta elasciai che fossero le mie mani ad agire,loro sapevano cosa fare, le mie manipresero il comando e afferrarono ilsecchio, lo riempirono con l'acqua dellapiscinetta, presero la mira e scagliaronol'acqua contro la parete. Tuffai di nuovoil secchio e una grande onda si abbattésul divano di pelle, rovinandolo persempre. E via così, inzuppando un'altraparete, la riproduzione di Dalí restòsgocciolante e raggrinzita, il suo arido

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paesaggio inondato da un improvvisodiluvio che deformò ulteriormente gliorologi; la parete pianse ruscelli dilacrime; gettai altra acqua e il quadrocon la nave scintillò di fresca umidità ein quel momento udii un suono, unadonna gemeva con la sua vera voce,senza più preoccuparsi dell'usoappropriato della voce o di quale sia ilposto giusto per l'acqua, che l'acqua siinnalzi e anneghi tutta la casa e latrascini in mare. Poi il secchio si riempìdi nuovo e l'acqua – acqua fatta diricordi, chiara e limpida in modoinsopportabile – spruzzò la libreria,infradiciò i libri, piovve sul ritratto dinozze di un uomo e di una donna chesorridevano a bocca chiusa, avrei voluto

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che quelle bocche si aprissero eingoiassero il mare che stava foderandola loro casa, avrei voluto che tutta lacasa si rovesciasse, nuotasse e fluttuassesotto quelle acque, poi le mie maniportarono il secchio in cucina e nellostudio e inzupparono la poltrona dipelle, la scrivania, il tappeto e i libri, lecui pagine sarebbero rimaste per semprearricciate per la forza di quel diluvio,poi dall'ingresso arrivò il suono delcampanello e subito dopo un rumore dicolpi sordi, ancora e ancora, ma chidiavolo è, in salotto il pavimento erabagnato e ogni cosa era bagnata e io erobagnata e nuda e continuavo a buttareacqua dappertutto quando il rumore dicolpi ricominciò accompagnato da una

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voce smorzata dietro la porta chechiamava: «Perla? Perla?».

Andai ad aprire. Gabriel mi vide edemise uno strano suono.

«Entra.»«Ma cosa...»«Sbrigati.» Entrò. Chiusi la porta e

tornai in salotto. Gabriel mi seguì e,arrivato sulla soglia della stanzaallagata, si fermò, confuso,boccheggiante. Mi sentivo come una cheè appena uscita da uno stato di trance.Cercai di immaginare che aspettopotesse avere la casa ai suoi occhi ecercai le parole per dirgli cos'erasuccesso, da dove veniva quell'acquadall'odore pungente e che giorni avevopassato in compagnia di un ospite che a

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un certo punto era comparso dal nulla epoi, quasi altrettanto improvvisamente,era sparito. Ma non mi uscì niente.Intanto, Gabriel sembrò riprendersi.

«E così, questa è casa tua.»«No, non è casa mia.»«Ah. Giusto.»«È casa loro. La casa di Hector e

Luisa.»«Capisco.» Gabriel mi fissava. Mi

sentii nuda. Pensai di invitarlo a sedersi,ma non c'era più nemmeno un angolinoasciutto, così restai in piedi accanto alui e mi lasciai guardare. E inquell'istante capii che, al di là delleparole che avrei scelto e del tempo checi avrei impiegato, non sarei mairiuscita a comunicargli fino in fondo la

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mia esperienza. Se ci avessi provato,forse avrebbe scelto di credermi – oavrebbe finto di credermi, per il miobene, era così gentile – oppure avrebbeeliminato le parti più strane della miastoria cercando di razionalizzare ilresto. Ma non aveva importanza. Perchéa prescindere da ciò che Gabrielavrebbe pensato, a prescindere da ciòche avrei scelto di dire o di non dire,ciò che era accaduto in quella stanza –le cose che avevo visto e percepito eche ero arrivata a capire – non eracomunicabile, né a lui né a nessun altro.Ci sono esperienze nelle quali solo tupuoi entrare, che solo tu puoi contenere.Troppo grandi per essere condivise. Èdifficile anche solo contenerle fra le

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braccia: traboccano nel buio oltre te,riversandosi, e si espandono in lunghecorde di luce che ti trafiggono con undoloroso spasmo di solitudine e altempo stesso ti legano al mondo, perchéle cose grandi che ti succedono, perquanto terribili, sono pur sempregenerate dal mondo e quindi, forse, tioffrono un posto dove stare nel momentostesso in cui ti scacciano da un altro, purschiacciandoti con il peso di un io chenon può essere pienamente comunicato anessuno. Anche se la maggior parte dinoi continua a provarci. Stringiamolegami, coltiviamo la fiducia,raccontiamo storie; ci sforziamo diarticolare ciò che abbiamo dovutovivere per diventare ciò che siamo. A

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volte, se siamo molto fortunati, chi ciascolta riesce a cogliere un frammentoautentico di ciò che volevamo dire,come una scintilla in una stanza buia, mamai tutto in una volta, nemmeno la nostramigliore amica può farlo, o il nostrogrande amore, perché l'insieme èindicibile. E non può vivere in nessunaltro luogo, solo nella nostra pelle.Perché è lì che fiammeggia, enorme,rischioso, interamente nostro.

Finalmente Gabriel fece un passoverso di me. Gli dovevo una qualchespiegazione, una spiegazione qualunque,e aprii la bocca per provarci.

Ma lui disse: «Dunque è questo chevolevi farmi vedere».

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La stanza. Si riferiva allo stato in cuiera ridotta la stanza. «No, non eraquesto.»

«No?»«Era qualcosa di più. Quello che

c'era prima.» Si avvicinò ancora e miprese la mano bagnata. «Perla», disse.«Va tutto bene. Tu forse hai pensato chequesto spettacolo mi avrebbe fattoscappare, ma non è così. Capiscobenissimo perché l'hai fatto.»

«Davvero?»«Ma certo. Con quello che devi aver

passato.»«Ma c'è dell'altro, Gabriel. Sono

successe tante cose, in questi ultimigiorni.»

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«Lo immagino.» Mi abbracciò. Lesue mani sulla mia schiena, sicuramentequelle mani potevano sostenerequalsiasi cosa, una torre scricchiolante,un albero ferito. «Adesso andiamo acasa. Più tardi mi racconterai tutto.»

«Ma ormai non posso piùmostrartelo.»

«Perché?»«Perché se n'è andato.»«Chi se n'è andato?»«Mio padre.» Sottovoce, Gabriel

chiese: «Di quale padre stai parlando?».«Di tutti e due. Li ho perduti

entrambi.» Stavo piangendo. «Se nesono andati tutti.»

«Io non me ne sono andato»,mormorò lui tra i miei capelli. «E

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nemmeno tu.» Lasciai libero sfogo allelacrime.

