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1
Makers. Analisi sociologica di un
fenomeno emergente
Di Francesca Santangelo
2
Indice
1. Chi sono i makers …………………………………………………….………. 3
2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab ….................. 5
2.1. The Fab Charter ………………………….…………………...………….. 8
3. La dimensione globale del fenomeno ………………………..………....…... 10
4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia ……………….…………………... 13
4.1. FabLab Torino ….…………………………………………….…..…. 13
4.2. FabLab Firenze ……………………………………........................... 18
4.3. Frankeinstein Garage e l’elettronica della sciura Maria ………….... 23
4.4. FabLab Palermo …………………………………………………….. 26
4.5. Un profilo comune con prospettive eterogenee …………….………. 29
5. La Terza Rivoluzione Industriale …………………………….……….……. 32
6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i maker ………………..… 37
7. Sfide: limiti e opportunità ………………………………………………...... 43
7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole ………………... 43
7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business ………………..……. 46
7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding ……………………...… 48
8. Verso un futuro artigiano? Un focus sull’Italia ………………………….…. 52
8.1. L’artigiano: il valore di un immaginario ……………………….………. 53
8.2. Dal laboratorio artigiano all’alta tecnologia ………………….……….... 57
8.3. Il Bel Paese fra tradizione e innovazione: un nuovo made in Italy? ….... 62
8.4. Una fabbrica di successo ……………………………...……………….. 66
8.5. Il futuro: artigiano e digitale …………………………………………… 68
8.5.1. Quando il maker si fa impresa ………………………..…...…. 70
3
8.5.2. Differenze e considerazioni …………..……………………… 74
9. Proposte per una formazione artigiana …………………………………….. 77
9.1. In cerca di nuove competenze ……………………………………... 78
9.2. Ripartire dalle scuole: approccio creativo e digitalizzazione …….... 81
9.2.1. Ripensare un modello d’apprendimento ……………………... 81
9.2.2. Digitalizzazione e istruzione dal basso .................................... 84
9.3. La stampa 3D: una nuova frontiera dell’insegnamento …………... 86
9.4. Del perché la Terza Rivoluzione Industriale è un affar di Stato….. 92
10. Considerazioni conclusive ………………………………………….……... 96
Bibliografia ……………………………………………………......….. 100
Sitografia ………………………………………………….………..… 102
4
1. Chi sono i makers?
“La trasformazione più grande non riguarda il modo in cui le cose vengono fatte, ma
chi le fa”1.
Con questa frase Chris Anderson, giornalista ed ex direttore di “Wired Usa”,
definisce la nuova rivoluzione digitale in atto.
Risulta infatti appropriato, in questa sede, sottolineare l’elemento specifico che, al di
là del dato tecnologico, rende il tema di cui ci accingiamo a discutere fortemente
innovativo, ovvero lo slittamento da una produzione possibile esclusivamente
attraverso economie di scala e grandi fabbriche, ad una gestibile autonomamente dal
singolo individuo.
Un esito che costituirebbe una sorta di riappropriazione degli strumenti di produzione
da parte del singolo cittadino, e che dunque l’autore sopracitato non esita a definire
“la nuova rivoluzione industriale”, mentre The Economist parlerà nello specifico
della “Terza Rivoluzione Industriale”.
Si tratta di un Movimento prevalentemente socio-economico e culturale, di cui si è
soliti segnare l’inizio con il lancio della rivista Make nel 2005.
Anderson parla di un Movimento caratterizzato da tre elementi precipui e
trasformativi: si tratta di persone che utilizzano strumenti digitali desktop per creare
prototipi e prodotti, muovendosi in un orizzonte culturale che prevede la
condivisione dei progetti per mezzo di community online e la possibilità, in ultimo,
d’inviare i progetti ai service di produzione commerciale per fabbricarli in maggior
quantità, riducendo per questa via il percorso dall’idea all’imprenditorialità e facendo
sì che la distinzione fra imprenditore e appassionato sia ridotta ad un’opzione del
software2.
Si tratta dunque di una manifattura che permette di creare a qualsiasi scala, non più
soltanto su scala industriale, e che anzi guarda con particolare interesse a
customizzazione e produzione in piccoli lotti.
Interessante la definizione adottata da Jason Kootke, blogger e web designer, che
parla in proposito di “small batch” - lotto minimo - espressione in genere riferita al
bourbon, che implica quella cura artigianale che caratterizza tutte quelle imprese che
1 Chris Anderson, Makers. Il ritorno dei produttori, Rizzoli, 2013, p. 22. 2 Cfr. ibidem, p. 26.
5
mirano a mettere l’accento sulla qualità dei prodotti piuttosto che sulla dimensione di
mercato.
Per Stefano Micelli, docente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia di Economia
e Gestione delle Imprese, i cosiddetti makers sarebbero dei creativi caratterizzati da
uno stile di vita più aperto alla diversità ed in ultima analisi coloro che lavorano con
le proprie mani e che fanno le cose.3
L’origine del termine risale ad un romanzo, Makers, scritto da Cory Doctorow nel
2009, in cui, in una delle frasi più profetiche, si afferma: “Il futuro non sarà delle
General Motors, delle General Electric, delle General Mills, ma di nuove aziende
chiamate Local Motors, Local Electric, Local Mills”4, ovvero, secondo Riccardo
Luna, giornalista e primo direttore dell’edizione italiana di “Wired”, di startup che
uniscono la cultura digitale con la produzione di oggetti reali, in una parola, di
startup di makers.
Parimenti rilevante, soprattutto per la storica realtà italiana, ed in special modo
distrettuale, il fenomeno rappresentato dai veri e propri artigiani digitali, i crafters,
ovvero coloro che si servono di alcuni strumenti digitali, come laser e stampanti 3D,
per creare i propri oggetti, tanto che per Luna si può agevolmente parlare di un
“grande ritorno del fatto a mano”, basato sul tentativo di fare emergere una nuova
economia dal basso: passare dai negozi alle reti, dai consumatori alle comunità di
interessi, dai prodotti alle storie5.
Nel lavoro che segue ci si concentrerà su quali siano gli utensili principali di lavoro
dei suddetti makers, sul seguito ed i potenziali di un simile movimento, focalizzando
l’indagine in particolare sull’Italia, basandoci anche su interviste svolte sul territorio,
e sulle tipologie di prodotti che sono e che potrebbero potenzialmente essere
avvantaggiate da tale modo di produzione.
Ci si soffermerà inoltre sulle possibilità offerte dal fenomeno in chiave nazionale,
considerata la propensione artigianale e distrettuale di gran parte delle attività locali e
sui volti al momento presenti nel nostro Paese che rispondono propriamente al ruolo
di maker o crafter, sia in ambito educativo e sperimentale, per quanto riguarda
specialmente il fenomeno dei FabLab, sia in ambito più strettamente
3 Cfr. Stefano Micelli, Futuro artigiano, i Grilli Marsilio, 2011, p. 16. 4 Riccardo Luna, Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori, Editori Laterza, 2013, p. 38. 5 Ibidem, p. 46.
6
imprenditoriale, osservando come quella di maker nel nostro Paese sia spesso una
figura che incrocia molteplici percorsi e profili.
Tuttavia, ed è questo l’elemento che permette al fenomeno oggetto del nostro studio
di presentarsi come radicalmente rivoluzionario per l’attuale assetto sociale, “we are
born makers. We don’t just live, but we make. We create things”, come afferma Dale
Dougherty, editore e pubblicista della rivista Make, nonché inventore della termine
“web 2.0”6; come si vedrà, dunque, il fenomeno si presenta in forma fluida, e non
esiste, in senso stretto, un profilo che racchiuda in sé tutte le caratteristiche che
determinano l’essere maker in quanto tale.
Sulla stessa linea di pensiero, Chris Anderson riflette: “Se amate cucinare, siete dei
makers in cucina e il forno è il vostro banco di lavoro. Se amate le piante, siete
makers in giardino. Lavoro ai ferri, decoupage, ricamo: siamo tutti makers”7.
Nel corso della presente trattazione si farà riferimento ad esperienze professionali e
concetti afferenti a campi e discipline apparentemente molto diversi fra loro, dando
luogo ad una raccolta di casi e studi eterogenea, ma il cui collante e filo conduttore
risulta essere l’idea stessa di creatività e la dimensione del fare nelle loro molteplici
interazioni con l’ambiente lavorativo. Scrive infatti lo studioso ungherese Mihaly
Csikszentmihalyi: “La creatività è un processo durante il quale un ambito simbolico
della cultura è modificato. Nuove canzoni, nuove idee, nuove macchine sono ciò di
cui è fatta la creatività”8.
Si tenterà dunque d’indagare quali conseguenze sociali, politiche ed economiche si
possano determinare quando nuove idee, nuove macchine e forse anche nuovi
mestieri, creano nuova conoscenza e rinnovate comunità del fare.
2. Dal personal computer al personal fabricator: cos’è un FabLab
Nel suo libro dedicato all’argomento - Fab. Dal personal computer al personal
fabricator - Neil Gershenfeld, docente del Massachusetts Institute of Technology e
Direttore del relativo “Center for Bits and Atoms”, nonché ideatore del primo
FabLab, propone un interessante accostamento fra il passaggio dal mainframe
computer (il predecessore dell’odierno computer, il cui utilizzo era essenzialmente
6 http://www.ted.com/talks/lang/it/dale_dougherty_we_are_makers.html 7 Chris Anderson, op. cit., p. 15. 8 Cito da David Gauntlett, La società dei Makers, 2013, i Grilli Marsilio, p. 30.
7
limitato ad università, grandi aziende e centri di ricerca) al personal computer e al
momento in cui le potenzialità delle macchine utensili per la fabbricazione
diventeranno usufruibili dal singolo attraverso il personal fabricator.
Gershenfeld, da sempre interessato alla dimensione interdisciplinare di informatica e
fisica, ritiene però che questa volta “le implicazioni saranno probabilmente ancora
più grandi, poiché ciò che viene personalizzato è il nostro mondo fisico di atomi,
piuttosto che il digitale mondo di bit dei computer”9.
Questa consapevolezza, proviene all’autore dall’entusiasmo raccolto fra studenti - e
non – nell’inaugurare nel 1998 il suo corso tenuto al MIT ed intitolato How to make
(almost) anything, corso di introduzione all’utilizzo degli strumenti di fabbricazione
digitale, che avrebbe dovuto rivolgersi ad un ristretto gruppo di studenti degli ultimi
anni. “Immaginate la nostra sorpresa allora - racconta il docente - quando circa un
centinaio di studenti si sono presentati. Erano tanto artisti e architetti quanto
ingegneri”; aggiungendo poi che la seconda sorpresa era che quegli studenti non si
trovavano lì per le proprie ricerche o per motivi accademici, ma semplicemente
poiché volevano costruire oggetti che avevano sempre desiderato, ma che non
esistevano (non ancora, almeno), e che dunque “la loro motivazione era il puro
piacere personale di creare ed utilizzare le proprie invenzioni”10
.
Un elemento oltremodo interessante ed innovativo risiede nello stesso processo di
apprendimento sperimentato: quest’ultimo era condotto dalla domanda di
conoscenza, piuttosto che dalla sua offerta, “una volta acquisita una nuova capacità,
gli studenti erano colti da un interesse quasi evangelico di mostrare agli altri come
usarla; quando avevano bisogno di nuove competenze per i loro progetti, le
imparavano direttamente dai propri compagni, dopodiché passavano tali conoscenze
ad altri ancora”11
.
L’autore parla in proposito di un modello educativo just in time, contrapposto al
tradizionale just in case, ovvero un processo che implica una sorta di “insegnamento
a richiesta”, piuttosto che occuparsi di portare a compimento “un programma
precedentemente pianificato che si spera includa qualcosa che poi tornerà utile”12
.
In evidenza dunque quel caratteristico modo di lavorare nel settore della
progettazione e fabbricazione digitale, che si può riscontrare attraverso le interviste
9 Neil Gershenfeld, Fab. Dal personal computer al personal fabricator”, Codice, 2005, p. 5. 10 Ibidem, pp. 7-8. 11 Ibidem, p. 9. 12 Ibidem.
8
ad alcuni FabLab presenti sul territorio italiano al termine di questo paragrafo,
caratterizzato dal metodo del knowledge sharing, un sistema volto al miglioramento
dell’efficienza di un’organizzazione attraverso la condivisione e la valorizzazione del
capitale intellettuale.
Si riscontra ugualmente una simile tensione nelle reti di makers, basate
essenzialmente su community online, il cui obiettivo è condividere esperienze e
conoscenze, innestandosi su modalità aperte di creazione di informazione, poiché
“nelle comunità di innovazione aperta, i partecipanti si autoselezionano; ad attirarli
sono progetti interessanti e gente ingegnosa, e quando il lavoro viene svolto
pubblicamente, hanno la possibilità di trovarlo”13
.
Nasce così l’idea di Gershenfeld di creare dei FabLab, per esplorare le implicazioni e
gli sviluppi della fabbricazione digitale nel mondo.
Si tratta di laboratori per la fabbricazione, o semplicemente di laboratori “favolosi”, a
seconda di come lo si voglia interpretare, come afferma l’autore (“fab” in inglese è la
forma abbreviata di “fabulous”), costituiti da un insieme di macchine e strumenti
organizzati da procedure e software sviluppati per costruire.
È importante sottolineare che non si tratterebbe di un’organizzazione statica, poiché
l’intenzione è quella di rimpiazzare parti del FabLab con parti costruite al suo
interno, finché il laboratorio stesso non giunga ad autoriprodursi14
.
In seguito, nel 2002, il “Center of Bits and Atoms” approva l’ampliamento del
progetto iniziato con il corso presso il MIT, inaugurando un laboratorio grazie ad uno
stanziamento di fondi da parte della “National Science Foundation”.
Nasce così, con un investimento di cinquantamila mila dollari di attrezzature e
ventimila mila di materiali, il primo FabLab della storia, presso il “South End
Technology Center” di Boston, successivamente spostatosi in India, Costa Rica,
Norvegia e Ghana.
Il secondo Fablab nasce infatti a Sekondi-Takoradi, in Ghana e nel giro di qualche
anno il fenomeno è riscontrabile in diverse parti del mondo: oggi esistono 261
FabLab propriamente detti, ovvero laboratori per la fabbricazione digitale che hanno
sottoscritto le linee-guida espresse nel manifesto del “Center for Bits and Atoms”, di
cui si riporta l’originale FabLab Charter in basso.
13 Chris Anderson, op. cit., p. 180. 14 Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 14.
9
2.1 The Fab Charter
What is a fab lab ?
Fab labs are a global network of local labs, enabling invention by providing access
to tools for digital fabrication
What's in a fab lab ?
Fab labs share an evolving inventory of core capabilities to make (almost) anything,
allowing people and projects to be shared
What does the fab lab network provide ?
Operational, educational, technical, financial, and logistical assistance beyond
what's available within one lab
Who can use a fab lab ?
Fab labs are available as a community resource, offering open access for
individuals as well as scheduled access for programs
What are your responsibilities ?
safety: not hurting people or machines
operations: assisting with cleaning, maintaining, and improving the lab
knowledge: contributing to documentation and instruction
Who owns fab lab inventions ?
Designs and processes developed in fab labs can be protected and sold however an
inventor chooses, but should remain available for individuals to use and learn from
10
How can businesses use a fab lab ?
Commercial activities can be prototyped and incubated in a fab lab, but they must
not conflict with other uses, they should grow beyond rather than within the lab,
and they are expected to benefit the inventors, labs, and networks that contribute to
their success
draft: October 20, 2012
Si può dunque parlare, per quanto riguarda la costituzione di un FabLab, di quattro
elementi essenziali:
1. Democratizzazione dell’accesso alle tecnologie presenti all’interno di un FabLab; a
questo scopo il laboratorio deve garantire a chiunque si dimostri interessato, la
possibilità di usufruire di open day gratuiti.
2. Sottoscrizione della FabLab Charter, di cui si deve trovare copia sia all’interno
della struttura sia sul relativo sito Web.
3. Condivisione, all’interno della rete dei FabLab delle pratiche di utilizzo delle
macchine e dei processi produttivi, scelta che concerne in primo luogo software e
hardware open source.
4. Più in generale, condivisione costante e globale di saperi, processi, design, prototipi
all’interno della rete dei partecipanti ad ogni FabLab esistente15
.
Si ricorda, fra l’altro, che alcuni FabLab partecipano a FabAcademy, un corso a
distanza tenuto da Gershenfeld, che ne è infatti il direttore, della durata di cinque
mesi. Infine, è importante sottolineare che un FabLab è in genere anche un
Makerspace, ovvero uno spazio in cui potersi riunire per imparare, aiutandosi a
vicenda, e per sviluppare delle idee che poi possono incentivare la creazione di
nuovi prodotti e piccole aziende. Un caso esemplare è NYC Resistor, il Makerspace
di New York, che ha dato vita all’azienda Makerbot, fondata nel 2009 da Bre Pettis,
Zac Smith ed il loro team di ingegneri informatici in un ex birrificio, e volta alla
produzione di stampanti 3D a basso costo (circa mille dollari) e open-source, grazie
15 http://www.makerfairerome.eu/2013/05/16/cose-un-fablab/
11
anche, nel 2011, a finanziamenti da parte di società di venture-capital per un
ammontare di oltre dieci milioni di dollari16
. Ricordiamo, per completezza, che
l’intero pacchetto azionario di Makerbot Industries sarà nel 2013 acquistato da
Stratasys, che, insieme a 3D Systems, è ad oggi uno dei giganti del settore.
Anderson, non a caso, definirà i FabLab un genere speciale di makerspace, in
genere focalizzati sulla prototipazione su piccola scala17
.
3. La dimensione globale del fenomeno
Tenendo presente la dimensione globale del fenomeno, è possibile presentare alcuni
esempi dell’utilizzo di simili tecnologie nelle suddette aree: in India occidentale,
nel villaggio di Pabal, il laboratorio è stato utilizzato per sviluppare dispositivi per
monitorare la sicurezza del latte e l’efficienza delle macchine agricole, in Ghana
sono state create macchine alimentate dalla luce solare.
Al TED (Technology Entertainment Design) del 2006, conferenza annuale di
Monterey, Neil Gershenfeld racconta la storia di Valentina Kofi, una bambina
ghanese di otto anni che insistette per rimanere nel FabLab fino a tarda notte, per
costruire un circuito a strati multipli, “imparando a mettere i componenti ed a
programmarlo. Non sapeva bene cosa stava facendo o perché, ma sapeva che
doveva farlo. C’era qualcosa di elettrico nell’aria. Ancora una volta è stato solo per
la gioia di farlo”18
.
Si tratta, per l’autore, di spostare l’accento dal “digital divide” fra Paesi sviluppati e
Paesi in via di sviluppo all’ancor più rilevante divario nell’accesso agli strumenti
per la fabbricazione, ovvero di sostituire al trasferimento di tecnologia
dell’informazione in senso stretto alle masse, la condivisione di strumenti per lo
sviluppo di tecnologia dell’informazione19
. Egli osserva, infatti, che i computer da
tavolo (desktop computer) sono poco utili laddove spesso non ci sono tavoli, ed è
dunque preferibile apportare i mezzi di cui sopra, al fine di “sviluppare e produrre
soluzioni tecnologiche locali a problemi locali”, poiché “invece che costruire
16 http://www.chefuturo.it 17 Cfr. Chris Anderson, op. cit., pp. 56-57. 18 http://www.ted.com/talks/neil_gershenfeld_on_fab_labs.html 19 Cfr. Neil Gershenfeld, op. cit., p. 15-16.
12
bombe migliori, la tecnologia emergente può aiutare a costruire comunità
migliori”20
.
In un passaggio essenziale ad avviso di chi scrive, Gershenfeld osserva come sinora
gli strumenti di fabbricazione digitale siano stati utilizzati per lo più all’interno di
industrie per ottenere prototipi di prodotti, in modo da coglierne gli errori prima che
questi diventino molto più onerosi da correggere, ovvero in fase di produzione.
Tuttavia lo scopo precipuo di tali strumenti sembra esser volto alla fabbricazione
personale, immaginando un mercato composto da una sola persona, ed in cui
dunque il prototipo è il prodotto stesso, in un mondo in cui il più grande ostacolo
nel realizzare ciò risiede nella mancanza di consapevolezza che questo sia
possibile21
.
È importante a questo punto fornire qualche esempio concreto di ciò a cui l’autore
si riferisce quando parla di un mercato formato da una sola persona, ovvero
illustrare alcuni dei prodotti fabbricati dai partecipanti del corso volto a insegnare
Come fare (quasi) qualsiasi cosa.
Il primo prodotto è stato pensato e realizzato da un’artista, Kelly Dobson,
concentrata sulla sua personale necessità di urlare in momenti non appropriati,
come ad esempio in pubblico, ragion per cui ha ideato lo ScreamBody di Kelly, un
contenitore da indossare in cui è possibile urlare senza lasciar trapelare all’esterno
alcunché, salvo poi poter riprodurne il contenuto, quando se ne ha la possibilità. Il
tutto è stato ottenuto progettando un circuito per salvare le urla, inserendolo in una
scheda di circuito, sviluppando sensori che permettessero di interagire con
l’oggetto. Che il prodotto in sé possa poi suscitare il riso, l’ammirazione, o - perché
no - il desiderio di averne uno, poco importa: Kelly ha progettato il prodotto per un
solo consumatore finale, se stessa.
Detto altrimenti, non lo ha fatto per riempire una nicchia di mercato, o per
rispondere alla domanda di qualche utente, ma solo perché ne desiderava uno,
basandosi sulla considerazione che i prodotti presenti sui mercati di massa
difficilmente soddisfano fino in fondo i bisogni individuali, resi fra l’altro sempre
più complessi dalla società dei consumi; d’altro canto “un vero dispositivo
personale di informatica è per definizione personalmente progettato”22
.
20 Ibidem, p. 16. 21 Cfr. ibidem, p. 19. 22 Ibidem, p. 23.
13
Un altro progetto interessante è quello di una professoressa del Dipartimento di
Architettura di Boston, Meejin Yoon, che, negativamente impressionata dai modi in
cui la tecnologia si introduce nel nostro spazio personale, voleva invece trovare un
modo che lo protegesse.
Nasce così il Defensible Dress, un vestito le cui frange sono fili rigidi controllati da
sensori di prossimità: quando qualcuno si avvicina ad una distanza stabilita dalla
persona che lo indossa, i fili metallici spuntano fuori a circoscriverne lo spazio
personale, ispirandosi al comportamento del porcospino o del pesce palla23
. In un
mondo teso a moltiplicare i generi e l’intensità della comunicazione e
dell’interazione interpersonale, nessuno sul mercato aveva immaginato che
qualcuno desiderasse difendersene: forse il vestito conserva un valore simbolico e
provocatorio, forse l’autrice lo indosserà davvero, quel che conta è che niente di
simile era stato sinora realizzato, lasciando inevitabilmente l’utente/consumatrice
Meejin insoddisfatta, e adesso c’è.
Illustriamo infine, il progetto di una biologa, Shelly Levy-Tzedek, che ha ideato
una sveglia per chi ha difficoltà a svegliarsi, che non permette di essere spenta
facilmente con un bottone o rinviando l’allarme, ma con cui è necessario “lottare”,
nel senso letterale del termine, afferrandone le protuberanze nell’ordine in cui si
illuminano, processo già difficoltoso da svegli. Risulta estremamente interessante
sottolineare come Shelly sia arrivata a mettere a punto il suo prodotto: ha tenuto
una registrazione tecnica su una pagina web, che permetteva di far emergere ciò che
funzionava e ciò che andava modificato, facendo emergere le opinioni degli
studenti ed i loro suggerimenti24
.
Si può notare dunque, anche attraverso quest’esempio, l’onnipresenza di logiche
collaborative e bottom-up nella creazione di conoscenza e valore aggiunto, per un
prodotto che possa definirsi realmente innovativo e personalizzato.
4. Un fenomeno recente: i FabLab in Italia
La presenza di veri e propri laboratori volti alla fabbricazione digitale nel nostro
Paese, ha conosciuto ritmi piuttosto lenti considerato, come anticipato, che il primo
FabLab nel mondo apre nel 2002 a Boston.
23 Cfr. ibidem, pp. 23-24. 24 Ibidem, pp. 24-26.
14
Tuttavia, sembra che negli ultimi anni si possa parlare di un vero e proprio boom,
visto il numero di località coinvolte nell’inaugurazione di FabLab, o comunque di
strutture ad essi affini: Torino, Novara, Milano, Firenze, Reggio Emilia, Roma,
Cava dei Tirreni, Napoli, Bologna, Trento, Genova, Pisa, Modena e Palermo.
Infatti, il fenomeno ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio a partire dal 2011,
quando a Torino, in occasione della mostra “Stazione Futuro” che ebbe luogo per il
centocinquantenario dell’Unità d’Italia, si mostrava al pubblico un’installazione
contenente una stampante 3D ed una tagliatrice laser.
Nasce così nel capoluogo piemontese qualche mese dopo, nel 2012, “Officine
Arduino”, il primo FabLab italiano di cui si parlerà nei paragrafi che seguono, ove
ci si soffermerà in particolare su alcune esperienze italiane che si è avuta
l’occasione di osservare da vicino, interloquendo con i relativi protagonisti.
4.1. FabLab Torino
Per quanto riguarda il FabLab di Torino, è opportuno precisare alcuni aspetti prima
di presentare il testo dell’intervista effettuata ad uno dei suoi soci.
Come si è già ricordato, il FabLab di Torino è stato il primo FabLab a sorgere sul
territorio italiano, col nome di “Officine Arduino”, in quanto ospitato al loro
interno, grazie al contributo di Massimo Banzi, creatore nel 2005 del noto
processore Arduino, nome nato dalla caffetteria di Ivrea - “Antica Caffetteria
Arduino” - dove si trovava a parlare con i suoi tre soci.
Arduino è “una piattaforma basata su un hardware molto semplice e su un software
altrettanto semplice e flessibile che consente di prototipare rapidamente con
l’elettronica”25
, ovvero un innovativo dispositivo open source, che costa appena
venti euro e che è alla base del funzionamento della stampante 3D, la cui
componente rivoluzionaria risiede anche nel facile utilizzo e dunque nell’essere alla
portata di chiunque, poiché “non ci vuole il permesso di nessuno per rendere le cose
eccezionali”26
.