Aveva ragione. Io non me n'eroandata.

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13 - IL RITORNO A CASA

L'uomo e sua moglie arrivarono a

casa la sera tardi, dopo un viaggio intraghetto dall'Uruguay durante il qualelui aveva guardato fuori dal finestrinol'acqua che si stendeva vasta e nera inogni direzione, acqua di mare prima epoi, gradualmente, anche se nessunoavrebbe saputo dire esattamente in qualepunto si verificasse la trasmutazione,acqua di fiume, altrettanto vasta e nera edistesa come il manto di un re a lutto.

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Sua moglie non gli aveva rivolto laparola né sul traghetto né sul taxi cheavevano preso dopo lo sbarco. Qualcheora prima lui le aveva chiesto dilasciarlo parlare con la figlia per primo,da solo, «Lasciami provare», ma leiaveva ribattuto: «Ormai lo sa, non si puòpiù tornare indietro», al che lui avevachiuso bruscamente la valigia sul lettodelle loro vacanze. Sul traghetto e anchenel taxi silenzioso l'uomo avevapreparato con cura le parole da dire allafiglia, frasi meticolosamente scolpiteche non ebbe occasione di pronunciareperché, quando arrivò a casa e aprì laporta, gli andò incontro solo un odorestranissimo che lo fece temere per suafiglia, chissà cos'era successo in quella

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casa mentre lui era via. Ma forse, pensò,era stata proprio lei a causarequell'odore dimenticando qualcosa (macosa?) in giro a marcire e lasciando chequella puzza si diffondesse per tutta lacasa, avrebbe dovuto avere un po' più dibuonsenso, e gridò il suo nome in tonosevero mentre accendeva la luce.

Gli si parò davanti agli occhi lastanza devastata. Divano, pareti, libri,tutto era fradicio e distrutto. Si guardòattorno e poi guardò ancora, chiamò adalta voce sua figlia e andò a cercarlanello studio, in cucina, in corridoio, poiancora in salotto, dove sua moglie erarimasta immobile come un troncod'albero. Poi vide il quadro, quellodipinto dalla sorella perduta, con la

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nave e il mare, e la parete tutto attornomacchiata di schizzi d'acqua. Solo ilquadro si era salvato, le sue pennellateblu erano miracolosamente intatte. Lanave si levava dalle onde con una forzaindomabile che gli sembrò quasiviolenta.

«L'ammazzerei», disse l'uomo.E sua moglie: «Non ne avrai

l'occasione».«E questo cosa dovrebbe

significare?»«Se n'è andata.»«La troverò.»«Se ne sarà comunque andata.»«No, io la tratterrò e...»«Hector, l'abbiamo persa. È finita.»

Lo sconvolse la freddezza della sua

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voce e anche il fatto che non si girasse aguardarlo mentre parlava. «No», disse.«No.» Corse su per le scale, cercandosua figlia, gridando il suo nomedapprima in bruschi latrati, poi in lunghigridi protratti, il suo nome, quello che leaveva dato quando era una cosettinapreziosa che lui aveva salvato dagliabissi dell'inferno, “è così che ho sceltoil tuo nome, perché ho dovutoimmergermi negli abissi per trovarti,hija, è così che io e te abbiamocominciato, è così che sei diventata mia,non si può dire nemmeno che tu fossi almondo finché non ti ho portata qui,perché il posto schifoso, ignobile in cuisei nata non poteva nemmeno dirsimondo, sono stato io a pescarti fuori da

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lì, io e nessun altro”. Sul pianerottolodel primo piano ripensò alla primissimavolta in cui l'aveva vista, a come lei loaveva guardato, a come lui avevapensato: “Un pesciolino, ha gli occhi diun pesciolino”. Aveva solo quattrogiorni e, anche se nei giorni e nelle nottia venire ci sarebbero state infinitelacrime, in quel momento non piangeva.Si era appena svegliata da un pisolino,in un cassetto di legno dentro una stanzabuia. Le si era avvicinato senza farerumore, chissà, forse dormiva ancora,ma quando l'aveva raggiunta lei si eravoltata dalla sua parte e lo avevaguardato con quegli occhi neri che nonsbattevano le palpebre e chesembravano senza fondo. Quello

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sguardo aveva cancellato di colpo lastanza... e il resto di quel maledettoedificio. Erano tutti così i neonati? Nonlo sapeva. Non aveva esperienza dibambini. Ma non aveva mai sentito direche una persona potesse cadere negliocchi di una neonata come un sasso cadenegli abissi del mare. “Con quegliocchi”, aveva pensato, “nessuno diràmai che somiglia a Luisa, ma nonimporta, è quella giusta per noi, è lei.”In quel primissimo giorno si eradomandato se col tempo i suoi occhiavrebbero perso quel loro strano potere,ma non lo avevano perso. “Tu non laconosci, questa parte della storia, verohija? Certo che no, sono così tante lecose che non sai, le cose che non hai

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nemmeno cominciato a capire, maadesso dove sei, dove sei, in bagno no,in corridoio no, la tua stanza èsottosopra ma tu non ci sei, la cameramatrimoniale è vuota, le pareti gridanola tua assenza”, e a quel punto le suegiunture cedettero come seall'improvviso la colla che le tenevainsieme si fosse dileguata e lui caddelentamente in ginocchio. Sua moglie, chestava salendo le scale dietro di lui, gliposò le morbide mani sulle spalle,sussurrando: «Lasciala andare».

«La costringeremo a tornare.»«È troppo tardi.»«No.»«Non è più nostra figlia.»

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«Come puoi dire una cosa delgenere?» gridò lui, ma la conoscevapiuttosto bene, quella donna, e nonprovò sorpresa. Il cuore di sua moglieera un labirinto, le cose potevanocaderci dentro e perdersi senza lasciaretraccia, senza la possibilità di rivederleo di sentirne ancora parlare. Il suo nonera un cuore chiuso, piuttosto un cuorecomplicato, pieno di circonvoluzionibuie in cui era meglio non addentrarsi. Ecomunque le prove contro la ragazzaerano schiaccianti: l'acqua cheimpregnava il bel divano italiano nonavrebbe più potuto essere asciugata. Alui non importava niente del divano odelle pareti o dei libri, ma nonsopportava l'idea che qualcuno avesse

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cercato di danneggiare il quadro, ilquadro di Monica, l'ultimo ricordo disua sorella, “hija, come hai potuto farmiquesto, se solo tu l'avessi conosciuta,Monica era una brava ragazzanonostante le sue illusioni e i suoierrori, mi portava la minestrina a lettoquando avevo la febbre, mi insegnava apattinare, a catturare scarafaggi e arubare i biscotti senza farci scoprire. Tisomigliava tanto, anche in viso visomigliavate, vedendovi in piedi unaaccanto all'altra chiunque avrebbepensato, senza esitare, che eravateparenti”.

«No», disse. «Non posso lasciarlaandare.» E lei: «Non hai altra scelta. Se

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l'avessi davanti in questo momento, cosale diresti?».

Cercò di costruirsi nella mentequella conversazione, lo scambio cheavrebbe avuto con la ragazza, con suafiglia. Sicuramente lui avrebbe gridato,poi avrebbe cercato di spiegare, dopo diche lei si sarebbe sciolta e sarebbetornata da lui. Oppure lei avrebbeopposto resistenza e lui si sarebbeirrigidito e avrebbe usato parole tali daspezzare la sua volontà. Oppure luisarebbe stato rigido fin dall'inizio eavrebbe cercato di spezzare la suavolontà ma lei non glielo avrebbepermesso, la ragazza che era statacapace di conciare a quel modo lastanza del pianoterra avrebbe potuto

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continuare a guardarlo con durezza, conocchi non disposti a piegarsi e poi... epoi... non riuscì a completare il pensieroperché un'acqua scura gli inondò ilcervello come aveva inondato la suacasa e improvvisamente fu travolto dairicordi, quelli di cui non parlava mai,che gli si imposero contro la sua volontàe gli inzupparono la mente di sospiri,odori e suoni che dovette respingere epoi respingere ancora con la forzadisperata di un uomo che annega, e aquel punto, con orrore, capì che percontinuare a respingere quei ricordidoveva lasciare andare sua figlia. Soloallora vide davvero ciò che avevaperso, ed era raggiante come il sole. E,come il sole, accecava.

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14 - TU

Il giorno dopo la mia fuga da casa

andai alla sede delle Abuelas, unospazio accogliente e caotico nel centrodi Buenos Aires. Mi accolse Marta, unadonna gentile con un cardigan giallo egli occhi tristi. Mi ascoltò molto più alungo di quanto avessi in mente diparlare. Mi fece anche delle domande,ma non mi forzò a rispondere quando eraevidente che non ce la facevo. Riempìun formulario con i miei dati e mi

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prenotò l'esame del sangue. Ci volevaqualche mese, disse, per l'analisi delDNA. Nel frattempo volevo dareun'occhiata al libro dei genitoriscomparsi? Scrollai la testa. No, nonvolevo. Avevo fatto il massimo chepotevo, per quel pomeriggio. Usciidall'ufficio, entrai nell'ascensore equando mi ritrovai fuori, nella tiepidaaria di marzo, pensai: “E adesso?”.

Non ne avevo idea.La città era così piena e io così

vuota.Per nove ore non feci che camminare

e camminare, cercando chissà cosa,fissando porte, facce e grondaie con lalenta intensità di un'esule, anche se nonavrei saputo dire se stessi tornando alla

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mia terra natale o andando alla deriva inun paese sconosciuto. Scese la notte, siaccesero i lampioni. Mi ero persa. Dopocinque ore i piedi mi pulsavano daldolore. Mi tornò in mente una fiaba cheavevo letto da bambina, che parlava diuna sirenetta che voleva vivere sullaterraferma. Allora una stregatrasformava la sua lunga coda di pescein un paio di gambe, condannando peròper sempre i suoi piedi a dolori atroci –per lei ogni passo sarebbe stato comecamminare su schegge di vetro –affinché non dimenticasse mai la suacondizione di straniera né potessescordare la sua liquida patria. “Io perònon sono una sirena”, pensai, “e unapatria non ce l'ho.” Così continuai a

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camminare, un isolato dopo l'altro, lungovicoli e viali, e le gambe continuarono aportarmi in giro con una forzastupefacente, nonostante il male ai piedi,e, chissà, forse erano davvero incantate.Dopo le cose pazzesche che avevo visto,perché non credere anche a quest'ultimastoria stramba? Gambe nuove per unanuova vita. Nuove membra per unaragazza spezzata. “No”, pensai, “per unadonna spezzata”... e questo mi feceridere forte, senza far caso agliavventori di un bar all'aperto che miguardarono stupiti con l'aria di pensare:“Quella è fuori di testa”. Passai oltre econtinuai a camminare, attraverso lastrada, dietro quell'angolo, persa neldedalo infinito di Buenos Aires.

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Nelle settimane seguenti non fecigranché. Trascorsi lunghe ore sulbalcone di Gabriel (il nostro balcone,precisava lui), studiando o fingendo distudiare mentre la luce del soleinondava le pagine dei libri. Restai acasa da sola, con l'unica compagnia diLolo, che avevo portato con me come unpasseggero clandestino nascosto nellaborsetta, e lo fissavo mentre lui fissavala parete. Cucinavo con Gabriel, grataper le sue chiacchiere e per i dischi dijazz che riempivano il silenziosollevandomi dal dovere di farlo io. Dinotte, a volte, facevamo l'amore; altrevolte lui mi teneva abbracciata senzachiedermi niente, nemmeno laspiegazione delle mie lacrime. Che non

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avrei saputo spiegare nemmeno a mestessa.

In facoltà riuscii a rimettermi in parie a mantenere il mio rendimentoaccademico soprattutto grazie a Marisol,che mi passò gli appunti delle lezioni,accettò di studiare con me e mi ascoltòcon sincera amicizia. Quando unapersona cambia, non sempre gli amici laseguono là dove sta andando e a volte sistaccano da lei, tutto d'un colpo oppureun po' alla volta. È ciò che accadde conquasi tutte le mie amiche, ma non conMarisol. Anzi, ci scoprivamo più intimeche mai.

«Questa nuova Perla mi piace», midisse un giorno.

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«È un po' più fragile di quella diprima.»

«No, non è vero. Solo che adesso sadi che pasta è fatta.» Spesso, al mattino,restavo un po' a letto senza aprire gliocchi. Era strano svegliarsi nel cuoredella città invece che ai suoi margini,con la roca canzone dei motori già nelleorecchie insieme ai programmiradiofonici, alle grida, a tutte le vanecommedie della vita cittadina. Nei primitempi mi dava fastidio essere invasa aquel modo, senza tregua, ma ben prestosviluppai una sorta di tossicodipendenzae diventò impensabile svegliarmi inaltro modo.

Pensavo spesso all'uomo che erastato mio ospite. Il tempo trascorso con

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lui sembrava il più reale che avessi maivissuto, più vivido di tutti gli anniprecedenti. Mi mancava molto, ma avolte percepivo la sua presenza accantoa me. Lo sentivo nell'umidità opprimentedi una giornata afosa, in un improvvisorefolo di pesce marcio e rame che nonpoteva venire né dalla finestra aperta nédalla cucina. In uno sciaguattare laddovenon c'era acqua. In una ninnanannasommessa che calava su di me nel cuoredella notte. In quei momenti avrei volutotendere la mano a toccarlo, o correre dalui, ma non sapevo in quale direzionecorrere – a destra o a sinistra, avanti oindietro –, così mi arrendevo,accendevo una sigaretta e soffiavo ilfumo verso il cielo come un evanescente

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messaggio. Avrei tanto volutoraggiungerlo nel luogo dove stava.