Quando e su quali basi è nato Fablab a Torino ?
25 Riccardo Luna, op.cit., p. 35. 26 http://www.ted.com/talks/lang/it/massimo_banzi_how_arduino_is_open_sourcing_imagination.html
15
Fablab è nato l’anno scorso (2012), ha 150 soci, ed è il proseguimento di un
progetto ideato da Arduino e dal Comitato delle Officine Grandi Riparazioni del
Centocinquantenario che fecero l’Esperienza Italia inserendovi anche Fablab Italia;
dopo i ragazzi che avevano iniziato a portare avanti il progetto Fablab in
collaborazione con Arduino decisero di creare Fablab Torino, e continuare quello
che si era iniziato all’Esperienza Italia, perché si era visto che c’era un seguito.
Fablab ha partecipato a più di una mostra, in cui porta in genere stampanti 3D ed
oggetti fatti con la laser.
In genere che partecipanti sono presenti ai workshop ? Quanto e come può
essere sostenibile una struttura come quella di un Fablab ? Come funziona il
sistema dei “crediti” per l’utilizzo dei macchinari ?
Qualsiasi, anche perché sono estremamente vari, ci sono due categorie di
workshop: “di base”, sono gratuiti e durano un giorno, sulla stampa, sulla laser,
sulla fresa, e quelli “avanzati”, durano in genere tre o quattro giorni, e questi hanno
un costo in crediti, in base al livello di difficoltà del workshop ed al numero di
giornate.
I crediti sono la “moneta interna” al Fablab, acquistabile su Internet, è un sistema
costruito in modo da poter guadagnare dei crediti, ad esempio chi viene a fare le
pulizie, ogni lunedì, guadagna 30 crediti se da solo e 15 se sono in due, sono
definiti in base al livello di difficoltà del workshop.
Tutti i macchinari hanno un costo orario in crediti, la stampa 3D costa 15 crediti la
prima ora 10 la seconda dalla terza in poi 5, la fresa idem (un credito = un euro).
La laser, la più utilizzata e anche quella che consuma di più, costa un credito al
minuto. Per permettere a chiunque di venire a sviluppare i propri progetti si è
pensato questo sistema.
Chi fa i workshop fa versare a chi partecipa una quantità di crediti e l’associazione
ne accredita la metà a chi tiene il workshop, che a sua volta possono utilizzarlo per
l’uso delle macchine.
Naturalmente i soci pagano una tessera per associarsi, il cui costo varia a seconda
della durata (esiste anche una tessera “one shot” che vale una decina di giorni, per
permettere di seguire un workshop, una tessera “base”, una “pro”, che ti permette di
utilizzare un magazzino per lasciare i progetti).
16
Per quanto riguarda in particolare la stampa tridimensionale, questa offre il
vantaggio opposto delle economie di scala: il costo unitario non aumenta nel
modificare una singola componente o nel fabbricare lotti piccolissimi, ma non
diminuisce aumentando i volumi di produzione, favorendo quindi
personalizzazione e customizzazione.
Quali produzioni andrebbero dunque favorite da una simile tecnologia ?
Le macchine 3D in genere sono per la prototipazione, non per la produzione in sé,
servono per i prototipi, o tutt’al più per piccole serie, non tanto per stampare
realmente in serie.
Si tratta di una tecnica digitale, è possibile comunque senza costi di trasporto,
spedirlo a grandi distanze e se si vuole lo si stampa, è ecosostenibile, se così si può
dire.
Si ha un investimento iniziale, ma poi rimangono costi essenzialmente legati al
mantenimento delle macchine.
Non ci sono comunque in Italia molti casi di questo tipo, a parte coloro che
vendono le stampanti 3D, perché tante di quelle macchine hanno componenti che
sono state stampate con altre stampanti.
Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una
sorta di incentivo ad una nuova imprenditoria ?
Indubbiamente sì, chi fa piccole produzioni può rivolgersi più facilmente ad un
posto come questo, piuttosto che andare da una ditta vecchio stile, l’artigiano di una
volta è sostituito da colui che disegna al pc, per poi stamparlo con molta precisione
in 3D.
Per la mia esperienza comunque, il grosso delle persone che viene quì, sono
studenti che fanno prototipi.
22 giugno 2013
17
Figura 1. Il muro delle icone dei maker presso il FabLab di Torino con incisione laser su legno.
Risulta interessante il sistema dei crediti utilizzato da questo Maker Space,
trattandosi sostanzialmente della moneta interna del FabLab, mediante cui è
possibile utilizzare le macchine presenti, che si coglie l’occasione per illustrare, nel
seguente modo:
LASER CUT WL1290, 1 Credito al minuto di taglio (il tempo varia in base al
materiale ed al file). Il laser ha un’area di taglio da 1200x900mm e può tagliare ed
incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli.
LASER CUT Eureka, 1 Credito al minuto di taglio. Il laser ha un’area di taglio da
600x450mm e può tagliare ed incidere materiali plastici, legnami, tessuti e pelli.
FRESA CNC Roland mdx-40, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti
per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da dimensione,
livello di dettaglio e durezza del materiale: un oggetto grande, dettagliato e fresato
in un materiale duro richiederà molto tempo). L’area di lavoro è pari a
305x305x105mm e si puo lavorare con un’ampia gamma di materiali quali ABS,
cere, resine, legno chimico, acrilici, PVC, POM e legno.
18
Figura 2. Wall-E: uno dei personaggi raffigurati sul muro delle icone dei makers.
3D PRINTER Ultimaker, 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10 Crediti per la
seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a 200x200x200mm
e si può stampare con PLA, ABS e NYLON.
3D PRINTER RepRap Prusa I3 Prusa , 15 Crediti per la prima ora di stampa, 10
Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi. L’area di lavoro è pari a
200x200x200mm e si può stampare con PLA, ABS e NYLON.
PLOTTER DA TAGLIO Roland GX-24, 15 Crediti per la prima ora di stampa,
10 Crediti per la seconda, 5 Crediti dalla terza ora in poi (il tempo dipende da
19
dimensione, livello di dettaglio e materiale)27
.
Figura 3. Galleria delle icone dei Makers. Fonte: http://fablabtorino.org
4.2. Fablab Firenze
Riportiamo di seguito l’intervista effettuata a Mattia Sullini, coordinatore della
modellizzazione all’interno del FabLab, e primo architetto che nel 2000 apre un
coworking a Firenze e dopo due anni è uno dei fondatori del Maker Space della
città. Il brano riportato è stato raccolto in occasione della Mostra Internazionale
dell’Artigianato svoltasi a Firenze tra il 20 ed il 28 aprile 2013.
Learn. Make. Share. Tre parole d’ordine con cui presentate la vostra attività
ed i principi che la ispirano; che risvolti assume in particolare il dato della
condivisione all’interno del panorama di riferimento di FabLab Firenze ?
La condivisione è presente al 100%, la sfida per Fablab Firenze è proprio quella,
per la struttura del FabLab sarebbe prevista al livello di prodotto con una
standardizzazione delle dinamiche che fanno giungere al prodotto; per gli strumenti
di lavoro è meglio parlare di “multiproprietà” degli oggetti.
27 http://fablabtorino.org/?page_id=83
20
Il lavoro che stiamo cercando di fare è stressare il lato di utilità sociale
dell’associazione, puntare sulla dinamica giocosa, libera, non finalizzata, basandoci
sull’orizzontalità dei gruppi, l’accessibilità dei corsi, con un modello che preveda
un’economia poco impegnativa, con soci “flessibili”, ad es. workshop sul laser
come quelli di oggi, fatti dagli associati a titolo praticamente gratuito.
FabLab Firenze nasce a Luglio 2012; su quali basi ? Nasce per rispondere ad
una domanda locale o piuttosto per crearla, con lo scopo di indirizzarla verso
un settore poco noto sul territorio ?
A Firenze FabLab è un’ “anomalia”, normalmente nascono su gruppi relativamente
ristretti o su progetti precisi, noi siamo partiti in 23, ciascuno con attività già
avviate ed aspettative diverse rispetto al Fablab.
Partendo dal coworking stavo cercando di mettere insieme un gruppo con un
esperto di lasercutting, uno di stampanti 3D, un modellista, un designer, etc., per
cui ho pensato di riunirci riservando ognuno il 5-10-15% del proprio tempo-
macchina per fare dei lavori tutti insieme, di gruppo, come community.
Ancora non abbiamo una sede, attualmente è il mio coworking.
Vogliamo fare le cose in maniera progressiva, siamo un gruppo, stiamo trovando il
nostro baricentro, e stiamo cercando di capire quali aspettative coltivare e quali
abbandonare, etc. Si lavora insieme ed ognuno per sé, tenendo conto degli altri.
Che tipo di partecipanti seguono generalmente i workshop di FabLab Firenze?
Al FabLab c’è di tutto, artigiani, grafici, elettronici, designers, architetti…
Come può cambiare il lavoro in senso stretto, ovvero il rapporto con gli
strumenti del mestiere, con i clienti, i legami fra appartenenti alla stessa
categoria professionale, lo scambio di idee e buone pratiche ? È presente la
dimensione imprenditoriale ?
L’imprenditorialità è incuriosita dai FabLab, guarda ai Fablab, ma ancora non sa
cosa fanno, s’intravede un’utilità rispetto alla filiera produttiva, probabilmente, a
mio avviso, è un’aspettativa mal riposta, perché portare la ricerca di prodotto
21
finalizzata alla produzione all’interno di un FabLab innesca e immette nel circuito
logiche di ottimizzazione ed economia che un FabLab non può sostenere, e
richiama anche la necessità di competenze che un FabLab in genere non possiede,
anche se dipende molto da come è strutturato.
Figura 4. Laser cutter di FabLab Firenze, al workshop del Laboratorio in occasione della
mostra.
Poste queste difficoltà “strutturali” lo scopo ultimo dei FabLab dovrebbe
essere anche quello di creare chi entri nel meccanismo in modo da capirne e
sfruttarne le potenzialità ?
Esatto. Ma non si tratta di creare prodotti, più che altro di trovare persone in grado
di creare prodotti, è una cosa molto diversa. L’azienda può guardare ai FabLab
come luoghi in cui “pescare” persone formate a processi creativi, semi-
industrializzati, in maniera che la mente sia formata a cogliere la complessità del
22
processo, crea artigiani, laddove l’artigiano è colui che domina sia l’aspetto
creativo sia quello operativo.
Un esempio è la cover di questo iPhone, che fino a ieri si rompeva, ma si è pensato
di utilizzare un legno più flessibile; sembra una cosa irrilevante ma è per rendere
l’idea della sperimentazione.
Figura 5. Lampade create con il laser cutting durante il workshop di Firenze.
Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando. Come vi
posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipizzazione
rapida” ?
Sono mezzi cruciali, non tanto al livello tecnologico, far rete, saper lavorare
insieme, capire che competizione e collaborazione non sono modelli antitetici ma
possono coesistere, può esserci una competizione sana, sapendo, per proprietà
transitiva, che quello che immetti nella rete ad un certo punto ti ritornerà.
23
Figura 6. Lampada ultimata.
I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere
se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base
a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi
degli strumenti di produzione da parte di lavoratori ed artigiani ?
È possibile che la rivoluzione tecnologica sfoci in rivoluzione socio-culturale ?
Questi anni di social network pesante ci hanno abituato ad una comunicazione con
la gente sempre più diretta, vitale, immediata, quelle che erano estrapolazioni
statistiche diventano sempre più discrete, è stato tutto molto materiale; adesso ci
accorgiamo che c’è un ritorno sul fisico, coworking, fablab, un’economia della
collaborazione che è reale, basata sulla disintermediarizzazione, sulla credibilità,
sui concetti di prosumer, di code lunghe, di discretizzazione: possiamo essere più
individui, ma individui collaborativi.
24
Tutta quella retorica di villaggio globale era probabilmente molto precoce, adesso è
un villaggio globale, siamo di fronte a relazioni ricche e che producono qualcosa di
concreto.
25 aprile 2013
4.3. Frankeinsten Garage e l’elettronica della sciura Maria
Quella di Milano è una struttura assimilabile a quella di un FabLab, nata da una
preesitente associazione.
Oltre a creare oggetti, si occupa della loro riparazione e del loro miglioramento,
come afferma il loro “slogan” Your things, reborn.
Offre svariati workshop, da quelli mirati alla conoscenza di Arduino ai workshop
cosiddetti della sciura Maria, volti a chi intende avvicinarsi al mondo
dell’elettronica ed ai suoi concetti-base.28
Si riporta l’intervista effettuata ad Andrea Maietta, uno dei suoi fondatori.
Da quanto tempo esiste la vostra “associazione” e perché avete deciso di aprire
un Fablab ?
Da un paio d’anni, dopo che Alessandro (che poi si è trasferito in Inghilterra) aveva
visto una trasmissione in cui si parlava di tecnologie digitali per la prototipazione.
Paolo ed io ci siamo subito appassionati all’idea, perché ci avrebbe permesso di
avere uno spazio nostro in cui fare quello che ci piace, di incontrare e aiutare
persone con la nostra stessa passione e soprattutto di imparare da loro.
Chi ne fa parte, ovvero, più precisamente, da che percorsi professionali e
formativi provenite, su quali “risorse umane” contate ?
Al momento siamo Paolo ed io, al livello “istituzionale” abbiamo entrambi un
background di tipo tecnico e ci occupiamo di software, a livello più personale
siamo appassionati di molte altre cose: il physical computing, l’interazione uomo-
28 http://www.frankensteingarage.it
25
macchina, l’elettronica, l’intelligenza artificiale, sociologia, economia e molte altre
cose tra cui l’alpinismo e il rugby.
Disponete di risorse materiali (stampanti 3D, frese, etc.) di cui usufruiscono
coloro cui offrite corsi di formazione ? A che titolo lo fate ?
Come stampante 3D usiamo la Sharebot, con la quale stiamo pensando di offrire un
servizio di stampa. Stiamo terminando di costruirci una fresa fatta in casa per
offrire lo stesso tipo di servizio a basso costo. Per la formazione sull’elettronica, sui
microcontrollori e sulla programmazione, che è al momento la nostra attività
principale, forniamo di volta in volta il materiale necessario.
Il fatto che vi limitiate a fare formazione è una scelta mirata (svolgete attività
professionali parallele, non vi interessa andare sul mercato per motivi
ideologici, etc.) o è una scelta “obbligata” (dovuta per esempio alla situazione
transitoria in cui vi trovate, all’impossibilità di investire in questa attività,
etc.)?
Entrambi abbiamo un lavoro “vero”, quindi possiamo dedicare solo una certa
quantità di tempo a queste attività. Per questo motivo stiamo cercando qualcosa di
scalabile, ad esempio stiamo terminando un libro su e per i maker che presenteremo
alla Maker Faire di Roma ad ottobre.
Una volta aperto il Fablab, su quali basi funzionerebbe (workshops, sistema di
pagamento in “crediti” o altro, tesseramento, etc.) ?
So che dopo due anni suona strano, ma è un po’ presto per dirlo. I FabLab molto
difficilmente sono business sostenibili senza l’aiuto di qualche sponsor o qualche
istituzione, specialmente a Milano e specialmente se non puoi dedicartici full time.
Non escludiamo soluzioni alternative, come ad esempio un laboratorio mobile.
Indubbiamente l’idea tradizionale di fabbrica sta cambiando, come vi
posizionate rispetto all’utilizzo delle cosiddette tecnologie di “prototipazione
26
rapida”?
Siamo favorevoli, pensiamo che possano risolvere una serie di problemi. Ne
parliamo nella prima parte del nostro libro.
Si può parlare di un nuovo artigianato ? Prevale la funzione formativa o una
sorta di incentivo ad una nuova imprenditoria ?
Sicuramente sì, il maker è fondamentalmente un artigiano creativo che usa
strumenti moderni con un amore e una passione antichi. Speriamo che la
formazione che eroghiamo possa portare le persone a intraprendere un loro
percorso imprenditoriale, anzi sappiamo di diverse occasioni in cui questo è
successo e la cosa non può che farci piacere.
I mezzi a disposizione fanno sì che il singolo produttore/utente possa decidere
se posizionarsi limitatamente al “locale” o produrre su scala “globale”; in base
a quanto da voi osservato, si può parlare in senso lato di un riappropriarsi
degli strumenti di produzione da parte di lavoratori e/o artigiani ?
In un certo senso sì, adesso il costo delle macchine non è più quello elevato di
qualche anno fa, da un lato si può rilevare il fenomeno di una sorta di
riappropriazione per quanto riguarda un piccolo lotto, dall’altro anche per la
produzione di massa, potendo contare su un mercato globale.
Si tratta di un settore, in cui probabilmente risulta particolarmente utile ed
interessante “far rete”; esiste questa possibilità sul territorio? Qual è il legame
(se ce n’è uno) che connette la specifica attività di cui vi occupate al vostro
territorio (città, regione, etc.) ?
Siamo fermamente convinti che fare rete, non solo per i maker ma per l’intero
sistema, al giorno d’oggi sia fondamentale. Più di quanto lo sia sempre stato.
Nonostante questo, chi ha provato a mettere insieme realtà diverse per offrire un
servizio migliore ci ha sempre raccontato che sembra che molte persone abbiano
difficoltà a entrare in questo ordine di idee, forse perché ritengono il mercato
27
ancora troppo di nicchia o troppo piccolo per tutti quanti. Nel nostro piccolo
cerchiamo di partecipare alle varie conferenze di settore, spesso presentando dei
talk, per incontrare persone con le nostre stesse passioni, oppure collaboriamo per
la realizzazione di hackaton incentrati sul mondo fisico. E ci divertiamo come dei
matti!
22 agosto 2013
4.4. FabLab Palermo
Si è ritenuto opportuno presentare l’intervista sottoposta a Michele Pizzuto,
architetto e vice-fondatore di un FabLab appena nato, quello di Palermo, per
differenti ragioni.
In primo luogo, per completezza e correttezza, essendosi finora focalizzati su realtà
circoscritte all’area centro-settentrionale dell’Italia.
Inoltre, si ritiene importante esporre il caso di uno degli ultimi FabLab ad aver
aperto in Italia, che può dunque contare sulla collaborazione e l’esempio di valide
esperienze pregresse al livello nazionale.
Infine, interessa indagare il valore e la risonanza che può avere una simile struttura
in un contesto economico caratterizzato da una marcata debolezza per quanto
concerne attività innovative e ad alta tecnologia (5 sistemi locali del lavoro leader
nel settore dell’alta tecnologia al Sud, contro 16 nel Nord-Ovest, 11 al centro e 10
nel Nord-Est)29
.
Come nasce l’idea di aprire un FabLab a Palermo ?
Nasce quando decido di aprire, con mia sorella, Spazio Trentasei ArchiArte,
sostanzialmente un’associazione culturale. Un amico poi, capendo che avevamo
sfiorato le dinamiche di un makerspace, ha avuto modo di spiegarci in cosa consiste
il movimento dei makers, quindi a giugno di quest’anno abbiamo aperto il FabLab,
che è legato ad uno studio di architettura e ad un’associazione culturale, ma è
sostanzialmente operativo da settembre.
29 Carlo Trigilia e Francesco Ramella, Imprese e territori dell’alta tecnologia in Italia, Il Mulino,
Rapporto di Artimino 2008, p. 46.
28
Vi appoggiate finanziariamente a qualcuno o siete indipendenti ? Una volta a
regime su che basi funzionerà il FabLab dal punto di vista economico ?
Abbiamo sottoscritto la FabLab Charter e depositato lo Statuto, siamo totalmente
autofinanziati, la struttura si appoggia ad uno studio di architettura preesistente, gli
spazi quindi li avevamo già.
Funzionerà come tutti i Fablab, con un tesseramento. Proporremo un tesseramento
annuale di 30 euro, per cui i tesserati avranno uno sconto del 10% su tutti i servizi,
del 25% se si tratta di studenti.
Di che macchine disponete/disporrete e che tipo di corsi pensate di offrire ? Il
target cui vi rivolgete è quello degli studenti o un altro, ad esempio
imprenditoriale/artigianale ?
Disponiamo di una Makerbot, in fase di promozione presso il FabLab, che ha
un’area di stampa 30x15x15, quindi il target è quello della protipazione, a
disposizione della classe artigiana e studentesca.
Anche se sicuramente il target privilegiato è quello degli studenti, a partire dal liceo
artistico, l’Accademia di Belle Arti, Architettura, etc., per quanto riguarda gli
artigiani non c’è ancora un corso adeguato, poiché li troviamo in linea di massima
abbastanza distanti da queste tecnologie.
Tuttavia col tempo, integrando le macchine e le frese che sono in arrivo, si pensa ad
una collaborazione con artigiani tradizionali, ma aperti all’utilizzo della tecnologia,
in particolare con dei contatti nel settore dell’ebanisteria e della sartoria.
La vera corsistica, che includerà fra l’altro un corso di robotica per bambini ed uno
su Arduino, partirà dopo la Maker Faire di Roma, cui parteciperemo per continuare
a farci conoscere, portando anche dei piccoli progetti, fra cui uno spider robot, fatto
da un laureando di Ingegneria Informatica di Catania.
Quanto conta, per quanto riguarda quanto finora avete potuto osservare, la
logica del far rete e della condivisione di conoscenza ?
29
È fondamentale, per aprire e far parte di un FabLab bisogna avere un certo modo di
pensare.
Abbiamo avuto modo di parlare con vari “protagonisti” del movimento in Italia,
come il FabLab di Firenze, ed ovunque abbiamo riscontrato disponibilità e
spiegazioni esaustive.
Abbiamo anche utilizzato community online, in cui abbiamo trovato appoggio ed
informazioni.
Sarebbe bene che in ogni città ci fosse un FabLab, in quest’ambito è importante far
rete, non farsi concorrenza.
Quanto conta aver aperto una struttura come un FabLab a Palermo ? È
possibile che, accompagnato a buone politiche, il progetto faccia da volano per
l’innovazione del territorio siciliano ?
Indubbiamente sì, da più di un anno mi ritrovo a dire in giro che se tu utilizzi la
filosofia che tutto ciò che è considerato crisi in Sicilia può invece essere
un’opportunità, nonostante la diffidenza di molti, ti rendi conto che c’è un humus
interessante, dei contesti virtuosi, delle potenzialità inesplorate.
Una struttura come un FabLab, paradossalmente, può essere maggiormente
trasformativa ed innovativa qui, dove il terreno è “vergine”, rispetto ad esempio a
Torino, o Milano, dove simili fenomeni hanno già riscontro favorevole, anche
semplicemente in termini di visibilità.
20 settembre 2013
4.5. Un profilo comune con prospettive eterogenee
Come si può agevolmente rilevare, la struttura dei FabLab s’inserisce in una
prospettiva prevalentemente educativa e strumentale, non perseguendo alcun fine di
massimizzazione del profitto, laddove effettivamente la concezione di profitto non
risulta minimamente esser presa in considerazione.
Una netta linea di demarcazione, quasi “fiera”, separa questo modello
“collaborativo ed orizzontale” dal modello imprenditoriale perseguito
dall’individuo che mira a stare a pieno titolo sul mercato.
30
Emerge una linea di pensiero aperta e flessibile, orientata alla condivisione di
conoscenze, ma che presuppone un impegno parziale ed amatoriale da parte dei
soggetti coinvolti: come Sullini dichiara nel corso dell’intervista concessa, si tratta
di dedicare una piccola percentuale del proprio tempo-macchina per fare dei lavori
di gruppo come un FabLab, una community.
D’altro canto Maietta ricorda che lui e Aliverti conducono parallelamente un lavoro
“vero”, e ciò spiega forse la ragione per la quale spesso simili strutture non si
occupino di un business plan o di rientrare in determinati parametri ed obiettivi,
essendo lo scopo delle associazioni da loro inaugurate di tipo radicalmente
differente.
Naturalmente un’opzione è quella di rifarsi a modelli di business alternativi, come
mostra l’esempio di Frankenstein Garage, che afferma di inspirarsi alla Lean
Sturtup di Eric Ries e al modello Canvas di Alexander Osterwalder, di cui
parleremo più avanti.
Resta salvo naturalmente il palpabile entusiasmo e l’atteggiamento aperto e
collaborativo verso la conoscenza diffusa ed il far rete, caratteristico di ogni
organizzazione con cui ci si è confrontati.
D’altronde il fatto che i membri abbiano un impiego al di fuori del contesto del
FabLab - anche se spesso ad esso affine - permette di creare dinamiche ed occasioni
di apprendimento interessanti, quali i workshop tenuti a titolo praticamente gratuito
anche in occasione della fiera dell’artigianato di Firenze cui abbiamo partecipato,
dato che l’Associazione persegue fini di promozione della Fabbricazione Digitale,
del Design condiviso, dell’Hardware e del Software Libero, dello Sviluppo
Sostenibile, a vantaggio degli associati (Statuto del FabLab di Firenze).
Modello interessante e sostenibile che, come abbiamo visto, si sta diffondendo a
macchia d’olio nel mondo, creando conoscenza ed educando ad un sistema di
knowledge sharing, ma che è lontano, per scelta, dalla dimensione d’impresa e di
mercato.
Si tratta semmai di un potenziale bacino cui l’impresa può guardare per assunzioni
che perseguano determinati target e valori.
Anche il neonato FabLab di Palermo, presenta una struttura divulgativa, che mira
ad essere autosostenibile, autofinanziandosi, e i cui quattro soci fondatori hanno
tutti un lavoro a tempo pieno.
31
Fatte salve le riserve dovute ad una struttura appena aperta, che non ha dunque
avuto ancora modo di mettere in pratica i propositi e le idee che si auspica di
portare avanti nel tempo, sembra di rilievo, soprattutto per l’analisi che condurremo
nel seguito, il progetto che prevede la collaborazione con quella fetta di artigiani
tradizionali, non restii all’idea di aprirsi all’utilizzo delle nuove tecnologie. Pizzuto
parla infatti di una collaborazione con artigiani ebanisti e sarti, in modo da poter
metter loro a disposizione gli strumenti digitali di cui sarà dotato il FabLab per
realizzare i propri prodotti.