Nei primi giorni, nemmeno la mortemi sarebbe sembrata un prezzoeccessivo. In fondo avevamo avuto solouna notte per stare insieme senzabarriere. Avevamo ancora tanteconversazioni da fare, tanti vuoti dellanostra vita da colmare, spazi che nonavevamo condiviso e che cisupplicavano perché li occupassimo,perché ci entrassimo, come se il passatoche ci era stato rubato fosse una grandetela bianca in attesa dei colori che solonoi avremmo potuto stendervi.

Ma non potevo morire; non c'eraalcuna garanzia che nella morte lo avreiritrovato, e anche quando mi sforzavo di

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immaginare il nostro nebulosoricongiungimento in una fluttuante sferadi luce, non lo vedevo mai accogliermi abraccia aperte. Al contrario, mispingeva via, Non puoi entrare, e alloraio dicevo, Ma come, ho fatto così tantastrada per raggiungerti, e lui michiudeva la sfera in faccia dicendo, Tusei quella che deve vivere. Mi sentivochiedere, Perché? e lui mi rispondevanell'unico modo possibile: Perché tupuoi.

Queste le cose che vedevo nel neroassoluto del soffitto mentre giacevosveglia accanto a Gabriel. In quellelunghe nottate sentivo il mondo stendersiattorno a me in ogni direzione, immenso,non cartografato, e mi vedevo come una

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barchetta disancorata. Come dondolavo.Come vorticavo su me stessa per ildolore. Che paura avevo dicapovolgermi. “Non ho più niente”,dicevo al grande spazio nero che miavvolgeva. “E invece no”, pensavo,“non è vero, fa' una lista e tienitelastretta: ho il mio corpo, ho la mia testa,la mia verità, le mie parole. Ho questoletto con dentro un uomo appassionato,una tartaruga con la mandibola rotta, unapila di libri di testo in attesa sulbalcone. E ho del tempo. Ho molti annidavanti, se il destino me li concederà, edevo trovare un modo per viverli.Perché io devo vivere. Ma non solo... iovoglio vivere.” Mi scoprivo dentro

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questa volontà e la tenevo stretta conentrambe le mani.

Nelle notti buone, in quello spazionero mi sembrava di vedere la danza dipiccole spirali, i fili attorcigliati delDNA, custodi dei segreti più sacri.Diventavano sempre più grandi,frustavano l'aria con la loro lunga coda evagavano qua e là per il buio.

Ovviamente pensavo molto ancheagli altri miei genitori. A quelli che miavevano cresciuta e che, pur nonconoscendo l'indirizzo di Gabriel,avevano sicuramente altri mezzi perrintracciarmi. Per quanto ne sapevo, nonci provarono mai. Per molto tempo miaspettai di veder comparire mio padrenel cuore della notte, di sentirlo bussare

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alla porta per ordinarmi di tornaresubito a casa. Distesa sul letto, vedevolui e Luisa irrompere nel nostroappartamento e precipitarsi su di meagitando le braccia e tendendole perschiaffeggiarmi o per trascinarmi via, oentrambe le cose. Ma prima diraggiungere il letto le loro sagome sidissolvevano nell'oscurità. Mi sforzavodi non pensare a loro, ma non ciriuscivo. Spesso cercavo di immaginarecom'era stato il loro ritorno a casa.Visualizzavo la scena e vedevo passaresui loro visi tutto un ventaglio diespressioni man mano che scoprivano ildiluvio che aveva devastato la lorocasa. E se l'irruzione notturna era forseun po' troppo teatrale, non era poi così

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improbabile che venissero a cercarmiall'università, se proprio volevanotrovarmi, dato che quello era un edificiopubblico, facilissimo da raggiungere, enessuno avrebbe potuto impedire loro diinvaderne i corridoi.

Non lo fecero mai. La cosa mi davaun'esaltante sensazione di vittoria ma altempo stesso mi dilaniava con un doloreinsopportabile. Mi chiedevo se sarebbemai successo... se Hector si sarebbe maimaterializzato nel corridoio che portavaa una delle mie aule per apostrofarmidavanti a tutti i miei compagni. Non sodire se fosse il mio incubo peggiore o ilpiù segreto e temuto dei miei desideri.Ogni volta che uscivo dall'aula, alla finedi una lezione, trattenevo il fiato e non

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lo buttavo fuori finché non avevolasciato senza incidenti l'edificio. Perme quell'uomo infestava i corridoidell'università, triste figura opalescenteche mi tormentava con la sua assenza. Avolte, in lontananza, vedevo una personacamminare per la strada e mi sembravaHector o Luisa, e allora il mio corpo siirrigidiva e si copriva di sudore, finchélo sconosciuto si avvicinava spezzandol'incantesimo. Non erano loro. Nonerano mai loro. Io ne ero felice e lodicevo chiaramente, sia a me stessa sia aGabriel.

«Non voglio mai più parlare conquei due.» Pensavo di vederlo sorriderecon aria di approvazione, per

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rassicurarmi, invece lui mi fissò consguardo indagatore. «Davvero?»

«Davvero.»«Nemmeno un'ultima volta?»«Perché mai dovrei?» Si strinse

nelle spalle. «Per dar loro modo dirispondere alle tue domande. In fondo telo devono.» Dapprima trovai difficileanche solo immaginarlo. Erano uscitidalla mia vita e volevo che ne restasserofuori. Non avevo voglia di ascoltare leloro spiegazioni inadeguate, le lorovoci, nemmeno il rumore dei loro passiche venivano verso di me. Ma una volta,mentre ero sdraiata al buio nei piùprofondi recessi della notte, incapace dizittire il clamore dei miei pensieri, perun attimo intravidi un tempo remoto in

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cui avrei anche potuto trovare la forza ela sfrontatezza di riprendere i contatti.Sarebbe accaduto solo in un futuro moltolontano, se mai fosse accaduto, e ancheallora di sicuro non in casa loro (chenelle mie fantasie era eternamente zuppae devastata, come il relitto di una nave).No, l'incontro sarebbe avvenuto incentro. Immaginavo una me stessa piùgrande, una donna che con gli anniavrebbe raccolto fiducia in sé stessa inqualche campo misterioso di cui ancoranon sapevo niente, e mi vedevo entrarein un bar per incontrare l'uomo di nomeHector, in attesa seduto a un tavolino. Ladonna sicura di sé avrebbe insistito perpagare caffè e croissant, e avrebbeguardato l'uomo dritto negli occhi anche

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quando lui avesse distolto lo sguardo.Avrebbe tenuto in mano tutte le suedomande come un ventaglio di carte dagioco, che sicuramente si sarebberoconfuse e sparpagliate non appenaavessero cominciato a parlare, nonappena lei avesse detto Se ti facciodelle domande, risponderai? e luiavesse annuito e poi obbeditoesponendo il terreno desolato fra diloro. Poi la donna sicura di sé avrebbetrovato il modo di prendere gli urgentibuchi di conoscenza che aveva dentro ecostringerli in parole, in frasi banali deltipo perché hai fatto questo o perché nonhai fatto quest'altro o che sogni hai fattoin tutti questi anni, domande cheavrebbero appiattito l'enormità di ciò

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che lei avrebbe voluto porgergli nellacoppa delle mani unite, ma è pur sempreil meglio che possiamo fare, no? Leparole sono incomplete, eppure neabbiamo bisogno. Sono i contenitori chedanno forma ai nostri ricordi,impedendo loro di sgocciolare via. Cosìlei avrebbe ascoltato le cose che luiaveva da dire. Le avrebbe lasciateentrare dentro di sé, avrebbe bevuto ilsuo caffè e immagazzinato le suerisposte in un punto del cervello saldo erobusto, dove non avrebbero potuto farledel male ma non sarebbero nemmenoandate perse.

Con un po' di fortuna anche luil'avrebbe ascoltata e allora lei avrebberaccontato la sua versione che, se lei

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fosse stata abbastanza coraggiosa elucida, avrebbe contenuto anche lui, quelbar affollato e l'Argentina intera.

Cinque settimane dopo la mia fugaandai con Gabriel a Montevideo perconoscere la sua famiglia. La casa eraaccogliente e disordinata, con fotografieappese un po' dappertutto.

Al centro del salotto troneggiava ilritratto seppiato di un uomo anziano, coni capelli ancora folti e un numeroincredibile di catene d'oro. Era il nonnodella madre di Gabriel, come mi disselei stessa, migrato in Uruguay dallaSpagna e proprietario di un circoviaggiante da lui battezzato Calaquita,«piccolo teschio», in onore del giornodella sua nascita, coincidente con la

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festa dei morti. Calaca, ovviamente, erauna parola messicana, esotica tanto pergli spagnoli che per gli uruguaiani...quasi altrettanto strana dell'abitudinemessicana di celebrare il giorno deimorti con musica, fiori e scheletridanzanti per le strade. Da piccolo, ilnonno era stato costretto a trascorrere ilgiorno del suo compleanno nel cimiterodel villaggio, insieme alla madre e allezie in lacrime, dolenti, completamentevestite di nero. E così, anche se lui sidivertiva a parlare del nome del suocirco quasi fosse chissà quale battuta dispirito, Talia lo aveva sempre intesotanto come una facezia quanto come unesorcismo, in parti uguali. Era cresciutaascoltandolo raccontare dei suoi viaggi

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in giro per il paese con quella carovanadi carri dipinti a colori vivaci, e delgruppo di eterogenei artisti di strada cheerano stati i suoi migliori amici.

«Tengo qui la sua foto», mi disse lamadre di Gabriel, guardandola con unacerta perplessità, «perché il nonno èstato la persona più eccentrica dellafamiglia.» Fu quel commento, più diqualsiasi altra cosa, a mettermi a mioagio. Avevo cercato di prepararmi aquell'incontro, incerta su cosa dovessiaspettarmi e preoccupata soprattuttoall'idea di conoscere la madre diGabriel. Poi, mentre percorrevamo iltragitto fra il traghetto e casa loro, miera sembrata un po' troppo gentile, unpo' troppo pronta a ridere delle mie

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battute, e avevo pensato che forse sicomportava così perché le facevo pena.Ma in seguito, a casa sua, in quella suagoffaggine vidi soprattutto un indizio delsuo fervido desiderio di mettermi a mioagio. Mentre mi accompagnava a vederele fotografie, mi prese sottobraccio conun gesto spontaneo, quasi spensierato.

«Chiamami pure Talia», disse. «E,per favore, niente “lei”, diamoci subitodel “tu”. Finirai col farmi sentirevecchia o peggio ancora micomunicherai che qui non ti senti come acasa tua.» Poi tutta la famiglia cominciòa preparare l'asado, con unprocedimento collettivo talmenteabituale che la suddivisione dei compitiavvenne quasi in automatico: il padre di

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Gabriel accese la carbonella e laalimentò con precisione scientifica,Gabriel e sua sorella Carla sparirono incucina a preparare la carne e io fuimandata fuori insieme alla sorellaminore, Penelope, a chiacchierare un po'davanti a un bicchiere di vino. Penelopeera la più taciturna della famiglia, ma sisciolse quando le chiesi dei suoi studi.Era talmente appassionata di chimicache avrei potuto ascoltarla per ore. Nonne capivo molto, ma mi sembravaaffascinante quel racconto di molecole,ioni e nuvole di elettroni che miricordava i grafici che ci facevanodisegnare a scuola, con gli atomicollegati fra loro da linee e frecce senzapunta: un modo piuttosto ingegnoso, a

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ben vedere, di ordinare l'universo, anchese quell'aspetto dell'universo stesso eratroppo minuscolo per essere visibile aocchio nudo. “Il mondo è stato scritto inuna grafia microscopica che l'occhioumano non può nemmeno cominciare apercepire”, pensai fra me e me mentrePenelope mi versava dell'altro vino ericominciava a parlare.

Il ragazzo di Carla ci raggiunse percena e ci stringemmo attorno al tavolodel patio con la tovaglia a quadrettiricamata a mano. Parlavano tuttiinsieme. Bisticciavano, ridevano.Sembrava che non fossero maid'accordo su niente e che quelledivergenze li divertissero un mondo.Nessuno mi forzò a parlare né accennò

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ai miei genitori, né pronunciò la parola«desaparecido». Il mio bicchiere erasempre pieno di vino,indipendentemente da quanto ne bevessi.Gabriel aveva l'aria di un bambino cheapre un regalo a lungo desiderato.

Dopo mangiato, al tramonto,andammo sulla Rambla, il lungo vialeche costeggia il fiume. Molte altrepersone erano uscite a passeggiarevicino all'acqua, con in mano la zuccadel mate come si usa in Uruguay,versando l'acqua bollente da un thermosnella zucca ovunque si trovassero,all'aperto, su una panchina, sugli scaliniche scendevano all'acqua ocamminando, invece di restare in cucinacome si fa in Argentina. Passeggiammo

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in un delicato grappolo amebico.Gabriel mi teneva il braccio attorno allespalle e ripensai all'ultima volta in cuiavevamo passeggiato insieme su unaspiaggia uruguaiana, prima, prima chetutto avvenisse. Ovviamente era stato aPiriapolis, non a Montevideo, ma facevalo stesso, la lunga distesa scura davantia noi era il Rio de la Plata, il fiume checonoscevo fin da piccola, solo vistodall'altra sponda. Com'era vasto. E chestrana sensazione camminare su unasponda e immaginare l'esistenzadell'altra.