Questa sorta di contaminazione fra tecnologia in generale, e digitale in particolare,
e dimensione artigianale sarà approfondita nei paragrafi che seguono, nella
convinzione che in un Paese costellato da piccole imprese e attività imperniate
sull’artigianato e sul saper fare, questa sia una deriva particolarmente ricca di
prospettive promettenti.
Elemento fondamentale è la struttura aperta, da diversi punti di vista: in senso
stretto, infatti, un FabLab è disponibile per chiunque si manifesti interessato alle
tecnologie e alle dinamiche che in esso hanno luogo, tanto da offrire spesso corsi di
differente taglio, a seconda della preparazione dei partecipanti, che possono dunque
essere anche principianti, o semplici curiosi, in base al principio postulato nella
FabLab Charter per il quale i FabLab devono funzionare come una “risorsa della
comunità”.
In senso ampio, appartiene alla comunità anche tutto ciò che si produce al loro
interno, essendo il frutto di un percorso che non è mai al 100% individuale, ma che
è nato a partire da strumenti di lavoro condivisi, e conoscenze e processi spesso
sorti dal confronto con altri, e che si suppone che possa essere reimmesso
all’interno del circuito dell’open access, in un ciclo di feedback positivo.
A conferma di ciò, nella FabLab Charter si legge che “Disegni e processi sviluppati
in un FabLab possono essere protetti e venduti in qualsiasi modo un inventore
decida, ma dovrebbero rimanere disponibili affinché i singoli possano usufruirne ed
imparare da essi”, e che inoltre “le attività commerciali possono essere prototipate
ed incubate in un FabLab, ma non devono confliggere con altri usi, dovrebbero
svilupparsi al di fuori piuttosto che all’interno del laboratorio, e ci si aspetta che
apportino benefici ad inventori, laboratori e reti che hanno contribuito al loro
successo”.
Altro elemento importante, legato al concetto che pensa il FabLab come una risorsa
32
della comunità, è quello di immaginare questa struttura come un mezzo per
apportare benefici di vario tipo, in aree particolarmente deboli dal punto di vista
socio-economico, argomento trattato specialmente nell’intervista al FabLab di
Palermo.
Sebbene possa apparire quantomeno utopistico parlare di un FabLab come di un
volano per l’innovazione e l’adeguamento tecnologico di un territorio, questo tipo
di struttura si trova in una posizione privilegiata, intersecando, come si è già
sottolineato in altri punti, diversi settori della società, dal supporto alle istituzioni
scolastiche ed universitarie, al farsi essa stessa erogatrice di servizi di formazione,
dal supporto ad artigiani aperti e volenterosi o a liberi professionisti, al farsi bacino
per potenziali assunzioni da parte di aziende, che cerchino, come ricorda nel corso
dell’intervista Sullini, “persone formate a processi creativi e semi-industrializzati”.
Di conseguenza, si può affermare che almeno tre ambiti possono trovarsi a
confluire nella struttura di un FabLab: la sfera dell’istruzione in senso stretto, il
dominio dei corsi di formazione, il settore della piccola e media impresa.
Resta dunque da attendersi che i risvolti dati dalla presenza di un FabLab in un
territorio, siano differenti tra loro, essendo ricalcati sulla dimensione locale e
dunque sulle domande e risorse che le sono annesse.
Tuttavia sembra immaginabile il rivelarsi di una struttura davvero trasformativa,
tanto da auspicarsi, come afferma Pizzuto, che un FabLab sia presente in ogni città,
specialmente laddove il terreno si presenta ancora “vergine”, e pertanto bisognoso
di simili strutture di raccordo.
5. La Terza Rivoluzione Industriale
Sembra opportuno, a questo punto, operare una digressione per indagare quali
possano essere considerati le origini e gli antenati del Movimento dei Makers, e
dunque anche degli odierni FabLab, al fine di poterne immaginare sviluppi e
politiche di accompagnamento.
Come si è accennato, si tratta di un fenomeno che un quotidiano con
l’autorevolezza di The Economist, non ha esitato a definire la “Terza Rivoluzione
Industriale”; partiremo da questo punto per riprendere il parallelo fatto da Chris
Anderson in Makers fra Prima, Seconda e cosiddetta Terza Rivoluzione Industriale,
33
cercando di capire cosa trasforma un’innovazione in una rivoluzione e cosa
distingue un simile cambiamento da una rivoluzione industriale.
È importante dunque precisare che l’espressione “rivoluzione industriale” fu
coniata da un diplomatico francese, Louis-Guillaume Otto, nel 1799, e resa poi nota
dallo storico dell’economia inglese Arnold Toynbee. Con essa si fa comunque
riferimento ad “un insieme di tecnologie che hanno enormemente aumentato la
produttività delle persone, cambiando tutto: dalla durata alla qualità della vita, dai
luoghi dove le persone vivono alla dimensione della popolazione”30
. Anderson fa
coincidere l’avvio della Prima Rivoluzione Industriale con l’invenzione della
spinning jenny nel 1766 da parte di James Hargreaves, un tessitore del Lancashire,
una contea situata nel Nord-ovest dell’Inghilterra. Si trattava di “un dispositivo
azionato a pedale che consentiva a un singolo operatore di filare otto fili
contemporaneamente”31
.
La spinning jenny, insieme ai successivi telai industriali e al motore a vapore,
lanciò infatti un’autentica rivoluzione industriale, sebbene l’invenzione della
macchina per filare risalisse agli Egizi ed alla Cina dell’anno Mille. Gli storici sono
concordi nel sostenere che ciò che rese realmente innovative le tre invenzioni
sopracitate, facendone scaturire una rivoluzione, fu un insieme di circostanze:
1. Per la prima volta, a differenza di seta, lana e canapa, si utilizzava il cotone, un
bene indifferenziato che poteva essere acquistato da chiunque, e ottenibile in modo
particolarmente agevole per l’Impero inglese per mezzo delle colonie in Egitto,
India ed Americhe.
2. Il meccanismo della spinning jenny, inoltre, in origine funzionante mediante
energia umana, era scalabile, si prestava cioè ad essere messo in moto da forze
motrici di maggior portata (acqua e vapore)32
.
3. Era un meccanismo che arrivava con tempismo e nel luogo adatto, poiché intorno al
1700 l’Inghilterra era attraversata da “una serie di leggi sui brevetti e di politiche
che diedero agli artigiani la motivazione non solo per inventare, ma anche per
condividere le loro creazioni”33
.
30
Chris Anderson, op. cit., p. 47. 31
Ibidem, p. 41. 32
Ibidem, p. 42. 33
Ibidem.
34
Altra invenzione che contribuì all’avvio della Rivoluzione Industriale, è il motore a
vapore, ideato nel 1776 da James Watt, che permise di meccanizzare ulteriormente
gli strumenti agricoli e di vendere i prodotti locali in tutto il mondo.
Anderson propone inoltre di distaccarsi, per quanto possibile, dall’immagine
codificata da William Blake delle fabbriche definite come “buie officine
demoniache”, osservando come l’industrializzazione produsse in realtà, attraverso
la fase intermedia costituita dalle cottage industries su base familiare, un forte
aumento della popolazione, del reddito pro-capite - tra il 1800 e il 2000, indicizzato
con l’inflazione, quest’ultimo è decuplicato - ed un notevole miglioramento nella
salute34
. Infatti, con il trasferimento di massa negli edifici urbani in mattoni, la
presenza di indumenti di cotone e saponi a basso costo, l’aumento del reddito da
lavoro, migliorarono sensibilmente l’igiene, la frequenza nelle malattie e la qualità
della vita, ovvero, a dire dell’autore, “qualsiasi effetto negativo derivante dal
lavorare nelle fabbriche venne più che compensato dagli effetti positivi del vivere
intorno a esse”35
. L’avanzare delle tecnologie agricole permise di nutrire un numero
crescente di persone, impiegandone molte di meno nei campi, e rendendole dunque
disponibili per altre occupazioni: gran parte si riversarono nelle fabbriche,
aumentando la produzione di beni e incrementando in tal modo, come mai prima di
allora, il volume dei commerci. Quindi, i Paesi iniziarono a limitarsi a produrre ciò
che ottenevano con più facilità e a minor costo - e su cui detenevano dunque un
vantaggio competitivo - limitandosi ad importare il resto, e per questa via
aumentando ulteriormente la produttività. Ciò contribuì ad alimentare quel vortice
di cambiamenti, di cui si è detto sopra, che travolse la vita quotidiana delle persone,
ragion per cui si può, coerentemente con la definizione esposta all’inizio del
paragrafo, parlare di una Rivoluzione Industriale.
34
Cfr. ibidem, p. 45. 35
Ibidem.
35
Figura 7. Cottage industry. Fonte: http://kids.britannica.com
Per Seconda Rivoluzione Industriale, invece, s’intende quella fase che si estende
dal 1850 circa alla fine della Prima Guerra Mondiale, e che vede sorgere una serie
di innovazioni e cambiamenti: nel 1855 furono perforati i primi pozzi petroliferi
negli Stati Uniti, nel 1871 Antonio Meucci dimostrò il funzionamento del
“telettrofono”, nel 1878 Thomas Edison mise a punto la prima lampadina elettrica,
nel 1886 Daimler e Benz costruirono i primi motori a scoppio, nel 1895 i fratelli
Lumière il primo apparecchio cinematografico.
Nel campo della produzione, certamente rilevante fu l’introduzione da parte della
“Ford Motor Company” di Chicago, intorno al 1913, della catena di montaggio, che
si è soliti indicare come quella “linea di lavorazione industriale semovente che
sposta il materiale in fabbricazione alle successive stazioni di lavoro, dove operai
poco o non qualificati montano le parti componenti”36
. Inoltre “la scomposizione
delle mansioni operaie in operazioni semplici doveva consentire la sostituzione di
manodopera qualificata con manodopera generica, la predeterminazione dei tempi
di lavorazione, la forte crescita della produttività”37
, dando così avvio, in un breve
lasso di tempo, all’era dei consumi standardizzati e di massa.
36
http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/c/c109.htm 37
Ibidem.
36
Figura 8. Catena di montaggio. Fonte: http://jdayhistory.weebly.com
Per molti, la Terza Rivoluzione Industriale inizia intorno agli anni Ottanta del
secolo scorso con la diffusione del personal computer, prosegue con i successi di
Internet e della telefonia mobile, fino alle crescenti innovazioni nel campo
dell’Information Technology, inducendo a parlare di questo periodo come dell’Era
dell’Informazione, poiché le comunicazioni e il computing sarebbero “forze
moltiplicatrici che fanno per i servizi ciò che l’automazione ha fatto per la
manifattura”38
.
Per Jeremy Rifkin, economista ed autore nel 2011 di un testo intitolato non a caso
La Terza Rivoluzione Industriale, quest’ultima si raggiungerà collegando alcuni
importanti pilastri, fra cui l’utilizzo di energie rinnovabili è certamente uno dei più
rilevanti, che faranno in modo che l’attuale distribuzione energetica si basi sul
modello di Internet, distribuito e collaborativo, piuttosto che sull’attuale modello
centralizzato, permettendo così agli utenti di produrre energia “verde” direttamente
da casa39
.
Per Neil Gershenfeld, la Rivoluzione Digitale rappresenterebbe una storia
incompleta, poiché, almeno sino a qualche anno fa, ha riguardato essenzialmente i
computer, che limitano l’informazione ad una superficie bidimensionale, e non le
38
Chris Anderson, op.cit., p.49. 39
http://download.repubblica.it/pdf/2007/terza_rivoluzione_industriale.pdf
37
persone dietro ai loro schermi: queste infatti, vivono in mondi tridimensionali, per
cui diventa necessario abbattere la barriera fra l’informazione digitale ed il mondo
fisico40
.
Per Chris Anderson, in linea con questo pensiero, né l’invenzione del calcolo
digitale, né la connessione dei computer attraverso Internet possono essere in sé
riconosciute come rivoluzioni industriali. Infatti, nella misura in cui si tratta di
eventi trasformativi per la nostra cultura, riconosce a esse lo statuto di una
rivoluzione, non potendo però annettervi l’attributo di industriale, poiché si sta solo
di recente assistendo a quest’ultima. L’autore, difatti, non ha dubbi nell’identificare
la Terza Rivoluzione Industriale con “la combinazione della manifattura digitale e
di quella personale: l’industrializzazione del Movimento dei Makers”41
, ovvero con
una trasformazione che ha effetti di democratizzazione ed ampliamento nella
produzione di beni materiali analoghi a quelli dei due mutamenti precedenti. Si
tratterebbe inoltre di una Rivoluzione i cui effetti non si sono limitati alla mole di
prodotti disponibili sul mercato, ma che ha allargato anche le maglie della classe
dei potenziali imprenditori. In definitiva, si può affermare che nonostante il
ricorrente parlare di weightless economy e in generale di un’economia dei bit che si
sovrappone sempre più ad una ingombrante economia degli atomi, viviamo ancora,
di fatto, in case, uffici, scuole e strade composte da atomi, per cui “qualsiasi cosa
possa trasformare il processo di produzione di beni fisici ha un potere enorme in
termini di influenza sull’economia globale. Si tratta della realizzazione di una vera
rivoluzione”42
.
40
Cfr. Neil Gershenfeld, Quando le cose iniziano a pensare, Garzanti, 1999. 41
Chris Anderson, op.cit., p. 50. 42
Ibidem, p. 51.
38
Figura 9. Illustrazione di Brett Ryder. Fonte: http://fareimpresa.liquida.it
6. Da Manchester ad Obama: quali prospettive per i makers
Prima di dedicarsi alla situazione italiana, e dunque al sostrato distrettuale ed
artigianale su cui probabilmente la portata del Movimento andrà ad incidere in
misura maggiore, si ritiene opportuno, approfondendo quali politiche ed iniziative
potrebbero assecondare e metter meglio a frutto le conseguenze del fenomeno sul
territorio, presentare due casi, ovvero due modelli di comportamento da parte di due
differenti Paesi limitatamente al fenomeno dei makerspace.
Il primo caso prende le mosse dall’eredità lasciata nell’area su cui sorge la città di
Manchester dalla Prima Rivoluzione Industriale. La città infatti, alla fine
dell’Ottocento, era definita “Cottonopolis”, e si serviva di fiumi, torrenti e nascenti
ferrovie per rifornirsi di balle di cotone grezzo e poi esportarne i prodotti finiti. “A
metà dell’Ottocento Manchester era al suo apogeo […]. Era un lampo sul futuro: -
afferma Anderson - supply chain globale, vantaggio competitivo e automazione
rendevano una città fino ad allora sconosciuta il centro del commercio tessile
globale”43
. Ciò rese la fabbrica di Manchester altamente competitiva, tanto da
diventare un modello per le altre, finché non iniziò a vendere, oltre ai tessuti, le
macchine che li avevano realizzati: a quel punto perse tale competitività ed iniziò il
43
Ibidem, p. 52.
39
lungo declino della città, durato per oltre un secolo e cui non erano mai seguite
riforme tali da invertirne il senso di marcia44
. L’elemento che aiutò Manchester ad
uscire da una situazione di stallo durata oltre un secolo, fu un tragico evento: il 15
giugno 1996 esplose nel centro della città la più devastante bomba mai congegnata
in Gran Bretagna dall’IRA. L’avvenimento rappresentò una sorta di punto di svolta,
in quanto “dopo anni di declino e di strategie di conversione fallite, la ricostruzione
divenne un catalizzatore”45
.
Oggi si tenta infatti di ripensare la città come hub digitale, ovvero in vista di una
serie di spazi dove abitare, lavorare, imparare, progettare e costruire, il tutto
accompagnato da aree ricche di negozi ed attraenti scenografie architettoniche.
Resta confinato ed apparentemente separato dalla rinascita della città, un quartiere
post-industriale, New Islington, dove si possono trovare dei fabbricati assimilabili a
vere e proprie rovine, che, essendo classificate come edifici storici, non si possono
abbattere, ma le spese per la ricostruzione dei quali, essendo la richiesta della
classificazione il mantenimento delle facciate originali, ne minano la fattibilità46
. È
all’interno di quest’area dove il tempo sembra essersi fermato, che si erge un
edificio modermo, chiamato Chips, verosimilmente perché l’architetto avrebbe
collocato in pila delle patatine per studiarne la forma, pensato per essere uno di
quegli spazi moderni facenti parte di una hub: i piani superiori sarebbero stati ideati
per un condominio, quelli inferiori per ristoranti e negozi, e quelli nel mezzo per
uffici ed attività lavorative. Tuttavia lo scoppio della bolla immobiliare ha bloccato
simili progetti, ragion per cui i proprietari hanno deciso di offrirlo all’associazione
locale di industriali come sede per un laboratorio che si proietti nel futuro della
fabbricazione di beni: oggi è il primo FabLab sorto nel Regno Unito47
.
44
Cfr. ibidem, pp. 53-54. 45
Ibidem, p. 54. 46
Cfr. ibidem, p. 55. 47
Cfr. ibidem, p. 56.
40
Figura 10. Chips di Manchester. Fonte: http://www.e-architect.co.uk
Benché la gran parte dei progetti sia realizzata da studenti e non sia ancora nata
alcuna startup, il direttore del laboratorio, Haydn Insley, interpreta il fenomeno in
termini di liberazione della creatività, affermando che a prevalere infine è la
progettazione, non la realizzazione in sé; insomma ciò che conta, con le parole di
Anderson, è che “sul Mersey le macchine hanno ripreso a girare”48
. Un elemento
chiave però, e che fa la differenza rispetto al precedente sviluppo sulle rive del
Mersey, è che adesso l’innovazione ed i suoi strumenti sono alla portata di tutti: in
modo simile alla democratizzazione dei mezzi di produzione su Internet, quali ad
esempio il software o la musica, che “ha reso possibile creare un impero dalla
stanza di una residenza per studenti o un disco in una camera da letto, così i nuovi
strumenti democratici della manifattura digitale saranno le spinning jenny di
domani”49
.
Si tratta dunque di pensare le possibilità offerte dai nuovi strumenti di produzione
digitale come uno stimolo ed un’opportunità per la creazione di un saper fare
diffuso, collaborativo e creativo, da cui poi nasceranno innovazione e crescita.
Inoltre, siamo senza dubbio di fronte al noto concetto di Glocal, ovvero di un
fenomeno che “opera per la tutela e la valorizzazione di identità, tradizioni e realtà
locali, pur all’interno dell’orizzonte della globalizzazione”50
. Si tratta di una
48
Ibidem, p. 57. 49
Ibidem, p. 63. 50
http://www.grandidizionari.it
41
corrente profondamente connessa alla dimensione locale dello sviluppo, e che,
lungi da derive di stampo localistico, intende valorizzarne le risorse, a cominciare
da capitale umano e sociale. Un tema, questo, su cui sembra aver ben riflettuto
anche il Presidente degli Stati Uniti d’America, nella misura in cui, all’interno di
un’iniziativa chiamata “We can’t wait”, egli ha annunciato nell’agosto 2012 un
piano da un miliardo di dollari stanziati allo scopo di aprire altri quindici istituti nel
Paese destinati all’innovazione manifatturiera, che possano fungere da hub locali
per le eccellenze manifatturiere. Ad avviso di Barack Obama, non è infatti più
possibile procrastinare, mentre tiene ad aggiungere che il momento adeguato per
puntare su innovazione e produzione locale, per fare in modo che il futuro della
manifattura non si trovi in Cina o in India, è adesso51
.
Figura 11. Galleria espositiva di oggetti ottenuti con le tecnologie della manifattura
additiva, presso il NAMII. Photo by NCDMM. Fonte: www.namii.org.
Lo scopo perseguito, infatti, è quello di dare nuova linfa alla manifattura americana,
poiché per dar vita ad un’economia costruita per durare, l’America ha bisogno di
produrre più di quanto il resto del mondo desideri acquistare. Altro obiettivo è
incoraggiare le imprese a investire negli Stati Uniti, il tutto attraverso un’iniziativa
che consisterà nel costruire un network fra le strutture aperte e che ha inizio con
51
Cfr. http://www.whitehouse.gov
42
l’inaugurazione di un istituto preposto all’innovazione nel settore manifatturiero,
nato a Youngstown, in Ohio, da una partnership di tipo pubblico-privato: il
“National Additive Manufacturing Innovation Institute” (NAMII)52
.
L’iniziativa, oltre ad essere certamente degna di nota, coinvolge il nostro Paese più
di quanto ci si possa attendere, poiché ingloba un progetto che ha fatto sì che nel
gennaio del 2013 sorgesse a Pistoia, nella Biblioteca di San Giorgio, “YouLab”,
spazio finanziato dall’Ambasciata americana, “tanto che il taglio del nastro è
avvenuto subito dopo che l’ambasciatore David Thorne ha soffiato in un fischietto
appena prodotto da una stampante 3D fatta a Firenze, la Kentstrapper”53
, racconta
in un articolo il giornalista Riccardo Luna.
“YouLab”, pertanto, è un American Corner, ovvero fa parte di una serie di spazi,
distribuiti nel mondo, al cui interno l’Ambasciata statunitense, collaborando con
partner locali, promuove la conoscenza della cultura, della società e della storia
americana. Tuttavia, si tratta di un American Corner, però, sui generis, in quanto è
il primo al mondo a caratterizzarsi come un Digital Innovation Center54
. Il
laboratorio, infatti, offre agli iscritti alla Biblioteca San Giorgio la possibilità di
usufruire degli strumenti digitali presenti e di prendere parte a conferenze e
laboratori inerenti alle tecnologie informatiche e alla creazione digitale, disponendo
di “computer, tablets, macchine fotografiche, telecamere, corredati da software e
altri complementi, testi sulle licenze digitali e sui Creative Commons, stampante
laser e anche una stampante 3D per la creazione di oggetti a partire da progetti
digitali”55
. L’obiettivo è anche quello di condividere progetti e risultati in una rete
di apprendimento sociale, volta ad incrementare il coinvolgimento della comunità
locale e le collaborazioni fra quest’ultima e gli Stati Uniti56
.
Sembra, dunque, che sul territorio italiano siano presenti alcune interessanti risorse
e prospettive, che forse il mondo politico nazionale fatica a mettere a fuoco, ma che
non sono per questo meno ricche di potenzialità ed elementi innovativi.
Certamente, la cosa non rappresenta un problema, nell’ottica di una dimensione
collaborativa ed orizzontale, per la quale ciò che conta è che infine si giunga, al
livello di singoli contributi nazionali, ad aggregare su base globale - o forse
52
Cfr. ibidem. 53
http://ricerca.repubblica.it 54
Cfr. http://www.sangiorgio.comune.pistoia.it 55
Ibidem. 56
Cfr. ibidem.
43
sarebbe meglio dire glocale - un dato avanzamento tecnologico e determinate
sperimentazioni nell’ottica di una manifattura sempre più digitalizzata e al servizio
dei bisogni individuali e collettivi.
Tuttavia, in ottica nazionale, sembra auspicabile, considerate non solo la ricchezza
e la storia della produzione manifatturiera, ma anche la crisi economica che
attualmente attraversa il Paese, prendere spunto da entrambe le esperienze
sopracitate. Da un lato, infatti, il caso di Manchester offre al nostro Paese l’esempio
di come sia possibile partire da un territorio in declino e particolarmente disagiato,
per gettare le basi di una ricostruzione non soltanto simbolica ma che, come tutti i
processi di rinnovamento particolarmente riusciti, prenda le mosse dal basso,
essendo pensata per supportare e accompagnare il percorso di crescita di studenti,
giovani e futuri ed odierni imprenditori. Dall’altro, il ritorno al made in USA che
possa contare su imprese innovative, da parte della politica statunitense, rappresenta
forse una duplice consapevolezza che non può che far riflettere in chiave nazionale.
In primo luogo, benché i dati parlino di un’economia smaterializzata che ha sempre
più il sopravvento sull’economia reale, l’iniziativa dimostra che la ricchezza e la
stabilità di un Paese si costruiscono attraverso il lavoro e il capitale umano che in
esso si riflette, insegnamento che forse l’America ha introiettato a sue spese; in
secondo luogo, si tratta di recuperare quel vantaggio competitivo nella manifattura
che Stati Uniti ed Europa sembrano aver definitivamente perduto nei confronti delle
cosiddette economie emergenti, caratterizzate da produzioni standardizzate a basso
costo.
Il tutto sembra richiamare l’idea di un ritorno a una produzione - Made in Usa,
Made in Italy, Made in Europe - che punti invece a criteri qualitativi ed ambientali:
concetto forse familiare e confacente al contesto nazionale, cui non starebbe altro
che cogliere la sfida. Si tratterebbe, come alcuni osservatori affermano da qualche
tempo, di puntare sulla tradizione artigianale e di piccola e media impresa che
caratterizza il Paese, per lanciare prodotti che non mirino tanto a far concorrenza
alla produzione di medio-bassa qualità ottenibile su altri mercati a minor costo, ma
che puntino a una qualità medio-alta, sfruttando anche, ove occorra, le potenzialità
offerte dalla nuova manifattura digitale. Un tema, questo, sul quale ci si soffermerà
più avanti.
44
7. Sfide: limiti e opportunità
Prima di occuparsi del carattere propriamente imprenditoriale del fenomeno in
Italia, e soprattutto dei suoi possibili sviluppi, sembra indispensabile tentare di
tracciarne brevemente un profilo dei limiti e, insieme, delle potenzialità.
Si tratterà, in definitiva, il tema della dimensione d’impresa più adeguata alle
caratteristiche produttive proprie degli strumenti della fabbricazione digitale, e
dunque della tipologia di beni che si adattano meglio alla porzione di mercato
ricavabile da un simile business. Si noterà così come le modalità produttive
pongano dei limiti intrinseci al sistema, che possono però agevolmente trasformarsi
in opportunità, se ci si focalizza su una nicchia di mercato ben definita.
Si proveranno ad immaginare, in seguito, possibili modelli innovativi di business,
facendo principalmente riferimento a startup e ad imprese che vogliano utilizzare
gli strumenti offerti dalla “Terza Rivoluzione Industriale” per ottenerne un’attività
economica sostenibile. Essere una startup innovativa, e in special modo utilizzare
degli strumenti i cui effetti sul mercato non sono ancora stati pienamente testati,
può certamente rappresentare un limite e un rischio, se non si fa riferimento a nuovi
modelli che ne supportino l’impatto e ne evitino il fallimento.
Infine, si parlerà anche dei nuovi metodi di finanziamento possibili per l’attività
imprenditoriale, che ben si sposano con le dinamiche che contraddistinguono il
fenomeno dei makers, e in generale della nuova imprenditoria. Si tratta del
crowdfunding, e in specie del sito Kickstarter, sistema di cui descriveremo
dinamiche e successi, in un’ottica che, sebbene non ne riconosca ciecamente le
prerogative, scorgendovi anche dei rischi, tende ad attribuire maggior peso alle
opportunità inesplorate che questo apre.
7.1. Trovare la propria dimensione: una scelta consapevole
Un primo aspetto da trattare è quello della dimensione del business, ovvero della
scala adeguata per la produzione, e del genere di beni da produrre per intercettare e
occupare stabilmente la propria nicchia nel mercato globale.
Per Anderson, si è di fronte alla scelta - quasi forzata per altro - di produzione
seguente: focalizzarsi su prodotti che non traggano necessariamente beneficio dalle
economie di scala, ma che puntino sulla personalizzazione e sulla complessità del
45
manufatto. Mentre per i piccoli lotti e per i prodotti considerati di nicchia, dunque,
il sistema digitale conserva certamente un vantaggio competitivo, per i grandi lotti
sembra ancora difficile realizzare i costi competitivi ottenibili con il sistema
analogico57
. Le economie di scala, infatti, permettono di ridurre il costo unitario di
un prodotto con il crescere del volume di produzione e del suo impianto, e dunque
si adattano bene alla gran parte dei prodotti standardizzati di massa poiché si tratta
di beni fungibili, cioè di prodotti perfettamente interscambiabili con altri
appartenenti alla stessa categoria. Viceversa, se all’interno di tali economie
s’introduce anche una singola variazione per alcuni pezzi della produzione, il costo
di tale deviazione dalla produzione in serie standard diventa difficilmente
sostenibile.
Risulta dunque di agevole comprensione, a questo punto, comprendere perché
possa essere utile, per determinati prodotti, servirsi di strumenti quali la stampa
tridimensionale: quest’ultima, infatti, favorisce l’individualizzazione e la
customizzazione del prodotto, in quanto in questo caso “non c’è nessuna
penalizzazione finanziaria nel modificare una singola unità o nel fabbricare lotti
piccolissimi”58
. A questo proposito, Chris Anderson propone un’interessante analisi
sulle possibilità offerte da un simile modo di produzione, aperto e rispondente ai
bisogni personali. L’autore parte dunque dall’analizzare come Internet, in generale,
abbia rivoluzionato non tanto la produzione, quanto la distribuzione dei beni fisici.
Con ciò, egli fa riferimento al fatto che con il modello delle produzioni di massa del
XX secolo, esistevano dei limiti ben definiti per ciò che fosse umanamente
acquistabile:
1. il bene doveva essere sufficientemente popolare da giustificarne la
fabbricazione;
2. doveva parimenti essere sufficientemente popolare da giustificarne la tenuta in
assortimento da parte dei rivenditori;
3. doveva essere così popolare da poter essere facilmente reperibile per il
consumatore59
.
57
Cfr. Chris Anderson, op.cit, pp. 108-109. 58
Ibidem, pp. 107-108. 59
Cfr. ibidem, p. 79.
46
Propone in seguito l’esempio di Amazon, per dimostrare come il web abbia
sollevato in parte i venditori dal secondo e dal terzo vincolo, ed in generale per far
riflettere sul fatto che Internet ha fatto emergere una catena lunga di prodotti fisici
- l’Internet delle cose - in grado di competere con la coda lunga dei prodotti
digitali. Anche per quanto riguarda il primo limite, il web ha fatto sì che si
fabbricassero più prodotti di nicchia, potendo questi ultimi contare su una
domanda di mercato virtualmente globale60
. Dunque, il passaggio a strumenti di
fabbricazione digitale, come la stampante 3D, costituirebbe per l’autore il passo
naturalmente successivo nella personalizzazione dei prodotti e nella
riappropriazione della forza del singolo in mercati sempre più massificati e
spersonalizzati (e spersonalizzanti). Così come la Rete “ha fatto emergere una
coda lunga di domanda per i prodotti di nicchia; oggi gli strumenti democratizzati
di produzione stanno facendo emergere anche una coda lunga di offerta”61
.
D’altro canto, già nel 1984, Michael Piore e Charles Sabel, due professori del MIT,
predissero una simile transizione nel noto testo Le due vie allo sviluppo industriale,
in cui sostenevano che la prima via industriale tra persone e produzione, ovvero il
modello della produzione di massa che aveva caratterizzato il XX secolo, non era
inevitabile e soprattutto non costituiva la fine dell’innovazione nella manifattura,
ma era al contrario pensabile l’emergere di una specializzazione maggiormente
flessibile62
. In sintesi, tutti gli elementi che con la produzione tradizionale hanno un
costo elevato, con la fabbricazione digitale divengono a costo zero: varietà,
complessità e flessibilità, cioè la possibilità di modificare un prodotto dopo l’avvio
della produzione, divengono opzioni gratuite63
.
Sembra essere fondamentale, dunque, al livello d’impresa, porsi delle domande e
saper operare scelte consapevoli concernenti il prodotto e i suoi potenziali fruitori,
che mirino in una certa misura a darsi dei limiti e a circoscrivere gli obiettivi che ci
si pone, al fine di trasformare i vincoli in vantaggi competitivi.
60
Cfr. ibidem, p. 80. 61
Ibidem, p. 82. 62
Cfr. ibidem, p. 85. 63
Cfr. ibidem, p. 109.
47
7.2. Nuovi modelli di business per un nuovo business
Per quanto riguarda i possibili modelli cui ispirarsi, per le imprese di maker del
futuro un sicuro punto di riferimento è il metodo della “Lean Startup”, introdotto
nel 2008 da Eric Ries.
Ries è un imprenditore della Silicon Valley che, basandosi sulla sua esperienza
personale d’impresa, propone un modello che si fonda su una struttura leggera che
mira ad evitare gli sprechi e i quasi sistematici fallimenti di tante startup. Uno dei
principi chiave, infatti, è quello dell’apprendimento consolidato, ovvero il fare
continui esperimenti, nello svolgimento dell’attività d’impresa, per verificare che si
stia andando nella direzione di un business sostenibile64
. Altro principio
determinante è quello di Creazione, Misurazione e Apprendimento, per il quale una
startup sarebbe costituita da tre attività fondamentali: “trasformare idee in prodotti,
misurare le reazioni della clientela e capire se svoltare o perseverare”65
. Si tratta, in
generale, di un metodo che prevede di verificare l’effettivo interesse dei potenziali
utenti presentando una demo del prodotto, così da evitare di metterlo in produzione
qualora non dovesse ottenere l’interesse sperato: è un iter che ben si sposa con
nuove tecniche di finanziamento per le imprese, quali il crowdfunding attraverso
siti come Kickstarter, di cui si parlerà in seguito.
Ciò presuppone la modifica di eventuali funzionalità del prodotto sulla base dei
feedback ricevuti dalla clientela, discostandosi, ove appropriato, anche da quanto
indicato nel business plan66
. Dei principi, dunque, che possono trovare vasta
applicazione in un ambiente che si muove attraverso processi d’apprendimento
orizzontali e collaborativi.
Per quanto riguarda i business model, come suggerito da Frankenstein Garage, un
grande catalizzatore d’attenzione è certamente il business model Canvas, uno
strumento strategico che sfrutta la logica del visual thinking, e che è stato presentato
da Alexander Osterwalder nel libro scritto con Yves Pigneur, Business Model
Generation67
. Lo scopo è quello di rappresentare il modo in cui un’azienda crea,
distribuisce e cattura valore, per mezzo di un linguaggio universale comprensibile
per tutti, utilizzando un framework al cui interno si muovono i nove elementi
64
Cfr. Eric Ries, The lean startup, Crown Business 2011, p. XVII. 65
Ibidem. 66
Cfr. www.digitalmarketinglab.it 67
Alexander Osterwalder-Yves Pigneur, Business Model Generation, John Wiley & Sons Inc., 2010.
48
costitutivi di un’azienda, al fine di dar vita a nuovi business o rafforzarne di
esistenti68
. Il modello di Canvas è dunque composto dai seguenti nove blocchi:
1. Segmenti di clientela, ovvero i differenti gruppi cui l’impresa si rivolge;
2. Valore offerto, ciò che l’impresa offre al cliente,
3. Canali di distribuzione e vendita, modalità attraverso cui l’impresa raggiunge la
propria clientela;
4. Relazioni con i clienti, cioè differenti modalità relazionali, che vanno
dall’assistenza personale alla co-creazione di contenuti e alle community online;
5. Flussi di ricavi, che possono ad esempio essere determinati da prezzi fissi
indicati su un listino, o da una gestione dei prezzi dinamica;
6. Risorse chiave, gli elementi essenziali al buon funzionamento del modello;
7. Attività chiave, quali la progettazione, la distribuzione o il problem solving;
8. Partnership chiave, che mirino ad ottimizzare il modello;
9. Struttura dei costi: una bassa struttura dei costi, ad esempio, può essere più o
meno importante69
.
Si tratta di un modello di business innovativo ed “aperto” alla collaborazione ed
alla condivisione di idee in un gruppo di lavoro, pertanto particolarmente utile
laddove non ci siano esperienze di business prestabilite da utilizzare come modelli -
come nel caso di un’impresa che si avvalga della fabbricazione digitale - e sia
dunque utile partire da uno schema di base e di facile lettura che metta in evidenza
la direzione verso la quale si intende procedere. Anche in questo caso, dunque,
l’assenza di un modello di riferimento che si adatti perfettamente ad una realtà
ancora in via di definizione, finisce per trasformarsi in un’opportunità, nella
fattispecie fornendo la libertà, a chi si avvicini alla dimensione d’impresa
impiegando strumenti digitali, di appropriarsi del modello che più si confà al
progetto di business, fermi restando alcuni principi di massima, quali la chiarezza
del modello e la sua creazione a partire dall’esperienza fattuale e dal confronto e dal
dialogo fra i lavoratori stessi.
68
Cfr. www.businessmodelcanvas.it 69
Cfr. ibidem.
49
Figura 12. I nove blocchi del business model Canvas.
Fonte: www.businessmodelgeneration.com
7.3. Come finanziarsi: la risposta del crowdfunding
Per quanto concerne il finanziamento del business in senso stretto, merita infine
qualche accenno il fenomeno di crescente importanza costituito dal
“crowdfunding”, esemplificato da siti quali Kickstarter, mediante il quale i
potenziali clienti del prodotto proposto contribuiscono con il denaro sufficiente per
la sua realizzazione.
Il crowdfunding è una pratica resa nota al livello globale da Barack Obama, che la
utilizzò finanziando in tal modo parte della sua campagna elettorale del 2008; il
concetto è, infatti, quello di utilizzare una piattaforma web per chiedere a potenziali
investitori di finanziare un progetto in cui credono: un film, un prodotto
tecnologico, il programma e la figura di un personaggio politico. In linea di
massima, esistono due tipi generali di crowdfunding, ognuno dei quali presenta due
sottotipi:
1. il primo, detto donation crowdfunding, è assimilabile a una donazione, che può
avvenire secondo due modalità: il rewards crowdfunding, che prevede una
50
ricompensa per i finanziatori del progetto, e il charity crowdfunding, che non
prevede alcuna ricompensa e che è quello che può essere utilizzato in modo più
appropriato da organizzazioni o enti senza scopo di lucro, o da un partito politico70
;
2. l’investment crowdfunding, che può ripartirsi come segue: si ha il lending
crowdfunding quando un insieme di persone presta denaro ad un individuo o ad
un’impresa con la reciproca intesa che il prestito verrà restituito insieme agli
interessi maturati, mentre si parla di equity crowdfunding, quando l’oggetto dello
scambio consiste nel capitale azionario di una società71
, in cambio del quale gli
investitori finanzieranno un’idea di un imprenditore.
La forma di finanziamento su cui si focalizzerà l’attenzione in questa sede, è quella
del primo tipo, e nella fattispecie il rewards crowdfunding, che è il principio su cui
si basano i principali siti a ciò dedicati, come Kickstarter ed Eppela.
Su Kickstarter, infatti, è possibile leggere la descrizione e guardare la demo di un
numero molto elevato di progetti, cui poi, qualora si ritenga valido il prodotto e si
desideri acquistarlo, si può decidere di contribuire con una cifra che copra un valore
predeterminato dall’ideatore, allo scopo di aggiudicarsi il prodotto, una volta
realizzato, ad un prezzo inferiore a quello di vendita72
. Il sito chiede al proponente
di fissare una somma minima da raccogliere e se entro un determinato periodo dalla
pubblicazione, in genere di quattro settimane, il progetto riceve una cifra di uguale
o maggior ammontare, il prodotto ottiene il finanziamento sufficiente per la messa
in produzione, i primi clienti ed utili consigli da questi ultimi mediante la modalità
aperta di intervento attraverso la community online. Infatti, secondo Anderson il
sito risolve agli imprenditori tre rilevanti problemi:
1. anticipa i ricavi nel momento in cui sono maggiormente necessari, ovvero
quando è necessario dedicarsi ad attività quali lo sviluppo di prodotto e l’acquisto
delle componenti;
2. trasforma la clientela in una community, poiché, in cambio della fiducia
concessa, l’ideatore s’impegna ad aggiornare gli utenti sui progressi fatti,
prendendo spunto anche da commenti e suggerimenti nei forum di discussione;
70
Cfr. http://www.crowdfundinsider.com 71
Ibidem. 72
Cfr. Chris Anderson, op.cit., p. 205.
51
3. fornisce una ricerca di mercato, in quanto un progetto che non raggiunge il target
dei finanziamenti, è verosimilmente un prodotto che avrebbe condotto al fallimento
una volta approdato sul mercato73
.
Vi è ovviamente la possibilità che non si tratti di un campione statisticamente
significativo, tuttavia sembra che quest’ipotesi non trovi un vistoso riscontro nella
realtà dei fatti.
In definitiva, si tratta anche di un modo per far sì che chi desidera realmente un
prodotto abbia la certezza di ottenerlo, ad un costo ridotto, al solo “prezzo” di un
pagamento anticipato e di una consegna posticipata, rimuovendo per questa via
“una delle più grandi barriere all’innovazione promossa dalle piccole imprese: il
capitale d’investimento iniziale”74
. Si assisterebbe inoltre secondo Anderson, alla
“forma definitiva di capitale sociale”, poiché si tratta spesso di un passaparola che
fa circolare e giungere la notizia di un progetto attraverso i canali più vari, e che
permette di ottenere l’attenzione dei soggetti maggiormente ricettivi attraverso la
conoscenza latente dei loro desideri da parte della loro cerchia di conoscenti; in
breve “la vera magia è costituita dai gradi di separazione messi in
comunicazione”75
, permettendo al progetto di creare la propria domanda.
D’altro canto, il genere di progetti presentati sul sito è altamente eterogeneo,
spaziando dall’arte, alla tecnologia, al cibo: è interessante notare che la quota
maggiore di progetti finanziati si ritrova nel settore della musica (28,6%) e della
filmografia (27,1%). Infatti, dal 28 aprile del 2009, data in cui è stato lanciato il
sito, all’aprile del 2012, cinquantamila progetti sono stati finanziati su Kickstarter,
più di ventiseimila dei quali hanno avuto successo.
73
Cfr. ibidem, p. 206. 74
Ibidem, p. 207. 75
Ibidem.
52
Figura 13. Categorie di progetti finanziati su Kickstarter. Fonte: www.kickstarter.com
Quando abbiamo chiesto a Stefano Micelli in quale momento, a suo avviso,
avvenga il passaggio dalla dimensione pedagogica e culturale del knowledge
sharing, o più semplicemente del bricolage e dell’hobbismo, a quella
imprenditoriale e di mercato, egli ha risolutamente affermato: “Secondo me, è il
momento in cui un ‘maker’ presenta il suo prodotto su Kickstarter. Chi vede che il
prodotto va, si butta, una volta c’erano le fiere per questo, ma con Kickstarter
funziona ancora meglio”. Esiste senz’altro il rischio che qualche acuto osservatore
possa copiare le idee più valide, ma, come Micelli ci risponde, la probabilità che ciò
accada non offusca minimamente gli indiscutibili vantaggi che il mezzo in sé offre.
È importante ricordare che dal 27 luglio 2013 è entrato ufficialmente in vigore il
regolamento della Consob per il crowdfunding, che riconosce anche alle startup
italiane la possibilità di raccogliere capitali mediante portali online: si dimostra in
questo caso capacità d’iniziativa e lungimiranza nel riconoscere il valore che
l’innovazione riveste nell’equilibrio economico complessivo, trattandosi, nel nostro
caso, del primo Paese europeo ad aver approvato un pacchetto di regole per
53
disciplinare il fenomeno76
.
In Makers, Chris Anderson giunge a proporre un interessante parallelismo: come la
democratizzazione degli strumenti di produzione ha creato una nuova categoria di
produttori, così i nuovi strumenti di raccolta dei capitali avrebbero dato vita ad una
nuova categoria di investitori, che investirebbero quindi nell’“idea di un prodotto”:
il crowdfunding rappresenterebbe dunque una sorta di “venture capital per il
Movimento dei Makers”77
, che estende la categoria dei finanziatori all’intera
popolazione.
8. Verso un futuro artigiano?
In questo capitolo, s’indagherà quanto il fenomeno dei makers abbia trovato
riscontro al livello di impresa nel contesto del nostro Paese, cercando di
comprendere di quali potenzialità quest’ultimo disponga, e da quali radici
provengano.
In prima battuta, si tenterà di fornire un profilo della figura dell’artigiano, nel senso
ampio e tradizionale del termine, che permetta di introdurre alla presentazione del
fenomeno in Italia e dei risvolti presentati dallo stesso e che potrebbero travolgere il
settore, nell’ottica di una sua commistione con la dimensione tecnologica e digitale.
Si presenteranno a tale scopo esempi di lavoratori appartenenti al mondo
dell’artigianato, che costituiscono dei casi d’eccellenza in termini d’innovazione nel
loro campo, e che pertanto, seguendo la definizione estensiva di Anderson proposta
in sede d’introduzione, appartengono alla categoria di “makers”.
Si approfondirà il tema delle imprese che utilizzano strumenti di fabbricazione
digitale e che sfruttano elementi innovativi nella progettazione del prodotto, e si
cercherà di comprendere quali conseguenze sociali comporti questa “esplosione” di
creatività in un Paese che ha ottenuto dall’inventiva e dalla cultura del “fatto a
mano” innumerevoli riconoscimenti, ed in cui determinate dinamiche di produzione
collaborative e caratterizzate da una cura “artigianale”, non costituiscono di certo
una novità.
76
Cfr. http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza 77
Chris Anderson, op.cit., p. 213.
54
8.1. L’artigiano: il valore di un immaginario
Si ritiene utile, a questo punto, introdurre l’argomento che segue attraverso una
breve spiegazione di ciò che s’intende in questa sede quando si parla di “lavoro
artigiano” e di “artigiani”.
Apparentemente, e in senso stretto, la figura dell’artigiano richiama alla mente un
mestiere avvolto nella tradizione e nel passato mitico, poiché, come spiega Richard
Sennett nel noto testo L’uomo artigiano, una delle prime forme di celebrazione del
mestiere sarebbe rinvenibile nell’inno omerico al dio protettore della categoria,
Efesto, che decanterebbe appunto l’immagine di un artigiano civilizzatore, ovvero
di colui che si serve degli attrezzi del mestiere “per porre fine all’esistenza
nomadica di un’umanità di cacciatori-raccoglitori e di guerrieri senza radici”78
. Si
tratta, dunque, di un personaggio che utilizza i propri talenti in vista di un bene
collettivo, come il corrispettivo greco del termine indica: l’artigiano, non a caso, è
chiamato demiourgos, vocabolo che associa l’idea di pubblico e quella di
produzione, essendo un composto di demios, “appartenente al popolo”, ed ergon,
“opera, lavoro”79
. Il fulgore che caratterizza l’immagine del demiourgos nell’età
omerica, sembra però offuscarsi con l’età classica, tanto da far parlare
successivamente Aristotele, nella Metafisica, di un semplice cheirotechnes,
“lavoratore manuale”, cui contrapporre i veri sapienti, i quali, loro sì,
conoscerebbero “le cause delle cose che vengon fatte”80
.
Si tratta forse della prima ufficiale sottovalutazione del mestiere in questione, per
mezzo di un ragionamento che dà voce ad uno storico equivoco: l’artigiano,
relegato nella dimensione della manualità e del fare in senso stretto, si ricollega ad
un genere di lavoro meccanico e ripetitivo, slegato dall’universo in cui agisce chi,
invece, conosce le cause delle proprie azioni, e slegato dunque dall’attività
riflessiva. In forte disaccordo col maestro, Platone si diceva preoccupato per il
declino della figura dell’artigiano, sempre più separata in quel tempo, agli occhi dei
più, da quell’abilità tecnica da ricollegare invece al verbo poiein, “fare”, che
contraddistingue tutte quelle attività caratterizzate da una forte aspirazione alla
qualità e da una continua tensione verso il miglioramento progressivo; il filosofo,
78
Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2008, p. 29. 79
Cfr. ibidem. 80
Ibidem, p. 30.
55
d’altro canto, non esita a includere nel novero degli artigiani la figura del poeta,
termine la cui etimologia risale del resto al verbo “poiein”.
Il ruolo di artigiano, d’altronde, ha vissuto fasi alterne nel corso della storia,
essendo stato messo nell’ombra, in un primo tempo, dall’automazione e dalla
meccanizzazione dei mestieri più tradizionali con l’avvento delle macchine a partire
dalla Prima Rivoluzione Industriale, nonché, alla fine del secolo scorso, dall’era
dell’Information Technology.
Chris Anderson, in Makers, ricorda con nostalgia il tempo in cui, da bambino,
s’improvvisava “maker” nel laboratorio del nonno, inventore svizzero emigrato a
Los Angeles, finché, una volta cresciuto, smise semplicemente di farlo: “Imparai a
programmare, e le mie creazioni erano in codice, non in acciaio. Pasticciare in un
laboratorio sembrava volgare rispetto a scatenare il potere di un
microprocessore”81
.
Sennett, dal canto suo, s’impegna fortemente nel ribadire, in tutto il volume e
mediante una serie di esempi, il concetto che “fare è pensare”, criticando
fortemente l’idea di quello che definisce un “divorzio fra la mano e la testa”. Un
esempio attuale di artigiani, per l’autore, è rappresentato dai creatori dei software
open source, ed in particolare del sistema operativo Linux, che descrive come un
“manufatto pubblico”: il sistema ha un codice sorgente che è accessibile per tutti,
ognuno può quindi usarlo, adattarlo e migliorarlo, conciliando la qualità con
l’accesso aperto e rendendo i partecipanti dei veri e propri demiourgoi82
. Infatti, si
tratterebbe di una “comunità di artigiani” - o meglio una community - che opera
all’interno di laboratori online, in modo impersonale, perseguendo senza sosta la
qualità di un lavoro ben fatto, “marchio d’identità dell’artigiano”, e dedicandovi
gratuitamente il proprio tempo83
. L’autore non si esime dall’affermare, però, che
simili comunità sono spesso viste con distacco e finiscono per far parte di un
fenomeno sociale incompreso, e dunque non vengono riconosciute come
meriterebbero.
Tuttavia, sembra che oggi il tanto declamato mondo dei bit abbia raggiunto il
livello del laboratorio, potendo interagire con una dimensione manuale e
“artigianale” nel senso ampio del termine, che permette anche ai più scettici di
81
Chris Anderson, op.cit., p. 12. 82
Cfr. Richard Sennett, op.cit., pp. 32-33. 83
Cfr. ibidem.
56
ripensare ad una “riconciliazione” fra la testa e la mano. A definire la figura
dell’artigiano, rileva naturalmente il contesto operativo in cui opera, nonché quello
educativo, di cui si parlerà in seguito. Per Sennett, d’altro canto, “essere artigiano,
qualunque lavoro si faccia, vuol dire pensare a quanto puoi crescere migliorando le
tue abilità, ed avere tutto il tempo che serve per riuscirci. Questo non dipende solo
dalla motivazione, che è importante ma non sufficiente, ma dal contesto
organizzativo, che deve essere favorevole e valorizzare le persone, investendo su di
loro a lungo termine”84
.
Micelli, quando gli chiediamo un breve profilo di chi sia, a suo avviso, l’artigiano
del XXI secolo, il “futuro artigiano”, risponde: “i futuri artigiani sono degli
individui che si reimpossessano di una dimensione creativa, usano le reti per
mettersi in comunicazione con persone con gli stessi interessi, rimettendo così in
moto la società e le relazioni fra persone”.
Un ulteriore elemento che contraddistingue, nel corso dei secoli, la figura
dell’artigiano, è l’orgoglio per il proprio lavoro e la conseguente dignità
professionale dell’individuo, che profonde nel suo mestiere un impegno e una
passione che difficilmente sono controbilanciabili con un compenso puramente
economico. Si costruisce così, nel corso del tempo, una perizia che permette alla
tecnica di essere introiettata e di trasformarsi in un’abilità personale. Si tratta però
di un progresso delle abilità tecniche non esente da pericolose derive: l’orgoglio per
il lavoro ben fatto in se stesso, il perseguire fermamente il miglioramento dello
stato dell’arte attuale e il progredire della tecnica che ne consegue, se scissi dal
ragionamento e dal pensare alle conseguenze più ampie delle proprie azioni,
possono condurre a deviazioni considerevoli.
Riportiamo in proposito un fondamentale passaggio del testo di Sennett, che
riecheggia ed esplicita quella paura nei confronti dell’effetto distruttivo che può
avere l’invenzione di oggetti, e che risale al mito greco di Pandora:
Un giorno del 1962, poco dopo la crisi dei missili a Cuba, quando il mondo
si era trovato sull’orlo della guerra atomica, mi imbattei a New York nella
mia maestra, Hannah Arendt.