Talia mi si avvicinò con la zucca. Inquella famiglia era lei l'insindacabilecebadora, la persona addetta a servire il

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mate, ed era venuto il mio turno. Presi lazucca dalle sue mani e bevvi.

«Perla», mi disse poi sottovoce. «Semai ne avessi voglia. Non so, capiscicosa voglio dire. Di parlare.» L'infusoera perfetto, amaro e rinfrescante. Lazucca gorgogliò mentre succhiavol'ultimo sorso.

«Va tutto bene, mamma», disseGabriel.

«Voglio solo farle sapere che...»«Non starle addosso.»«Non le sto addosso. Ti sto addosso,

Perla?» Le resi la zucca e scrollai latesta.

«Ascolta, so che ci siamo appenaconosciute. Voglio solo dirti che ci sono.In fondo le madri per una ragazza non

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sono mai abbastanza.» Un colpo diaccetta in mezzo al petto. La notte,subitamente distrutta, giaceva a pezzi aimiei piedi.

«Mamá.»«Oddio. Ho detto la cosa sbagliata.»

Talia sospirò. «Scusa. A volte mi capitadi dire cose sbagliate.» Avrei volutorisponderle, ma troppe cose miinfuriavano dentro e non osai aprirebocca. Sarebbe stato meglio se nonavessi bevuto tanto vino.

«Scusa», ripeté e si dileguò.Qualche minuto dopo la famiglia si

fermò su un frangiflutti protesosull'acqua, si fermò come un sol uomo,come un maledetto sol uomo, quellafamiglia e i suoi stramaledetti rituali di

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tutta una vita. Gabriel mi condusse unpo' oltre, su uno scoglio dove potevamostare soli.

«Stai bene?» Mi appoggiai contro dilui e ascoltai il ruggito che avevodentro, nel quale si infiltrava un lievesussurro che diceva, Non è colpa sua,non è colpa sua, l'accetta era già lì e tucontinui a caderci sopra quando meno tel'aspetti, ma un giorno avrai una pellenuova e sarai una donna che potràcamminare lungo un fiume senza chedelle semplici parole rischino dispaccarla in due. Non ci credevo molto,a quel sussurro, ma mi ci aggrappaicome a una gomena di salvataggio.

«A volte è un po' indelicata, miamadre. Ma le sue intenzioni sono buone.

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Vorrebbe sinceramente esserti amica.»«Gabo.»«Mmm.»«Non parlare.»«Va bene.»«Starò bene.»«Okay.»«Voglio solo stare qui e guardare

l'acqua. Vuoi guardare l'acqua insieme ame?» Annuì. Continuammo a guardare insilenzio e, quando la sua famiglia si alzòe se ne andò, restammo là per ore e ore,io e lui da soli, insieme davanti algrande fiume, ad attraversarne lasuperficie con gli occhi tracciandoinfinite traiettorie nel buio.

Ciò che non avrei mai immaginato,quella sera, è che la madre di Gabriel

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sarebbe poi diventata una delle miemigliori amiche. Stasera, a distanza disei anni, mentre me ne sto qui sedutadavanti alla finestra aperta, possoassicurarti che Talia è una delle personepiù generose che incontrerai a questomondo. Il giorno della mia laurea sipresentò con un mazzo di fiori talmentegrande che quasi non riuscivo a vederlamentre avanzava verso di me tenendolofra le mani, e pianse come se avesseatteso quel momento per anni. E un annodopo, quando sposai suo figlio, fu il suoabito da sposa che indossai, stretto in unpunto e allargato in un altro, adattato auna nuova sposa ma proprio il suo abitobianco, con i suoi pizzi classici e il suostile anni Sessanta. Quel giorno, quando

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mi disse: «Per me sei come una figlia,Perla, la mia terza figlia», fui in grado diascoltare quelle parole esattamente nelsenso che avevano per lei, con gioia eamore e quasi senza dolore.

Sei anni. Ovviamente non ho ancorafinito di diventare me stessa; quella deldiventare è una strada che non finiscemai. Ma oggi sono una persona diversadalla ragazza spaventata e spezzata chescappò da una casa dei quartieriresidenziali per provare a salvarsi lavita. In quanto psicologa, ogni volta cheun paziente entra nel mio studio restosbalordita dalla sua fiducia e dal modoin cui la nostra conversazione, a poco apoco, apre e dipana il suo labirintointeriore di luci e d'ombra. Questo

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lavoro mi dà forza e mi espande. Comeil matrimonio. Perché il matrimonio, hoscoperto, non è semplicemente lo spaziovuoto fra due persone, la somma passivadi due parti, ma un animale a sé stante,con un suo respiro e una suamuscolatura, con un suo ritmo,insistente, e dei suoni propri, inimitabili.Ci mette alle strette. Ci fa dellerichieste. Ci sbalordisce con la suabellezza. Ci traina quando ci sentiamostanchi o perduti. È questo che io eGabriel abbiamo formato: un legamecosì intenso da avere una vita e unmovimento propri.

E tutto ciò è ancora più vero daquando ho dentro te.

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Come sei perfetta. Sussurri di unaperfezione quasi insopportabile. Unditino del piede, una vertebra, unapalpebra, ogni tua parte è unarivelazione; dove le tenevaimmagazzinate, il mio corpo, leconoscenze necessarie a creare te?Quanti altri corpi si sono tramandatiquelle conoscenze, di era in era, affinchétu ora potessi raggomitolarti così dentrodi me, piccola e completa e pronta anascere? Poco dopo aver scoperto diessere incinta, ho imparato che lebambine hanno tutte le loro uova giàformate, in miniatura, fin da quando sononell'utero. Questo significa che l'uovo dacui sei nata tu era già dentro di me primache io nascessi. Vale a dire che quando

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ero dentro mia madre, di cui non ho maivisto il viso, un piccolo bagliore di teera già lì, una piccolissima scheggiadentro una bambina piccola dentro unadonna. Quando la fecero sparire,dunque, insieme a lei fecero sparireanche me e te. Per questo ogniricomparsa – tua, mia, nel futuro –appartiene in ugual misura a tutt'e tre.Ecco perché ho passato la notte davantialla finestra aperta per raccontartiquesta storia, per prepararti al mondo oforse per preparare il mondo a te.Perché è la tua storia, ma anche la storiadi tutti, e la tua esistenza ha già portato auna comprensione nuova: adesso che tiho avuto nel mio corpo, vedo conmaggiore chiarezza la profondità di ciò

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che è andato perso. Portarti dentro hagenerato nuove alluvioni di dolore, mami ha aiutato anche a vedere laprofondità di ciò che non può andareperso, fili infrangibili, invisibili allamente, incancellabili dal corpo.