La vicenda l’aveva scossa, come aveva scosso tutti, ma le aveva anche
confermato la sua più profonda convinzione. Qualche anno prima, in Vita
activa, aveva sostenuto che l’ingegnere, per esempio, o qualunque
produttore di cose, non è padrone in casa sua: è la vita politica, in quanto sta
84
http://job24.ilsole24ore.com
57
al di sopra del lavoro fisico, che deve fornire l’orientamento. Hannah Arendt
era giunta a questa convinzione già nel 1945, quando con il progetto
Manhattan era stata creata la prima bomba atomica. Ora, durante la crisi dei
missili, anche gli americani che erano troppo giovani per avere vissuto la
seconda guerra mondiale sperimentavano in modo diretto un sentimento di
paura. Faceva un gran freddo, in quella strada di New York, ma lei sembrava
non accorgersene; le premeva che ne traessi la lezione giusta: le persone che
fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno85
.
E subito dopo, l’autore cita una riflessione tratta dal diario di Robert Oppenheimer,
direttore del progetto Los Alamos: “Quando vedi qualcosa che tecnicamente è
allettante, ti butti e lo fai; sulle conseguenze ci rifletti solo dopo che hai risolto
vittoriosamente il problema tecnico. Con la bomba atomica è stato così”86
. Ciò che
è oltremodo rilevante, in questa sede, è che Sennett interpreta quanto detto
dall’autrice come la conclusione della distinzione che la studiosa poneva fra homo
faber e animal laborans: mentre l’animal laborans, “è l’essere umano simile a una
bestia da soma, la persona che fatica, condannata alla routine”, colui per cui
“nell’atto di far sì che una cosa funzioni, niente altro conta”, poiché “per l’animal
laborans il mondo è un fine in sé”, l’homo faber è un creatore, colui che è giudice
del lavoro e delle pratiche materiali. Infatti, “secondo Hannah Arendt, noi esseri
umani viviamo in due dimensioni. Nell’una, fabbrichiamo cose; in questa
condizione siamo amorali, immersi nel compito da eseguire. Ma alberghiamo in noi
anche un’altra modalità di vita, più elevata, nella quale cessiamo di produrre e
cominciamo a discutere e a giudicare, tutti insieme. Laddove l’animal laborans si
fissa sulla domanda: ‘Come?’, l’homo faber chiede: ‘Perché?’ ”87
. L’autore discute
poi quest’affermazione, per la quale il pensiero inizia laddove finisce il lavoro,
ritenendola fallace nella misura in cui sembra togliere dignità alla figura del
lavoratore, che è invece dotato a suo avviso, in ogni momento, di pensiero e
sentimento88
.
Quello che si cercherà di dimostrare nelle pagine che seguono, è che, tenendosi alla
larga da categorie restrittive, è possibile individuare nel nostro Paese una serie di
esempi di figure artigiane o comunque ad esse assimilabili, le quali, lungi dal
confinarsi in una dimensione ottusamente ripetitiva, sono capaci di slegarsi dalla
85
Richard Sennett, op.cit., p.11. 86
Ibidem, p. 12. 87
Ibidem, pp. 15-16. 88
Cfr. ibidem.
58
tradizione, ove quest’ultima costituisca un peso, e riprodurre una dimensione
fortemente innovativa e creativa. Se si osserva bene, forse, animal laborans e homo
faber finiscono per coincidere.
8.2. Dal laboratorio artigiano all’alta tecnologia
Nel 2011 Stefano Micelli pubblica Futuro artigiano - sottotitolato, non a caso,
“L’innovazione nelle mani degli italiani” -, basandosi su un assunto di fondo:
l’artigianato rappresenta un tratto distintivo del nostro Paese nel mondo, ed è
ancora oggi fortemente legato alla competitività del sistema industriale italiano,
nella misura in cui le competenze artigiane sono state capaci di innovare il loro
ruolo all’interno di imprese, piccole e grandi, contraddistinguendole attraverso un
saper fare che molti Paesi hanno ormai perduto89
.
Ciò finisce inevitabilmente per rappresentare una sorta di vantaggio competitivo per
le industrie nazionali, che possono contare su una “manifattura flessibile, dinamica
e, soprattutto, interessante agli occhi di quella crescente popolazione che cerca
storia e cultura nei prodotti che acquista”, poiché il futuro artigiano, sembra essere
una figura complessa, “un elemento costitutivo del nostro modo di proporci in un
mondo globale” e il suo lavoro “una delle poche carte che possiamo giocare per
trovare una collocazione originale sulla scena internazionale”90
.
L’autore afferma, inoltre, che da sempre, per sapere cosa accadrà in Italia nel giro
di qualche anno, bisognava guardare agli Stati Uniti: è il motivo per cui oggi si
resta sorpresi nel constatare che, persino nella patria delle corporations, si assiste
ad una riconsiderazione del valore (anche economico) del lavoro artigianale e in
generale manuale, riflettendo sulla capacità innovativa e di proiezione nel futuro di
chi lavora con le proprie mani91
.
Si tratta di una tendenza che va oltre il fenomeno delle fiere d’artigianato e delle
piccole imprese, e che pervade anche le dinamiche propulsive delle grandi
corporations, determinandone il successo e la cifra distintiva: Micelli cita Apple
Computers come esempio di una grande azienda ossessionata dalla dimensione
tattile e fisica della produzione: “Il concetto di artigianato ha recentemente vissuto
89
Cfr. Stefano Micelli, op.cit., pp. 9-10. 90
Ibidem. 91
Cfr. ibidem, pp.14-16.
59
un ritorno in auge, e nessuna azienda nel settore della produzione di massa sta
facendo meglio di Apple [...] poiché l’alta qualità si ottiene dall’interazione fra una
persona e un materiale”92
, sostiene Adam Richardson in un articolo del 2010, a
voler sottolineare come all’origine del tanto declamato design di un’azienda che
fattura oltre trentacinque miliardi di dollari, stia la sensibilità tattile e l’abilità di una
mano esperta.
Primo concetto da tenere a mente, dunque, nel ragionamento che ci accingiamo a
svolgere, è quello della trasversalità della figura artigiana nelle differenti imprese
con cui quest’ultima si trova a interagire: quello dell’artigiano è un profilo da
salvaguardare e rivalutare nella misura in cui non corrisponde in senso stretto con
l’immagine tradizionale e “da laboratorio”, cui al più è concesso d’interagire con la
piccola impresa, ma solo ove si stagli in un panorama ampio e internazionale, non
escludendo collaborazioni con piccole e medie imprese, ma neanche
precludendosene di altre con aziende di dimensioni maggiori.
Naturalmente, il confronto con determinate tecnologie e dimensioni di produzione e
con la scala globale chiede alla figura dell’artigiano di non chiudersi al
cambiamento e all’innovazione e di intraprendere nuovi percorsi formativi, tema,
quest’ultimo, che si affronterà in seguito.
Quello che si chiede al nuovo artigiano, sembra di capire, è di uscire dai confini che
le definizioni classiche comportano, laddove si pensa generalmente che l’artigiano
sia “chi esercita un’attività (anche artistica) per la produzione (o anche riparazione)
di beni, tramite il lavoro manuale proprio e di un numero limitato di lavoranti,
senza lavorazione in serie, svolta generalmente in una bottega”93
, e d’immaginare,
invece, una dimensione lavorativa flessibile e ad alto valore aggiunto.
Altra questione, poi, è quella della rivalutazione del mestiere nell’ottica della
creazione di nuovi posti di lavoro che risultino meno vulnerabili di fronte alla
delocalizzazione imperante nell’era della globalizzazione: Micelli fa riferimento a
uno studio di Alan Blinder, in cui l’economista statunitense suggerisce, per
rispondere alla domanda che si pone, di non pensare nei termini di un settore
industriale più o meno legato al territorio, ma di riflettere invece sul concetto di
“personalizzazione del servizio”. Quanto più l’efficienza e la qualità di un servizio
sono legate a una relazione di tipo personale, infatti, tanto più difficilmente il
92
http://news.cnet.com 93
www.treccani.it
60
servizio in questione sarà oggetto della “prossima ondata di offshoring”: ne
consegue che i mestieri legati alla manualità godono in questo senso di un
vantaggio nei confronti delle attività maggiormente knowledge oriented94
.
Ad ogni modo, ci si soffermerà sull’argomento nel prossimo capitolo, dove si
tratterà il tema della formazione dei futuri artigiani e di possibili percorsi
d’istruzione a ciò preposti; quello che importa mettere in evidenza, in questa sede, è
il valore che riveste la personalizzazione del lavoro artigiano e manuale all’interno
del mercato del lavoro odierno.
Micelli fa inoltre riferimento a Chris Anderson, nella misura in cui, ad avviso di
quest’ultimo, la prossima rivoluzione industriale sarà capitanata da piccole imprese
artigianali e ad alta tecnologia, che siano in grado di operare su scala globale,
fornendo però prodotti innovativi a scala limitata e notevolmente personalizzati: il
caso indicativo portato avanti dal giornalista e imprenditore americano è quello di
Local Motors, una piccola impresa di Boston che si occupa della costruzione di
automobili su misura95
, nota per aver creato il modello da corsa Rally Fighter.
Le macchine, infatti, lavorate e prodotte individualmente, costituiscono il primo
esempio al mondo di automobili open source: la società si fonda sui principi guida
dei makers, in modo che i modelli e la selezione delle componenti siano
crowdsourced, traggano origine, cioè, dal libero scambio di idee fra i progettisti
all’interno di una community online96
.
Nel 2007, quindi, Jay Rogers e Jeff Jones, i fondatori dell’impresa, aprono un sito
in cui professionisti e appassionati confrontano le proprie idee e votano le migliori,
essendo convinti che il modello d’innovazione aperta possa stravolgere il modo di
guidare: prendono fermamente le distanze, dunque, dal vecchio paradigma delle
odierne case automobilistiche, per il quale queste ultime si affidano ad un’alta
intensità di capitali e ad un modello unico prodotto in massa e distribuito attraverso
una rete di concessionarie, e che esclude la customizzazione e non assicura un ciclo
di feedback adeguato da parte della clientela97
.
Quello che propongono è invece un modello just in time: applicano al prototipo i
progetti di design votati dalla community, li trasferiscono poi alla rete di fornitori,
che consegnano le componenti allo stabilimento, in cui un’unità composta da una
94
Cfr. Stefano Micelli, op.cit., pp. 37-38. 95
Cfr. Ibidem, p. 39. 96
Cfr. Chris Anderson, op.cit., pp. 153-154. 97
Cfr. ibidem, pp. 154-155.
61
ventina di persone si occupa di assemblarle.
La clientela stessa, al termine, si occupa dell’assemblaggio finale, aiutata da un
meccanico esperto.
È interessante notare che la community, formata da circa ventimila persone,
comprende sia professionisti che semplici appassionati, in un ambiente in cui i
primi godono dello stesso potere dei secondi; secondo Anderson infatti “a far
funzionare la comunità è la cosidetta homophily (‘amore per lo stesso’), ovvero la
tendenza delle persone ad associarsi e legare con soggetti simili creando delle
reti”98
.
Inoltre, poiché la maggioranza degli studenti di progettazione non lavora poi nel
settore automobilistico, si può beneficiare, all’interno della community, di un pool
di cervelli motivato e qualificato, che nella dinamica globale dell’impresa darà vita
ad una combinazione vincente: “[…] le comunità d’innovazione aperta mettono in
collegamento offerta latente (talento non ancora sfruttato in quel settore) con
domanda latente (prodotti che ancora non conviene produrre in maniera
tradizionale)”99
.
Figura 14. Stabilimento della Local Motors. Fonte: http://solidsmack.com.
98
Ibidem, pp. 159-160. 99
Ibidem, p. 161.
62
Ciò che più conta ai nostri occhi, e che sembra opportuno sottolineare, è il concetto
per cui Local Motors rappresenta una fabbrica che si muove nel passato e insieme
nel futuro del settore automobilistico: da un lato, infatti, le auto vengono costruite
direttamente da uomini coadiuvati dagli strumenti del mestiere - e non in serie, da
macchine a ciò preposte - dall’altro, però, si riscontra un approccio proiettato verso
il futuro nello sfruttamento delle dinamiche open source, un ulteriore beneficio del
quale è quello di operare, attraverso la community online, una vera e propria ricerca
di mercato100
.
Si tratta dunque di quei nuovi artigiani “chiamati a costruire prodotti su misura e a
garantire un’esperienza altamente personalizzata”101
, con la conseguente
instaurazione di relazioni di tipo personale che, secondo Blinder, impediranno a
queste attività di essere delocalizzate, mentre è probabile che la maggior parte degli
operatori che garantiscono le economie di scala resti saldamente posizionata in
Cina ed Estremo Oriente102
.
Il fenomeno in sé, rappresentato da esperienze del tipo della Local Motors, non può
che suonare familiare nel contesto italiano, pervaso da anni da una dimensione
artigianale che, dialogando con la tecnologia e la creatività, ha portato avanti gran
parte dell’economia nazionale.
Mentre si fatica a non essere contagiati dall’entusiasmo dell’ex-direttore di
“Wired”, e Oltreoceano s’inneggia alla presenza di simili realtà innovative, Micelli
si domanda perché in Italia non si possa raccontare allo stesso modo la storia di
aziende con percorsi simili a quelli della Local Motors, e che spesso ne hanno anzi
anticipato dinamiche. Egli fa riferimento in particolare a due aziende dell’Emilia-
Romagna: si tratta di Dallara, leader nella produzione di auto da competizione, e
che infatti produce tutte quelle che gareggiano in Formula Indy (la Formula Uno
americana), impresa che combina una tecnologia d’avanguardia, con cui simula il
comportamento delle auto in pista, con la loro artigianalità; e di Vyrus, produttrice
di moto artigianali, i cui componenti provengono però da tutto il mondo e i cui
prodotti finiti vengono ordinati su Internet103
.
Quando chiediamo all’autore se, a suo avviso, la difficoltà nel riconoscere e nel
portare ad esempio tali modelli nel nostro Paese abbia origine in una barriera
100
Cfr. ibidem, p. 163. 101
Stefano Micelli, op.cit., p. 41 102
Cfr. ibidem. 103
Cfr. ibidem, pp. 42-43.
63
culturale o nella semplice constatazione del fatto che le politiche italiane avrebbero
rinunciato a puntare sull’innovazione - malgrado un sostrato fortemente innovativo
- ci risponde che a suo avviso le barriere sono duplici: una “[…] è sicuramente
culturale, perché l’Italia da quindici anni a questa parte si è autoconfinata, ha
iniziato a pensarsi come Paese retrogrado, incapace di produrre alcunché di
innovativo, pensandosi in una posizione di marginalità nello scenario
internazionale”. Un’altra, è certamente politica, poiché la classe dirigente fatica
anche semplicemente a mettere a fuoco un simile fenomeno, che d’altro canto non
sembra essere alla ricerca di un riconoscimento di tipo politico - esiste d’altronde
una componente di controcultura nel fenomeno -, ma piuttosto di uno di tipo
culturale: si tratta di singoli che spesso non desiderano divenire una corporation e
che s’impegnano mossi più dalla passione che dal profitto, mossi dallo spirito del
Do It Yourself, una categoria, in breve, che la classe politica ha difficoltà a capire e
intercettare.
Benché possa sembrare che i percorsi di quella che appare, anche nel nostro Paese,
una nuova categoria emergente, e quelli della classe politica locale, possano
continuare a scorrere parallelamente senza incontrarsi mai - e senza che nessuno dei
due ne sia minimamente danneggiato - un’analisi della storia imprenditoriale che ha
caratterizzato il territorio, e dei cambiamenti che si rilevano all’interno della sua
industria, suggerirebbe forse di riconsiderare simili posizioni retrograde.
È quanto ci si propone d’indagare nel prossimo paragrafo.
8.3. Il Bel Paese fra tradizione e innovazione: un nuovo made in Italy?
Sembra opportuno, a questo punto, cercare d’indagare la ragione per la quale è
possibile sostenere che l’Italia sia un Paese particolarmente adatto ad accogliere e
portare avanti quella rivoluzione del mondo artigiano, all’interno delle imprese
locali, di cui si è parlato.
Qualche cenno, seppur breve, va inevitabilmente dedicato alla storia
imprenditoriale del nostro Paese a partire dagli anni Settanta del secolo scorso: a
quel tempo risale, infatti, la proposta di Giacomo Becattini di utilizzare “il concetto
di distretto industriale per descrivere l’emergere nelle regioni del Nordest e del
Centro Italia di sistemi manifatturieri specializzati nella produzione di beni
64
differenziati per la persona e per la casa, oltre che nella meccanica strumentale”104
.
Lo studioso rivisita l’idea di Alfred Marshall di “distretto industriale”, includendovi
la dimensione umana e progettuale di un insieme di persone che lavorano insieme
per uno scopo: accompagna il concetto di una popolazione di imprese che si
muovono all’interno di un territorio circoscritto, con quello di una comunità di
persone, che apportano il loro contributo in termini di capitale umano e sociale,
dando vita a quello che lo stesso Becattini avrebbe più tardi definito come un
“capitalismo dal volto umano”105
.
I suddetti poli di piccole e medie imprese funzionanti secondo il modello delineato,
apparterrebbero ad una tradizione descritta da Piore e Sabel come “specializzazione
flessibile”, una definizione che si fondava sulla crescita di complessità dei modelli
di consumo e sulla diffusione delle tecnologie di automazione e comunicazione,
oltre che sul concetto per il quale doveva esistere una via di sviluppo alternativa a
quella della “produzione di massa”: l’Italia sarebbe così diventata “un autentico
laboratorio del nuovo modello di sviluppo”106
.
Tuttavia, nonostante l’indiscutibile “età dell’oro” vissuta grazie allo sviluppo
economico ottenuto mediante le dinamiche proprie dei distretti industriali, la
contrazione nella crescita dell’economia italiana ha fatto pensare ad una fine
dell’epoca dei distretti, quasi che questi ultimi, e le modalità di produzione che in
essi si riflettono, avessero esaurito la loro forza propulsiva, e che la crescita di
produttività a lungo termine fosse una prerogativa della grande impresa107
.
Tutto ciò ha portato ad una messa in discussione del modello distrettuale di piccole
e medie imprese e ad una sua sottovalutazione, laddove altrove sembra essere un
modello tornato in auge e che gode di una rivalutazione da parte di politici e
studiosi; Micelli si domanda in proposito, riferendosi agli Stati Uniti, se sia
possibile che questi ultimi “[…] indichino come via d’uscita dalla crisi di questi
anni quella piccola impresa che per trent’anni ha segnato il nostro modello
industriale e che oggi tanti autorevoli osservatori considerano poco più che un
imbarazzante retaggio del passato”108
.
Si tratta forse, ancora una volta, di quella duplice barriera, culturale e politica, di
104
Giancarlo Corò-Stefano Micelli, I nuovi distretti produttivi, 2006, Marsilio, p. 27. 105
Ibidem, p. 28. 106
Cfr. ibidem, pp. 28-29. 107
Cfr. ibidem, p. 30. 108
Stefano Micelli, op.cit., p. 44.
65
cui si è parlato nel paragrafo precedente, eretta da un lato da parte dei critici dei
distretti, dall’altro da parte di una classe politica che non ha saputo valorizzare il
fenomeno fino in fondo, contribuendo, ove possibile, alla sua innovazione.
Tuttavia, se ci si sofferma sui dati relativi alle piccole e medie imprese del Made in
Italy e ai distretti industriali, per quanto concerne l’occupazione si può parlare in
alcuni casi di un’ottima performance dal punto di vista economico, considerando
soprattutto i periodi di riferimento.
Corò e Micelli, riportano nel loro testo uno studio di Marco Fortis sulle eccellenze
manifatturiere italiane, espresse con la fortunata formula delle “4 A”:
Abbigliamento-moda, Arredo-casa, Automazione-meccanica, Agro-alimentare,
comparti che nel decennio considerato - che va dal 1991 al 2001 - subiscono una
perdita in termini di occupazione inferiore a quella degli altri settori manifatturieri.
Il calo che li riguarda, inoltre, è quasi esclusivamente attribuibile al sistema
dell’abbigliamento, proporzionalmente alla concorrenza esercitata dalle economie
emergenti e all’importanza crescente della delocalizzazione internazionale:
quest’ultima comporta però, ad avviso degli autori, solo una differente
organizzazione globale delle catene del valore e non necessariamente una perdita di
controllo su di esse, dimostrata dal fatto che vengono creati nuovi posti di lavoro e
si ottengono ottime performances in termini di export, nei servizi e nelle attività ad
alto contenuto tecnologico109
.
In termini numerici, è importante considerare che il sistema nazionale dei distretti
consiste in duecentomila imprese manifatturiere, con due milioni di addetti se si
considera solo l’industria, e cinque se si tiene conto dell’occupazione complessiva
dei distretti coinvolti: una realtà caratterizzata da dimensioni produttive, sociali,
umane e tecnologiche, quindi, che ne determinano la forte eterogeneità110
.
Sembra dunque di poter concludere, allora, che la dimensione distrettuale della
piccola e media impresa, e soprattutto il modello di localizzazione produttiva e
condivisione della conoscenza che vi è alla base, lungi dall’aver ormai compiuto il
loro percorso all’interno del quadro economico italiano, possano ancora trainare
interi settori produttivi, nella misura in cui si impegnano a sviluppare capacità
distintive ed innovative, rinnovandosi continuamente al prezzo di tener viva una
dimensione che fa ormai parte della tradizione.
109
Cfr. Giancarlo Corò-Stefano Micelli, op.cit., pp. 31-33. 110
Cfr. ibidem, p. 33.
66
È a questo proposito che i due autori, propongono di partire dalle criticità e dagli
shock economici che subiscono nel corso degli anni Novanta le imprese distrettuali
basate sul modello dello small business, per immaginare di volgere gli elementi di
destabilizzazione in opportunità, e per questa via permettere al modello produttivo
di sopravvivere e diventare anzi motore di innovazione e crescita.
Il primo elemento di instabilità è il pervasivo cambiamento tecnologico, a causa del
quale si rende sempre più opportuno, in un’azienda, investire in capitale umano,
ricerca e sviluppo, nonché in relazioni con le altre imprese e con le istituzioni
specializzate, aumentando quindi i costi fissi, ma anche i costi marginali, poiché,
incrementando la “componente informativa” della produzione, la quantità incide in
misura minore sui costi totali111
.
Inoltre, la diffusione dell’Information Technology e della comunicazione, ha
indubbiamente ridotto i costi di transazione all’esterno delle aziende, che, insieme
alle evoluzioni dello scenario geopolitico, secondo shock vissuto dalle imprese,
hanno aperto interi settori produttivi alla concorrenza internazionale, soprattutto per
quanto concerne le economie emergenti. L’influenza di queste ultime ha avuto
notevoli ripercussioni in special modo sul Made in Italy, caratterizzato in genere da
minori barriere tecniche all’entrata, e dunque più sensibile, rispetto ad altri settori,
ad una marcata concorrenza di prezzo112
.
Tuttavia, ad avviso degli autori, il nuovo equilibrio non comporterebbe
necessariamente l’abbandono dei comparti produttivi di vantaggio comparato, a
condizione di operare un riposizionamento qualitativo all’interno della catena
globale del valore, aumentando ad esempio il contenuto immateriale della
produzione. D’altronde, esistono dei vantaggi anche per la piccola impresa, poiché
il cambiamento tecnologico, accrescendo i rendimenti di scala, suggerisce processi
di suddivisione dei processi produttivi; inoltre, le piccole imprese, specialmente se
si tratta di startup e spin-off, possono percorrere la strada dell’innovazione
tecnologica con meno avversione al rischio e maggiore rapidità rispetto alle
imprese di dimensioni maggiori113
.
Il terzo ostacolo individuato, infine, è di tipo macroeconomico, con l’affermarsi di
politiche fiscali e valutarie restrittive, che non consentono più, ad esempio, di
111
Cfr. ibidem, p. 38. 112
Cfr. ibidem, pp. 38-39. 113
Cfr. ibidem, p. 41.
67
ricorrere a pratiche svalutative per recuperare i margini di inefficienza del Paese o
che facilitano un’organizzazione globale della produzione a causa del diminuito
costo degli investimenti diretti esteri e dell’approvvigionamento di beni e input
intermedi114
.
Prima di concludere il ragionamento, è opportuno presentare i risultati di un
rapporto di ricerca della fondazione Edison, citato da Stefano Micelli ne Il futuro
artigiano, che mostra una notevole variazione nella composizione delle “quattro A”
per quanto riguarda il surplus commerciale generato dai quattro settori produttivi:
mentre nel 2000, Alimentare, Abbigliamento e Arredo-casa controbilanciavano
quasi esattamente il comparto dell’Automazione-meccanica, nel 2008 il rapporto si
è invertito, si è cioè iniziato a produrre e a vendere più beni ad elevato contenuto
tecnologico e più macchine, molte delle quali legate alla produzione dei comparti
tradizionali (per filare, intagliare, etc.), dando così spazio alla media impresa, quella
che avrebbe raccolto l’eredità dei distretti industriali e che meglio si interfaccia fra
territorio locale e mercato globale115
.
Quello che si è tentato di mettere in luce attraverso i dati presentati, è che l’Italia
gode di un sicuro vantaggio comparato per quanto riguarda la dimensione del fare,
non solo per quanto attiene all’illustre e valida capacità organizzativa e sociale
ereditata dai distretti industriali di ieri, e che si reinventa tenacemente in quelli di
oggi, ma anche per le caratteristiche insite del Made in Italy in sé. Quest’ultimo,
lungi dall’essere rappresentato esclusivamente da settori certamente ricercati e di
qualità, ma che a causa delle basse barriere all’entrata sono fatalmente sottoposti
alla concorrenza dei Paesi emergenti, vive un rinnovato splendore grazie alla
combinazione fra un saper fare manuale ed artigianale e una dimensione più
propriamente tecnologica. Un universo di cui sembrano far parte anche gli artigiani
digitali, come si metterà in evidenza nel paragrafo che segue.
8.4. Una fabbrica di successo
Ad un’attenta analisi, sembra dunque che non manchino nel nostro Paese esempi di
artigiani cosiddetti virtuosi, che sfruttano ciò che di meglio la tecnologia può
apportare alla loro professione, contribuendo per questa via ad innovarla
114
Cfr ibidem, pp. 39-40. 115
Cfr. Stefano Micelli, op.cit., pp. 59-60.
68
profondamente e a dar vita a nuove e originali formule di successo.
Sarebbe superfluo però, a questo punto, proporre un elenco di attività
imprenditoriali nostrane che, innovando profondamente il proprio settore, sono
riuscite a distinguersi al livello internazionale: l’argomento è stato più
adeguatamente trattato in altre sedi, fra cui il già citato testo di Stefano Micelli,
Futuro artigiano, laddove si presentano e descrivono una serie di “casi di
eccellenze” che rientrano nell’immaginario di una figura artigianale, sebbene
spesso integrata in dinamiche imprenditoriali, e che riesce nell’intento di esportare
frammenti più o meno ampi di cultura italiana nel mondo.
Di conseguenza, ci limiteremo a proporre due precisazioni a proposito dei casi in
questo testo citati, per metterne a fuoco in qualche modo l’italianità, prima di
introdurre l’argomento degli artigiani in senso stretto digitali presenti sul territorio
e delle prospettive che per questi ultimi sembrano aprirsi.
In primo luogo, come si è avuto modo di accertare nel corso dell’intervista a
Stefano Micelli, mentre all’estero il lavoro artigianale è spesso caratterizzato da
modalità routinarie e ritmi ripetitivi, in Italia per definire il settore si è sempre usata
la parola “imprenditorialità”: “i nostri artigiani sono, nel bene e nel male,
imprenditori”, spiega il docente.
Si tratta dunque di una categoria ben definita ed indipendente, abituata a
intraprendere strade autonome, cambiamenti e a reinventare percorsi professionali
e a reinventarsi, laddove esigenze personali e lavorative, nonché di mercato, lo
richiedano.
In secondo luogo, sembra necessario cercare di mettere in evidenza, per quanto
possibile, i fattori differenziali che fanno emergere i casi di eccellenze in questione
dal resto dell’imprenditoria, al fine di ricostruire parte degli elementi discriminanti
di un’azienda di successo. Il punto è tentare di comprendere cosa lega fra loro
imprese come Geox, Eataly, Gucci, Grom, Zamperla, e tante altre, in breve quella
che appare come “la buona Italia” descritta dall’ex-direttore dell’Economist Bill
Emott.
L’elemento trainante e comune a tutte le esperienze sopracitate e presentate, sembra
essere uno: più che l’innovazione tecnologica in senso stretto, di rilievo per alcuni
casi ma certamente non per la totalità di essi, è la capacità innovativa e creativa tout
court nel convincere e nel far sì che i prodotti delle aziende in questione vengano
percepiti come genuinamente e artigianalmente italiani, diversi dagli altri, di
69
qualità. Spesso, oltre alle pratiche produttive e tecnologiche, ad essere oggetto
d’innovazione e determinanti del successo, non solo nel nostro Paese, sono le stesse
idee: si pensi ad Apple e a quel think different che ne ha così efficacemente
descritto la cifra distintiva. Ovvero anche - perché no ? - al modo differente di
descrivere e considerare il cibo da parte di Eataly e del Movimento Slow Food.
Quello che i consumatori - nell’accezione attiva del termine, e non intesi come
utenti che si adattano passivamente ad un’offerta preconfezionata con la quale non
è possibile interagire - sembrano cercare, non è più forse, infatti, un prodotto
genericamente di massa sul quale si combatte una gara al ribasso che coinvolge
esclusivamente il prezzo di vendita, ma dei prodotti differenti e che li differenzino.
I beni in questione propongono idee e concetti autentici - massima qualità, cura
artigianale, rispetto di determinati criteri sociali e ambientali, in qualche caso
personalizzazione - in cui i consumatori si riflettono e che, nel caso italiano,
finiscono per descrivere nient’altro che una lunga e consolidata tradizione. “Se
compri una borsa Gucci, non lo fai perché hai bisogno di un contenitore, stai
comprando estetica, eleganza, design, comunque un’idea, che però non può essere
dissociata dall’oggetto. Piaccia o no, è un pezzo di cultura italiano”, ricorda
efficacemente Micelli nel corso dell’intervista sopracitata.
Bisogna dunque tener ben presente che ciò che sembra determinare il successo
oggi, infine, oltre ad una buona propensione ad utilizzare gli strumenti offerti dalle
reti e dall’era dell’Information Technology, è la creatività, la capacità innovativa,
l’abilità nel saper offrire beni, magari non di per sé nuovi e originali, ma presentati
e curati in modo originale ed innovativo, e che siano portatori di concetti, idee e in
definiva di una storia, non oggetti e prodotti anonimi che riflettono in modo
ristretto la funzione a cui sono preposti.
Il tesoro su cui puntare per coltivare e rafforzare il movimento dei makers anche nel
nostro Paese, appare dunque essere la vera e propria fabbrica delle idee che lo
anima.
Un tema, questo, su cui si continuerà diversamente a discutere nel paragrafo che
segue.
70
8.5. Il futuro: artigiano e digitale
Quello della cosiddetta Terza Rivoluzione Industriale, è il tema da cui la presente
trattazione ha preso le mosse, per poi volgersi verso la tematica di un nuovo
artigianato, che in esso confluisce. In questo paragrafo, si farà ritorno alla
dimensione afferente allo stato attuale della suddetta Rivoluzione nel nostro Paese,
ovvero quella serie di cambiamenti che, attraverso gli strumenti tecnologici e
digitali e la progettazione 3D, fanno il proprio ingresso nel mondo reale. Lo scopo è
quello di indagare se esista un livello imprenditoriale propriamente detto, e se
quest’ultimo riesca dunque, malgrado le modalità produttive nuove e per le quali
non è possibile fare riferimento a modelli di business consolidati, ad affermarsi sul
mercato e a trovare una propria domanda anche nel nostro Paese.
Si cercherà inoltre di comprendere fino a che punto una simile imprenditoria rientri
e si riconosca nel profilo del futuro artigiano, ed in generale di quel mondo
descritto nel capitolo precedente, all’interno del quale esiste una figura
professionale che innova sempre più le proprie tradizioni produttive e di mestiere,
pur conservando quella cura manuale e quell’attenzione speciale per i dettagli e per
il prodotto ben fatto in sé, che costituisce caratteristica integrante della dinamica di
produzione artigianale.
Si procederà nell’analisi facendo riferimento a tre realtà conosciute ed intervistate
sul territorio: la prima, nata nel territorio torinese ed ancora in fase di crescita e
definizione, è 3Dto, i cui componenti, giovani e tuttora inseriti in percorsi di
formazione tradizionali, si occupano di servizi di stampa 3D, realtà aumentata e
scansione 3D, in quanto “3Dto coniuga queste tecnologie al fine di offrire
un'esperienza completa ed emozionante. Avere in poche ore il modello in scala di
una persona, realizzare, non vi è miglior modo per descriverlo, una lampada
completamente personalizzata”116
. 3Dto fornisce quindi prototipi e modelli ad una
clientela che va dagli studi d’architettura agli studenti di scuole e università. La
seconda, è una vera e propria impresa del milanese, Vectorealism, ormai
riconosciuta al livello nazionale, tanto da essersi aggiudicata nel giugno del 2013 il
Premio Nazionale per l’Innovazione per quanto riguarda l’Ict nei Servizi, “per aver
progettato un servizio di prototipazione digitale dedicato al mondo dei makers che
estende l’utilizzo di tecnologie produttive innovative tra professionisti e
116
http://www.3dto.it
71
appassionati, concorrendo alla riqualificazione di figure lavorative esistenti e
l’emersione di nuove, specie tra i giovani”117
. Infine, ci si baserà anche
sull’intervista svolta a 3DItaly, una startup nata nel 2012 a Roma, che si definisce
come “un laboratorio pionieristico e sperimentale, il primo 3D Printing Store ad
operare in Italia”118
: Giampiero Romano, uno dei suoi quattro fondatori (due
graphic designer, un web master, e un marketing consultant, partiti all’origine nel
2009 come studio di comunicazione, graphic design e branding) ci spiega che un
Printing store è “un luogo d'incontro e di scambio, dove, oltre ad attività come
service di stampa, vendita delle stampanti e dei materiali che esse utilizzano, si
svolgono attività come workshop, meeting, collaborazioni. Si ha insomma un vero e
proprio dialogo e rapporto cooperativo sia con i clienti, sia con i produttori delle
stampanti 3d”.
Si tratta di una realtà ampia e variegata poiché 3Ditaly è in effetti un’attività
commerciale, come spiega l’intervistato, ma soprattutto un laboratorio d’incontri
che generano nuove idee e soluzioni; non è escluso - e anzi accade spesso a dire di
Romano - che tali soluzioni siano generate da incontri con la clientela stessa. Si
tratta inoltre di un’organizzazione volta anche alla formazione: ma si parlerà di
questo nel capitolo ad essa dedicato. L’idea è che esista una realtà che, anche ai fini
di dar vita ad imprese innovative e di successo, necessita di connettere la
dimensione più tradizionalmente artigianale con quella digitale, esigenza legata a
quella di strutture che affrontino in maniera completa e accessibile il problema
dell’offerta di un simile tipo di formazione: un tema, questo, che si affronterà nel
prossimo capitolo. È l’obiettivo di siti come artigianatodigitale.com, che si
definisce come “punto di incontro tra l’artigianato tradizionale e il mondo dei
makers”119
, testimoniando l’esistenza di una simile domanda anche in Italia, e in
modo corrispondente di una simile ed emergente categoria professionale.
8.5.1. Quando il maker si fa impresa: alcuni casi a confronto
Per prima cosa, è interessante notare che i casi sopracitati tengono a distinguersi dal
resto delle esperienze imprenditoriali esistenti e si basano su proprie logiche e
principi, che grosso modo possono rientrare nella cosiddetta retorica dell’artigiano
117
http://blog.vectorealism.com 118
http://www.3ditaly.it 119
http://www.artigianatodigitale.com
72
digitale e del “futuro artigiano”, anche se poi talvolta finiscono per distaccarsene.
Come accennato, Vectorealism è un’impresa che ha sede nella periferia di Milano, a
Sesto San Giovanni, ed è nata con l’intento di “facilitare il lavoro a tutti i creativi,
fornendo virtualmente su ogni scrivania un sistema di prototipazione con stampa
3D e taglio laser professionale e un’ampia disponibilità di materiali”120
. Si rivolge
dunque a professionisti e aziende, ma anche a semplici appassionati di design,
moda e modellismo: sul sito è possibile leggere, infatti, uno slogan che ricorda il
titolo della nota opera pirandelliana, che diventa in questo caso “Uno, qualcuno,
centomila”, a sottolineare le differenti modalità di produzione, a seconda delle
necessità e dei desideri della clientela, che può essere interessata ad esempio ad un
solo prototipo, piuttosto che ad una piccola produzione. Si tratta di un argomento di
cui si è già parlato quando si è accennato alla scalabilità, entro certi limiti, degli
strumenti di fabbricazione digitale disponibili: a meno che non si desideri dar luogo
ad una vera e propria produzione di massa, in effetti, risulta agevole avviare anche
piccole produzioni, e d’altro canto è per questa via che è possibile immaginare una
vera “rivoluzione” nel dominio dei produttori, poiché senza simili possibilità la loro
categoria veniva ad essere necessariamente limitata ai possessori di affidabili
strutture di produzione a ciò adibite. Vectorealism, si distingue da realtà variamente
presenti sul territorio nazionale, come quelle dei FabLab ad esempio, in quanto si
tratta un’impresa costituita essenzialmente da professionisti per professionisti, oltre
che per semplici makers. L’essere professionisti, banalmente, è l’elemento che per
l’intervistato contraddistingue la propria attività imprenditoriale da attività
parimenti dinamiche presenti sul territorio ma che finiscono per essere
circoscrivibili nei confini dell’ “hobbismo”. Un elemento fondamentale della
filosofia dei fondatori è quello di non perdere il contatto con la realtà della
creazione e della fabbricazione, in una fase in cui intorno al fenomeno e al
cosiddetto Movimento dei Makers si è creata una vera e propria retorica: il motto
dell’impresa, non a caso, è “Make things not slides”. Marco Bocola, partner e co-
fondatore di Vectorealism, ricorda infatti nel corso dell’intervista: “Il nostro motto
ci ha guidati fin qui e ci guida tutt’ora; soprattutto, ci aiuta a mantenere una visione
lucida e chiara anche in un momento in cui intorno ai nostri temi si sta creando
molto ‘fumo’”.
120
http://www.vectorealism.com
73
Altro elemento fondamentale, incontrato in precedenza anche per quanto concerne i
FabLab, è l’importanza e il valore riposto nel fare rete con altre realtà che si
occupano di fabbricazione digitale sul territorio: l’impresa si confronta
regolarmente, racconta Bocola, con tutti i FabLab presenti sul territorio, oltre ad
essere tra le fondatrici di “Make in Italy”, la prima associazione nazionale di
makers, che ha lo scopo di “mettere a sistema le esperienze che ciascuna iniziativa
sta intraprendendo sul territorio”, punto condiviso anche dalla giovane 3Dto.
Per quanto riguarda 3Ditaly, su questo punto, Romano sottolinea in più momenti
dell’intervista concessa come il rilievo che assume il dato della collaborazione sia
fondamentale per simili attività, e sia riscontrabile sia nei rapporti con la clientela
che in quelli con gli altri makers del settore: cita in proposito le opportunità di far
rete offerte da eventi fieristici, di formazione e di aggiornamento, facendo
riferimento in particolare alla “Maker Faire” svoltasi dal 3 al 6 ottobre di
quest’anno a Roma. A riprova di quanto detto, 3Ditaly avrebbe intrapreso un
percorso collaborativo con Frankenstein Garage, FabLab di Milano di cui si è
parlato in precedenza. È interessante notare che per 3Ditaly, più in generale, è la
dimensione comunicativa a fare realmente la differenza tra un’attività
imprenditoriale ed il semplice hobbismo, permettendo di contare su un apparato
comunicativo efficiente: “Un logo riconoscibile, un brand che col tempo si è reso
affidabile e solido, un modo professionale ed efficiente di comunicare le novità e
gli appuntamenti con il pubblico tramite il web e i social network. Prima di essere
un centro di stampa 3d siamo una macchina comunicativa con una vision, degli
obiettivi, una filosofia”.
D’altro canto, come ricorda David Gauntlett nel suo volume - il cui titolo originale
corrisponde in italiano, non a caso, a Fare è connettere - quello che si vuole
sottolineare con queste parole sono svariati concetti fra loro collegati: “fare”
equivale a “connettere”, sia in quanto è necessario connettere degli elementi tra loro
per dar vita a qualcosa di nuovo, sia perché la creatività in genere implica una
dimensione sociale che mette in collegamento con altri individui, sia infine, in
quanto per mezzo della fabbricazione e della condivisione di oggetti aumentiamo il
legame e la connessione con l’ambiente sociale e fisico cui apparteniamo121
.
Fiore Basile, uno dei fondatori di artigianatodigitale.com, la cui attività è ancora in
121
Cfr. David Gauntlett, La società dei Makers, pp. 14-15.
74
fase di avvio, ma il cui obiettivo è “realizzare un laboratorio aperto a chiunque
voglia realizzare nuovi prodotti e progetti con le tecnologie sopracitate, oltre ad un
servizio di consulenza destinato alle imprese artigiane esistenti”, ritiene che ad
influenzare la capacità di un’impresa di ricavarsi uno spazio di mercato e dunque di
distinguersi dall’hobbismo, dipenda da svariati elementi: “l’organizzazione del
laboratorio, la selezione delle tecnologie, la capacità di relazionarsi in modo
professionale con le aziende e la possibilità di basare i servizi offerti su esperienze
decennali”.
Naturalmente anche per Romano rileva la professionalità richiesta dalla clientela,
dato che 3Ditaly non si rivolge solo a semplici appassionati del “fai da te” e della
tecnologia: “serviamo un consistente bacino di utenza composto da importanti
aziende e grandi corporazioni che si servono della stampa 3d per realizzare in modo
immediato ed economico i loro prototipi”, ricorda l’intervistato.
Certamente, come si è accennato, le tecnologie e i servizi di prototipazione rapida
di cui si discute hanno rivoluzionato e possono potenzialmente continuare a
trasformare, una serie di categorie professionali, dalla figura più tradizionalmente
artigianale a quella imprenditoriale, ad una serie di altre attività e professionalità;
Bocola, di Vectorealism, ricorda che anche i designer, ad esempio, “sono sempre
più chiamati a guidare l’intero procedimento di ciò che creano”, dando luogo ad
esperienze notevolmente più interessanti, ma anche maggiormente onerose: “per
questo è essenziale che il designer/maker/autoproduttore abbia anche un rapporto di
scambio continuo con la comunità di pratiche di cui fa parte. Come succede per il
software open source, il supporto di una comunità è quello che rende un prodotto
veramente di successo, oltre alla buona progettazione”. Quello che è fondamentale
e rivoluzionario dunque, sembra essere il semplice fatto di riappropriarsi, da parte
del designer, del maker, dell’autoproduttore, del controllo sul proprio progetto nel
corso di tutto il suo ciclo di vita, “dall’ideazione alla vendita, passando per la
produzione”. Per Romano, invece, nel mondo della progettazione 3D e della
prototipazione ciò che cambia la sostanza e la logica della produzione è proprio
quella dinamica collaborativa di cui si diceva poc’anzi: “In questo ‘sottomondo’ c'è
un fermento culturale incredibile che sta lentamente ma inesorabilmente
esplodendo, portando una ventata di aria fresca nel vecchio regime di produzione
industriale. Questo movimento culturale si basa su cooperazione e collaborazione,
sullo scambio continuo di informazioni. È nato così, è scritto nel suo codice
75
genetico, e così sta rivoluzionando il mondo. Niente progetti chiusi, solo unione di
cervelli per risolvere problemi”. Riguardo alla considerazione precedentemente
presentata, per la quale la stampa 3D, in particolare, offrirebbe il vantaggio opposto
alle economie di scala, favorendo quindi personalizzazione e customizzazione, si è
chiesto agli intervistati che tipo di prodotti, nella loro esperienza, risultasse favorito
da un simile strumento tecnologico. Marco Bocola, ricorda innanzitutto che
l’impresa lavora principalmente con designer, artisti e autoproduttori “che vedono
nella stampa 3D una concreta possibilità di produrre on demand in base a ciò che
vendono” e che di conseguenza la tipologia merceologica d’elezione è quella degli
accessori e dei complementi d’arredo, non precludendosi però per il futuro di
muoversi verso oggetti d’arredo di dimensioni maggiori. 3Dto, invece, si occupa
essenzialmente di prototipi e modelli, rivolgendosi per di più ad una nicchia
professionale, quella degli architetti, e a studenti, e nel dir ciò, sottolinea un
principio chiave dell’etica del Movimento dei Makers, quello dell’ecosostenibiltà:
afferma infatti di stampare esclusivamente in PLA, ovvero in “acido poliattico, un
polimero derivato da piante come il mais, il grano o la barbabietola, ricche di
zucchero naturale”122
, sistema sostenibile poiché ad essere utilizzate sono risorse
naturali che si rinnovano continuamente. Giampiero Romano, di 3Ditaly, ricorda
che ad essere oggetto di realizzazione, nel loro caso, sono quasi sempre prodotti
unici, quali “prototipi, plastici, modellini, opere artistiche o meccanismi che vanno
a sostituire pezzi rotti. Inoltre gli stessi modelli vengono modificati e ristampati a
seconda delle esigenze, in un continuo miglioramento e perfezionamento dettato
dall'ispirazione del creatore o dalla nostra esperienza”.
8.5.2. Differenze e considerazioni
Tenendo presente il profilo tracciato da Richard Sennett, per il quale l’artigiano è in
primo luogo, “[…] colui che ama il lavoro fatto a regola d’arte, che si impegna
nella realizzazione di uno standard superiore e che ha la possibilità di ribadire con
orgoglio la qualità del suo lavoro”123
, si è chiesto agli intervistati quanto
riconoscessero riflessa in una simile definizione l’attività da essi svolta. Bocola non
122
http://www.greenshopvideo.com 123
Stefano Micelli, op.cit., p. 22.
76
ha dubbi: “Non ci riconosciamo affatto nel profilo dell’artigiano. Siamo convinti
che la vera qualità sia quella data prima di tutto da una buona progettazione e
ingegneria”. Tuttavia, sottolinea, ciò non esclude affatto che il lavoro eseguito “ad
opera d’arte” sia da rivendicare con orgoglio, il che significa che “l’immaginario di
riferimento è però profondamente diverso, e bisogna riconoscere l’importanza di
quello che si può evocare col linguaggio. Cerchiamo per quanto possibile di stare
alla larga dalla retorica sull’artigianato”. Egli si mostra inoltre possibilista di fronte
all’idea che la rivoluzione tecnologica sfoci in una rivoluzione socio-culturale,
anche se sottolinea che a suo avviso potrebbe volerci più di una generazione. Il
tema della formazione di una categoria di artigiani digitali, ed in generale, di un
“artigiano del futuro”, che grazie anche agli strumenti di prototipazione rapida vive
un’autentica trasformazione che travolge la sua professionalità nel quotidiano,
viene di fatto percepito in questo caso forse come qualcosa che esiste in tutto e per
tutto solo sulla carta, un ideale propugnato da accademici, strutture adibite alla
formazione ed in generale studiosi ed intellettuali, e che sfrutta retoricamente e
mediaticamente un immaginario consolidato e affascinante.
Questo punto di vista, condiviso fra l’altro da diversi osservatori del settore, trova
parziale riscontro nell’opinione di Andrea Bulgarelli, co-fondatore di 3Dto, che
appare parimenti scettico quando afferma di non essersi ancora formato un’idea
chiara della tangibilità di un artigianato digitale: “I makers, questa nuova idea di
farsi le cose da sé, è molto bella ma in realtà poi manca qualcosa, resta un
fenomeno di nicchia”.
Fiore Basile, di artigianatodigitale.com, ritiene che il profilo tracciato non serva a
caratterizzare in modo abbastanza differenziale il profilo dell’artigiano, poiché a
suo avviso si tratterebbe di considerazioni che “sono ormai da decenni alla base di
qualsiasi processo produttivo che voglia confrontarsi col mercato globale in
qualsiasi settore, e non certo solo in quello artigianale”. Ritiene inoltre, esprimendo
un concetto piuttosto interessante, che l’artigiano digitale non costituisca una
categoria in sé ma rappresenti la mera evoluzione dell’artigiano tradizionale.
Riguardo al tema di una possibile e auspicabile rivoluzione socio-culturale, afferma
significativamente che “il futuro artigiano riguarda la possibilità per chiunque di
diventare un produttore piuttosto che un consumatore di oggetti e tecnologia”,
mentre Giampiero Romano, di 3Ditaly, ritiene che quel modello, già noto a metà
77
Ottocento - quando Karl Marx intuì che il possesso dei mezzi di produzione era ciò
che dava luogo al dominio di una classe sociale sull’altra, dando voce ad un modo
d’intendere la società e l’economia che va ormai avanti da secoli -, stia in parte
esaurendo la sua forza: si tratta di un paradigma che “ha prodotto modelli di
sviluppo catastrofici, impostati sulla distruzione delle risorse e sullo sfruttamento
intensivo. Una ristretta oligarchia di multinazionali ha ridotto l’enorme massa di
popolazione del pianeta a semplice consumatrice di prodotti in serie e imposti
dall’alto”.
Si tratta di un punto di vista notevolmente interessante, ad avviso di chi scrive, e
anche in questo caso, ampiamente condiviso da diversi osservatori del fenomeno.
Per l’art director di 3Ditaly, il Movimento dei Makers e le nuove tecnologie
contribuiranno a modificare lo status quo, dando avvio all’instaurazione di “nuovi
rapporti sociali, più equilibrati e orizzontali, tra produttori e consumatori. Il
consumatore potrà ogni giorno scoprirsi creatore, inventore, produttore, e vedere il
mondo da una nuova prospettiva”.
Quanto al riconoscersi in senso ampio nel profilo dell’artigiano tracciato da
Sennett, Giampiero Romano sottolinea che sebbene alla stampa 3D venga spesso
rivolta la critica di dar vita ad un falso artigianato, poiché il lavoro viene fatto in
gran parte da una macchina che interpreta dati e non da una mano umana in senso
stretto, si tratta in realtà di una visione che “non rende giustizia a questa tecnologia
e chi vive attivamente dentro questo mondo si accorge immediatamente di quanto
lavoro manuale esiste durante e dopo la stampa. Ogni maker che si occupa di
stampa 3D sviluppa mille trucchi e tecniche individuali per migliorare la qualità dei
suoi modelli e renderli assolutamente personali. Non dimentichiamo inoltre la
manualità artigianale di combinare i pezzi stampati in 3d con materiali come legno
fresato e scolpito oppure viti e pezzi di acciaio. Molti pezzi inoltre, stampati in
bianco, possono essere dipinti secondo la propria ispirazione artistica”.
Romano ritiene inoltre che siano la dimensione più ampia e globale del mondo
artigiano e di quel “dialogo serrato fra azione e riflessività” di cui parlava Micelli
ad essere coinvolti: “Vedere realizzati i tuoi pensieri, le idee, le tue aspirazioni, fa
ritornare ad un passato che ormai sembrava archiviato dopo l’avvento del mondo
digitale, etereo e ‘impalpabile’. La stampa 3d è proprio un percorso all’inverso, un
ritorno dai bit agli atomi”, afferma citando Gershenfeld.
Al di là delle singole differenze nell’impostazione della produzione riscontrate nel
78
precedente paragrafo, ciò che sembra necessario evidenziare è l’approccio
parzialmente differente che le sottintende: mentre 3Dto si pone in maniera scettica
di fronte alla dimensione artigianale della futura manifattura digitale, Vectorealism
non si riconosce affatto in quest’immaginario, ritenendo che l’alta qualità derivi
essenzialmente da una buona progettazione e ingegneria; e se
artigianatodigitale.com si riconosce pienamente nel profilo artigianale ma non
ritiene la categoria professionale delineata adeguata alla propria idea di tipizzazione
del lavoro artigianale, 3Ditaly mostra non solo di aderire in pieno ai valori tipici del
mondo artigianale fin qui delineati, ma anche di immaginare, a partire da essi, una
messa in discussione delle modalità produttive imperanti sino ad oggi.