Il corpo è il primo regalo chericeviamo; il secondo è il nome. E tu, iltuo, ce l'hai già: Gloria. Possiedi tuttociò che serve per affrontare il mondo eormai sei pronta a entrarvi, lo so per viadi queste prime contrazioni che premonoe rabbrividiscono lungo il mio corpo.Dolorose ed eccitanti. Non sonoabbastanza grande per tenerti ancoradentro di me, hai bisogno di più spazio,dico bene? È ora che io ti dia, come sidice, alla luce.

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All'inizio avevo paura del parto, maadesso non più. Non so se sono pronta adiventare madre, ma so che non c'èniente, assolutamente niente che desideridi più di incontrarti faccia a faccia, distringerti a me, di guardarti negli occhi.Il mondo ricomincerà daccapo, con te.Lo so che sembra una formulazioneesagerata. Ma ogni neomamma ne èconvinta, e – chissà – forse abbiamotutte ragione, forse accade ogni volta,milioni di volte al giorno in tutto ilpianeta. Nasce un bambino, il mondo sirinnova. Accadrà anche oggi, fra pocheore, quando uscirai da me. Sono sicurache sarà prima della mezzanotte perchého sempre saputo che saresti arrivata il2 marzo, per questo non mi sono stupita

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affatto quando sono cominciate lecontrazioni, ieri sera, dopo che tuopadre è andato a dormire lasciandomisola qui sul balcone a guardare le stradedi quella che presto sarà la tua città,Gloria, e a ripensare a tutto il passato,per te ma anche per me. Adesso le ondesono più ravvicinate; sei tu che ruggisciper nascere. E io rinascerò insieme a te,Gloria, come tutte le mamme del mondo.Ci sono ancora tante cose che vorreiraccontarti su questi ultimi anni, su unlungo passato e su un futuro ancora piùlungo, ma stanotte non ti dirò più nienteperché ormai è ora di andare. Nell'altrastanza Gabriel sta ancora dormendo, conla valigia a portata di mano per il nostrobreve soggiorno in ospedale. L'ha

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preparata lui stesso, con estrema cura,come se la sicurezza del tuo arrivodipendesse dalla perfezione con cuipiegava i tuoi minuscoli pigiami. L'hafatta e rifatta più volte, risistemandone ilcontenuto all'infinito, finché non gli hodetto: «Gabo, non preoccuparti, è tutto aposto, la valigia è perfetta, sarai unpadre meraviglioso». E allora, per unmomento, mi è sembrato più spaventatoche mai, nonostante tutto quello cheabbiamo passato, così ho preso il suoviso tra le mani e me lo sono appoggiatosul pancione affinché potesse sentire ituoi calcetti sulla guancia. Non si stancamai, di quei calcetti. Aspetta solo diconoscerlo... non ci vorrà molto, anzi,accadrà prestissimo. Vorrei parlarti

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ancora, ma ormai le contrazioni sonotroppo forti e comunque ci sarebberosempre altre cose da dire, perché lastoria non finisce mai, e continuerà atornare in cerchi infiniti per tutta la tuavita, almeno fintanto che io sarò qui conte per potertela raccontare. Lascia che tidica solo un ultimo pezzetto e poiandremo a svegliare papà.

La telefonata arrivò due mesi dopola mia fuga dalla casa di Hector e Luisa.Ero in cucina a lessare le zucchine perLolo.

«Perla?»«Sì, salve.»«Sono Marta, chiamo dalla sede

delle Abuelas.»«Come stai?»

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«A meraviglia», disse lei e la suavoce era allegra come una mongolfierain volo. «Abbiamo trovato unacorrispondenza.» Fissai la pentola cheormai aveva cominciato a bollire,grosse bolle che venivano a gallasilenziosamente e scoppiavano sullasuperficie dell'acqua.

«Il nome di tua madre era Gloria.» Ilvapore si levava torcendosi e io nonriuscivo più a muovermi.

«Gloria Rossella Ramos. I suoigenitori ti hanno cercato, e anche quellidi tuo padre. Lui si chiamava AdelmoRossella.» “Adelmo”, pensai edesiderai che in quel preciso istante luitornasse da me per potergli comunicareciò che avevo scoperto, restituirglielo,

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Ecco, questo è il tuo nome, puoiassumerlo di nuovo. Adelmo. Martastava ancora parlando, ma io non lasentivo quasi più attraverso il vaporescintillante che sembrava riempire lastanza, saturare la mia pelle earrampicarsi fino al soffitto e oltre,attraverso gli altri appartamenti,attraverso il tetto, fino all'azzurra voltadel cielo.

«Perla? Ci sei?»«Sì, ci sono. Ci sono.»«So che tutto ciò sarà sconvolgente,

ma... i tuoi nonni non ce la fanno più adaspettare, vogliono conoscerti. E le zie egli zii. I cugini. Sei ancora disposta aincontrarli?»

«Sì.»

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«Quando?»«Loro quando potrebbero?»«Quando vuoi tu. Sono pronti.

Dipende solo da te.»«Oggi?»«Se per te va bene.»«Alle sette?»«Se per te va bene.» L'acqua

tracimava dal bordo della pentola,allagando i fornelli. Abbassai lafiamma. «Sì. Va bene.» Ci salutammo eriagganciai. Gabriel si affacciò nel vanodella porta, con una speranza schiettadipinta sul viso. «Li hai trovati?»

«Sì. Loro hanno trovato me. Cisiamo trovati a vicenda.»

«Perla», disse, poi si bloccò, comese non ci fossero parole con cui

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affrontare quel momento.«Li incontrerò stasera.»«Vuoi che venga con te?» Scrollai la

testa. Sapevo che, almeno per quellaprima sera, dovevo andarci da sola.Nessuno poteva varcare quella sogliainsieme a me, nemmeno Gabriel.