Ciò non è riducibile, a nostro avviso, ad un’ingenua sottovalutazione della portata
delle dinamiche produttive mainstream, né ad una corrispondente
sopravvalutazione del fenomeno dei makers, quanto invece, ad una lucida disamina
della situazione attuale e ad una coerente volontà di operare fattivamente per il suo
cambiamento.
Quanto detto non mira, naturalmente, a sminuire la portata delle esperienze
sopracitate che sembrano non allinearsi alle caratteristiche immaginate: anzi,
l’eterogeneità delle forme e dimensioni in cui il fenomeno si presenta ne testimonia
la ricchezza e l’intrinseca libertà d’espressione e di manifestazione.
Tuttavia, dal nostro punto di vista, che concerne una possibile e futura
trasformazione socio-economica, a partire da quella strettamente tecnologica, si
ritiene che un’innovazione autentica in tal senso passi anche attraverso la volontà di
cambiare quelle regole che, sebbene siano così radicate da apparire inespugnabili,
forse non si adattano più così bene a buona parte della società odierna.
9. Proposte per una formazione artigiana
In questo capitolo, si tratterà il tema della necessità d’immaginare una formazione
scolastica e professionale ad hoc per una nuova categoria professionale, o meglio
per una categoria che appartiene alla tradizione storica e culturale del nostro Paese,
ma che si avvia a rivoluzionare talmente il suo modo d’interfacciarsi con la società
attuale, da aver bisogno di una preparazione che comprenda nuove competenze ed
apra a nuove opportunità.
79
Ci si muoverà dunque, in un primo momento, nella direzione dell’individuazione di
quelle competenze che, in base alle trasformazioni apportate dalle recenti
evoluzioni tecnologiche, appaiono come imprescindibili per un artigiano del XXI
secolo, ovvero per un maker nel senso ampio del termine. Tuttavia, a ben guardare,
si tratta di rinnovare un sistema che ha le sue fondamenta nell’istruzione scolastica
primaria, poiché, che si pensi o meno d’intraprendere una professione legata alla
manualità e alle abilità tecniche, è innegabile che si domanda all’istituzione
scolastica un forte e deciso rinnovamento, sia nell’ottica dell’integrazione di
strumenti tecnologici nelle modalità di lavoro in classe, sia dal punto di vista di un
profondo cambiamento nelle modalità d’insegnamento in senso stretto, che sembra
necessario si allontanino dal classico ed obsoleto rapporto ex cathedra, per
immaginare un approccio maggiormente partecipativo, costruttivo, e soprattutto,
creativo, nell’ottica di formare, oltre naturalmente a futuri artigiani, futuri cittadini.
Nonostante siano rilevabili in questo senso, anche nel nostro Paese, degli esempi
virtuosi al livello di singole strutture scolastiche, è innegabile che il panorama
istituzionale non sia dei più promettenti per quanto riguarda simili mutamenti di
prospettiva, specialmente laddove questi ultimi comportino costi in termini
economici, che sempre più oggi si fa fatica - anche al livello di semplici intenzioni
e progetti - a sostenere. Ecco che allora, a ben cercare, è possibile intravedere il
ruolo dirompente e l’impatto contenuto sinora, ma potenzialmente rivoluzionario,
di una serie di strutture il cui nobile scopo è colmare il gap al livello formativo
dell’istituzione scolastica tradizionale (ma anche universitaria, ed in generale
inerente a svariati percorsi di formazione professionale). Una di queste opzioni
complementari al sistema istituzionale è certamente rappresentata dall’offerta
formativa dei FabLab, di cui si è già discusso all’inizio della presente trattazione. In
questa sede, dunque, ci si soffermerà sull’illustrazione di altri esempi, presenti sul
territorio, di un’offerta formativa - decisamente ben accolta e a cui dunque
corrisponde una forte domanda - che mira a colmare le anzidette lacune: si va da un
agriturismo in provincia di Monza che ha messo su, con questo scopo, un vero e
proprio campus, ai workshop offerti da 3Ditaly o ai progetti di
artigianatodigitale.com. Tali proposte formative alternative, e talvolta
semplicemente complementari a quelle istituzionali, sono d’indiscutibile valore e
pregio; fatto salvo, tuttavia, che quello dell’istruzione e della formazione resta un
tema che, in un Paese che possa definirsi profondamente democratico ed
80
egualitario, spetta allo Stato affrontare, anche, e soprattutto, laddove occorra
apportarvi delle modifiche che mirino a migliorarlo e renderlo maggiormente
competitivo alla luce degli sviluppi attuali e delle mutate richieste del mondo del
lavoro: quello della formazione, è infatti un tema profondamente legato e affine alle
difficoltà riscontrabili nel panorama occupazionale del Paese. Sarebbe dunque
dovere di una democrazia sana affrontarlo seriamente e concretamente.
9.1. In cerca di nuove competenze
Un essenziale punto di partenza, come accennato, consiste nell’individuare quali
siano le competenze che delineano più appropriatamente la figura di un futuro
artigiano e che invece sono carenti, quando non del tutto assenti, all’interno
dell’offerta formativa locale. Al fine di introdurre questo tema, si rileva
un’interessante distinzione operata da Stefano Micelli, che prende le mosse dalla
considerazione globalmente nota e diffusa, per la quale l’Italia sembra essere, in
svariati campi, un Paese refrattario alla meritocrazia. L’autore propone dunque di
operare un distinguo fra un’intelligenza di tipo “artigiano”, caratterizzata da
competenze legate alla dimensione esperienziale e fattiva, che definisce come
“intelligenza A”, ed un’intelligenza che si riflette in “[…] ciò che viene misurato
dai test” e da quella conoscenza che può essere identificata dal “[…] sapere
scientifico che si ritrova nei paper pubblicati dalle riviste più prestigiose”124
, e che
di conseguenza denota come “intelligenza T”. Quest’ultima sarebbe un’intelligenza
funzionale al capitalismo per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni,
ovvero un talento astratto, in grado di muoversi orizzontalmente fra diversi
problemi, che riflette un’intelligenza di tipo opposto a quella messa in moto
dall’artigiano, che è verticale nella misura in cui sviluppa “[…] una comprensione
dei problemi che è legata a uno specifico dominio di applicazione”125
. Inoltre,
mentre chi punta su un’intelligenza A investirebbe in saperi che costituiscono dei
“costi affondati”, poiché, nel caso che non si raggiunga il successo sperato è
difficile che le competenze acquisite possano essere reinvestite in altri percorsi, chi
puntasse viceversa nella sua formazione su un’intelligenza di tipo T, farebbe un
investimento “reversibile”, sviluppando competenze trasversali e riutilizzabili in
124
Stefano Micelli, op.cit., p. 163. 125
Ibidem, p. 164.
81
più domini. Infine, l’intelligenza del primo tipo sarebbe legata ad una dose
consistente di spirito imprenditoriale, trovandosi spesso, se la si persegue, nella
necessità di costruire percorsi originali ed innovativi che diano un senso a pratiche
vissute ormai come fortemente tradizionali126
. A partire da questi presupposti,
l’autore riflette dunque su alcuni punti, essenziali per sviluppare l’argomentazione
che seguirà:
1. malgrado lo stallo economico vissuto da parte di alcuni sistemi produttivi italiani, e
la difficoltà dell’economia nostrana nel procedere attraverso percorsi strettamente
legati al merito e alle capacità personali, se si guarda alla “intelligenza A”, si
scopre che negli ultimi trent’anni l’Italia non è stata in tutto e per tutto un Paese
refrattario al merito: l’Italia dei distretti e delle piccole imprese avrebbe infatti
valorizzato chi aveva tenacia ed intelligenza tali da mettere in pratica intuizioni
artigianali talvolta impensabili127
;
2. tale patrimonio di conoscenze e sensibilità, per avere successo ed essere
internazionalmente riconosciuto, va inserito all’interno di dinamiche economiche
su scala globale, considerando soprattutto il fatto che si tratta di un background che
sempre più si adatta a nuove economie emergenti128
;
3. risulta quindi necessario immaginare dei percorsi formativi che si adattino a queste
necessità e che non vengano percepiti dai giovani come ripieghi “incompleti,
antichi, privi di quella proiezione internazionale di cui, invece, l’artigianato ha
bisogno”129
.
Per Micelli, ciò di cui il nuovo artigiano italiano ha bisogno è, nella fattispecie, più
formazione professionale, maggiore padronanza delle lingue straniere, in quanto si
presuppone che egli possa lavorare all’estero, o comunque intrattenere rapporti con
altri Paesi, e dominio delle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, al fine di gestire e promuovere la sua attività professionale130
.
Il docente immagina dunque la creazione, nel nostro Paese, di una rete di alte
scuole per l’artigianato capaci di formare, a livelli d’eccellenza, studenti italiani e
stranieri, articolando dei percorsi afferenti a specializzazioni territoriali coerenti
126
Cfr. ibidem, pp. 169-170. 127
Cfr. ibidem, pp. 170-171. 128
Cfr. ibidem, pp. 171-175. 129
Ibidem, p. 182. 130
Cfr. ibidem.
82
con le vocazioni e le tradizioni delle singole regioni. Ciò offrirebbe, inoltre,
l’incomparabile valore aggiunto rappresentato dal collegamento di simili percorsi
di formazione con il mondo della produzione vera e propria, instaurando una serie
di legami con piccole e grandi imprese nostrane, il cui apporto contribuisca, oltre a
formare giovani artigiani e creativi, a diffondere e raccontare nel mondo, in modo
diverso e originale, il sostrato culturale del Paese131
.
Benché l’analisi del docente sia certamente interessante ed esaustiva, si ritiene che
alla base delle difficoltà italiane nell’intraprendere simili percorsi formativi
innovativi, stia un approccio alla formazione in generale, a partire dunque
dall’educazione primaria, che risulta ormai obsoleto, e dalla qualità e dai risultati
talvolta discutibili. Le cause sono legate alla riluttanza nell’assumere metodologie
d’insegnamento maggiormente partecipative, al gap nell’adozione di strumenti
digitali e tecnologici all’interno delle istituzioni preposte alla formazione, alla
scarsa considerazione di cui gode in linea di massima il tema, se rapportato alle
cifre stanziate per il suo mantenimento e per la sua evoluzione.
È questo il punto di vista che verrà affrontato nel paragrafo che segue.
9.2. Ripartire dalle scuole: approccio creativo e digitalizzazione
9.2.1. Ripensare un modello d’apprendimento
David Gauntlett, nel suo La società dei Makers, parte da un interessante disamina
del pensiero di Ivan Illich sull’istruzione - e sulle istituzioni su grande scala in
generale - per applicarlo ad Internet e alla digitalizzazione caratteristica della nostra
era. Illich, infatti, in una delle sue opere fondamentali, Descolarizzare la società,
scritta nel 1970, sostiene che il problema principale delle scuole, è che esse
agiscono con l’obiettivo di “creare persone che ottengono buoni risultati ai test, e
non individui in grado di pensare con la propria testa”132
: le scuole, così come le
altre grandi istituzioni, manipolerebbero gli individui, persuadendoli della loro
incapacità di fare da soli, e dando così luogo ad un profondo senso d’impotenza, al
contrario di quello che la cultura del Do It Yourself di cui si è discusso nella
presente trattazione cerca di comunicare; viceversa, per Illich, le capacità e le
131
Cfr. ibidem, pp. 183-184. 132
Cito da David Gauntlett, op.cit., p. 214.
83
nozioni impartite nelle scuole sarebbero presentate agli occhi della società come le
sole ad essere legittime. È importante sottolineare che l’autore non è in tutto è per
tutto contrario alle istituzioni uniformi e su larga scala, ma si limita semplicemente
a riflettere sul fatto che esse, sebbene siano state create con il nobile intento di
democratizzare la società, raggiungono sempre un punto critico oltre il quale sono
per lo più nocive alla stessa: allo stesso modo, le scuole, create per impartire
un’istruzione, nel momento in cui si sono cristallizzate in un sistema istituzionale,
sono diventate “macchine per la scolarizzazione” finalizzate alla stessa, intesa cioè
come un insieme di nozioni e regole da appredere in modo mnemonico133
. In altri
termini, quando le istituzioni e le organizzazioni sociali diventano troppo grandi,
finiscono col vivere di vita propria, confondendo il mezzo con il fine: per questo
motivo Illich auspica lo sviluppo di “approcci micro e locali, focalizzati sui bisogni
delle persone, al posto di grandi macchine burocratiche che inevitabilmente si
concentrano sulle esigenze della propria burocrazia”134
. La soluzione prospettata da
Illich, consiste nel creare invece, mediante l’insegnamento, un nuovo tipo di
rapporto d’apprendimento fra le persone e l’ambiente, fondato sulla libertà di
queste ultime di imparare quello che desiderano e quando lo desiderano. Gli scopi
di un buon sistema didattico dovrebbero infatti essere i seguenti:
1. assicurare, in qualsiasi momento della sua vita, l’accesso alle risorse
disponibili a chi dimostra di voler imparare;
2. permettere a coloro che desiderano comunicare le proprie conoscenze
d’incontrare chi abbia voglia d’imparare da loro;
3. offrire a chi vuole pubblicamente discutere una determinata questione la
possibilità di farlo135
.
L’idea è dunque quella di identificare l’istruzione con un’attività profondamente
viva e liberamente scelta, e non il risultato di un’imposizione dall’alto di
programmi ministeriali privi di contatto con la realtà vissuta dai giovani. Per questa
via, inoltre, Illich risolve anche la questione dei finanziamenti: i fondi disposti per il
sistema scolastico odierno andranno semplicemente reindirizzati verso simili
133
Cfr. ibidem, p. 213. 134
Ibidem, p. 217. 135
Cfr. ibidem, p. 215.
84
progetti “per finanziare mediatori, computer, attrezzature e spazi per la
didattica”136
, intercettando così un altro tema fondamentale per la formazione, di
cui parleremo a breve, in quanto fortemente connesso all’argomento della
trattazione, e cioè la disponibilità materiale, all’interno delle istituzioni scolastiche,
di strumenti tecnologici e digitali che permettano alle scuole non solo di “stare al
passo con i tempi”, ma anche di offrire ai propri studenti il recupero di quella
dimensione creativa ed intellettuale, che il discorso di Illich così fortemente ricerca.
Il successivo libro di Illich è infatti La convivialità, uscito nel 1973, concetto che
l’autore definisce per opposizione a quello di produttività industriale: “Il rapporto
industriale - scrive Illich – è riflesso condizionato, risposta stereotipata
dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o
da un ambiente artificiale, che mai comprenderà”137
. Per l’autore, al contrario, la
convivialità consiste nella possibilità di plasmare il proprio mondo, potere di cui la
società non deve assolutamente privare l’individuo: si tratta di una possibilità che
diviene realtà solo se si dispone di strumenti efficaci (non a caso il titolo originale
dell’opera è Tools for Conviviality); e la scuola rappresenta appunto uno di questi
strumenti. Tuttavia questi ultimi non devono divenire eccessivamente grandi e
potenti, poiché viceversa l’individuo finirebbe per esserne schiavo, mentre è
importante che ne mantenga sempre il controllo:
Lo strumento è inerente al rapporto sociale […] A seconda che io lo padroneggi o
che viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al corpo sociale.
Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio
significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi
plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso. Lo strumento
conviviale è quello che mi lascia il più ampio spazio e il maggior potere di
modificare il mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega
questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da me che determina la
mia domanda, restringe il mio margine di controllo e governa il mio senso della
vita138
.
Applicando questa filosofia all’istituzione scolastica, non è difficile dedurne le
136
Ibidem, p. 216. 137
Cito da ibidem, p. 218 138
Cito da ibidem, p. 226.
85
conseguenze: la scuola deve essere uno strumento nelle mani di coloro cui è
indirizzata, studenti quindi, ma anche docenti, poiché, rappresentando un
microcosmo sociale, essere educati a pretendere di avere un potere su di essa
significa in futuro avere un medesimo potere fattivo sulle istituzioni politiche e
sociali e sulla società stessa. Il punto sembra consistere inoltre nel non
accontentarci di nozioni ed informazioni fornite dall’alto, per quanto valide queste
possano essere, e di partecipare invece alla loro formazione ed innovazione,
contribuendo a plasmare, in tal modo, la società nella quale siamo immersi.
9.2.2. Digitalizzazione e istruzione dal basso
D’accordo con una simile impostazione, alcune iniziative si sono mosse nel
medesimo tentativo di rendere l’istruzione più simile ad un processo che nasce dal
basso e che corrisponde ad esigenze formative in linea con la realtà attuale e per
questo particolarmente sentite dai più giovani.
Uno di questi progetti nasce in una scuola di Brindisi, grazie all’idea di un giovane
preside, Salvatore Giuliano, che in nome dell’innovazione sfida un baluardo della
scuola per come siamo abituati a conoscerla, ovvero il libro di testo. Per Giuliano
l’istruzione non deve essere più “un dogma calato dall’alto ma un processo da
compiere assieme”139
, per cui egli immagina un sistema nel quale le famiglie degli
studenti non siano più costrette a spendere cifre sempre più elevate in costosi libri
di testo, poiché questi vengono scritti dai docenti di ogni scuola, in parte anche
durante l’anno scolastico, coadiuvati dagli studenti stessi: il progetto, divenuto per
la scuola brindisina realtà, si chiama infatti bookinprogress. In primo luogo dunque
lo scopo è restituire ai docenti un ruolo più attivo e stimolante, ma anche rendere
partecipi i ragazzi e rendere la scuola un luogo per loro più congeniale ed istruttivo.
Lo scopo ultimo, infatti, è quello di acquistare un computer per ogni studente,
grazie ai soldi risparmiati sui libri scolastici, strumento che servirebbe a costruire
una didattica più interattiva e partecipata: “ […] le lezioni fatte anche via Skype per
gli assenti, gli esperimenti in laboratorio in diretta web e gli studenti che a casa
possono rivedersi la videolezione tutte le volte necessarie ad apprendere, ‘perché
non andiamo tutti alla stessa velocità, qualcuno ci mette un po’ di più e non va
139
Riccardo Luna, op.cit., p. 114.
86
lasciato indietro’ dice Giuliano”140
. In termini meramente economici, ciò non è
costato nulla, salvo il tempo dei docenti, o meglio la loro disponibilità e generosità,
ma in termini di contributo apportato all’evoluzione di un sistema scolastico ormai
anchilosato, ha significato molto, dando luogo fra l’altro ad un miglioramento
qualitativo dell’apprendimento: nei test d’italiano e matematica, gli studenti del
“Majorana”, l’Istituto superiore interessato da quest’evento, hanno registrato
punteggi superiori alla media nazionale141
. Un caso parimenti esemplare è Oil
Project, il vincitore nel 2009 della prima edizione di Working Capital, il
programma di Telecom Italia volto a premiare idee innovative connesse all’utilizzo
del web: si tratta del progetto di quattro ragazzi di Milano (partito nel 2004, quando
avevano appena quattordici anni) di dar vita ad una scuola non convenzionale, dove
ciascuno potesse proporre liberamente, attraverso un sito online, corsi di materie in
cui si sentisse realmente preparato, che chiunque fosse interessato a seguire avrebbe
potuto ascoltare, in qualsiasi momento. È importante sottolineare che il nome del
progetto deriva dalla convinzione, condivisa dai proponenti, che il nuovo petrolio
nell’era del web sia la conoscenza; l’iniziativa, fra l’altro, avendo una buona
risonanza e dando vita ad una vasta community, nel 2009 verrà trasformata così in
una startup, rappresentata da una piattaforma d’informazione e conoscenza
virtualmente a disposizione, non solo di giovani e studenti, ma di tutto il Paese142
. È
sembrato opportuno citare queste iniziative, benché non si abbia in questa sede
occasione di menzionarne tante altre, perché testimoniano di una diffusa
consapevolezza, al livello sia dei fruitori dell’istituzione scolastica, sia di coloro
che sono incaricati di farla funzionare, dell’inadeguatezza delle strutture scolastiche
presenti nel Paese, e della ferma determinazione di molti nella direzione di un forte
cambiamento. Si tratta di un’inadeguatezza sia materiale - per via di strutture di cui
purtroppo il mero fatto di non disporre di una connessione wifi o di un numero
adeguato di personal computer, rappresenta l’ultimo dei problemi, essendo talvolta
ben più gravi le inadeguatezze presenti -, sia immateriale, essendo la sede di un
modello formativo che va avanti in modo pressocché inalterato da troppo tempo.
Nel prossimo paragrafo, di tenterà di mostrare come una possibile e feconda
risposta alla domanda d’innovazione nei processi formativi sia identificabile negli
140
Riccardo Luna, op.cit., p. 117. 141
Cfr. ibidem. 142
Cfr. ibidem, pp. 121-122.
87
strumenti di fabbricazione digitale.
9.3. La stampa 3d: una nuova frontiera dell’insegnamento
Gli strumenti di fabbricazione digitale, ed in special modo la stampante 3D,
potrebbero costituire quella ventata d’aria fresca e di creatività dal basso di cui la
Scuola sembra aver così visibilmente bisogno, oltre a contribuire a ricostituire
quella dimensione formativa che riconnette gli studenti fra loro - si ricordi quanto
detto a proposito del fare è connettere - e con la dimensione del saper fare in
generale, dunque con un approccio all’istruzione finalmente creativo e innovativo.
È quanto auspicato da molti, fra cui ad esempio 3Ditaly, che, credendo fortemente
che le stampanti 3D costituiscano “la nuova frontiera dell’insegnamento, poiché la
possibilità di realizzare modelli tridimensionali di oggetti pensati da studenti apre
nuovi scenari dagli sviluppi straordinari”143
, ha avviato una serie di incontri,
workshop e giornate formative aperte agli istituti scolastici che comunichino il loro
interesse, al fine di “far conoscere, far imparare e far divertire gli studenti, perché la
stampa 3D è anche gioco, creatività, rivoluzione artistica”144
.
A proposito dei corsi di formazione offerti, si è chiesto a Giampiero Romano quale
fosse il target di riferimento, ma ci ha risposto che si riscontra un’affluenza
estremamente eterogenea: “Ogni giorno riceviamo studenti universitari che
vogliono realizzare il loro progetto di tesi, architetti ansiosi di comporre i loro
plastici senza spendere somme esorbitanti, la casalinga che pensa al soprammobile
per la cameretta del figlio, l'avvocato che per passione si occupa di meccanica e
deve trovare l'ingranaggio mancante alla sua opera”; e aggiunge “Una cosa
accomuna tutta questa gente: l'intelligenza di aver compreso il potenziale di queste
macchine, ossia la produzione autonoma e indipendente delle loro idee”.
Un caso che ci ha particolarmente colpito, è quello del Campus La Camilla, un vero
e proprio campus per la formazione dei makers, situato nella sede dell’agriturismo
“La Camilla”, nato nel 2000 in provincia di Monza, a Concorezzo, e che assicura
una corsistica ampia e completa per i futuri makers. La struttura, infatti, offre
svariati corsi di formazione, fra cui quelli di Arduino, Robotica, Raspberry PI e
Stampa 3D, e l’elemento innovativo ed interessante, oltre naturalmente alla
143
http://www.3ditaly.it/learning/ 144
Ibidem.
88
professionalità dell’organizzazione, è la sua apertura ai bambini: “Il focus del
Campus è anche sui più piccoli (7-13 anni) nei confronti dei quali programmazione,
robotica ed elettronica possono essere presentati tramite strumenti innovativi di
ultima generazione”, spiega nel corso dell’intervista concessa Giovanni Cotta,
l’ideatore del progetto di una scuola per makers che assicuri una formazione per la
prossima generazione adeguata, in cui gli insegnanti sono liberi professionisti e
imprenditori.
Figura 15. Agriturismo sede del Campus La Camilla. Fonte: http://www.campuslacamilla.it
L’idea, racconta Cotta, nasce essenzialmente da un’analisi critica del mercato, che
vede in azione tre forze principali che sono fra loro legate:
1. il Movimento dei Makers;
2. la riflessione sull’artigianato del futuro;
3. il trend dell’Internet degli oggetti (anche detto “IoT” da Internet of Things: “oggetti
intelligenti capaci di dialogare tra loro per scambiarsi informazioni”, che in Italia
ammonterebbero a “più di cinque milioni di oggetti connessi tramite rete cellulare,
per un valore di oltre 800 milioni di euro”145
).
Secondo Cotta, l’analisi di mercato di questi tre fattori evidenzierebbe una notevole
domanda ed un crescente interesse ma “nessuna organizzazione in grado di
proporre offerte strutturate”, trovandosi ancora all’inizio di un percorso che si
preannuncia lungo. Il Campus “La Camilla”, nasce appunto dalla volontà di
rispondere ad un simile interesse e dalla consapevolezza che “se la scuola non si
mette al passo con i tempi, è necessario realizzare iniziative che riescano a colmare
il gap”146
, com’è possibile leggere sul sito. Per Cotta, infatti, si tratta di prendere
atto di una serie di cambiamenti che sono intervenuti nella società contemporanea,
e di organizzare conseguentemente il sistema educativo: “Ci siamo lasciati alle
145
http://www.corrierecomunicazioni.it/ 146
http://www.campuslacamilla.it
89
spalle il secolo delle masse per entrare in quello degli individui. Valori come patria,
religione e politica sono sempre meno presenti nei ragazzi di oggi”, afferma
nell’intervista, ponendo la questione su un dato di fatto incontrovertibile. Che sia un
bene o un male, l’epoca precedente sembra decisamente tramontata, ma d’altro
canto, anche per i nostalgici, si aprono prospettive non meno interessanti: “La rete
ha aperto le porte alla conoscenza. Strumenti open source hanno abbassato la soglia
di ingresso per il mondo della produzione di oggetti. Noi vorremmo mettere a
conoscenza i ragazzi delle opportunità che hanno di creare e dar vita alle loro idee”.
Quindi l’obiettivo è diffondere quella “cultura del fare e costruire” di cui parla
Gauntlett, contrapponendola alla “cultura del mettiti comodo e ascolta”147
, nella
speranza che il fare diventi impresa: parole chiare che spiegano un concetto
parimenti chiaro, ovvero la volontà di fornire ai lavoratori del prossimo futuro
strumenti concreti per farsi strada nel mondo, recuperando, fra l’altro, quello spirito
fattivo e imprenditoriale, nel senso genuino del termine, che sembra essersi
smarrito in un’epoca in cui ogni cosa ci viene comodamente fornita nella sua
migliore versione preconfezionata. Naturalmente presso il Campus è possibile
frequentare anche una serie di corsi per adulti, poiché Cotta spiega che, benché il
target siano i bambini e i ragazzi da sei anni in su, fino agli universitari, i corsi sono
comunque aperti a persone di tutte le età, oltre che ai genitori, così come sono
disponibili diverse modalità d’apprendimento: dai corsi in aula ai corsi online.
Figura 16. Immagine tratta da un corso di Arduino Avanzato.
Fonte: http://www.campuslacamilla.it
147
Cfr. David Gauntlett, op.cit., pp. 22-26.
90
Figura 17. Stampante 3D in azione durante un corso di stampa 3D.
Fonte: http://www.campuslacamilla.it
Ci si limiterà a citare un ultimo esempio decisamente degno di nota, ad avviso di
chi scrive, che presenta potenziali benefici per tutti gli studenti, ma che è al
momento fruibile soltanto da una loro categoria ben circoscritta: i bambini non
vedenti. Si tratta del progetto Hands on Search, nato a sua volta sulla base del
progetto Midas Touch dell’Università di Harvard, e portato avanti dalla divisione
giapponese di Yahoo!, che consiste nell’unione di due tecnologie: Voice Search -
il sistema di riconoscimento vocale ideato da Google - e la stampa 3D. I designer
dell’impresa hanno posto una stampante 3D, nella fattispecie una Makerbot
Replicator 2, che è stata connessa ad un’interfaccia utente basata sulla voce, in
una custodia a forma di nuvola, e l’hanno poi collocata in una classe per non
vedenti della Special Needs Education School di Tokyo148
. La macchina, collegata
ad Internet, è provvista solo di due grandi bottoni: uno attiva una ricerca vocale,
che, se trova qualcosa nel database, permette di stampare gli oggetti desiderati
mediante l’altro bottone. Se viceversa la ricerca non fornisce alcun risultato, si
crea un avviso che domanda a qualcuno in rete di creare a questo scopo l’oggetto
148
http://www.wired.com/design/2013/10/this-amazing-machine-gives-blind-kids-any-toy-they-
want/?cid=co13046284
91
richiesto149
.
Figura 18. Meccanismo di funzionamento della macchina Hands on Search.
Fonte: http://www.3dprinter.net
Tutto quello che gli studenti devono fare, è quindi schiacciare un grande bottone e
dire ad alta voce il nome degli oggetti desiderati, aspettando che la macchina li
fornisca loro sotto forma di “calde miniature di plastica […] Giraffe, unicorni,
camion, palazzi, dinosauri, tutti prodotti on demand, simili a desideri realizzati
grazie ad una magica lampada che stampa giocattoli”150
, com’è possibile leggere
nell’interessante e recente articolo di “Wired USA”. È importante, sebbene
risaputo, ricordare che gli oggetti solidi conservano un immenso valore per i non
vedenti, per i quali l’esperienza tattile è ciò che più si avvicina alla nitidezza
comunicativa di un’immagine, esperienza che risulta molto più utile che quella di
ascoltare un testo o una spiegazione: “Afferrare determinati concetti risulta molto
più semplice quando forme e dimensioni possono essere sentite. Immaginate di
provare a spiegare gli aeroplani a qualcuno che non ne ha mai visto uno e che non
può vedere i gesti che normalmente fareste. Gran parte del nostro mondo fisico può
essere ridotto a modelli stampabili. Introdurre una stampante 3D è una forma di
comunicazione, non solo di fabbricazione”151
, si spiega in un altro articolo
sull’argomento. L’idea alla base del progetto giapponese è stata fortemente
desiderata da Osamu Aranami, a capo della divisione pubblicitaria di Yahoo!, che
spiega nello stesso articolo: “Credo che l’innovazione derivi dalla combinazione di
vecchie cose”. Non si può certo sostenere facilmente che Voice Search e la
prototipazione rapida possano essere considerate delle tecnologie “vecchie” e
comunque consolidate nel campo, ma è chiaro ciò a cui Aranami si riferisce: spesso
149
http://www.3dprinter.net/giving-blind-hands-on-search-with-3d-printing 150
http://www.wired.com/design/2013/10/this-amazing-machine-gives-blind-kids-any-toy-they-
want/?cid=co13046284 151
http://www.3dprinter.net/giving-blind-hands-on-search-with-3d-printing
92
per dar vita ad un prodotto che sia realmente innovativo e che permetta di
perseguire uno scopo ideale che ci si è prefissati, è sufficiente guardarsi in giro alla
ricerca di ciò che lo stato dell’arte della tecnologia odierna può offrire per il
beneficio della nostra società.
Figura 19. Hands on Search in azione e vista della macchina.
Fonte: www.beyonddesignchicago.com
Quello che si è tentato di comunicare, in questo paragrafo, è che gli strumenti di
prototipazione rapida, e la stampa 3D in particolare, possono essere estremamente
utili nei processi di apprendimento e in quel rinnovamento del sistema scolastico
fortemente auspicato. Le ragioni sono molteplici: innanzi tutto, hanno lo scopo di
riavvicinare gli studenti ad una scuola che ormai sentono come distante, forse
semplicemente perché mentre il mondo è andato avanti, l’istituzione scolastica è
rimasta pericolosamente e paradossalmente ferma, visto il ruolo centrale che
occupa tuttora nell’immaginario comune e nella costruzione di una società sana e
consapevole. Inoltre, questi strumenti contribuiscono a riavvicinare l’individuo a
quella dimensione del saper fare, che ha a che vedere prima di tutto con
l’esperienza tattile, e che si è così a lungo eclissata dai programmi ministeriali,
tanto da far pensare ad una futura società di consulenti e burocrati. Infine, ma non
ultimo in ordine di importanza, si tratta di mezzi che possono facilitare i processi
d’apprendimento, e dunque il successivo inserimento, in un contesto scolastico così
come in un più ampio contesto sociale, di quegli studenti che presentano dei
problemi fisici tali da ostacolarne l’ordinario processo di assimilazione del sapere.
Ci si ritrova per questa via in un campo che rientra nel dominio di competenza dei
93
doveri di uno Stato che possa definirsi democratico nel senso ampio del termine:
per questa, e per altre ragioni, nel prossimo paragrafo tenteremo d’indagare perché,
in ultima analisi, le innovazioni socio-tecnologiche di cui si è parlato, soprattutto
nel campo dell’istruzione, dovrebbero attentemente esser prese in considerazione da
parte dello Stato.
9.4. Del perché la Terza Rivoluzione Industriale è un affar di Stato
Si è in più punti ricordato, all’interno del capitolo dedicato al problema della
formazione, che nonostante le opportunità rappresentate da proposte formative di
lodevole e indiscutibile valore offerte dai privati, sarebbe infine lo Stato, per una
questione di doveri costituzionali e politici, l’ultimo responsabile per una riforma
del sistema dell’istruzione e per una sua eventuale modernizzazione, sia in termini
di strutture didattiche, sia per quanto riguarda l’approccio all’insegnamento. Per
quanto riguarda il primo punto, si tratterebbe in primo luogo di fornire tutte le
scuole del Paese di un servizio di connessione wifi, oltre che di adeguati supporti
fisici, quali computer, laboratori e, perché no, stampanti 3D. Ciò sia al fine di
fornire un adeguato sostegno a quelle discipline che ben si prestano ad essere
accompagnate da un tipo di attività pratica, sia al fine di immaginare nuovi percorsi
formativi, possibilmente a scelta, che comprendano attività che prevedano
un’integrazione fra le nuove tecnologie digitali e quel saper fare manuale e
quell’attitudine creativa e innovativa, che da sempre costituiscono buona parte del
tessuto sociale ed imprenditoriale del nostro Paese. In secondo luogo, per quanto
riguarda le scuole, si tratterebbe di incentivare, parallelamente ad una simile
trasformazione, un egual mutamento per quanto riguarda l’approccio
all’apprendimento da parte di docenti e programmi ministeriali: si potrebbe
intervenire ad esempio sulle materie oggetto di studio nei programmi ministeriali e
promuovere l’utilizzo dei laboratori di cui sopra, oltre naturalmente a rafforzare la
partecipazione degli studenti nella creazione del proprio programma di studio ed in
generale nelle proprie scelte formative, con l’obiettivo di formare cittadini
consapevoli, che comprendano il rapporto causale fra scelte e conseguenze, anche
in termini di opportunità formative e professionali, e che si allontanino
consapevolmente dalla “cultura del mettiti comodo e ascolta” di cui sopra.
Naturalmente un rinnovamento di tal tipo dovrebbe riguardare non solo la cosidetta
94
scuola dell’obbligo, ma anche l’Università e i corsi di formazione professionale,
nell’ottica di adeguare questi ultimi ad una dimensione pratica e artigianale,
connessa verosimilmente, come suggerito da Micelli, alle specificità e alle
tradizioni di ogni Regione o area territoriale, immaginando ad esempio dei periodi
di tirocinio presso veri e propri laboratori artigiani, o di imprese che si avvalgono di
una manodopera tipicamente artigianale: il punto focale consiste in ogni caso nel
mettere a frutto le competenze rappresentate da un saper fare locale, al fine di
attirare sempre più giovani, italiani e non, cosa che rappresenta chiaramente un
obiettivo di competenza dello Stato, piuttosto che di singole, per quanto riuscite,
iniziative private. Ma la ragione più profonda per la quale l’ipotesi di una riforma
del sistema dell’istruzione e della formazione in generale, nel senso auspicato e
tratteggiato nel corso di questo capitolo, debba rientrare nell’interesse della politica
del Paese, risiede nell’importanza che la questione riveste riguardo al tema
occupazionale. Diversi osservatori e studiosi, infatti, sono concordi nel sostenere
che la forza economica di un Paese sia identificabile con un forte settore
manifatturiero, posizione fra l’altro supportata anche da alcuni leaders politici: si
tratta anche, come si è accennato precedentemente, della linea politica inaugurata
dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che all’indomani della crisi ha
proposto di rilanciare il settore manifatturiero, innovandolo profondamente, per
ridurre le conseguenze negative che ha avuto, per l’economia statunitense, il ricorso
sistematico all’importazione di prodotti provenienti da una concorrenza estera a
basso costo. Il valore della possibilità di far ripartire l’economia del Paese anche
grazie a nuove competenze e ad un nuovo Made in Italy, è testimonianto anche da
un articolo di “Wired” dell’ottobre di quest’anno, in cui si legge che Eric Schmidt,
Presidente di Google, ha annunciato un’iniziativa che avrebbe lo scopo di
promuovere il Made in Italy all’estero attraverso il digitale, perché, come ricorda lo
stesso Schmidt, talvolta “anche le cose scontate non si realizzano se c’è un clima
politico sfavorevole”152
, ragion per cui Google avrebbe intenzione di investire in
Italia in questo settore. Il dirigente d’azienda è stato l’ospite d’onore del Big Tent,
un evento organizzato a Roma da Google al fine di sensibilizzare le imprese all’uso
del digitale in senso ampio, per promuoverne la crescita economica, obiettivo al cui
fine ha inviato un messaggio al governo italiano carico di significato, che si riporta
152
http://daily.wired.it
95
di seguito: “Le piccole aziende non sono nelle grandi città, hanno bisogno di banda
larga veloce, wireless e LTE, perché nulla può succedere senza queste cose. La
pubblica amministrazione deve farsi carico dell’alfabetizzazione digitale perché
questa cosa si ripagherà da sola per i prossimi decenni. Deve proteggere gli
imprenditori, che sono persone particolari. E c’è un’altra cosa da fare: ammettere
nuovi ingressi ed eliminare certe leggi, perché così ci si apre al mercato. Non serve
altro, il resto verrà da sé”153
. Stefano Micelli ricorda inoltre, commentando
quest’incontro, che “l’Italia sta registrando una crescita delle esportazioni mai vista
prima, vecchia economia e nuova economia sono oramai la stessa cosa e anche le
piccole imprese possono esportare grazie al marketing digitale”154
, continuando
dunque a mantenere il focus del discorso su esportazione e digitalizzazione, anche
se fa la sua comparsa, nel ragionamento di Schmidt, una terza parola chiave che
interessa in questa sede sottolineare: la stampa 3D. Secondo il Presidente di
Google, infatti, il fatto che il futuro sia rappresentato da produzioni personalizzate e
di nicchia è un elemento certo, del quale la creatività italiana dovrebbe prender
coscienza, al fine di trarre da esso nuovo stimolo: “Molte grandi aziende in questo
scenario cercheranno i designer e gli stilisti italiani, perché stiamo tornando a una
produzione dettagliata”, afferma, sottolineando però come siano i giovani i più
adatti ad occuparsi del marketing delle imprese italiane e come sia estremamente
importante l’idea di “formare gli italiani per il futuro”155
. Dopo aver sottolineato
l’immenso valore insito nelle imprese italiane, ne riconosce anche il limite
maggiore, più volte sottolineato nel corso della presente trattazione: risulta
particolarmente difficoltoso, per queste ultime, apportare significativi cambiamenti,
e dunque comprendere che è necessario un deciso cambiamento di rotta nella
consapevolezza che i profitti dei prossimi anni avranno origine essenzialmente dal
web e dall’esportazione, non dimenticando però che oggi, “la fonte principale è
ancora il territorio locale”, e che sarà dunque necessario “far conoscere le
eccellenze nascoste, diffondere tra gli imprenditori le competenze digitali e
valorizzare i giovani come promotori della transizione al digitale dell’economia
italiana”156
. Un processo che, nonostante le indiscutibili e solide potenzialità, si
preannuncia estremamente arduo nella misura in cui i governi resteranno sordi a
153
Ibidem. 154
Ibidem. 155
Ibidem. 156
Ibidem.
96
simili richieste ed esigenze, mostrando così non soltanto poca lungimiranza, ma
anche uno scarso interesse per il benessere pubblico nel senso ampio del termine. In
particolare, sembrerebbe esistere un’incomunicabilità di fondo fra un movimento
che anche nel nostro Paese si presenta come sempre più ricco, dinamico e votato
all’innovazione, ed una classe politica ancorata probabilmente a vecchi dogmi e
interessi di categoria ormai sorpassati. A testimonianza della vivacità e della
dinamicità del Movimento dei Makers, e delle sue implicazioni con la crescita
economica del Paese, si cita un articolo di Alessandro Rimassa, direttore della
scuola di comunicazione e management dell’Istituto Europeo di Design di Milano,
in cui l’autore riflette su quanto osservato nel corso dell’ultima “Maker Faire”,
svoltasi a Roma dal 3 al 6 ottobre, che si potrebbe definire come la Fiera dei
cosiddetti artigiani del XXI secolo. Rimassa, rifacendosi alle svariate polemiche
mosse alla presunta inoccupabilità caratterizzante buona parte dei giovani del
nostro Paese, sostiene di aver assistito, nel corso della “Maker Faire” di Roma -
organizzata dall’inventore di Arduino Massimo Banzi e dal fondatore di Wired
Italia e direttore di Che futuro! Riccardo Luna - all’autorappresentazione di “un
pezzo di futuro” che a suo avviso deve essere assolutamente legato all’industria
italiana: “Tra qualche settimana, davanti all' Economic and Social Committee della
Comunità Europea, dovrò presentare la mia visione su giovani, lavoro e industria.
Dovrò cioè suggerire meccanismi, modalità e metodi per costruire percorsi diretti
tra formazione e lavoro. E partirò proprio da qui, dalla Maker Faire: a Roma hanno
esposto giovani, italiani e non solo, pieni di idee, entusiasmo, saper e saper fare”157
,
afferma Rimassa, ricordando però che è fondamentale che si crei un corto circuito
fra il mondo dei makers e l’industria, in modo da poter passare dalla fase della
semplice curiosità a quella della produttività, attraverso “una connessione diretta
tra chi ha le idee per il futuro e chi quelle idee può renderle prodotti da portare sul
mercato”158
. Il futuro, per l’autore dell’articolo, apparterrebbe insomma
all’“artigiano che sa stare sul web”, obiettivo raggiungibile attraverso percorsi
formativi pensati in tal senso, ma anche “creando relazioni, stimolando la
condivisione, promuovendo il fare”, in breve, connettendosi al nuovo159
. L’articolo
ha quindi l’obiettivo di stimolare una discussione, anche politica, che verta in primo
157
http://www.huffingtonpost.it/ 158
Ibidem. 159
Cfr. ibidem.
97
luogo sulla riorganizzazione di percorsi formativi che permettano alle molteplici
innovazioni emerse nel panorama italiano ed incarnate dai suddetti makers, di stare
sul mercato e di essere realmente competitive - naturalmente si tratterebbe di una
competizione giocata sul terreno della qualità e dell’innovazione -, ed in secondo
luogo, avendo gli artigiani fatto proprie le competenze necessarie, operare stretti
collegamenti col mondo delle imprese, come suggerito d’altronde da Eric Schmidt.
Diventa chiaro allora, come accennato all’inizio del presente paragrafo, che è
necessario e doveroso che il mondo politico italiano prenda seriamente coscienza di
un simile potenziale, al fine di realizzare una sua proficua “messa in rete”, e che si
faccia in prima persona investitore in tal senso. Sebbene, come accennato altrove, si
tratti di un Movimento che non ricerca un particolare riconoscimento politico, ma
semmai culturale, è essenziale ad avviso di chi scrive che, per la sua naturale
evoluzione, sia oggetto di una seria considerazione e di adeguati provvedimenti
anche da parte del settore pubblico, se non altro per quanto concerne le dinamiche
educative e le opportunità occupazionali che ne conseguirebbero.
10. Considerazioni conclusive
Nel corso della presente tesi, si è cercato di osservare, da diversi punti di vista,
l’emergente fenomeno rappresentato dal cosiddetto Movimento dei Makers: si è
evidenziato come, pur essendovi alcune date fondamentali che ne descrivono
l’esistenza e la diffusione, quale ad esempio la creazione del primo FabLab a
Boston, il fenomeno presenti numerose varianti, dalla dimensione educativa e del
fai da te - una “corrente” del movimento è stata identificata non a caso nella
filosofia di vita del Do It Yourself - a quella imprenditoriale, che impediscono di
fatto di tracciarne una vera e propria cronologia storica. Si tratta di un fenomeno
che spesso trae la sua forza propulsiva da dinamiche che si potrebbero definire
bottom up: il processo che ne guida la forza innovativa, infatti, parte in genere da
iniziative dal basso, da parte di privati cittadini, per poi essere sviluppato ed
incentivato, nei casi più virtuosi e al livello economico, non solo da imprese
tecnologiche e/o artigianali, ma anche da una classe politica che, finora soprattutto
all’estero, come si è evidenziato, vede in esso il volano ed il punto di partenza per
la costruzione di un’economia solida che riparta dal semplice saper fare le cose. Si
è visto inoltre come, a causa appunto di matrici storiche e ideologiche di stampo
98
differente, sia possibile parlare di un fenomeno estremamente eterogeneo, che parte
da una dimensione educativa e culturale, che fra le altre interseca anche la corrente
pacifista e no global, per giungere nella sua evoluzione, e in determinati contesti, a
muoversi nell’ottica della ricerca di un profitto economico, e, in definiva, a
posizionarsi stabilmente sul mercato. È necessario dunque, entrando nel merito
delle considerazioni finali, riflettere su due questioni essenziali: la prima ha a che
fare con uno degli obiettivi della trattazione, rappresentato dal tentativo di
comprendere quali fossero gli elementi differenziali che permettano ad un’impresa
di stampo innovativo, e che nella fattispecie utilizzi gli strumenti di prototipazione
rapida, di stare sul mercato, operando un parallelo con la dimensione hobbistica ed
educativa del fenomeno. Non a caso, la prima parte della trattazione è stata dedicata
al tema del sistema dei FabLab, degli scopi da questi prefissati e della loro
diffusione nel mondo, nonché al riscontro fattuale offerto da alcuni laboratori di
fabbricazione digitale presenti sul territorio nazionale. Si è dunque potuto osservare
come lo scopo di simili laboratori rimanesse volutamente circoscritto alla
dimensione educativa e formativa, nonché naturalmente alla condivisione del
sapere e delle innovazioni ivi realizzate, ed ambisse, al livello economico, alla mera
auto-sostenibilità. In altre parole, non interessava a queste strutture, nello specifico,
fornirsi della formula magica che avrebbe permesso loro di trasformare la magia
dei loro laboratori in un business. Si è deciso quindi di inserire il tema della
dimensione formativa in generale, scisso dal caso specifico costituito dai FabLab, al
termine della seconda parte della trattazione, che si è concentrata sulle imprese e
sulle attività economiche e politiche connesse al Movimento dei Makers e al
cosiddetto artigianato tecnologico: non è un caso che il principio e la fine della
trattazione riguardino, sebbene da diversi punti di vista, il tema della formazione.
Nel corso della stesura della seconda parte, infatti - che ha trattato in modo
particolare il caso del nostro Paese, raccontando fra l’altro alcuni casi empirici di
imprese presenti sul territorio, con i quali ci si è confrontati -, è emerso come
continuare a circoscrivere il tema alla prototipazione rapida, e dunque a quegli
affascinanti strumenti, che vanno dalla stampa tridimensionale alla macchina al
taglio laser, sarebbe risultato estremamente riduttivo, data la piega e il valore
visibilmente più ampio che riguarda il fenomeno dei makers. Soprattutto avendo
come punto di riferimento il nostro Paese, ci si rende conto di quanto siano veritiere
le considerazioni di coloro che si rifiutano di attribuire al fenomeno una dimensione
99
esclusivamente tecnologica: da Anderson, che, sebbene specialista in materia,
ricorda che in fondo siamo tutti makers, poiché il cuore operativo del fenomeno
sarebbe semplicemente la passione e la riscoperta del piacere e della soddisfazione
di un saper fare manuale; a Micelli, che ammonisce sul rischio di considerare il
“Maker” come una categoria a se stante ed autonoma, ma consiglia di pensarlo
come facente parte di un sottoinsieme che nel nostro Paese potremmo inserire nella
più generale categoria dell’artigiano innovatore; a Gauntlett, che conia una propria
definizione di creatività, e dunque di innovazione, decisamente più inclusiva delle
precedenti, in cui si fa riferimento alle attività creative riscontrabili nella nostra vita
quotidiana attraverso i gesti e i risultati di un saper fare manuale, ispirato dalla
semplice gioia di fare. La seconda considerazione, concerne il focus sul nostro
Paese, ovvero sul sostrato culturale ed economico, che si suole identificare
generalmente con la storia e la tradizione dell’economia dei distretti, ma che si
potrebbe diversamente e più semplicemente spiegare con quella propensione alla
creatività, all’innovazione e alla cura artigianale che caratterizza da tempo
immemorabile la cultura e la tradizione italiana: ciò che è essenziale sottolineare, in
ogni caso, è la presenza nel Paese di un terreno particolarmente fertile laddove si
tratti di puntare sull’abilità creativa ed estetica di un movimento che si muove
anche attraverso queste matrici. Fatto salvo questo punto, non bisogna però perdere
di vista un elemento forse meno originale, ma non per questo meno importante, che
attraversa questa corrente innovativa: il dato tecnologico. In primo luogo poiché,
attraverso esso, come si è evidenziato quando si è trattato il tema della
prototipazione rapida, soprattutto per quanto riguarda la stampa 3D, è possibile
parlare di auto-produzione e di produzione vera e propria, ovvero di un processo
che rimette nelle mani del creatore dell’oggetto il potere di farne l’uso che
preferisce, che naturalmente può anche essere commerciale. Per questa via,
l’artigiano digitale, il lavoratore e l’individuo tout court si riapproprierebbero, in
ottica marxista, degli strumenti del proprio mestiere, cioè dei mezzi di produzione,
e dunque più consapevolmente dei frutti del proprio lavoro. Inoltre, il dato
tecnologico, rappresentato nella fattispecie dalla capacità di utilizzare i suddetti
strumenti, ma più in generale identificabile nella semplice competenza che permette
ad un artigiano imprenditore di “stare sul web” e di utilizzare gli strumenti
informatici oggi offerti a chi desideri occuparsi di un business, permette sia di
avvicinare i giovani a mestieri che forse difficilmente avrebbero preso in
100
considerazione, sia di aprirsi ad un mercato globale e dunque ad una domanda
maggiormente diversificata. La questione della necessità, conseguente a queste
nuove opportunità, da parte degli artigiani presenti sul territorio, di dotarsi delle
competenze tecnologiche necessarie a godere dei vantaggi usufruibili da parte di
coloro che si aprono al mercato globale, è stata già trattata, così come il tema ad
essa correlato di pensare un’offerta formativa per i più giovani, che si adatti ai
nuovi profili tecno-artigiani richiesti dal mercato. Ciò che interessa qui sottolineare,
è il secondo motivo per cui, ad avviso di chi scrive, è necessario non scindere il
dato tecnologico dal successo del Movimento dei Makers: quest’ultimo, infatti,
nasce e si sviluppa ad una velocità tale da esser faticosamente ricostruibile, grazie
alle potenzialità offerte dalle “Rete delle reti”, Internet. Il Movimento, in effetti,
sembra sia riuscito a raggiungere l’attuale consapevolezza grazie alla presa di
coscienza del suo essere costituito da una comunità eterogenea ma coesa, che ogni
giorno offre nuovi stimoli dal Movimento e da esso ne riceve, alimentando una
circolo virtuoso d’innovazione e creatività difficilmente ipotizzabile altrimenti.
Fare, creare, comunicare e quindi innovare, sembrano essere le parole chiave di un
fenomeno che, a ben guardare, potrebbe sconvolgere il sistema produttivo per come
lo abbiamo conosciuto nel XXI secolo, e di conseguenza, l’assetto socio-economico
che lo presuppone. Un fenomeno cui le forze politiche dovrebbero dar seguito e
riscontro, poiché è già Rivoluzione.
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