Cinque ore dopo ero in

metropolitana e fissavo le persone chemi stavano attorno – persone solenni, otormentate, o chiuse, o orgogliose, oazzimate, o sole – come se fossi appenaatterrata sul loro pianeta, nella lorocittà, buon signore, potrebbe dirmi comedevo interpretare questo posto? Il trenopercorse velocemente le gallerie buiefino alla mia stazione e dai sotterranei

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della metropolitana fui rilasciata nellaluce. Il sole si librava sopra i tetti deipalazzi del centro e io avrei potutogridare al cielo e ai comignoli miamadre si chiamava Gloria, ma trattennil'urlo e lo lasciai a intorbidirsi làdov'era mentre raggiungevo l'edificioche, al terzo piano, ospitava la sededelle Abuelas. Spinsi il portone baroccoin legno che infinite persone prima di meavevano aperto e chiuso, per centinaiad'anni nella storia di questo paese,premetti il bottone per chiamarel'ascensore e quando lo vidi arrivaretrattenni il fiato e non buttai fuori l'ariamentre le porte si chiudevano e salivo,secondo piano, terzo piano, finché leporte si aprirono a destra e a sinistra e

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là, nell'ingresso rivestito di pannelli dilegno, c'era una folla di persone che nonavevo mai visto ma che mi fissavanocon le mani aperte e sul viso la stessaespressione che devono avere avuto iparenti di Lazzaro vedendolo tornaredalla morte. Facce sospese fra la gioia,il singhiozzo e l'esclamazione, cheaspettavano solo che facessi quell'ultimopasso per uscire dall'ascensore edentrare fra loro, e quando lo feci deisuoni si riversarono da quelle personecarichi di tutta la gioia e il dolore chefinalmente potevano lasciare andare.Furono due donne le prime a correreverso di me. Gli altri parenti che lecircondavano cedettero loro il passo,come se il loro slancio fosse l'unico

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passo possibile in una danza dallacoreografia antica. Avevano i capellibianchi, erano nonne, con gli orecchinid'oro e la camicetta della festa, lebraccia tese all'unisono, e tutt'e duesorridevano, e tutt'e due piangevano, emi abbracciarono da entrambe le partidicendo: «Sei tu, sei proprio tu». Prestoci sarebbero stati nomi da imparare,cose da mangiare e risate a golaspiegata, ma in quel momento per me lebraccia di quelle due donne furono ilmondo. Mi abbandonai al loroabbraccio, un abbraccio lungo e feroceche parlava e parlava di cose da lungotempo perdute e di cose a venire e dicose che non erano mai stateabbandonate. Nessuna delle tre lasciò

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andare le altre. Ci tenemmo strette e inostri corpi continuarono a parlarementre il sole del tardo pomeriggio siraccoglieva in un grande mantello tuttoattorno a noi.

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Ringraziamenti

Nel suo racconto La biblioteca di

Babele, Jorge Luis Borges descrive ununiverso nel quale un numero infinito discaffali contiene tutte le espressioniscritte che gli esseri umani sono in gradodi creare. Solo lì potrei sperare ditrovare l'elenco completo della miagratitudine, altrettanto vasta e ramificata.Per il momento, e fintanto che quellabiblioteca infinita non si rivelerà, dovròaccontentarmi di questo modestoabbozzo.

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Per le ricerche: grazie a mia ziaGuadalupe Lopez Ocon, per avermiaccompagnata su e giù per le strade diBuenos Aires inseguendo le tracce diquesta storia, e per la dedica che fecealla mia copia di Nunca mas; a mia ziaCuti (Ester Maria Lopez Ocon), perl'impareggiabile ospitalità e per avermarciato con me tra le Madres de Plazade Mayo; e a tutte le mie zie, i miei zii ei miei cugini dei rami argentini dellafamiglia, i Batllas e i Lopez Ocon, peravermi ospitata, istruita e accudita intutta la fase di caccia e raccolta da cui ènato questo libro.

Grazie a Vanesa Gonzalez-Rizzo e aNatalia Bruschstein, per aver condivisocon me le loro storie più intime in una

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lunga nottata a Città del Messico. AEvelyn Rinderknecht Alaga, per i libri.Alle Madres e alle Abuelas, per ognisingola goccia di ciò che hanno fatto econtinuano a fare. A Horacio Verbitsky,Ernesto Sabato, Marguerite Feitlowitz,Jacobo Timerman e a tutti gli altriscrittori che con la loro pennacoraggiosa e inesorabile hanno regalatoal mondo e a me delle fontiinsostituibili. Ai registi Estela Bravo ePeter Sanders, per avermi mandato unacopia dei loro potenti documentariQuien soy yo? e The Disappeared.

Per la scrittura sono in debito conMicheline Aharonian Marcom, sotto lacui brillante guida è nato questo libro.Ho un debito anche con Daniel Alarcon,

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per le sue luminose intuizioni e la suaguida. Ringrazio il Programma MFA delMills College, la HedgebrookResidency e il Macondo Workshop perlo spazio e il sostegno che mi hannodato, e Fernando Sasco ed EnriqueLoedel del consolato uruguaiano inCalifornia per la loro costantegenerosità. Ringrazio anche i seguentiamici, che hanno riletto le bozze o mihanno aiutato in altri modi: Leila Abu-Saba (ci manchi, querida), EduardoCabrera, Sara Campos, Hector MarioCavallari, Aya de Leon, Marcelo deLeon, Jenesha de Rivera, FrancesHwang, Shanna Lo Presti, Marc AnthonyRichardson, Julia Azar Rubin, Cleavon

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Smith, Joyce Thompson e AllisonTowata. Siete stati tutti fantastici.

Nel mondo dell'editoria, grazieinfinite a Victoria Sanders, mirabolanteagente ed essere umano, i cui poterisono così formidabili che dovremmotutti esserle grati se, come gli jedi, li usasolo a fin di bene. Grazie anche ai suoifantastici associati, Chris Kepner,Bernadette Baker-Baughman e BeneeKnauer, che ogni giorno fanno accaderetantissime cose. A Chandler Crawford,straordinario agente per l'estero, per lasua capacità di operare infiniti miracoli.E a Sara Nelson, il cui grande sostegnoe la cui fede nei miei libri mi fannosentire piccola.

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Quanto alla mia editor presso laKnopf, Carole Baron, la sua passione, lasua genialità e la sua dedizione sonosicuramente senza pari. Per questo libroè stata lei a fare la differenza... e chegioiosa differenza! Un grazie di cuoreanche a Sonny Mehta, per la guida el'intenso entusiasmo. Anche EmilyMilder, un altro membro dello staff dellacasa editrice, mi ha regalato commentiincisivi per i quali le sono molto grata.Lo stesso vale per tutti i redattori dellaKnopf e della Vintage, per non parlaredei miei quindici e passa editori esteri:per me siete tutti supereroi. Per andareal lavoro dovreste mettervi un mantellorosso.

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Infine voglio ringraziare la miafamiglia, a cominciare da PamelaHarris, moglie e sorella dell'anima,senza la quale niente di tutto ciò sarebbestato possibile, per continuare poi ingiro per il mondo in tutti i posti in cui siè sparpagliato il clan De Robertis –Marazzi – Canil – Martinez – Grimaldi– Batlla – Lopez Ocon – Pascal –Aldama – Edwards – Friarson. Unamappa del mio cuore sarebbe pienadelle strade che portano a voi.